Tecnologia: dipende da come si usa?

Si dice che il Novecento sia stato il secolo più cruento di sempre. Perché? Cos’ha contraddistinto il Novecento rispetto a tutti i secoli precedenti? La risposta appare ovvia ma imprescindibile: un dispiegamento della tecnologia e dei mezzi tecnologici inaudito, il quale ha inaugurato potenzialità distruttive fino ad allora impensabili. Senza tener conto di ciò non è possibile comprendere le catastrofi del secolo scorso. A questo punto non è difficile l’affacciarsi di una delle più tipiche espressioni d’ingenuità: “Dipende da come la si usa, la tecnologia”. Ora, come modo di dire, come luogo comune, questa frase può essere accettata. Ma è ingenuo pensare con questa semplice proposizione di aver risolto definitivamente il problema, di aver trovato una verità ultima. Occupandosi di filosofia non ci si può accontentare di luoghi comuni o di verità definitive, accettate in modo a-critico.

Perlopiù andiamo avanti ciecamente, senza renderci conto che la tecnologia e il suo sviluppo procede senza curarsi di qualsivoglia argomento. Spesso ci aggrappiamo a quell’unica frase “Dipende da come si usa”. Forse un’efficace smentita di questa visione tanto diffusa sta nel fatto che una delle molle più potenti dell’agire umano sia di «fare qualcosa solo perché si può farla, giusto per dimostrare che la possibilità è realmente possibile» (M. D’Eramo, Il selfie del mondo, 2017). Stando a tale prospettiva, l’uomo (perlomeno l’uomo occidentale post-greco che ha tolto la categoria del “limite”) non sarebbe in grado di dominarsi davanti a un nuovo strumento che gli permetta di accrescere la propria potenza, la propria capacità di incidere sul mondo, che gli permetta di vivere più a lungo, di sentirsi più sicuro etc. Qualunque sia l’arnese, l’apparecchio, il congegno in questione, egli presenterebbe in sé la tendenza intrinseca a estrapolare il massimo possibile dalle potenzialità dello strumento a sua disposizione. Pertanto, una riflessione sull’uso “corretto”, qualora avvenisse, sarebbe solo posteriore, secondaria, fondamentalmente accessoria.

Sembra che man mano si stia rinunciando una volta per tutte a pretendere una legittimazione del potere di quegli apparecchi con i quali sempre più siamo costretti – seppur velatamente – ad avere a che fare. Ma da chi mai si può pretendere la legittimazione del potere di un apparecchio? Se in linea di principio nessun essere umano in carne ed ossa ci costringe a regolare gran parte della nostra esistenza sulla base di algoritmi, di codici e di chissà che altro, allora insorgere contro un uomo o un gruppo di uomini in carne e ossa non rappresenta certo la soluzione. D’altra parte, una mobilitazione luddista nel 2023 apparirebbe anche al più ingenuo degli uomini come assurda, infantile. E allora?

Tutto lascia supporre che, al cospetto di uno sviluppo inesorabile della tecnologia, le armi della critica siano inefficaci. Certo, se ne può discutere all’infinito con argomentazioni magari ben strutturate, ma intanto l’apparato tecnico va potenziandosi sempre di più, come fosse una immane creatura in grado di accrescersi autonomamente e inarrestabilmente. I dati fluttuano qua e là come fossero entità a sé stanti, e si fatica a pensare che tutto sommato ad alimentare tutto ciò siano pur sempre degli uomini. Ci si sofferma mai a pensare che con l’eventuale scomparsa dell’uomo dalla Terra non resterebbero altro che conglobati di plastica, metallo, cemento etc., oggetti incomprensibili a qualsiasi altra creatura? Inoltre è superfluo aggiungere che è proprio per lo sviluppo immane di quest’apparato che via via abbiamo preso una certa dimestichezza con l’idea di una nostra possibile estinzione. Magari è ormai inscritto nel nostro DNA che «il concetto stesso di progresso è divenuto inseparabile da quello di epilogo» (E. Cioran, Squartamento, 1981).

Avanziamo nella nebbia, come sempre accade agli uomini immersi nel loro presente. E continuare a sostenere riguardo allo sviluppo della tecnologia che “dipende da dove lo si indirizza, da come lo si usa” forse non fa che intensificare questa nebbia. O forse l’uomo, che già decenni fa Gunther Anders definiva come “antiquato”, è davvero diventato un pezzo d’antiquariato e, in quanto tale, non più infastidito da quella nebbia che sempre lo ha spinto a porsi le domande ultime, quelle più importanti e vertiginose, quelle filosofiche?

 

Vincenzo Di Puma
Nato in Sicilia nel 1990, vive a Bologna dove ha conseguito la laurea triennale in Filosofia con una tesi su Gerard Genette e quella magistrale in Scienze Filosofiche discutendo una tesi su Jurgen Habermas.

 

[Photo credit Ales Nesetril via Unsplash]

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Il mondo-limite: la sconfinata ricerca della New Media Art

La New Media Art, come tutto ciò che ibrida figure e saperi, vive fin dalla sua nascita in uno stato perenne di confine. Provata ad essere inglobata nel classico mondo dell’arte contemporanea, essa ha subito nel suo percorso tanti fallimenti e critiche. Il suo dinamismo intrinseco, però, le ha permesso di sopravvivere, anzi di evolversi, dagli anni Sessanta fino ad oggi. La miccia che ha fatto esplodere questo nuovo mondo dell’arte si deve al progresso tecnico-scientifico, alla rivoluzione digitale e all’invenzione/introduzione di nuovi media. Questi elementi sono stati usati all’interno dei processi artistici, trasformando il concetto di arte, di figura dell’artista, di valore dell’opera d’arte (mercato ed economia dell’arte) e di cura e conservazione delle opere.

La vitalità che si coltiva nella New Media Art è la ragione del suo esserci e delle sue variegate testimonianze. Non è, quindi, fonte di sorpresa immaginare che la New Media Art, concepita come fruibile e vivibile, non più come fine a sé stessa, sia il prodotto di interazioni e collaborazioni tra scienziati (all’inizio, perlopiù, ingegneri informatici) e artisti.

La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, come già fatto notare negli anni Trenta del Novecento da Walter Benjamin, ha messo in crisi l’aura dell’opera d’arte, ossia l’attribuzione di valore:

«Mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica» (W. Benjamin, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1998).

Certo, la questione intorno alla riproducibilità è chiaramente antica – fin dall’invenzione della stampa nel Medioevo – ma si è rinnovata nel tempo a fianco del progresso tecnologico. Con la rivoluzione digitale, infatti, il medium ha assunto un’importanza valoriale sopra ad ogni aspettativa, portando all’introduzione di due concetti fino a quel momento assenti: la connettività e l’economia dell’attenzione.

Come afferma Derrick De Kerckhove:

«Il nostro pensiero è ipertestuale. Attraverso il web, noi proiettiamo all’esterno tale modalità del pensiero. La Rete porta la connettività dentro la collettività e, contemporaneamente, dentro l’individualità» (A. Buffardi, D. De Kerckhove, Il sapere digitale. Pensiero ipertestuale e conoscenza connettiva, 2011).

La pratica del networking (connettività), tipica della New Media Art, è cresciuta dal campo fisico al campo digitale, permettendo agli artisti provenienti dai luoghi più disparati di scambiare idee e creare nuove prospettive artistiche, influenzando il pubblico e influenzandosi tra di loro.

Nel 1969 Herbert Simon introdusse il concetto di economia dell’attenzione, che collegandosi al precedente, lo completa e ci testimonia come la società industriale abbia ceduto il passo alla società dell’informazione, in cui la mole gigantesca di informazioni a cui è sottoposto il pubblico determina un’inevitabile perdita di attenzione, che a sua volta diventa la meta da conquistare per chi produce contenuti e opere.

Se prima, quindi, esisteva una certa distanza tra l’opera d’arte e l’osservatore, i nuovi media producono quello che viene definito da Manovich, riprendendo il pensiero di Paul Virilio, big optics

«[…] l’era post-industriale elimina totalmente la dimensione dello spazio. Quantomeno in linea di principio, tutti i punti della Terra sono ormai accessibili istantaneamente da qualunque altro punto del pianeta» (L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, 2002).

Sebbene questo annullamento della lontananza tra osservatore e osservato rappresenti in senso negativo una perdita di focus attentivo da parte del primo, diventa paradossalmente un punto forte su cui poggia la struttura della New Media Art. Il pubblico non si sente più lontano dall’opera d’arte, ne è prossimo; anzi, ancor di più, interagisce con essa, affinché diventi parte integrante dell’opera stessa.

L’instancabile dinamicità e il continuo bisogno di interattività della New Media Art sono gli ingredienti che la rendono una fabbrica di creatività e di svariate forme di arte che vanno dalla computer graphic, all’animazione, dal video alle installazioni, passando per la realtà aumentata e per quella virtuale. Sebbene sia un’arte considerata spesso effimera per la sua esistenza breve e mutevole, essa rappresenta, in conclusione, la sfida contro ogni genere di convenzione e la possibilità sia per gli artisti sia per il pubblico di esplorare tematiche così diverse tra di loro, in modi che probabilmente sarebbero stati impossibili con i mezzi tradizionali.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Zach Key via Unsplash]

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I limiti etici della biomedicina: dal transumanesimo a Elon Musk

Le nuove frontiere biomediche pongono oggi dei quesiti etici piuttosto importanti: fino a dove si può  spingere il progresso scientifico? Ci sono dei limiti? L’etica che ruolo gioca in tutto ciò? Simili interrogativi sorgono spontanei quando si sente parlare di uomini cyborg come Neil Harbissom, l’artista inglese con l’acromatopsia, ovvero l’incapacità di distinguere i colori, che fattosi impiantare un’antenna nella testa è in grado di trasformare le onde dei colori in onde sonore. L’antenna inoltre, l’eyeborg, si può connettere ad internet attingendo alle informazioni della rete direttamente dal  cervello. 

Tecnologie del genere sono fortemente perseguite e finanziate dal transumanesimo e dal post umanesimo, filosofie per le quali non bisogna porre alcun limite etico-morale all’avanzamento tecnologico e scientifico finalizzato alla nascita del post-umano. 

Ma quali sono i loro principi? I transumanisti, come i famosi Nick Bostrom e David Pearce, hanno stilato una dichiarazione in cui sono scritti i principi di questo movimento di cui è utile riportare il primo punto: 

L’umanità sarà radicalmente trasformata dalla tecnologia del futuro. Si prevede la possibilità di riprogettare la condizione umana in modo di evitare l’inevitabilità del processo di invecchiamento, le limitazioni dell’intelletto umano (e artificiale), un profilo psicologico dettato dalle circostanze piuttosto che dalla volontà individuale, la nostra prigionia sul pianeta terra e la sofferenza in generale1. 

Molti esponenti del transumanesimo sono i veri Re Mida del nostro pianeta, facenti parte della Silicon Valley, la maggior parte abitano la Baia di San Francisco. Personalità del calibro di Elon Musk, ceo di Tesla, azienda specializzata nella produzione di auto elettriche e pannelli fotovoltaici, e Ray Kurzweil, ingegnere capo di Google, finanziano progetti i cui obiettivi sono citati nel primo principio transumanista. Un esempio è costituito da Neuralink: un’azienda fondata da Musk che ha aperto alla possibilità di impiantare un chip nel cervello per migliorare le prestazioni cognitive immagazzinando un numero maggiore di dati a livello mnemonico. 

Per contrastare l’invecchiamento invece Google nel 2013 ha istituito Calico, che si occupa di ricerca nel campo delle biotecnologie e in particolare dello studio del DNA. O ancora, come non citare la Mind up loading, processo che permetterebbe di “copiare” il nostro sistema cerebrale e “caricarlo” in un supporto artificiale come un computer o un robot, raggiungendo così l’immortalità. Oggi queste ricerche vanno a vantaggio dei malati, come il chip di Neuralink che verrà impiegato in  persone con il Parkinson, l’epilessia e problemi neurologici. Lo spinoso problema etico è dato dalle finalità esplicitamente potenziative di questi studi e atte al superamento addirittura della morte; la malattia è semplicemente un mezzo, quindi, e non il fine della ricerca scientifica in ambito medico come conferma l’ultimo punto della dichiarazione transumanista a cui si ispirano queste aziende: “Il  Transumanesimo è fautore del benessere di tutti gli esseri senzienti2

La preoccupazione dunque non riguarda tanto le tecnologie che possono certamente condurre a un miglioramento della vita umana, quanto piuttosto alla diffusione di un’ideologia che successivamente può radicarsi in cultura, di un superamento a qualsiasi costo di quel limite che contribuisce a rendere umana la persona. Da un punto di vista filosofico, nel tentativo di andare oltre l’uomo si sta procedendo verso la sua disumanizzazione, intendendo questo termine con il suo significato etimologico “dis-umanizzare” cioè togliere all’humanum ciò che gli è proprio, quel limite fisico e  psicologico facente parte della struttura ontologica dell’humanum stesso. A ciò va aggiunto, analizzando oggi la società, che la spiritualità, facente parte anch’essa dell’humanum, sta scomparendo sia perché si sta imponendo una weltanschaung (determinata visione filosofica del mondo e dell’uomo) a-spirituale a favore di una concezione del mondo meramente materialistica sia perché quella capacità dell’uomo di percepire il Trascendentale si sta dissolvendo piuttosto velocemente. Le cause sono molteplici, sono emerse infatti nella contemporaneità delle correnti di  pensiero parallele che convergendo hanno contribuito a una simile decadenza: la crisi di identità  del soggetto, il relativismo che ha portato alla perdita della ricerca dell’Assoluto e infine la percezione  dell’uomo, la creatura per eccellenza, nel sentirsi Dio. Si è manifestato pertanto un clima di antiumanesimo che trova terreno fertile nel trans-umanesimo e nel post-umanesimo. Risultano interessanti dunque le parole di Papa Francesco nel Discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita: “La correlazione e l’integrazione fra la vita vivente e la vita vissuta non possono essere rimosse a vantaggio di un semplice calcolo ideologico delle prestazioni funzionali e dei costi  sostenibili.”

 

Veronica Zanini

 

Sono Veronica Zanini, laureata in Scienze Religiose con indirizzo specialistico in bioetica. Lavoro come insegnante di religione alla scuola primaria dell’istituto D. Manin di Ca’Savio e collaboro come guida all’isola di San Lazzaro degli Armeni (VE).
Dallo scorso anno sono vicepresidente dell’associazione culturale Gremio di Bioetica.
Scrivo per diversi giornali e siti  come per la rubrica “Lo splendore della vita” del settimanale Gente Veneta, per la rivista dell’associazione ProVita&Famiglia, mensilmente pubblico per nanoda.com e in passato per Orwell.live; l’ultimo articolo è stato pubblicato per solotablet.it.
Negli anni ho tenuto diverse conferenze sul transumanesimo e il postumanesimo di cui una dal titolo “Ho visto cose che voi umani..”potenziamento dell’uomo, eugenetica e trans umanesimo recensita da Avvenire.

 

NOTE:
1. Principi Transumanisti in http://www.transumanisti.it/
2. Ibid.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Il sapere tradizionale oggi e l’opera di Gilbert Simondon

Gilbert Simondon è uno dei filosofi del ‘900 francese più discussi; la sua opera è definita enciclopedica per la vastità di temi affrontati e per l’enorme contributo al dibattito filosofico e scientifico contemporaneo: egli non solo analizza il rapporto che intercorre tra uomo e tecnica ma torna alle radici della riflessione filosofica riformulando un nuovo vocabolario in cui ambito scientifico-pratico e teorico-umanistico si intrecciano.

Il tema della tecnica e del relativo rapporto con l’essere umano, di cui Simondon si occupa nel Du mode d’existence des objets techniques, suo testo più celebre, è ampiamente discusso soprattutto dopo le due guerre mondiali, dal momento che durante gli anni ’40 vi era stato un notevole sviluppo delle biotecnologie, degli studi sulla genetica e delle nuove scoperte nel campo della fisica e della chimica che avevano messo in discussione il sapere tradizionale. L’oggetto tecnico, allora, diventa il cardine del pensiero simondoniano, in quanto simbolo del sapere umano che si concretizza e che racchiude in sé la storia dell’evoluzione umana:

«L’oggetto tecnico individuale non è questa o quella cosa, data hic et nunc, ma ciò di cui c’è genesi. L’unità dell’oggetto tecnico, la sua individualità, la sua specificità, sono i caratteri di consistenza e di convergenza della sua genesi. La genesi dell’oggetto tecnico fa parte del suo essere “umano”. L’oggetto tecnico è ciò che non è anteriore al suo divenire, ma presente a ogni tappa del suo divenire; l’oggetto tecnico uno (sic) è unità di divenire».1

L’essere umano aveva superato limiti che si ritenevano invalicabili, si era posto questioni che avevano ridefinito il suo ruolo nella società e aveva cercato di trovare nuove risposte nelle scienze, incentrando su di esse la riflessione morale e teorica tralasciando però un aspetto importante del sapere: la metafisica.
La metafisica rappresenta il capo da cui ogni scienza prende vita ma il problema, per Simondon, sta nel momento in cui nella storia del pensiero filosofico questa si è estraniata dalle scienze pratiche per chiudersi in sé stessa. La svolta del pensiero simondoniano è aprire le porte a un Nuovo Umanesimo in cui ogni arte, ogni scienza e ogni riflessione sia intrecciata all’altra: l’uomo si riscopre parte del mondo e trova in sé stesso il germe dell’alterità.

Non può esserci alcun progresso nelle scienze se non si tiene presente lo studio dell’essenza dell’essere umano e di ciò che lo circonda, l’uomo non è pura materia ma, come lo definisce Simondon, è un «soggetto transindividuale»: è materia e spirito in grado di intrattenere un rapporto dinamico relazionale con il mondo. Arrivare a un Nuovo Umanesimo vuol dire dimostrare l’inscindibile legame tra le scienze e la riflessione filosofica che grazie alla scienza si rinnova a sua volta nei temi e nei dibattitti.
Simondon non si ferma alla teorizzazione di un Nuovo Umanesimo, ma aggiunge che l’individuo contemporaneo dovrà costruire un Nuovo Umanesimo tecnologico: l’oggetto tecnico (con esso Simondon intende ogni artefatto creato artificialmente) non è altro che il risultato di un processo creativo e normativo necessario all’uomo. Non si può considerare semplicemente l’alienazione dell’individuo da esso e ciò che ne consegue, ma bisogna considerare il rapporto dinamico che l’oggetto stesso instaura con l’individuo come un vero e proprio soggetto relazionale: l’oggetto tecnico ha una matrice umana, da cui nasce, da cui viene creato e che lo permea e grazie a questa acquisisce la capacità di modificare la realtà stessa.

È così che sino agli anni ’90 del ‘900 il filosofo viene ricordato in Francia come il filosofo della tecnica. Ciò è sicuramente riduttivo dal momento che non viene tenuto conto dell’enorme contributo dell’opera e del suo influsso per la metafisica occidentale contemporanea. In ultimo è importante ricordare che la riformulazione del vocabolario filosofico è la base che getta Simondon per rielaborare alcuni concetti cristallizzati come la materia, l’individuo o l’essere: le definizioni non si servono più solo di termini derivanti dal lessico umanistico, ma il filosofo utilizza termini derivanti dalla chimica, fisica e dalla biologia a dimostrare la tesi della sua rivoluzione.

Simondon è ritenuto un pioniere della nuova metafisica occidentale e rivoluziona la riflessione filosofica dimostrando nuovamente la sua universalità e necessaria importanza per il sapere umano, il suo messaggio è di rinnovamento del sapere e ancora oggi è di monito per chi si accinge a parlare di uomo, tecnica e tecnologia.
Ponendo l’accento sulla proposta di rinnovamento del sapere del filosofo, si può affermare, infine, che il filosofo conclude un percorso iniziato con la rivoluzione scientifica in cui l’essere umano si faceva soggetto nel suo mondo; ora l’individuo non solo è soggetto ma è un soggetto agente e relazionale, aperto agli altri di cui si riscopre parte. Questa è l’immagine di uomo contemporaneo che bisognerebbe inseguire, capace di congiungere passato e presente attraverso l’intreccio della storia del sapere e delle idee che lo formano e lo hanno formato.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, 2012, pp. 60 -61.

[Photo credit Ramòn Salinero via Unsplash]

la chiave di sophia

L’importanza della storia nella scienza

Al giorno d’oggi la maggior parte delle persone studiano la scienza e utilizzano prodotti tecnologici senza conoscerne la storia e le origini. Ad esempio, salvo rare eccezioni, nessuno di noi utenti medi è in grado di spiegare il funzionamento di uno smartphone in maniera esaustiva, né sappiamo quali conoscenze abbiano preceduto la creazione di un oggetto simile. Rispetto al passato abbiamo a che fare con oggetti tecnologicamente più complessi che sono il condensato di un sapere sempre più specializzato, la cui comprensione richiederebbe parecchi studi su svariati campi disciplinari.

La necessità di imparare da dove arriva tutto quello che sappiamo ad oggi della scienza e dei prodotti della tecnica ci permette di capire due aspetti molto importanti: tutto quello che sappiamo non lo conosciamo da sempre; la scienza è un continuo tentativo di capire la natura: un approssimarsi alla realtà nello sforzo di comprenderla attraverso leggi matematiche, fisiche e chimiche. Infatti, al contrario di quanto si pensa, ciò che si può definire come scienza non è verità assoluta, anzi. Se c’è qualcosa di poco lineare e frastagliato nel suo percorso è proprio la ricerca scientifica, che deve sempre dubitare dei propri risultati per andare avanti.

La scienza, spesso vista come arida e fredda, racchiude tanta umanità quanta ne racchiude la letteratura. Ma se la scienza deve – giustamente – scrollarsi di dosso i propri errori per proseguire nell’esplorazione della natura, gli storici della scienza hanno l’ingrato – ma anche affascinante – compito di ricordarsi quali sono state tutte quelle teorie scientifiche approvate e credute vere nelle varie epoche e, successivamente, invalidate da altre teorie scientifiche, o semplicemente smentite dai fatti. Questo compito richiede che lo storico della scienza sia una figura ibrida: in genere le sue basi sono filosofiche – ma può anche aver studiato fisica, biologia o matematica – per giungere ad un approccio storico ma, allo stesso tempo, deve avere a che fare con conoscenze nell’ambito della fisica, della matematica, della logica, dell’astronomia e della biologia per citarne alcune.

Senza “rovistare” in ciò che le è accaduto prima, la scienza potrebbe perdersi parecchio di ciò che è utile per andare avanti. Ma soprattutto gioverebbe a tutti avere spiegazioni razionali della capacità tecnologica passata e della cultura scientifica di antiche civiltà, così sottovalutate, soprattutto per evitare parecchie delle sciocchezze che circolano circa le conoscenze tecnologiche dei popoli antichi. Una di queste credenze, forse la più comune, parte dal presupposto che in epoche passate non fosse disponibile una tecnologia e una scienza teorica tale per cui fosse possibile costruire certe cose come, ad esempio, le piramidi. E dato che spesso la mitologia antica racconta di divinità ultraterrene che hanno insegnato ai primi uomini l’astronomia, la matematica e l’agricoltura risulta evidente, secondo tale prospettiva, che i più grandi monumenti dell’antichità siano stati creati proprio grazie alle tecnologie delle divinità aliene.

Uno dei massimi rappresentanti e precursori di questa corrente, chiamata paleo-astronautica o teoria degli antichi astronauti è stato lo studioso Zecharia Sitchin (1929-2010). Le tesi di Sitchin sono rifiutate dalla comunità scientifica sotto ogni aspetto, in quanto considerate pseudo-scienza e prive di metodo scientifico. A questa costellazione di “stranezze” tecnologiche del passato si aggiungono, poi, i famosi OOPArt, acronimo di Out of place artifact. Si tratta di oggetti considerati fuori posto dal punto di vista cronologico, data l’epoca in cui sono stati datati, per la tecnologia che si pensa possedesse la cultura che li ha prodotti. Come spesso capita, ciò che si pensa è diverso da ciò che è, e gli OOPArt non fanno eccezione.

Conoscere le scienze e le tecnologie del passato ci permette non solo di comprendere meglio il nostro tempo, ma anche di assumere atteggiamenti meno arroganti. Tra l’altro, pensare di essere tecnologicamente e scientificamente migliori rispetto a chi è vissuto nel passato, solo perché viviamo nel presente, è al dir poco fuorviante. Se così fosse – e sotto alcuni aspetti certamente lo è –, ci sono costruzioni come le piramidi che ci ricordano che, forse, sebbene noi possediamo una tecnologia parecchio complessa e una conoscenza ben più ampia degli antichi, gli antichi stessi con meno strumenti tecnologici e meno conoscenza hanno costruito oggetti non più riproducibili dall’essere umano in epoca contemporanea, e tutto questo grazie a capacità di calcolo manuale e intuizioni impressionanti, naturalmente grazie anche ad una quantità enorme di manodopera, che tuttavia doveva essere gestita e ben coordinata. Si possono costruire grandi cose anche senza l’aiuto degli alieni. Ci vuole ben poco per rendere magica o inspiegabile la tecnologia, soprattutto quando non la si comprende, come sostenne lo scrittore Arthur C. Clarke, scrivendo che «qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia».

 

Stefano Aranginu

 

[Immagine di copertina proveniente da pixabay]

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Un mondo di Perfetti Sconosciuti: la solitudine del contemporaneo

Quanto conosciamo l’altro? Siamo davvero convinti di sapere tutto sul nostro partner e sui nostri amici più intimi?
Perfetti sconosciuti, film del 2016 diretto da Paolo Genovese, rivela ciò che troveremmo se, durante una cena, tutti mostrassero il contenuto del proprio cellulare, abbattendo le barriere della privacy e condividendo davvero la propria vita. Ne emergerebbe che nessuno è realmente candido nella coscienza, chi per tradimenti, chi per paura di essere giudicato, altri per mancata condivisione delle proprie idee, insomma ognuno mostrerebbe la verità su di sé: la presenza di piccoli o grandi segreti, dei quali nemmeno chi gli è più vicino è a conoscenza. Una sorta di dramma esistenziale, dunque, nel quale lo spettatore facilmente riesce ad identificarsi, guardando sotto la luce della verità la sua vita quotidiana l’ipocrisia che spesso lo circonda e di cui egli stesso si riveste per apparire in un certo modo difronte al prossimo.

«Siamo tutti frangibili» dirà Rocco, forse il più saggio del gruppo, alla fine del film, mostrando la fragilità dell’individuo attuale, che ha affidato la propria vita alla sim di un cellulare, pensando in questo modo di essere protetto da qualsiasi sguardo indiscreto. Ma in fondo nessuno è forte come crede, in quanto condivide davvero poco con i propri amici o il proprio partner e preferisce comunicare attraverso un dispositivo tecnologico piuttosto di vivere a fondo le relazioni. «Allora se ci parli trenta minuti al giorno sei innamorato» afferma Bianca con ingenuità, rivelando come ormai le nostre conversazioni vere sono ridotte davvero a poca cosa, in mezzo agli impegni giornalieri, tanto che trenta minuti di confronto sarebbero addirittura lo specchio dell’amore.

In Perfetti sconosciuti Paolo Genovese mette insomma in scena il dramma dell’individuo contemporaneo, occupato più ad apparire che ad essere, convinto il più delle volte di non aver nulla da nascondere, per poi scoprire di essere drammaticamente solo e attorniato da “perfetti sconosciuti”. Si tratta di un’umanità disumana, magistralmente espressa in maniera caricaturale nel film, che lascia l’amaro in bocca a chi, finita la pellicola, non può che guardare con compassionevole partecipazione i sette protagonisti dell’opera.

Siamo dunque destinati a rimanere in questo mondo di inconoscibilità e falsità? Sotto alcuni aspetti si, come si può intuire dalla conclusione del film, che riporta ognuno dentro alla torre d’avorio dell’Io, ignaro della propria solitudine e di quella che lo circonda. Tuttavia, uno spiraglio di luce lo fornisce sempre Rocco, quando, parlando con dolcezza alla moglie, mostra la remota possibilità di un dialogo vero, pregno di umanità:

«Non credo che sia debole chi è disposto a cedere, anzi, è pure saggio. Le uniche coppie che vedo durare sono quelle dove uno dei due, non importa chi, riesce a fare un passo indietro».

In poche parole, forse dovremmo cercare di ascoltare con umiltà, di condividere e aggiustare finché è possibile, di accettare quando non lo è più, perché questa è la chiave per vivere in modo autentico la nostra relazione.
In fondo, l’invito di Perfetti sconosciuti attraverso la voce di Rocco (un Marco Giallini che guarda con pragmatismo alla propria vita) è di essere il più possibile sinceri, perché costruire dei muri che poi diventano voragini non può che allontanare e spingere verso un mondo di isolamento.

Accogliamo dunque l’altro, cercando di ascoltare davvero le esigenze di chi ci sta attorno.

 

Anna Tieppo

 

[Immagine fermo immagine dal film di Paolo Genovese Perfetti sconosciuti]

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Il vaccino anti-Covid come metafora di comunicazione

Comirnaty. È il nome commerciale del vaccino anti-Covid 19 della Pfizer-BioNTech. Nel brand sono “mescolati” le sigle Covid e mRNA insieme ai concetti di comunità e immunità. Un modo per attivare un sentiment positivo, rispetto alla vaccinazione, e mobilitare l’opinione pubblica all’idea di immunità per la difesa della comunità.
Al di là delle forti suggestioni emozionali, il lavoro dei creativi sollecita un’ermeneutica della cultura odierna e una riflessione sul post-pandemia, osservati dal punto di vista dei processi comunicativi.

In questa sede vorrei soffermarmi, brevemente, su due prospettive.
La prima è relativa alla sigla mRNA. L’opinione pubblica, in questi mesi, ha imparato a usare questo acronimo con lo stesso entusiasmo di chi conosce la formula segreta di ogni cura. L’mRNA, ossia RNA messaggero, contiene l’informazione per la sintesi delle proteine. In questa sede non è possibile descrive i meccanismi biologici e cellulari legati all’mRNA. Vale la pena, tuttavia, chiarire che, in estrema sintesi, si tratta del trasferimento di un messaggio, della sua codifica e decodifica, e dell’attivazione e regolazione delle informazioni che contiene. Un processo comunicativo!

La società dell’informazione, nel periodo pandemico, ha scoperto che per modificare una comunicazione, per costruire un cambiamento e migliorare la nostra condizione è necessario “discernere” sul messaggio, isolarlo, conoscerlo…
Il Comirnaty, in chiave metaforica, esprime anche una critica al sovraccarico informativo della società contemporanea, quell’information overload del mondo iper-accelerato e iper-connesso paralizzante e semplificatore. Per curare questa infodemia, e incidere su questo “eccesso di viralità”, la terapia è ancora il discernimento, quella facoltà, cioè, di giudicare, valutare e distinguere; opportunità per prendersi spazio e tempo; occasione per pensare criticamente e per riorientare la comunicazione.

Il secondo aspetto. A guidare la ricerca Pfizer sul vaccino anti-Covid è stata una ricercatrice, Kathrin Jansen.
La stampa, nazionale e internazionale, ha molto enfatizzato questo aspetto, arricchendo storie e modelli di narrazione “del femminile” e “al femminile”. Della Jansen sono stati raccontati la vita, i fallimenti e i grandissimi successi (a lei si deve lo sviluppo di due importanti vaccini, quello contro lo pneumococco e quello contro il papillomavirus), lo stile di comando, l’impegno, le competenze… Davvero una bella storia, un’ispirazione per molte giovani donne. Con la Jansen è stato presentato anche un “modo altro…” di pensare e agire professionale, differente dal gold standard maschile.

Andando, però, più a fondo in tutta questa storia, troviamo la costante aspirazione a un “modo altro…” che renda possibile il ritorno alla “normalità” e che eviti gli errori, i limiti, le inefficienze che hanno determinato o contribuito a determinare una pandemia, e accanto a questa una pandemia sociale e economica.
Il Covid ha causato il collasso, la caduta logica di sistemi, individuali e collettivi, comunitari e statali, economici e culturali… svelandone, a carissimo prezzo, fragilità e criticità.

Per risolvere questa crisi, insieme ad un’azione di “decodifica” dei messaggi della comunicazione, le voci più influenti di questo nostro tempo credono necessario un “modo altro…” di pensare le relazioni, i sistemi politici, economici, sociali. Un “modo” rivolto all’essenzialità, un pensiero differente che ci aiuti a ripensare criticamente le strutture, i valori, le ragioni su cui è stato poggiato fino ad oggi il nostro mondo, per rifondarlo con equità.

Questa ricerca raggiunge livelli altissimi proprio negli studi di genere. Penso ai lavori di Judith Butler, Adriana Cavarero, Carol Gilligan, Luce Irigaray, Luisa Muraro, Julia Kristeva. Solo per citare alcune, fra le numerose autrici. Nelle loro analisi appare costante la critica al pensiero occidentale, concentrato sull’identità e sul linguaggio maschile, e l’impegno per costruire “un’altra cultura” che consenta di riscoprire le differenze, l’alterità, la soggettività femminile. Irigaray, in Speculum1, la definisce “cultura a due soggetti”, partendo dalla differenza di genere per riconoscere e valorizzare le differenze in vista non solo di una rifondazione culturale, ma di una nuova convivenza umana.

Questa prospettiva sulla comunicazione invita, ancora una volta, a soffermarsi sul messaggio, ad avere cura delle parole, a riflettere sul loro senso e sul loro significato, a dedicarsi al parlare-con, a decentrarsi rispetto a se stessi, ad adottare un linguaggio accogliente e rispettoso, a rappresentare il mondo con parole nuove.
Qui collochiamo ogni premessa di cambiamento: descrivere e rappresentare il nuovo mondo secondo le parole che scegliamo.

 

Massimo Cappellano

Massimo Cappellano, giornalista, dirige l’Ufficio Stampa dell’Asp di Catania. Laureato in Storia Contemporanea all’Università di Catania, è stato docente invitato presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia. È studioso di tutto ciò che si muove nel crocevia in cui si incontrano antropologia, filosofia, sociologia, politica e religione. È autore dei saggi Il grido e l’incontro. Due figure per ripensare la modernità (2009) e Comunicare partecipazione. Comunicazione pubblica e partecipazione civica come leve per il cambiamento della Pa (2019), e co-curatore del volume Lessico Sturziano (2013).

 

NOTE:
1. Cfr. L. Irigaray, Speculum. L’altra donna, 2017

[Photo credit unsplash.com]

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Tempi moderni: mutismo di un’epoca e di una leggenda del cinema

Mentre Hollywood già da tempo si cimentava nella produzione di film all-talkie (interamente dialogati) e cominciava a imporsi come modello di cinema universale, il celebre Charles Chaplin perseverava nella creazione di film muti, dimostrando non poco scetticismo per il parlato. Sarà solo con Tempi moderni, uscito nel tardo 1936, che sentiremo, benché in sporadiche circostanze, delle voci umane e, in via del tutto eccezionale, quella di Charlot.

Considerato come uno dei capolavori del cinema chapliniano, dove al meglio si formalizza la sintesi tra patetismo romantico e critica al sociale, Tempi moderni si colloca giustappunto nel centro della dialettica muto-sonoro che coinvolgeva Chaplin in quegli anni. In un film in prevalenza musicato come questo, la parola viene contingentata e inserita solo in alcuni frammenti della narrazione. Il risultato è un chiaro e significativo confronto tra capacità e incapacità espressiva della parola, nel ristretto contesto estetico del cinema come anche nel più ampio orizzonte dell’attualità storica del tempo.

La modernità del capitalismo, della macchina, dell’industria, bersaglio principale del film, che per questo ben si colloca nel panorama artistico dei primi decenni del XX secolo, assoggetta l’uomo alle proprie logiche produttive, ne scandisce i ritmi e i tempi d’azione, ne riduce l’esistenza all’animalità, fino a fagocitarlo letteralmente nei propri ingranaggi. In questo, lo stesso linguaggio viene doppiamente scarnificato: nelle poche occasioni in cui è stato registrato il parlato, l’atto linguistico si isterilisce sia sul piano della relazione tra i comunicanti sia su quello dei contenuti. 

Ad una attenta visione di Tempi moderni, si noterà che a parlare non è mai una persona fisicamente presente, una persona in carne e ossa che entri in contatto diretto con l’interlocutore: la parola umana è sempre mediata da un apparecchio tecnologico. Questo vale per il direttore della fabbrica e il suo sistema di video-telecamere; per la voce dell’inventore riprodotta dal registratore; per lo speaker della radio nell’ufficio di polizia della prigione. Nella generale afasia dell’umano, sono le macchine ad aver conquistato il diritto all’udibilità dei propri “discorsi”, ad essersi guadagnate il monopolio della comunicazione verbale, compresa quella dell’uomo. Quest’ultima è così costretta a ridurre il dialogo attraverso cui si articola la relazione bilaterale tra i parlanti a un monologo a senso unico: gli ordini del direttore, le informazioni sull’invenzione, le notizie di attualità del cronista radiofonico e l’intervento inopportuno dello spot pubblicitario della radio non necessitano del contributo del ricevente. Nelle industrializzate metropoli della modernità, a quanto pare, si apre bocca – o, meglio, il microfono – solo per trasmettere contenuti poveri di emotività.

È chiaro, dunque, che il muto di Tempi moderni si carica di una valenza critica nei confronti del progresso tecnologico e industriale, ma se lo si intendesse esclusivamente in questi termini si rischierebbe di ridurre la rilevanza che esso assume nel più generale contesto della prima produzione filmica di Chaplin. Importante chiave di lettura, in tal senso, è la celeberrima scena della canzone senza senso cantata da Charlot nel caffè. Per la prima volta, come si accennava, l’ormai leggendario omino dagli sdruciti abiti ottocenteschi fa sentire la propria voce, rovesciando così una delle caratteristiche peculiari del “canone-Charlot”, ovvero la comunicazione averbale. Eppure, l’immancabile sbadatezza del personaggio e l’acuta trovata della perdita dei polsini, nonché del testo della canzone, impediscono l’effettiva realizzazione dell’atto linguistico. Le parole incomprensibili, date dalla mescolanza di termini e cadenze prosodiche tratte da lingue differenti, divengono pura forma, puro significante privo di contenuto identificativo, bisognose del supporto della gestualità. Trovando proprio nell’esibizione comica il luogo più adatto per esprimersi, Chaplin-Charlot mette in scena se stesso e la sostanza del suo fare artistico, ovvero la “comicità formale”, ma non per questo poco eloquente, ed universale delle sue performance. The tramp vive nel muto e del muto, dell’espressività del volto e dell’esagerazione dei movimenti del corpo, perciò, perché la storia del cinema, ormai indirizzata al sonoro, faccia il suo corso, non può che abbandonare gli schermi. È così che, dichiarando la propria appartenenza a quel mondo, Charlot si congeda dal pubblico e, assieme ad esso, da Chaplin, a sua volta pronto a lasciare che quella parte di sé si faccia passato.

Altro sarà infatti il futuro: quello della nostra contemporaneità, di un uomo fedele alla coerenza mimetica dell’opera cinematografica e abituato alla convivenza con i media tecnologici, alla loro rielaborazione dell’umano. Ritornare, allora, ai tempi dello shock del confronto tra uomo e macchina possa aiutare a tenere in considerazione i limiti della nostra dipendenza tecnologia, i rischi di mutismo collettivo nelle relazioni non virtuali, ma inviti anche a tentare il superamento delle conflittualità e ad aprirsi alle nuove fasi dell’umano.

 

Beatrice Magoga

 

[In copertina un fotogramma del film Tempi moderni]

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La vita è un’illusione (digitale)

Un tempo i filosofi si facevano domande che oggi, probabilmente proprio grazie alle loro risposte o perlomeno ai loro tentativi, non ci facciamo più. Se Descartes nel Seicento passava i suoi pomeriggi a cercare di dimostrare razionalmente la nostra esistenza, noi, se va bene, ci limitiamo a maledirla. Cogito ergo sum, “Penso dunque sono” è una formula che se non esistesse bisognerebbe inventare, perché come si fa a dubitare del fatto di dubitare di esistere? Non si può, questa certezza dimostra che stiamo facendo qualcosa e quindi, per farla, esistiamo. Fantastico.

Anche noi, però, trascorriamo dei pomeriggi avventurosi, spess05o con lo smartphone in mano – gli ultimi dati disponibili ci raccontano di un popolo, parlo di quello italiano, che passa in media sei ore al giorno online di cui ben due sui social network. Senza questa specie di prolungamento digitale di noi stessi, letteralmente attaccato al nostro corpo (io lo tengo sempre nella tasca davanti dei pantaloni), non sapremmo più come vivere, ovvero comunicare, sapere, consumare. Il gesto più comune che ci ritroviamo a fare durante le nostre giornate è appunto digitare. Viene spontaneo perciò pensare a un aggiornamento del “Penso dunque sono” con “Digito dunque sono”. In che senso però digitare darebbe la misura della nostra esistenza? In realtà digitare non basta, direi addirittura che – anche se non tanto per esistere quanto per sentirci esistere – non serve a nulla se in cambio non otteniamo la reazione altrui (like, commenti, condivisioni). La formula più corretta con cui tentare di descrivere i nostri tempi è per cui “Digito dunque siamo”. L’essere umano ha ovviamente sempre avuto bisogno dello sguardo altrui, del suo riconoscimento, nel bene e nel male, per sentirsi esistere, ma oggi questo “sguardo” (metamorfosatosi in like) è ancora più essenziale per la costruzione della sua stessa identità, del sé, del suo modo di esistere. Naturalmente, non è che venga realmente meno la nostra esistenza, rimaniamo vivi e sentiamo di esserlo anche senza postarlo ed essere riconosciuti come tali attraverso i social network, ma qualcosa viene a mancare. E questo qualcosa è la “dignità” d’esistenza, più che l’esistenza stessa. Far esistere qualcosa (un’esperienza, una vacanza o un concerto) senza condividerla sui social oggi è come non averla fatta.      

Nel libretto che ho intitolato, appunto, Digito dunque siamo, parlo di tutti noi, di come i nostri comportamenti stiano cambiando a causa dell’utilizzo pervasivo dei media digitali. È in atto, che lo si voglia vedere o no, una vera e propria riprogrammazione emotiva che porta con sé gigantesche illusioni che vorrebbero farci credere che grazie all’iperconnessione a cui siamo costantemente esposti stia aumentando, con la possibilità di comunicare in ogni momento e in ogni luogo, anche l’empatia e la partecipazione tra gli esseri umani. Purtroppo non è così, perché, nella maggior parte dei casi inconsapevolmente, i nostri slanci di empatia e partecipazione sono subordinati al meccanismo egoriferito del social network, che ci premia a ogni nostro click o segno digitale che lasciamo online. Postare gli auguri sulla bacheca di un “amico” virtuale (il cui compleanno ci è stato prontamente ricordato da una notifica), firmare una petizione online o esprimere un’opinione sul fatto del giorno non ci rende più umani, nel senso di empatici e partecipi, ma solo più succubi di un ego che, per sentirsi vivo, ha sempre più bisogno di riconoscimento pubblico. Insomma, siamo diventati più narcisisti perché abbiamo trovato lo strumento ideale per manifestare questa tendenza, e al contempo abbiamo sottratto terreno alla nostra parte più “umana”, se con questo termine intendiamo la capacità di comprensione, di immedesimazione, l’altruismo. La magia del digitale è tuttavia quella di farci credere, dentro di noi, esattamente il contrario.

Eh sì, il digitale ci sta cambiando, cambia il nostro modo di pensare, sentire, comunicare, informarci, conoscere, volere. Cambia le nostre idee di felicità, di desiderio, di realizzazione. Riprogramma le nostre esistenze, donandoci una nuova identità scissa e continuamente ricomposta tra online e offline. Ma cambiare è normale, tutto cambia, sempre, in continuazione. Certo, sta a noi accogliere il cambiamento e valutarne gli effetti sulle nostre vite. E tuttavia ci è praticamente impossibile non cambiare insieme al mondo in quest’unica direzione che chiamo, provocatoriamente, “disumanizzante”. Se la storia imbocca una strada chi ha la forza di resisterle e cambiare, da solo, rotta? Parlando più concretamente: chi di voi può permettersi di non avere uno smartphone? Quasi nessuno.

Sapere che viviamo in un’illusione. È questa l’unica arma per resistere alla “disumanizzazione” digitale. 

 

Stefano Scrima

 

Scrittore e filosofo, ha analizzato gli effetti del digitale, e in particolare dei social network, sulla vita delle persone attraverso due saggi editi da Castelvecchi: Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) e Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (2018). Fra gli altri suoi libri: Filosofi all’Inferno. Il lato oscuro della saggezza (il melangolo, 2019); L’arte di soffrire. La vita malinconica (Stampa Alternativa, 2018) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (il melangolo, 2017).

[L’immagine di copertina del presente articolo è tratta dalla copertina del libro Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) su concessione dell’autore]

Evoluzione del rapporto tra uomo e progresso scientifico

Il progresso scientifico è stato osteggiato, osannato, incoraggiato. Il tema dello sviluppo della scienza è sempre stato parte attiva della vita dell’uomo, si potrebbe partire dalle prime speculazioni scientifiche dei presocratici sino ad arrivare alla rivoluzione scientifica e industriale. La scienza è un’ancella fedele della vita dell’uomo, ma c’è un confine molto labile che non deve essere valicato pena la distruzione stessa della vita umana. Qual è il confine che rende immorale e pericoloso il progresso della scienza nella vita dell’uomo? È una domanda complessa a cui sarebbe difficile rispondere. Si potrebbe dire che bisogna porre dei limiti, analizzarli. Non si può osteggiare il progredire delle ricerche scientifiche e viviamo in una società in cui risulta essere necessario.

Sono celeberrimi gli esperimenti sulla genetica condotti durante la seconda guerra mondiale, proprio dalle conseguenze di queste sperimentazioni nel dibattuto filosofico a metà Novecento inizia a fare capolino la parola bioetica. L’uomo sente il bisogno di tracciare i confini dell’etica moderna, di capire gli effetti sulla sua stessa vita di queste sperimentazioni. Etica, medicina, scienza e filosofia si incontrano per la prima volta in un dibattuto tuttora acceso e che non riesce a vedere fine. Ci si chiede che valore ha la persona all’interno di questo panorama e ci si interroga sui suoi diritti, su come essa debba essere rispettata. Quanto vale la vita del singolo in vista di una scoperta più grande? Hugo Tristram Engelhardt Jr, filosofo e medico, uno dei padri della Bioetica moderna – nei suoi testi più noti si è occupato del concetto di persona, etica e morale in campo medico e filosofico – lucidamente, analizza il profilo dell’uomo moderno e si pone una domanda: l’uomo può passare da una fase in cui è considerato tale ad una fase in cui non lo è più? Che ruolo deve avere l’uomo nello sviluppo delle scienze e nella sperimentazione?1 Rispondere a questa domanda è una dirompente presa di posizione.

Ci troviamo dinanzi alla figura di un uomo che governa il destino dell’uomo stesso, è carnefice e artefice. L’uomo moderno è stato assimilato a Prometeo, essendosi emancipato dai dogmi e fattosi simbolo del progresso nell’epoca moderna sembra aver perso la sua direzione. Il Prometeo moderno è colui che crede di potersi elevare al di sopra dei suoi limiti non capendo che privandosi di ogni limite ricade in un vortice che lo distrugge. Nel 1800 John Stuart Mill, padre della filosofia della scienza moderna ed economo di inizio Ottocento, ha affermato che «l’uomo è sovrano sulla sua persona, sul proprio corpo e sulla propria mente»2, ma l’assoluta libertà della persona deve avere un vincolo: la salvaguardia della libertà e del benessere altrui. L’uomo ha responsabilità dirette su sé stesso e sugli altri.

Il compito dell’etica sta nel valutare i mezzi e i fini con cui tali scoperte vengono adoperate e si sente sempre più il bisogno che tale compito sia adempiuto.
La scienza deve essere un progredire dell’uomo sempre e solo a beneficio della comunità umana, come sosteneva Francis Bacon, filosofo e scienziato simbolo della rivoluzione scientifica con Cartesio e Galileo, già agli inizi del Seicento nel Novum Organum. L’uomo deve farsi portavoce e profeta di un’idea di scienza nuova che ha riconsegnato all’uomo una posizione centrale nella storia della sua evoluzione.
Come non cadere vittime di questo libero arbitrio di cui siamo dotati all’interno dell’incessante progredire delle scienze? È interessante osservare che non vi è una definizione univoca di progresso della scienza: il progresso della scienza ha così tante sfaccettature che non si riesce a raccoglierle in una unica definizione.

Il progresso della scienza appare come un diamante dai mille riflessi al cui centro, però, deve soggiacere un principio di responsabilità per la società di cui si fa parte.
Il principio di responsabilità sembra essere l’unica possibilità, per Jonas, a cui rivolgersi: questo deve essere un punto di riferimento nell’uomo che, previdentemente, con attenta analisi dei costi e benefici riesce a valutare lucidamente cosa è capace di arricchire la società. L’uomo dovrà rivolgere uno sguardo al passato e uno al futuro, farsi detentore delle esperienze passate e, mettendo in atto il concetto di storia critica, analizzare la direzione della società di cui fa parte.

 

Francesca Peluso

 

NOTE:
1. Cfr. D. Engelhardt, Etica e Medicina
2. C. Pievatolo, H. Jonas un’etica per la civiltà tecnologica, da “Il Politico”, Università degli studi di Pavia, 1990, pp. 337-349.

[Photo credits by pixabay]

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