Tecnologia: dipende da come si usa?

Si dice che il Novecento sia stato il secolo più cruento di sempre. Perché? Cos’ha contraddistinto il Novecento rispetto a tutti i secoli precedenti? La risposta appare ovvia ma imprescindibile: un dispiegamento della tecnologia e dei mezzi tecnologici inaudito, il quale ha inaugurato potenzialità distruttive fino ad allora impensabili. Senza tener conto di ciò non è possibile comprendere le catastrofi del secolo scorso. A questo punto non è difficile l’affacciarsi di una delle più tipiche espressioni d’ingenuità: “Dipende da come la si usa, la tecnologia”. Ora, come modo di dire, come luogo comune, questa frase può essere accettata. Ma è ingenuo pensare con questa semplice proposizione di aver risolto definitivamente il problema, di aver trovato una verità ultima. Occupandosi di filosofia non ci si può accontentare di luoghi comuni o di verità definitive, accettate in modo a-critico.

Perlopiù andiamo avanti ciecamente, senza renderci conto che la tecnologia e il suo sviluppo procede senza curarsi di qualsivoglia argomento. Spesso ci aggrappiamo a quell’unica frase “Dipende da come si usa”. Forse un’efficace smentita di questa visione tanto diffusa sta nel fatto che una delle molle più potenti dell’agire umano sia di «fare qualcosa solo perché si può farla, giusto per dimostrare che la possibilità è realmente possibile» (M. D’Eramo, Il selfie del mondo, 2017). Stando a tale prospettiva, l’uomo (perlomeno l’uomo occidentale post-greco che ha tolto la categoria del “limite”) non sarebbe in grado di dominarsi davanti a un nuovo strumento che gli permetta di accrescere la propria potenza, la propria capacità di incidere sul mondo, che gli permetta di vivere più a lungo, di sentirsi più sicuro etc. Qualunque sia l’arnese, l’apparecchio, il congegno in questione, egli presenterebbe in sé la tendenza intrinseca a estrapolare il massimo possibile dalle potenzialità dello strumento a sua disposizione. Pertanto, una riflessione sull’uso “corretto”, qualora avvenisse, sarebbe solo posteriore, secondaria, fondamentalmente accessoria.

Sembra che man mano si stia rinunciando una volta per tutte a pretendere una legittimazione del potere di quegli apparecchi con i quali sempre più siamo costretti – seppur velatamente – ad avere a che fare. Ma da chi mai si può pretendere la legittimazione del potere di un apparecchio? Se in linea di principio nessun essere umano in carne ed ossa ci costringe a regolare gran parte della nostra esistenza sulla base di algoritmi, di codici e di chissà che altro, allora insorgere contro un uomo o un gruppo di uomini in carne e ossa non rappresenta certo la soluzione. D’altra parte, una mobilitazione luddista nel 2023 apparirebbe anche al più ingenuo degli uomini come assurda, infantile. E allora?

Tutto lascia supporre che, al cospetto di uno sviluppo inesorabile della tecnologia, le armi della critica siano inefficaci. Certo, se ne può discutere all’infinito con argomentazioni magari ben strutturate, ma intanto l’apparato tecnico va potenziandosi sempre di più, come fosse una immane creatura in grado di accrescersi autonomamente e inarrestabilmente. I dati fluttuano qua e là come fossero entità a sé stanti, e si fatica a pensare che tutto sommato ad alimentare tutto ciò siano pur sempre degli uomini. Ci si sofferma mai a pensare che con l’eventuale scomparsa dell’uomo dalla Terra non resterebbero altro che conglobati di plastica, metallo, cemento etc., oggetti incomprensibili a qualsiasi altra creatura? Inoltre è superfluo aggiungere che è proprio per lo sviluppo immane di quest’apparato che via via abbiamo preso una certa dimestichezza con l’idea di una nostra possibile estinzione. Magari è ormai inscritto nel nostro DNA che «il concetto stesso di progresso è divenuto inseparabile da quello di epilogo» (E. Cioran, Squartamento, 1981).

Avanziamo nella nebbia, come sempre accade agli uomini immersi nel loro presente. E continuare a sostenere riguardo allo sviluppo della tecnologia che “dipende da dove lo si indirizza, da come lo si usa” forse non fa che intensificare questa nebbia. O forse l’uomo, che già decenni fa Gunther Anders definiva come “antiquato”, è davvero diventato un pezzo d’antiquariato e, in quanto tale, non più infastidito da quella nebbia che sempre lo ha spinto a porsi le domande ultime, quelle più importanti e vertiginose, quelle filosofiche?

 

Vincenzo Di Puma
Nato in Sicilia nel 1990, vive a Bologna dove ha conseguito la laurea triennale in Filosofia con una tesi su Gerard Genette e quella magistrale in Scienze Filosofiche discutendo una tesi su Jurgen Habermas.

 

[Photo credit Ales Nesetril via Unsplash]

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Il sapere tradizionale oggi e l’opera di Gilbert Simondon

Gilbert Simondon è uno dei filosofi del ‘900 francese più discussi; la sua opera è definita enciclopedica per la vastità di temi affrontati e per l’enorme contributo al dibattito filosofico e scientifico contemporaneo: egli non solo analizza il rapporto che intercorre tra uomo e tecnica ma torna alle radici della riflessione filosofica riformulando un nuovo vocabolario in cui ambito scientifico-pratico e teorico-umanistico si intrecciano.

Il tema della tecnica e del relativo rapporto con l’essere umano, di cui Simondon si occupa nel Du mode d’existence des objets techniques, suo testo più celebre, è ampiamente discusso soprattutto dopo le due guerre mondiali, dal momento che durante gli anni ’40 vi era stato un notevole sviluppo delle biotecnologie, degli studi sulla genetica e delle nuove scoperte nel campo della fisica e della chimica che avevano messo in discussione il sapere tradizionale. L’oggetto tecnico, allora, diventa il cardine del pensiero simondoniano, in quanto simbolo del sapere umano che si concretizza e che racchiude in sé la storia dell’evoluzione umana:

«L’oggetto tecnico individuale non è questa o quella cosa, data hic et nunc, ma ciò di cui c’è genesi. L’unità dell’oggetto tecnico, la sua individualità, la sua specificità, sono i caratteri di consistenza e di convergenza della sua genesi. La genesi dell’oggetto tecnico fa parte del suo essere “umano”. L’oggetto tecnico è ciò che non è anteriore al suo divenire, ma presente a ogni tappa del suo divenire; l’oggetto tecnico uno (sic) è unità di divenire».1

L’essere umano aveva superato limiti che si ritenevano invalicabili, si era posto questioni che avevano ridefinito il suo ruolo nella società e aveva cercato di trovare nuove risposte nelle scienze, incentrando su di esse la riflessione morale e teorica tralasciando però un aspetto importante del sapere: la metafisica.
La metafisica rappresenta il capo da cui ogni scienza prende vita ma il problema, per Simondon, sta nel momento in cui nella storia del pensiero filosofico questa si è estraniata dalle scienze pratiche per chiudersi in sé stessa. La svolta del pensiero simondoniano è aprire le porte a un Nuovo Umanesimo in cui ogni arte, ogni scienza e ogni riflessione sia intrecciata all’altra: l’uomo si riscopre parte del mondo e trova in sé stesso il germe dell’alterità.

Non può esserci alcun progresso nelle scienze se non si tiene presente lo studio dell’essenza dell’essere umano e di ciò che lo circonda, l’uomo non è pura materia ma, come lo definisce Simondon, è un «soggetto transindividuale»: è materia e spirito in grado di intrattenere un rapporto dinamico relazionale con il mondo. Arrivare a un Nuovo Umanesimo vuol dire dimostrare l’inscindibile legame tra le scienze e la riflessione filosofica che grazie alla scienza si rinnova a sua volta nei temi e nei dibattitti.
Simondon non si ferma alla teorizzazione di un Nuovo Umanesimo, ma aggiunge che l’individuo contemporaneo dovrà costruire un Nuovo Umanesimo tecnologico: l’oggetto tecnico (con esso Simondon intende ogni artefatto creato artificialmente) non è altro che il risultato di un processo creativo e normativo necessario all’uomo. Non si può considerare semplicemente l’alienazione dell’individuo da esso e ciò che ne consegue, ma bisogna considerare il rapporto dinamico che l’oggetto stesso instaura con l’individuo come un vero e proprio soggetto relazionale: l’oggetto tecnico ha una matrice umana, da cui nasce, da cui viene creato e che lo permea e grazie a questa acquisisce la capacità di modificare la realtà stessa.

È così che sino agli anni ’90 del ‘900 il filosofo viene ricordato in Francia come il filosofo della tecnica. Ciò è sicuramente riduttivo dal momento che non viene tenuto conto dell’enorme contributo dell’opera e del suo influsso per la metafisica occidentale contemporanea. In ultimo è importante ricordare che la riformulazione del vocabolario filosofico è la base che getta Simondon per rielaborare alcuni concetti cristallizzati come la materia, l’individuo o l’essere: le definizioni non si servono più solo di termini derivanti dal lessico umanistico, ma il filosofo utilizza termini derivanti dalla chimica, fisica e dalla biologia a dimostrare la tesi della sua rivoluzione.

Simondon è ritenuto un pioniere della nuova metafisica occidentale e rivoluziona la riflessione filosofica dimostrando nuovamente la sua universalità e necessaria importanza per il sapere umano, il suo messaggio è di rinnovamento del sapere e ancora oggi è di monito per chi si accinge a parlare di uomo, tecnica e tecnologia.
Ponendo l’accento sulla proposta di rinnovamento del sapere del filosofo, si può affermare, infine, che il filosofo conclude un percorso iniziato con la rivoluzione scientifica in cui l’essere umano si faceva soggetto nel suo mondo; ora l’individuo non solo è soggetto ma è un soggetto agente e relazionale, aperto agli altri di cui si riscopre parte. Questa è l’immagine di uomo contemporaneo che bisognerebbe inseguire, capace di congiungere passato e presente attraverso l’intreccio della storia del sapere e delle idee che lo formano e lo hanno formato.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, 2012, pp. 60 -61.

[Photo credit Ramòn Salinero via Unsplash]

la chiave di sophia

L’urgenza del vivere da Paul Valéry a Hayao Miyazaki

Ho sempre avuto un certo feeling con il Giappone e tutte le sue follie, dai Kit-Kat al tè macha alla loro incapacità di dirsi “ti amo”, e sebbene in questo ultimo periodo io mi sia appassionata alle teorie dello zen e alla loro estetica precisa ed essenziale, credo che nulla mi abbia ancora affascinato quanto i mondi creati da uno dei più importanti autori di film d’animazione del mondo: il maestro Hayao Miyazaki.

Se non è così difficile farsi trascinare nel mondo fatato degli spiriti de La città incantata né rimanere affascinati dalla porta magica di Howl o desiderare di poter abbracciare il morbido orso/gatto Totoro, meno immediato è forse cogliere la critica di Miyazaki nei confronti di ogni forma di guerra e avvertire le ombre scure da lui gettate sul tema della tecnica e del progresso. Sono tuttavia temi che attraversano tutta la filmografia del maestro, a partire da Conan il ragazzo del futuro (1978) fino all’ultimo capolavoro, del 2013, Si alza il vento. Miyazaki, che in gioventù aveva partecipato attivamente ai movimenti pacifisti e alle proteste che attraversarono il Giappone dagli anni Cinquanta fino almeno al Sessantotto, si interroga senza lasciare vera risposta sugli effetti del progresso tecnologico sul corso della storia e dunque sull’umanità. Le ambientazioni futuristiche di opere come Nausicaä della Valle del Vento e Laputa – Castello nel cielo puntano il dito contro un uomo del presente (ma anche dell’immediato passato) incapace di resistere all’avidità di denaro e potere, che si traduce in maniera immediata in un totale disinteresse per l’ambiente e la Natura. L’uomo insomma, come spiega chiaramente Marco Casolino, «non sarebbe in grado di gestire i cambiamenti sociali e culturali che […] porta con sé»1 e quello che Miyazaki si auspica è un’educazione che sappia pensare insieme la Storia e la tecnica.

Questa ambiguità della tecnica è mirabilmente espressa anche nella storia di Jirō, ingegnere aeronautico protagonista di Si alza il vento, un sognatore che cerca nelle spine di sgombro la curva perfetta per le sue ali, costruttore di un aereo che verrà poi tristemente utilizzato dall’aviazione giapponese nelle missioni cosiddette “kamikaze” della seconda guerra mondiale. La purezza delle intenzioni di Jirō, la sua dedizione sincera verso i suoi ideali e i suoi sogni, incontrano una Storia che invece soffia in modo furibondo verso un’altra direzione. Il vento e l’aria, la leggerezza e gli aeroplani che attraversano con minore o maggiore discrezione tutta la filmografia di Miyazaki, si traducono qui nell’afflato esistenziale dell’individuo (in particolare dei protagonisti Jirō e Nahoko) e nel vento della Storia che avanza e che lo ostacola: l’unica risposta a questo vento contrario, per il maestro giapponese, è esistere. Mentre qualcosa di spaventoso, enorme e impellente domina la Storia, qualcosa di ancora più urgente guida i protagonisti – un po’ come avveniva, secondo Deleuze, ad alcuni personaggi di Dostoevskij: un’urgenza interiore ancora più impellente costituita dall’adesione, sempre e comunque, al proprio progetto di vita. Quel soffio personale del nostro esistere non può sottrarsi al tifone della storia, ma può continuare ad esistervi all’interno se si agisce con dedizione e purezza, senza rischiare di smarrirsi.

È qui che arriviamo a Paul Valéry e a quel verso de Il cimitero marino (1920) che dà senso al titolo del film: «Le vent se lève!… Il faut tenter de vivre», “si alza il vento, bisogna sforzarsi di vivere” (“kaze tachinu, iza ikimeyamo”, se volete scoprire come suona in giapponese). Nel fluire del vento, ovvero il tempo della Storia, bisogna trovare il proprio spazio esistenziale, come Jirō e Nahoko, «testimonianze vibranti di un impegno etico a vivere appieno il presente, ad essere nel proprio tempo fino in fondo senza però identificarsi del tutto con esso, senza appiattirsi su di esso»2. La lunga poesia di Valéry, ricca di analogie non sempre comprensibili e lasciate alla sensibilità di ciascun lettore, termina con questo grido di adesione alla vita, questo tentativo del poeta di non farsi vincere dal cupo Nulla e dalla Morte e di adagiarsi invece al fluire (a volte turbinoso ma naturale) del mondo, della natura che sta ammirando dalla cima della collina affacciata sul mare. La volontà di parteciparvi in qualche modo, di esistere, è anticipato da quell’ ek- che dà il senso della spinta verso l’esterno, verso quel mondo che è in grado di ferirci ma anche di regalarci doni preziosi, bellezza, scoperta.

Trovare il proprio respiro sul soffio del vento.

 

Giorgia Favero

 

NOTE
1. M. Casolino, Scienza, tecnologia e natura in Miyazaki, in M. Boscariol (a cura d), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista giapponese, Mimesis Edizioni, Milano 2016, p. 58.
2. M. Ghilardi, Tempo, tecnica, esistenza nell’ultimo Miyazaki, in M. Boscariol (a cura di), op.cit., p. 38.

[Photo Credit: Andrea Junqueira]

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Il vaccino anti-Covid come metafora di comunicazione

Comirnaty. È il nome commerciale del vaccino anti-Covid 19 della Pfizer-BioNTech. Nel brand sono “mescolati” le sigle Covid e mRNA insieme ai concetti di comunità e immunità. Un modo per attivare un sentiment positivo, rispetto alla vaccinazione, e mobilitare l’opinione pubblica all’idea di immunità per la difesa della comunità.
Al di là delle forti suggestioni emozionali, il lavoro dei creativi sollecita un’ermeneutica della cultura odierna e una riflessione sul post-pandemia, osservati dal punto di vista dei processi comunicativi.

In questa sede vorrei soffermarmi, brevemente, su due prospettive.
La prima è relativa alla sigla mRNA. L’opinione pubblica, in questi mesi, ha imparato a usare questo acronimo con lo stesso entusiasmo di chi conosce la formula segreta di ogni cura. L’mRNA, ossia RNA messaggero, contiene l’informazione per la sintesi delle proteine. In questa sede non è possibile descrive i meccanismi biologici e cellulari legati all’mRNA. Vale la pena, tuttavia, chiarire che, in estrema sintesi, si tratta del trasferimento di un messaggio, della sua codifica e decodifica, e dell’attivazione e regolazione delle informazioni che contiene. Un processo comunicativo!

La società dell’informazione, nel periodo pandemico, ha scoperto che per modificare una comunicazione, per costruire un cambiamento e migliorare la nostra condizione è necessario “discernere” sul messaggio, isolarlo, conoscerlo…
Il Comirnaty, in chiave metaforica, esprime anche una critica al sovraccarico informativo della società contemporanea, quell’information overload del mondo iper-accelerato e iper-connesso paralizzante e semplificatore. Per curare questa infodemia, e incidere su questo “eccesso di viralità”, la terapia è ancora il discernimento, quella facoltà, cioè, di giudicare, valutare e distinguere; opportunità per prendersi spazio e tempo; occasione per pensare criticamente e per riorientare la comunicazione.

Il secondo aspetto. A guidare la ricerca Pfizer sul vaccino anti-Covid è stata una ricercatrice, Kathrin Jansen.
La stampa, nazionale e internazionale, ha molto enfatizzato questo aspetto, arricchendo storie e modelli di narrazione “del femminile” e “al femminile”. Della Jansen sono stati raccontati la vita, i fallimenti e i grandissimi successi (a lei si deve lo sviluppo di due importanti vaccini, quello contro lo pneumococco e quello contro il papillomavirus), lo stile di comando, l’impegno, le competenze… Davvero una bella storia, un’ispirazione per molte giovani donne. Con la Jansen è stato presentato anche un “modo altro…” di pensare e agire professionale, differente dal gold standard maschile.

Andando, però, più a fondo in tutta questa storia, troviamo la costante aspirazione a un “modo altro…” che renda possibile il ritorno alla “normalità” e che eviti gli errori, i limiti, le inefficienze che hanno determinato o contribuito a determinare una pandemia, e accanto a questa una pandemia sociale e economica.
Il Covid ha causato il collasso, la caduta logica di sistemi, individuali e collettivi, comunitari e statali, economici e culturali… svelandone, a carissimo prezzo, fragilità e criticità.

Per risolvere questa crisi, insieme ad un’azione di “decodifica” dei messaggi della comunicazione, le voci più influenti di questo nostro tempo credono necessario un “modo altro…” di pensare le relazioni, i sistemi politici, economici, sociali. Un “modo” rivolto all’essenzialità, un pensiero differente che ci aiuti a ripensare criticamente le strutture, i valori, le ragioni su cui è stato poggiato fino ad oggi il nostro mondo, per rifondarlo con equità.

Questa ricerca raggiunge livelli altissimi proprio negli studi di genere. Penso ai lavori di Judith Butler, Adriana Cavarero, Carol Gilligan, Luce Irigaray, Luisa Muraro, Julia Kristeva. Solo per citare alcune, fra le numerose autrici. Nelle loro analisi appare costante la critica al pensiero occidentale, concentrato sull’identità e sul linguaggio maschile, e l’impegno per costruire “un’altra cultura” che consenta di riscoprire le differenze, l’alterità, la soggettività femminile. Irigaray, in Speculum1, la definisce “cultura a due soggetti”, partendo dalla differenza di genere per riconoscere e valorizzare le differenze in vista non solo di una rifondazione culturale, ma di una nuova convivenza umana.

Questa prospettiva sulla comunicazione invita, ancora una volta, a soffermarsi sul messaggio, ad avere cura delle parole, a riflettere sul loro senso e sul loro significato, a dedicarsi al parlare-con, a decentrarsi rispetto a se stessi, ad adottare un linguaggio accogliente e rispettoso, a rappresentare il mondo con parole nuove.
Qui collochiamo ogni premessa di cambiamento: descrivere e rappresentare il nuovo mondo secondo le parole che scegliamo.

 

Massimo Cappellano

Massimo Cappellano, giornalista, dirige l’Ufficio Stampa dell’Asp di Catania. Laureato in Storia Contemporanea all’Università di Catania, è stato docente invitato presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia. È studioso di tutto ciò che si muove nel crocevia in cui si incontrano antropologia, filosofia, sociologia, politica e religione. È autore dei saggi Il grido e l’incontro. Due figure per ripensare la modernità (2009) e Comunicare partecipazione. Comunicazione pubblica e partecipazione civica come leve per il cambiamento della Pa (2019), e co-curatore del volume Lessico Sturziano (2013).

 

NOTE:
1. Cfr. L. Irigaray, Speculum. L’altra donna, 2017

[Photo credit unsplash.com]

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Ci penserà il vaccino? Fare (buon) uso della tecnologia

La mascherina prima e il vaccino poi sono tra gli esempi più importanti degli strumenti sbandierati come risolutivi e salvifici nella pandemia. È una storia che si ripete: credere che la soluzione ai problemi personali o collettivi, ancor più quando drammatici, stia in un qualche strumento, perché «ormai solo la tecnica ci può salvare» – con buona pace di Heidegger. Ma in fondo lo sappiamo: a eliminare sviste e polemiche nel calcio non basta la VAR; analogamente, a eliminare il Coronavirus non bastano mascherina e vaccino, né una app di contact tracing, e via discorrendo.

Credere nel cosiddetto «soluzionismo tecnologico»1 vuol dire non resistere alla fortissima tentazione di affidarsi ciecamente a quanto ci permette di sopravvivere e vivere nei modi più svariati e imprevedibili: significa non far caso all’importante distinzione tra la questione del «dominio della natura» e quella del «dominio del rapporto tra natura e umanità»2. Infatti, anche quando può sembrare che gli strumenti garantiscano un rapporto ottimale o soddisfacente con il mondo, resta ancora da giocare la partita più importante: rendere ottimale o soddisfacente il nostro rapporto con quel rapporto con il mondo.

Non è mai semplice, sia chiaro; ma è un compito a cui non possiamo sottrarci, come persino i più accaniti “tecnofili” riconoscono: se certo non si può «pretendere che la tecnologia ubbidisca», si può ugualmente evitare la «tecno-dipendenza», imparando a «lavorare insieme e non contro» la spinta della tecnologia. Si tratta cioè di «trasformare il proprio rapporto» con essa3. Il problema è allora governare se stessi, oltre o prima che il mondo e le cose: scomodando gli antichi, si tratta di habere non haberi, esattamente perché “avere” implica l’entrare in una relazione appropriativa, innanzitutto con sé4. Ecco dunque che cosa comporta “il rapporto con il rapporto tra umanità e natura”: saper affiancare al potere che la tecnologia garantisce un potere sul suo potere5, anzi con esso.

Che ciascuno coltivi questa attitudine è importante nel cuore della pandemia e lo diventa ancor più quando si ha o avrà a che fare non solo con tecnologie di «primo ordine» che rapportano natura e umanità, o di «secondo ordine» che rapportano tecnologia e umanità, ma anche o soprattutto di «terzo ordine» che rapportano tecnologia e tecnologia6: una mascherina sta tra l’aria e noi, una siringa sta tra un vaccino e noi, mentre un’automobile intelligente per esempio potrà stare tra un’agenda digitale e uno smartwatch, controllando il primo per trasmettere al secondo il messaggio che occorre far benzina prima di andare a vaccinarsi. Badare al “rapporto con il rapporto…” costituisce quindi il cuore dell’imperativo categorico forse più fondamentale che si possa immaginare: agisci in modo tale da relazionarti con la relazione che hai con il mondo. A dire: trova una maniera di occupartene.

Sembra uno di quegli insopportabili giochi di parole filosofici, ma è in fondo quanto comunemente chiamiamo fare uso, atto che ha due volti inseparabili7. Da una parte si usa a partire dalle opportunità e opzioni che qualcosa offre, presentandosi come «invito»8 o «suggeritore»9. Dall’altra parte si fa di tali “vincoli mobili” un punto di appoggio per l’azione, perché essi non rivelano già in anticipo che cosa farne, così che a fare la differenza è come ci si relaziona a essi, come ci si pone rispetto a essi. In tal modo, la postura o l’atteggiamento che si assumono sfociano nella produzione di quel che chiamiamo comportamento: sarebbe bello aver trovato la via d’uscita grazie a mascherina e vaccino, ma – ancora una volta – la vera sfida umana troppo umana che ci si trova ad affrontare non è scoprire il rimedio tecnico definitivo, bensì trovare un modo buono di farne uso – inventarlo.

Insomma, non ci pensano la mascherina o il vaccino da sé; ma nemmeno ci pensiamo noi contando sulle sole nostre forze “naturali” – anche ammettendo di riuscire a definire quali davvero esse siano. Questo vale anche per molti tra i “sotto-problemi” della pandemia, come la DAD: la soluzione è sì fare (buon) uso, ma farlo appunto della tecnologia. Niente paura: come accade per ogni sport che si rispetti, la disciplina del “far uso” non accoglie solo atleti professionisti già fatti e finiti o campioni indiscussi. Infatti, ciascuno può sempre allenarsi secondo i propri modi e possibilità, compiendo esercizi che potenzino a poco a poco la muscolatura fondamentale dell’agire in modo tale da relazionarti con la relazione che hai con il mondo10.

 

Giacomo Pezzano

 

Giacomo Pezzano (PhD), si occupa principalmente di antropologia filosofica e ontologie contemporanee, cercando di tenere insieme nella propria ricerca la dimensione scientifica e quella comunicativa. Cura la rubrica Popsophia sulla piattaforma Medium (https://medium.com/popsophia) e i suoi ultimi libri sono Filosofia delle relazioni. Il mondo sub specie transformationis (il melangolo, con Laura Candiotto) ed Ereditare. Il filo che unisce e separa le generazioni (Meltemi).

 

NOTE:
1. Secondo la recente formulazione di E. Morozov, Internet non salverà il mondo (2013), Mondadori, Milano 2014.
2. Distinzione invece colta da W. Benjamin, Strada a senso unico (1928), Einaudi, Torino 2006, p. 71.
3. K. Kelly, Quello che vuole la tecnologia (2010), Codice, Torino 2011, pp. 20, 219.
4. Di tutto ciò ne discute l’ottimo P. Virno, Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Bollati Boringhieri, Torino 2020.
5. Einaudi, Torino 1990, p. 181 e Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità (1985), Einaudi, Torino 1997, pp. 127-140.
6. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo (2014), Cortina, Milano 2017, pp. 27-32.
7. Ho approfondito il concetto, in riferimento specifico al fenomeno dell’eredità, in G. Pezzano, Ereditare. Il filo che unisce e separa le generazioni, Meltemi, Milano 2020, pp. 187-199.
8. Affordance, nel senso diventato noto in filosofia grazie a J.J. Gibson, L’approccio ecologico alla percezione visiva (1979), Mimesis, Milano-Udine 2014.
9. Prompter: cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione, cit., p. 27.
10. Per chi volesse cominciare a cimentarsi nell’impresa, un primo strumento può essere l’agile e utile M. Bucchi, Io e Tech. Piccoli esercizi di tecnologia, Bompiani, Milano 2020.

[photo credit Lorenzo Herrera su unsplash.com]

Come combattere il capitalismo digitale, con Heidegger

«Perché un tempo per una app ci chiedevano 50 euro all’anno – si interroga il teologo Paolo Benanti – e oggi è gratis?». La risposta è semplice: perché il mercato digitale, «basato sulla nostra produzione di dati, ci considera risorse da consumare»1. Possiamo trarre esempi del cosiddetto «capitalismo della sorveglianza» (S. Zuboff) dalla quotidiana navigazione online: visitando un normale sito di notizie cediamo gratuitamente i nostri dati – identificativi delle nostre abitudini come utenti – a quasi 600 società sparse per il mondo.

Possiamo difenderci? Sì, e la migliore strategia passa innanzitutto per la comprensione. Domandiamoci: qual è lo statuto della tecnica digitale? Dobbiamo, in termini heideggeriani, tornare a porre la domanda sull’«essenza della tecnica», soprattutto alla luce del passaggio fra età moderna e postmoderna. Alcuni assunti di base rimangono validi anche nel caso della tecnica digitale: si tratta di un «mezzo in vista di fini», del quale siamo schiavi «sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza» ma diventiamo ciechi «quando la consideriamo qualcosa di neutrale». Non importa quanto evoluta – e dunque indipendente – la tecnica sia: la responsabilità dell’uomo è ineludibile. Per usare le lapidarie parole di Norbert Wiener: «se la razza umana distruggerà se stessa per mezzo delle macchine, non si tratterà di un assassinio, […] ma di suicidio per stupidità» (L’uomo e la macchina, 1971).

Come già notato da Heidegger nel 1954, la tecnica moderna era «qualcosa di completamente nuovo e diverso dalla tecnica artigianale del passato»: non più un «operare puramente umano» ma qualcosa la cui essenza risiede nell’«elettrotecnica» e nell’«atomo» (La questione della tecnica, 1976). È evidente che dopo appena cinquant’anni il progresso ci ha condotto a una nuova età della tecnica, in cui i dibattiti sulla difficoltà di programmare una macchina che giochi a scacchi di cui parla Wiener ci appaiono preistorici. Caratteristico della «condizione postmoderna» secondo Jean-François Lyotard è un sapere che «nella sua forma di merce-informazione» risulta «indispensabile alla potenza produttiva» (La condizione postmoderna, 1981). Queste parole, scritte nel 1979, suonano profetiche: le nostre preferenze, i nostri comportamenti sul web – tradotti in file immagazzinabili – sono oggi la base su cui si regge tutta l’industria, tanto produttiva quanto pubblicitaria.

Non più quindi la tecnica passiva, materiale del XX secolo. Quella del terzo millennio è una tecnica che si basa su enti digitali, non semplicemente attivi ma inter-attivi e pro-attivi. Basti pensare all’intelligenza artificiale. Enti a tal punto capillarmente omnipervasivi da porre significativi problemi etici – la privacy ad esempio – ma anche conoscitivi. Modificare un contesto del genere può apparire arduo, per almeno due ordini di motivi: innanzitutto, col passare delle generazioni, i giovani vivono sempre più immersi nel mondo digitale, al punto che questo appare normale, esimendoci dal problematizzarlo. In secondo luogo, l’orientamento degli sviluppi tecnici verso macchine dotate di capacità di adattamento autonomo a stimoli esterni renderà sempre più complesso porre in atto una vera rivoluzione (etico-gnoseologica) del digitale.

Possiamo però fare molto quotidianamente: è vitale informarsi in modo tale da essere consapevoli che l’utilizzo degli strumenti digitali non è sempre privo di conseguenze negative. Comprendere in profondità, «invece di restare affascinati semplicemente dalle cose tecniche» (Heidegger, op.cit.), studiare il mondo digitale che ci circonda, per poi sollevare interrogativi sul suo evolversi; insomma, come indicato da Pierre-Maxime Schuhl, «non credere che la macchina possa mai dispensarci […] dall’inquietudine del pensiero»2.

 

Edoardo Anziano

 

NOTE:
1. E. Coen, Al futuro serve l’algoretica, colloquio con Paolo Benanti, in “L’Espresso” n.9, anno LXVI, 23 febbraio 2020.
2. P.-M. Schuhl, L’antichità classica e il «macchinismo», in A. Koyrè, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi 1967.

[Photo credits Pixabay]

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Tra ragione e passione. Storia culturale della differenza di genere (Parte III)

Nei miei precedenti due articoli (parte I e parte II) è stata proposta, in sintesi, una narrazione storica della differenza di genere nell’ottica di spiegare come ancora oggi siano presenti iniquità in molti aspetti della vita delle donne. Uno di questi è quello della posizione delle donne nella scienza, che, come vedremo, è nata in un contesto storico già pienamente sfavorevole a una manifestazione emancipata del femminile.
L’estrema fiducia nella ragione come strumento della conoscenza, di matrice greca, accanto alla missione di governo e disposizione di tutte le cose della natura, secondo l’idea cristiana, si amalgamano come ingredienti che confluiranno, alla fine del Medioevo, nella rivoluzione scientifica. Mentre Galileo Galilei elevava la matematica a strumento principe e determinante dell’indagine scientifica, Francesco Bacone si distingueva come quel filosofo e teorico che diede indirizzo e forma alla nascente impresa scientifica. La sua idea di scienza si esprime molto chiaramente nella metafora della mente maschile che si appropria della natura, femmina da conquistare ed esplorare a piacimento, anzi, per Bacone è la natura stessa che abbisogna di essere domata, plasmata e soggiogata dall’intelletto scientifico.

Nel 1600 l’istruzione è ancora una prerogativa dei maschi, per quelli che se la possono permettere; le donne, se riescono a studiare, comunque non possono insegnare, come ben ci dimostra Elena Cornaro Piscopia, prima
laureata al mondo, a Padova nel 1678. Se le donne non possono studiare o insegnare, chi si occupa degli interessi e delle inclinazioni del 50% dell’umanità? Quasi nessuno. Infatti, solo per fare un esempio, tutti gli argomenti della medicina al femminile sono stati molto trascurati. L’apparato riproduttivo femminile ha sofferto a lungo della visione di mero substrato, tanto che solo verso la fine del 1600 viene ipotizzata l’esistenza degli ovuli. Addirittura, la tesi viene avversata in vari modi perché per secoli si era detto che la madre era solo una specie di forno di lievitazione, e solo a metà del 1800 si capì meglio la fisiologia del concepimento. Ancora oggi disconosciamo molti aspetti della riproduzione, soprattutto femminile.
Mentre Bacone e Galilei gettano le fondamenta della nascente scienza, l’Inquisizione si occupa di mettere in atto la più grande opera di persecuzione dell’eresia, in cui verranno messe al rogo migliaia di donne accusate di essere streghe, su istruzione del Malleus malleficarum (di Sprenger e Heinrich, 1487), che spiegava come ogni stregoneria nascesse dalla lussuria insaziabile delle donne.

Nel XVII secolo le donne erano ormai state allontanate da molti lavori e occupavano esclusivamente lo spazio della casa, concretizzando sempre più l’immagine borghese della donna dedita alla vita domestica e lontana dagli spazi pubblici. Le donne sono apparse in massa sulla scena pubblica solo recentemente, e ancora troppo parzialmente. Il contributo delle donne al mondo del sapere si sta facendo sentire in molti settori, tra i quali anche l’antropologia e l’archeologia, consentendo di svelare il contributo femminile nella storia delle società, che fino a prima era stato omesso. Infatti, fintanto che in tutte le discipline gli studiosi erano uomini, il risultato delle loro ricerche non poteva essere altrimenti che imperniato di un’ottica esclusivamente maschile. Ad esempio, il paradigma del primitivo uomo cacciatore è stato così a lungo enfatizzato da venire declinato come spiegazione di molti fenomeni squisitamente umani, come le abilità di pensiero logico-simbolico o il linguaggio, non tenendo conto del fondamentale contributo femminile all’economia di sussistenza familiare e dell’imprescindibile apporto della cura delle madri nel plasmare l’educazione e la cultura umana.

A proposito di negligenza dello sguardo maschile, nel campo della medicina è particolarmente importante la questione di quanto siano state trascurate le diversità sia anatomiche che fisiologiche del corpo femminile, e questo ha avuto ovvie implicazioni di salute. Finalmente, nel corso del ‘900, la possibilità di accesso alle aule universitarie per le donne, sia come studentesse che come docenti, ha permesso di costruire i presupposti per comprendere molte questioni che si caratterizzano diversamente in base al sesso. Ma non è ancora finita con le discriminazioni, perché ancora oggi la ricerca scientifica continua a privilegiare cavie animali maschi, sia per sperimentare farmaci sia per capire le malattie, ma farmaci e malattie non si comportano ugualmente nei maschi e nelle femmine. Su questo argomento è molto apprezzabile il contributo della rivista scientifica più prestigiosa al mondo, Nature, che più volte ha dato spazio a voci di denuncia alla gender inequality.

La scienza, così come il resto delle discipline, deve fare spazio anche alle donne, sia come oggetti di studio che come soggetti della ricerca, affinché entrino in gioco, perché è ormai evidente che possono e devono dare contributi brillanti e imprescindibili. A tale proposito ricordiamo che la prima persona a vincere due Nobel nella vita fu una donna (Marie Curie). Le donne possono contribuire enormemente alla conoscenza, mettendo in luce come spesso tutto il sapere che le riguarda, che è anche quello del 50% dell’umanità, è stato trascurato o mutilato. La subordinazione della donna è una condizione storica, dunque conoscerne la storia è la precondizione per cambiare il futuro, come già abbiamo iniziato un po’ a fare. È importante anche realizzare che il sistema patriarcale è così penetrato nelle nostre menti che, per imparare a pensare più equamente, abbiamo bisogno innanzitutto di riconoscere gli errori concettuali, distruggere gli stereotipi e costruire nuove mappe di navigazione, assieme, maschi e femmine.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
E. Fox Keller, Sul genere e la scienza, Garzanti, 1987.

 

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Il futuro della riproduzione umana: più tecnica e meno sesso?

La scienza ci informa che ora è possibile la vita, almeno nei topi, a partire da due individui dello stesso sesso, unendo i cromosomi provenienti da due maschi, ma anche unendo i cromosomi provenienti da due femmine1. Ma andiamo per gradi, ripercorrendo velocemente i presupposti di questa possibilità.

PMA è un acronimo di tre lettere che apre un universo di opportunità con conseguenze imponderabili. PMA sta per procreazione medicalmente assistita ed è entrata nel panorama delle nostre possibilità grazie all’interesse della scienza verso la risoluzione dell’incapacità riproduttiva negli esseri umani. Non sempre dietro l’infertilità ci sono vere e proprie malattie, spesso i problemi sono legati a questioni ignote, potenzialmente dipendenti da variabili come l’età o il livello di stress; tuttavia è riconosciuto che l’incapacità di avere figli si ripercuote sulla sfera psico-affettiva degli aspiranti genitori. Questo trova soluzione nel fatto che il concetto di salute si è ampiamente allargato negli ultimi anni, tanto che la medicina fornisce strategie di successo anche al di fuori del concetto di malattia organica. In questo contesto si inserisce anche la PMA, che è una tecnica con cui non si cura l’infertilità ma si ovvia agli impedimenti di questa. Genericamente si procede a prelevare i gameti, sia maschili (spermatozoi) che femminili (ovuli) e si fanno incontrare in laboratorio, di solito si fa in modo che ci siano più tentativi a disposizione, perché le percentuali di successo non sono molto alte e per la coppia si tratta di percorsi molto impegnativi e sofferti. Quando tutto va bene si formano più embrioni, se ne scelgono uno o due per procedere all’inserimento nell’utero materno, nella speranza che prosegua tutto verso una gravidanza a buon fine. Era il 1978 quando nacque la prima bambina con l’aiuto della fecondazione assistita e da allora sono stati fatti tantissimi passi nel supporto della procreazione.

Una volta che l’embrione è in laboratorio è possibile controllarne il DNA per cercare alcune malattie, ma in futuro sarà verosimile poter verificare anche altre caratteristiche ed è già possibile vedere il sesso (di solito non si può rivelare per non indurre a discriminazioni di genere nella scelta dei genitori). Una volta estrapolati i gameti possono essere congelati, donati, o, in alcuni Paesi, ceduti dietro compenso. È chiaro che, una volta esternalizzata la fecondazione, è possibile attuare tutte le combinazioni; è per questo che sono possibili pratiche come la fecondazione eterologa (con gameti di terzi), la gestazione per altri (la donna “surrogata” porta a termine la gravidanza per altri) o il congelamento per lunga data di embrioni2. Ci sono già molte questioni etiche su queste possibilità perché in USA e Australia, ad esempio, ci sono persone nate con queste tecniche che hanno più di 30 anni. Il problema principale, secondo i nati da donazione, è il desiderio di recuperare, o almeno conoscere meglio la storia, di un legame interrotto, qualunque sia stata la tipologia. Non sempre è possibile ricostruire la storia dei legami interrotti, ciò dipende dal livello di anonimato garantito a coloro che hanno prestato le proprie risorse biologiche. Questo aspetto di cura e attenzione verso il legame è piuttosto trascurato in quello che è un iter molto spesso di tipo esclusivamente sanitario, atto ad espletare gli aspetti più tecnici della riproduzione, trascurando quelli più etici. Ma i quesiti etici, già attualmente poco destinati a trovare attenzioni e risposte, sono sicuramente in crescita. Di questo siamo certi perché possiamo vedere come la ricerca stia incredibilmente ampliando il potere di intervento attraverso la sperimentazione sugli animali e, appunto, di qualche giorno fa è la notizia che si è riusciti a far nascere dei topolini utilizzando il patrimonio genetico di due madri in un gruppo, di due padri nell’altro.

Per capire come questo sia possibile dobbiamo considerare l’importanza delle cellule staminali, di cui tutti abbiamo sentito parlare; si tratta di cellule non ancora differenziate in cellule specifiche, che possono essere forzate dalla tecnica a diventare qualunque tipo di cellula, anche ovuli e spermatozoi. Dato che un ovulo è sempre fondamentale per ottenere un embrione, si può anche sostituire il DNA dell’ovulo originario con quello di un altro individuo (maschio o femmina). Si capisce che le combinazioni possibili aumentano ulteriormente. Questo genere di ricerche non mirano di principio a cambiare le modalità riproduttive tra gli umani, ma a comprendere il ruolo delle istruzioni contenute nei geni maschili e nei geni femminili rispetto alle malattie che possono presentarsi nell’embrione. Eppure, la possibilità di utilizzare le staminali implica che invece di dover prelevare i gameti, che nel caso degli ovuli attualmente implica per le donne un processo lungo, faticoso e non privo di sofferenza, potremmo cercare le staminali nel corpo, o ancora meglio, produrle! Infatti, nel 2007 Shinya Yamanaka, ricercatore giapponese, è riuscito a indurre una cellula comune della pelle a “tornare” staminale. Ci sono dunque i presupposti per ampliare ancora le possibilità di manipolazione e, anche se non è detto che riusciremo a rendere efficaci tutte queste possibilità, è sicuramente verosimile che il nostro potere aumenterà. Il professor Henry T. Greely3 sostiene che il futuro sarà in mano alla PMA, che, resa più facile dall’uso delle cellule staminali, favorita dall’aumento dell’infertilità delle popolazioni occidentali, incoraggiata dalle possibilità delle diagnosi pre-impianto dell’embrione utile a evitare orribili malattie e forse a consentire la scelta di alcuni tratti genetici che ci piacciono di più, insomma, tutto ciò renderà la procreazione senza sesso molto più appetibile.

Che cosa può dire la bioetica? Non è verosimile fermare la ricerca se ha di mira la cura di malattie infauste, ma sappiamo anche che una volta che una tecnica è disponibile tendiamo a usufruirne sempre in più contesti. E indietro non si torna mai. La domanda, difficile, che ognuno di noi dovrebbe porsi, ormai in molti ambiti, è: quanto sono disposto a manipolare la natura per ottenere ciò che voglio?

NATURA, TECNICA E LIMITE: alla prossima puntata…

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
1. Qui la notizia.
2. Si veda a questo proposito questo articolo.
3. Cfr H. T. Greely, La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, Codice Edizioni, Torino 2017.

[Photo credits unsplash.com]

Quando il volto non riesce a raccontarsi: identità e corpo nell’esperienza del trapianto facciale

Alle ore cinque del mattino di sabato 22 settembre si è concluso il primo trapianto di faccia in Italia. Un intervento iniziato circa alle otto del mattino di venerdì e durato ventiquattr’ore, secondo quanto affermato dai medici dell’ospedale Sant’Andrea di Roma.

Il ricevente è una donna di quarantanove anni affetta da una grave forma di neurofibromatosi di tipo I, una malattia genetica che andrebbe a colpire la cute e il sistema nervoso, manifestandosi attraverso la comparsa di macchie color caffelatte su tutta la superficie corporea ed escrescenze anche sull’iride dell’occhio. L’intervento è stato reso possibile da una giovane donatrice, una ventunenne morta a causa di un incidente stradale.

Certo, l’intervento è “tecnicamente riuscito”. La paziente è stata indotta ad un coma farmacologico ed è stata sottoposta, come di prassi, alla terapia antirigetto. Quello della paziente è stato un intervento che ha previsto quattro anni di preparazione, incontri e terapia psicologica, esami e accertamenti; fino a quando, il giusto donatore compatibile è arrivato. E con il donatore, la prima chance di rinascita.

Quello al volto è definito come un trapianto “multitessuto”, comprendente pelle, fasce muscolari e cartilagine. Sebbene non si tratti di un trapianto di un organo salvavita, come cuore o fegato, sottoporsi a un tale intervento significa affrontare le difficoltà di una preparazione non solo fisica, quanto più psicologica, che avrebbe condotto la donna a decidere per il trapianto. Secondo ciò che è stato riportato dai medici dell’Azienda universitaria-ospedaliera Sant’Andrea di Roma, la donna avrebbe sempre dimostrato un atteggiamento positivo nei confronti della vita, a tal punto che, poco prima di essere sedata, avrebbe comunicato ai medici di non avere paura rispetto a ciò cui stava andando incontro.

D’altronde, chi potrebbe permettersi di mettere in discussione la scelta di chi si è sentito abitato da un corpo non proprio, alieno, un corpo deformato dall’aggravarsi della malattia? Come potersi mettersi nei panni di chi ha combattuto fin dall’adolescenza con la paura del giudizio e dello sguardo altrui?

Quando parliamo del nostro corpo e delle difficoltà che si possono incontrare nel vivere con esso, non si può non rivolgersi al contempo a quell’identità che si scrive attraverso il corpo. Un’identità che, come nel caso di questa donna, era in pezzi. Nessuno potrà mai comprendere il disagio e la sofferenza che si portava dentro, questo bisogno di cambiare vita, di cambiare volto, di rinascere.

Ma rinascere da cosa? Rinascere da una lotta contro se stessi, forse?

Rinascere da un sé in frantumi? E verso quale direzione?

La scelta di questa donna è stata dettata dal bisogno di ritrovare il senso della propria vita, che poi non significa altro che ritrovare il senso della propria storia e della propria identità, attraverso le ferite di un corpo da troppo tempo lacerato da un dolore insopportabile. Un corpo strappato dalla propria ricerca di senso. Un corpo piegato dal dolore di un’inadeguatezza profonda, un’inadeguatezza che ha fatto i conti con l’opportunità di una svolta, resa possibile dal trapianto facciale.

Il prezzo di tale rinascita, tuttavia, è stato quello di accogliere parte del corpo di un altro. E, a differenza del trapianto di altri organi, quello al volto implica un cambiamento visibile, evidente e percepibile dall’esterno. Non si tratta unicamente di accogliere dentro di sé parte del corpo di un altro – pensiamo ad esempio alle implicazioni esistenziali successive al trapianto di cuore e riportate nelle bellissime pagine di Jean Luc Nancy, il quale descrive la complessità di accettare anche solo il battito del cuore di un altro – ma di mostrare all’esterno, agli altri, una parte di sé che apparteneva a quel donatore, ad un’altra vita, un’altra storia, ad un altro senso. Non contando inoltre i rischi cui il paziente si sottopone, una volta accettato il trapianto. La terapia immunosoppressiva e le possibili e conseguenti infezioni. Il successivo potenziale rigetto.

Non si tratta di un mero intervento “tecnico ben riuscito”, quindi.

Dopo poche ore, i medici del Sant’Andrea hanno dichiarato che la donna, malgrado non rischi la vita, è andata incontro a un rigetto che avrebbe comportato la ricostruzione temporanea dei tessuti autologhi. Come nel caso di qualsiasi organo trapiantato, andare incontro a un rigetto costituisce l’improvviso rifiuto del proprio organismo nell’accettare l’organo ricevuto. Ciò in attesa di un secondo donatore compatibile. Di un altro strappo. Di un altro cambiamento per la vita. Un cambiamento che, però, non può non lasciare una traccia in quel corpo che ci definisce e ci muove, che è a sua volta definito da un sentiero, che è il nostro, e che non è altro se non il racconto di ciò che siamo stati, che siamo e saremo.

 

Sara Roggi

 

[Credits Noah Buscher su Unsplash.com]

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Salto di civiltà: dalle lettere alla tecnica

«La cultura che abbiamo[,] in particolare in Italia[,] andava bene in un mondo contadino perché le cose non cambiavano e ognuno accettava il suo ruolo. I cambiamenti o non esistevano o erano lentissimi e la cultura era il giardino dei piaceri: la pittura, la poesia, l’arte, la lettura. Purtroppo è su questi argomenti che oggi spendono i soldi pubblici gli assessori. Sono argomenti ancora importanti, certo, ma purtroppo questa vecchia cultura letteraria non è più in grado di reggere il suo tempo e di interpretare la modernità. Oggi per essere dei saggi bisogna sapere raccontare l’innovazione tecnologica e anche l’economia. Perché questo sistema tecnologico è intimamente legato all’economia».

Parla con il candore tipico delle persone di una certa età, Piero Angela, in questo frammento d’intervista apparsa su Corriere Innovazione il 29 giugno scorso, a firma di Massimo Sideri1. La sostanza liquida delle parole messa in ordine in una manciata di righe, epitaffio d’un vecchio mondo in via d’estinzione e al tempo stesso fulgido trailer di quello nuovo che sta per arrivare a sconquassare l’esistente.

Da guru navigato della semplificazione linguistica – che da Vygotskij e Heiddeger in Piero Angela poi sappiamo essere semplificazione del pensiero – Piero Angela traduce in prosa ciò che il chiaroveggente Max Stirner aveva raccolto in poesia già nel 1842: «[…] il vivo legno della mazza ferrata dell’industriale manderà in pezzi il secco bastone del dandy smidollato». Una vita piena di fallimenti e di rancore, la sua, condizioni necessarie per dilatare lo spazio delle visioni. Su tutte, l’immenso avvenire del fenomeno tecnico, il colossale trionfo dell’ingegnere (l’industriale) sul letterato (il dandy smidollato).

È sul solco scavato dalle nitide allucinazioni di Stirner che troveranno di che cibarsi i più grossi saprofagi della modernità: Nietzsche, Marx, Durkheim, Simmel, Weber, Schopenauer, Freud. Com’è possibile che da una civiltà umanistico-agraria, rimasta immutata per millenni, si fosse d’un tratto passati a una civiltà tecnica, della quale il «diventare altro» era (è?) la principale forza propulsiva?

Quando la tecnica cominciò a propagarsi sulla crosta terrestre divenne presto chiaro che il mondo contadino sarebbe definitivamente scomparso: il più grande evento della storia dopo la nascita di Cristo, dirà con esagerazione cosciente il poeta francese Charles Péguy. Da quello squarcio della storia a metà ‘800, cominciò a suppurare copioso il materiale grezzo del pensiero divergente, che proprio in quel segmento di secolo apparve più di frequente e nelle sue vesti più radicali: nichilismo, comunismo, positivismo, struttural-funzionalismo. Un’incredibile occasione di speculazione filosofica, distante due secoli e più dai successivi spostamenti d’asse della storia: la rivoluzione digitale e quella ecologica. Treni che cominciano ora ad apparire all’orizzonte. Alla guida un nuovo Stirner, magari cinese o indiano.

L’urto della modernità con il mondo contadino è tra i topoi più sottovalutati dalla cultura letteraria – tradizionalmente colta, accademica, borghese, urbana. La tecnica piomba straniera sulla vita eterna della campagne indossando abiti di guerra: per i contadini veneti di Ferdinando Camon parla la lingua incomprensibile dei soldati tedeschi, per gli agricoltori del sorgo di Mo Yan arriva a bordo di una strana creatura metallica a quattro ruote. In entrambi i casi, a consegnare alla storia l’invasione tecnica delle campagne sono le stesse mani che zappano la terra.

Con l’avvento della cultura tecnica finisce il mondo contadino, dunque. Finisce anche il suo complemento umanista, letterario, romantico, dolciastro. L’unico umanesimo che rimane è quello della protesi, dell’uomo che interviene sulla natura con un prolungamento tecnologico: l’essenza del neo-umanesimo è fatta di azioni tecniche, di protocolli prometeici, di procedure organizzative. Dietro l’angolo il trans-umanesimo con formule nuove e nuove posologie.

Questa generazione, o forse la prossima, sarà l’ultima ad avere il senso della letteratura, quel «giardino dei piaceri» che per Piero Angela non sarebbe più in grado di «interpretare la realtà». Interpretare? «La letteratura non descrive la realtà, la trasfigura, la prefigura, la configura»: a soffiare via la polvere è Nicolò Porcelluzzi, «dolmen in mezzo alla foschia», in un suo recente articolo su il Tascabile. Prima di lui, lo stesso Ferdinando Camon: la letteratura vede prima, vede meglio e vede per sempre. Ma cosa vede, la letteratura? Cosa configura?

Nelle orecchie risponde il triduo recitato sotto la tempesta da Umberto Galimberti, l’ultimo greco: presi nella morsa del materialismo tecnico, non capiamo più bene che cosa è vero, che cosa è buono, che cosa è bello, che cosa è giusto, che cosa è santo, che cosa è interessante. Capiamo però benissimo che cosa è utile: «Manca oggi una filosofia della tecnologia […] che spieghi come tutta questa rivoluzione ci ha permesso di studiare, di vivere sani, di avere un reddito più alto, di liberare uomini e donne da sudditanze antiche e soprattutto […] di creare delle società che sono competitive in un mondo in cui conta la capacità di essere innovatori per riuscire a vincere la concorrenza», continua Piero Angela nel suo soliloquio materialista e capitalista, in cui trova spazio solo ciò che risponde alla legge dell’utilità.

Patetico sarebbe continuare a sostenere che la letteratura, sorella della filosofia, non serva a nulla, perché serva di nessuno. Essa è piuttosto il luogo in cui diventare coscienti della giustizia, della noia, della nostalgia, della commozione, dei sentimenti: la letteratura è il volto metafisico della conoscenza. Soffocata in un paesaggio tecnico ormai poco ospitale, essa ci è oggi più che mai necessaria.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. M. Sideri, Piero Angela: «La cultura letteraria? Non coglie la modernità. Mi offrirono il Tg2, dissi di no», in “Corriere Innovazione”, 29 giugno 2018

[Photo credits: HealthyMond on Unsplash.com]

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