Scoprire qualcosa mentre si stava cercando altro: il metodo serendipità

Una sintesi perfetta.
Una sintesi perfetta tra le espressioni latine homo faber fortunae suae e carpe diem.
Il concetto di serendipità, introdotto per la prima volta da Horace Walpole in una lettera del 1754, ha i crismi del valido metodo scientifico e dell’efficace strategia di coping. Ma non solo: cogliere l’attimo in una determinata situazione ci rende non solo artefici del nostro destino, ma ci fornisce anche una prova empirica di aver saputo trovare il bandolo della matassa.
Farlo in maniera consapevole restituisce, infatti, la dimensione dello stupore provato dal grande autore gotico nello scoprire inaspettatamente un dettaglio in un quadro antico. Una piccolezza, a suo dire, entusiasmante.

Tre prìncipi di Serendippo, l’antica fiaba persiana a cui fa riferimento Walpole, racconta di come i protagonisti, partiti alla scoperta del mondo, trovino sul loro cammino una serie di indizi che li salvano in piú di un’occasione. Serendip, antico nome persiano dello Sri Lanka, diventa quindi l’ispirazione per descrivere una piacevole e fortunata scoperta non preventivata.

Quando parliamo di serendipità, parliamo quindi di fortuna? Non esattamente. Perché la serendipità é sì fortuna, ma anche qualcosa in piú. È la risultante di una combinazione di sorte, circostanza e conoscenza pregressa.
Lo studio dal titolo Talent vs Luck: The Role of Randomness in Success and Failure di A. Pluchino, A. Rapisarda ed E. Biondo indaga, in questo senso, la valenza di talento e fortuna. Grazie ad una simulazione computerizzata, i tre ricercatori sono stati in grado di quantificare il ruolo del caso nel raggiungimento del successo di un determinato numero di persone, dotate di un talento distribuito “a campana”, ricalcando l’effettiva distribuzione del quoziente intellettivo nella popolazione attuale. Con queste premesse, nello studio sono stati distribuiti gli stessi capitali iniziali ai soggetti partecipanti i quali – dopo alcuni incontri casuali con eventi negativi (perdita del 50% del proprio capitale) o positivi (raddoppio dello stesso) – hanno mostrato un risultato molto interessante, ossia che quasi sempre le persone che raggiungono il maggiore successo, nell’arco di un’ipotetica carriera lavorativa di 40 anni, sono quelle più fortunate e con un talento poco sopra la media.

Proprio come accaduto ai tre principi, il talento è necessario, ma non sufficiente. Per avere un qualsiasi tipo di successo, sia esso il raggiungimento di un obiettivo o il superamento di un ostacolo, serve anche una dose di buona sorte. Lo studio appena citato ci offre, tuttavia, solamente uno spunto su cui riflettere, volendo effettivamente indagare qualcos’altro. Quello che è stato definito dagli stessi autori come risultato interessante ci aiuta, praticamente, a dimostrare come le fondamenta della serendipità siano una solida realtà e non solamente un’artefatta teoria. L’occasione di trovare una cosa in maniera imprevista, mentre se ne stava cercando un’altra (cioè appunto la serendipità) si concretizza, allora, non solo con fortuna e talento, ma anche e soprattutto grazie ad un socratico spirito critico, “sapendo di non sapere”.

Più volte è stata tirata in ballo la parola talento. Vale a dire? Potremmo forse considerarlo una predisposizione naturale a fare o comprendere qualcosa “meglio” di altri. Questa innata attitudine, coltivata con i giusti mezzi, può portare a risultati strabilianti. Banalmente: non c’è percorso di studi che tenga senza quell’acume in grado di poter dare significato a tutto il materiale raccolto.

Praticamente quello che accadde all’astronomo Wilhelm Herschel che, nel 1781, cercando delle comete, si ritrovò ad osservare, per la prima volta nella storia, il pianeta Urano. L’astronomo tedesco se ne rese effettivamente conto notando l’orbita ellittica del gigante gassoso, tipica appunto dei pianeti e non delle stelle comete, obiettivo iniziale della sua osservazione. La scoperta di Herschel ci dimostra come l’attenta ricerca di effetti non calcolati, utili per portare alla formulazione di nuove teorie, possa essere effettivamente usata dal ricercatore come un paradigma valido scientificamente. Un metodo vero e proprio. 

Di questo ce ne possiamo rendere conto anche nella vita di tutti i giorni. In situazioni di novità ed incertezza, infatti, la mente è attiva e vigile e, per certi versi, lavora pure meglio. Saper divergere dalle ipotesi iniziali e considerare positivamente soluzioni inedite e non preventivate sono tutte valide strategie di adattamento. In fin dei conti, la capacità di far fronte a determinate situazioni, usando tutte le risorse possibili immaginabili (fortuna compresa), come anche dover risolvere problemi, altro non è che superare una serie di ostacoli per raggiungere un obiettivo. Pensare out of the box, in modo creativo e laterale, aiuta non solo ad allargare gli orizzonti ma anche a riconoscere i colpi di fortuna quando questi si presentano, anzi: quando siamo proprio noi a fare in modo che diventino realtà.

Milo Salso
Nato a Venezia nel 1987, si laurea in psicologia sociale e del lavoro a Padova. Dal 2015 lavora e risiede a Vienna, dove si occupa di marketing e di project management. Avido lettore, nel tempo libero crea cruciverba a tema libero.

[Photo credit Alois Komenda via Unsplash]

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Potrei ma non voglio. A colloquio con il nostro demone socratico

Eravamo quelli della meritocrazia, quelli che volevano che le cose fossero giuste e uguali, uguali per tutti; che tutti avessero gli stessi diritti degli altri, le stesse opportunità. Le abbiamo ottenute. L’istruzione è diventata accessibile a (quasi) tutti; con internet possiamo scoprire tutto quello che ci incuriosisce e le possibilità che sentiamo di maneggiare iniziano a diventare infinite. Infinite, questa non è detto sia una buona cosa, non è un aggettivo che si addice sempre all’essere umano. Sono caratteristiche di Dio, o dell’universo, o dell’immaginazione. Ma mai di qualcosa che si sia concretizzato tra le nostre mani. Nei meccanismi di uno smartphone, nelle effettive possibilità che abbiamo a portata di mano.

Uno dei drammi che l’umanità era abituata a vivere era quello della mancanza delle possibilità, che era certamente legata alla mancanza di soldi, o quantomeno al fatto di avere opportunità direttamente proporzionali al proprio reddito. Oggi la situazione è cambiata: non dico che ogni tipo di possibilità sia nelle mani di tutti, ma poco ci manca. Se desideriamo intraprendere una strada, il modo di realizzarla è accessibile alla maggior parte delle persone. E le strade sono tante, le possibilità pressoché infinite.

Non ci si chiede più quindi quale scuola ci potrà maggiormente garantire un lavoro, ora possiamo permetterci di scegliere, di far venire a galla il nostro gusto, il nostro talento e i desideri più reconditi di realizzazione personale.
Si pone però il problema centrale della confusione dei nostri giorni: sappiamo riconoscere queste tre cose? I nostri gusti, i talenti che abbiamo e i nostri desideri? Dagli incontri che svolgo nelle scuole, con genitori, con ragazzi iscritti da anni o che stanno per iscriversi all’università, mi viene da dire di no. No, dopo le medie è spesso troppo presto. Dopo le superiori anche. Dopo l’università non ne parliamo: con la testa sulle nuvole della teoria senza saper come declinare le nostre conoscenze. Ma anche dopo anni e anni di lavoro quando vogliamo reinventare la nostra carriera non sappiamo dove andare. Eppure è tutto a nostra disposizione, abbiamo possibili orizzonti infiniti davanti a noi, davanti allo schermo di un computer o del telefono.

Internet ci costringe a fare i conti con tutto quello che non stiamo facendo e che vediamo in real time che gli altri stanno realizzando. Studio, serate con gli amici, corsi di aggiornamento, risultati e celebrazioni. Tutti gli aspetti positivi che vengono pompati sui social e che ci fanno rendere conto che noi siamo dall’altra parte dello schermo a guardare, senza poter buttare in risposta qualcosa di simile.

E vorremmo essere al posto di ognuno di questi, fare le loro cose, le loro carriere, le loro esperienze e ci chiediamo da dove cominciare. Tutto questo perché non ci conosciamo abbastanza. Perché non siamo partiti dal “conosci te stesso” del tempio di Apollo a Delfi.

Non ci resta che metterci offline e dedicarci all’interiorità, agli input interni, alla nostra voce interiore che ci può indicare una strada senza vederla già segnata. Possiamo fare appello al daimon (demone) di cui parlava Socrate: una sorta di divinità privata e interiore. L’angioletto sulla spalla che si contrappone alle scelte sbagliate di una persona. Non indicava infatti la strada da seguire, ma dissuadeva dal compiere certe scelte.

Guido Calogero lo descrive così: «Si tratta di una voce della coscienza alquanto strana, poiché il demone distoglie ma non invita, si limita cioè a proibire di fare qualcosa, ma non stimola a determinate azioni»1.

Oggi il daimon – o qualsiasi altra voce interiore – l’abbiamo sostituita perlopiù con la voce di nostra madre che ci dice cosa è giusto per noi, senza neanche dissuaderci dalle scelte sbagliate, perché le sue sono sempre giuste. Non siamo più abituati ad ascoltarci, ma a cedere alle pressioni esterne e alle aspettative degli altri. Il daimon socratico invece ci spinge a discutere con noi stessi. Ad argomentare quando sentiamo venire a galla un desiderio, a domandarci perché e in che modo possiamo realizzare qualcosa.

Il demone ci spinge a scegliere senza essere trainati dalle possibilità (infinite) che abbiamo davanti, ma facendo i conti con il nostro passato e le nostre abilità, ci costringe a scegliere dopo averci dissuaso da decisioni sbagliate. Scegliere, nella prospettiva platonica, significa infatti prendere possesso criticamente del proprio passato per migliorare il presente.

Il demone ci spinge a realizzare la nostra eudaimonìa, ovvero il nostro “spirito buono” (letteralmente), cioè posseduto da buon demone, da quel demone che ci permette di realizzare la felicità che sgomita per farci creare un percorso su misura. Sulla misura di chi siamo e non delle opportunità che altrimenti passeremmo la vita a osservare e invidiare da dietro uno schermo.

 

Giacomo Dall’Ava

 

NOTE
1. G. Calogero, Erasmo, Socrate e il Nuovo Testamento, Accademia Naz. dei Lincei, 1972

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Il mondo visto da dietro lo schermo – Intervista a Luca Ward

Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale.

(Marcel Proust)

La voce è qualcosa che ti entra dentro, che ricordi, che ti fa sognare. La voce rende sonora la nostra vita e ci permette di comunicare con gli altri, esprimendo sensazioni, emozioni, perché no, se stessi.

Ci sono voci e voci che cambiano a seconda del messaggio che devono trasmettere ma che magari col tempo dimentichi, e poi c’è la sua, inconfondibile ma soprattutto indimenticabile, capace di lasciare il segno dietro ad ogni film che doppia e ad ogni ruolo che interpreta.

Sto parlando di Luca Ward, famoso doppiatore nonché attore italiano, la cui voce si è prestata al doppiaggio dei più grandi attori internazionali, tra cui Russel Crowe ne Il gladiatore, Keanu Reeves in Matrix, Samuel Lee Jackson in Pulp Fiction e molti altri.

Ho avuto il piacere di carpire un po’ di più chi si celi dietro a questa voce così famosa, cercando di indagare insieme a lui il mondo del cinema, del teatro ma anche della vita che oggi noi viviamo.

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– Luca Ward, classe 1960. Cosa sognava di fare da bambino?

Il pilota!

Non di aerei militari perché la guerra non mi appartiene, pur avendola vissuta sia mio padre che mio nonno. Io volevo fare il pilota civile e per questo ho frequentato la scuola apposta ma all’epoca diventare pilota era praticamente impossibile, o eri figlio di un pilota o…di un “vescovo”!

– L’avere avuto un padre artista quanto ha influito nella sua scelta professionale?

No, non ha influito perché, anche se i miei genitori erano attori, mio padre non voleva che io e i miei fratelli facessimo il suo mestiere e a me non interessava fare l’attore: era davvero un lavoro difficile quasi più che pilotare un jumbo, quindi chi me lo faceva fare? Eppure alla fine mi sono trovato costretto a farlo perché, avendo perso mio papà a 13 anni e avendo mia madre che non lavorava più da tanti anni, io e i miei fratelli ci siamo ritrovati all’improvviso nel mondo degli sceneggiati televisivi, del doppiaggio, della radio e una volta entrati non siamo più usciti.

– Il lavoro del doppiatore rimane sempre in sordina e spesso ci si dimentica che chi stiamo guardando recitare sono in realtà due persone diverse: l’attore e il doppiatore. Quanto è difficile, nel suo mestiere, omologare la voce alla perfezione con la mimica dell’attore?

Un tempo sia il doppiaggio che la recitazione erano discipline che venivano studiate molto e la voce aveva un ruolo importante, infatti veniva “lavorata”, “elaborata”, perché non c’era solo bisogno di fisicità, ma forte era la necessità di una vocalità; a testimonianza di questo basta risentire i grandi sceneggiati di una volta in cui gli attori erano tutti dotati vocalmente, a differenza di oggi, periodo in cui talvolta non capisci nemmeno quello che dicono. Per me è sempre stato fondamentale il lavoro sulla voce, sia nel doppiaggio, per assecondare la mimica dell’attore, sia nella recitazione, e lo è tuttora, infatti quando incontro dei giovani ragazzi che vogliono sfortunamente fare questo mestiere io ricordo loro di educare sempre la voce e di andarsene a casa se qualcuno dice “questa battuta buttala via buttala via..” perché le battute non si buttano via, altrimenti non arriveranno mai al pubblico.

– Il suo lavoro è assolutamente curioso in quanto coinvolge tre persone, o meglio, tre personalità sempre diverse: quella del doppiatore, quella dell’attore e quella del personaggio che si recita. A mio avviso, lo sforzo che deve fare lei nel doppiaggio è duplice, in quanto deve rappresentare perfettamente il personaggio e non deve storpiare la personalità dell’attore che lo sta interpretando. Concorda? Come ci si prepara a tutto questo?

Io sono stato un autodidatta, ho imparato da bambino e ho appreso come una spugna mano a mano che crescevo , senza avere fatto nessuna scuola, né accademia, perché da subito mi sono trovato accanto ai grandi attori che mi hanno spesso e volentieri dato dei consigli. A casa invece con mia madre non parlavamo mai di lavoro perché il nostro problema fondamentale riguardava il quotidiano, quello di portare i soldi a casa. Per questo, non essendo un attore accademico, non saprei rispondere alla domanda su come ci si prepari, perché io faccio sempre tutto molto fisicamente, di istinto, senza mai fare nessun riferimento a chi precedentemente ha interpretato un ruolo che mi viene assegnato, anzi non vado nemmeno a vedere come l’attore precedente l’ha fatto e se l’ho visto lo cancello dalla mente, non perché mi senta più forte di lui ma perché io voglio solo fare il mio agendo di istinto.

– L’attore incontra mai il suo doppiatore? In cosa consiste il confronto tra i due? Consigli, accorgimenti o solo complimenti? Le è mai capitato che un attore non fosse contento dal lavoro lei svolto?

Spesso è capitato di incontrarli, ma ti risponderò parlando della mia esperienza da ‘attore doppiato’: tempo fa feci uno sceneggiato, Elisa di Rivombrosa (la prima serie) che ebbe un grande successo, erano anni in cui per la televisione si facevano le cose importanti. Mi trovavo in Francia a girare un film sulla vita di Modigliani e un giorno in hotel alla tv davano proprio Elisa di Rivombrosa; ovviamente era doppiato in francese e proprio per questo mi è preso un colpo appena mi sono sentito doppiato! Per questo posso immaginare che quando i miei colleghi d’oltreoceano si sentono doppiati abbiano uno shock, anche se poi loro carinamente per educazione mi dicono di avere fatto un buon lavoro!

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– Non solo doppiatore ma anche attore: quale differenza sostanziale trova tra queste due arti, oltre al fatto che in una usa solo la voce, nell’altra presta sia voce che corpo?

Il doppiaggio è un mestiere puramente tecnico che però deve avere delle forti basi di recitazione altrimenti non lo si può fare. Doppiare senza saper recitare trasforma i copioni in semplici letture, come accade purtroppo ai nostri giorni in cui i doppiaggi non sono più interpretati ma sono solo letti perché si fanno di corsa. Basti pensare ad esempio ad un film del 1994, Pulp Fiction che abbiamo doppiato in circa due mesi e mezzo, oggi lo stesso film lo si fa in una settimana ottenendo ovviamente un risultato ben diverso. Un tempo non ci si accorgeva nemmeno del doppiaggio in un film perché era fatto talmente bene e a regola d’arte che le voci si incollavano perfettamente alle interpretazioni, anch’esse di tutto rispetto. Oggi tutto è cambiato e la voce viene messa in secondo piano, senza pensare che invece essa è fondamentale perché è la vera colonna sonora di un film. Pensiamo ai non vedenti: loro si accorgono subito se un attore recita bene oppure no, se trasmette emozioni o no, perché hanno un udito talmente fine e sofisticato che riesce a carpire qualsiasi sfumatura. Loro sono i più esperti in fatto di “voci” cinematografiche e spesso i film di nuova generazione preferiscono non sentirli, rimanendo ancorati ai vecchi film in cui la recitazione era molto più profonda.

– La filosofia e la recitazione sono due discipline che sono meno distanti l’una dall’altra di quanto si potrebbe pensare, viste le numerose questioni con le quali entrambe le discipline si confrontano. Un esempio di questa reciproca influenza è dato dalla problematicità della condizione di sdoppiamento vissuta dall’attore, il quale deve inscenare un “altro” e allo stesso tempo si interroga sulla propria condizione esistenziale in rapporto al personaggio interpretato, sul rapporto con l’altro. Secondo la sua esperienza personale, quante volte le è capitato di porre delle domande di vita a Luca-persona in relazione a Luca-personaggio appena interpretato? È qualcosa che l’ha aiutata a capire meglio se stesso e il mondo oppure no?

Assolutamente no, non mi capita mai perché sono due mondi completamente diversi: Luca è Luca sempre anche quando sono sul palcoscenico e interpreto un personaggio. Rimango sempre io e perfettamente cosciente di essere Luca, non mi sdoppio mai. Rispetto le opinioni di tutti, ma credo che chi alla fine di uno spettacolo si chieda “chi è”, usi tale discorso solo come specchietto per le allodole.

Gilles Deluze trovava la somiglianza tra cinema e filosofia nel fatto che “il cinema stesso è una nuova pratica delle immagini e dei segni, di cui la filosofia deve fare la teoria in quanto pratica concettuale”, intendendo la filosofia appunto come pratica dei concetti. Tutto questo per dire che la filosofia è una pratica tanto quanto il cinema e, anzi, diventa la teoria del cinema stesso, perché lo concretizza in concetti. Lei, da attore, lontano dal mondo filosofico, vede lo stesso intersecarsi delle due discipline? Perché?

Non saprei, credo dipenda fortemente dai temi trattati da un film piuttosto che da un altro. Ovviamente ci sono dei film e dei lungometraggi che vengono fatti apposta per fare riflettere e per innescare un ragionamento filosofico, ma sono sicuramente una minoranza vista da un pubblico di nicchia.

Tutti insieme appassionatamente, musical contro la guerra con, sullo sfondo, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Un musical che vuole lanciare un messaggio positivo: una grande storia d’amore e il sorriso di sette bambini come antidoto alla guerra. Quali sono i punti di forza di questo popolare spettacolo che vuole celebrare il desiderio di riunirsi ‘tutti insieme appassionatamente’ a teatro trasmettendo serenità, speranza e passione?

Il punto di forza è sicuramente il concetto di famiglia che oggi, secondo me, è l’unico reale punto di riferimento rimasto per i giovani. Io sono di un’altra generazione, direi molto più fortunata di quelle di oggi, perché abbiamo avuto la possibilità di avere tanti punti di riferimento: c’erano i grandi sportivi, i grandi gruppi rock, i grandi politici, i grandi attori…eravamo ricchi in ogni campo. Oggi, invece, i grandi politici non ci sono più, i grandi attori nemmeno, i grandi sportivi lo stesso e i grandi gruppi rock sono finiti, quindi qual è il punto di riferimento rimasto fondamentale e forte? Sicuramente non la chiesa, ma la famiglia. Il bello è che piano piano i giovani lo stanno capendo e ne stanno riscoprendo il valore, perché si rendono conto che in effetti fuori cosa c’è? Il nulla (a parte il mondo meraviglioso della natura), non ci sono più stili da seguire, rimane solo quello familiare di cui l’esempio dato dai genitori è fondamentale.

– Dai video che lei pubblica sui suoi profili Social traspare un Luca gioviale e auto-ironico che si sa godere la vita. È forse questa la ricetta, oltre a studio, perseveranza e gavetta, per rimanere ai massimi livelli in qualunque campo professionale?

L’unica ricetta è essere se stessi, non c’è altro modo per durare: essere se stessi nel bene e nel male. Nel mio mondo falso e ipocrita (come in realtà ormai tutti i campi lavorativi) è sicuramente difficile esserlo ma bisogna essere superiori e lavorare ognuno facendo il proprio. Certamente il tutto dipende da che persona sei perché non tutti sono altruisti, simpatici, gioviali, ma si possono trovare benissimo persone scorrette; l’importante è andare avanti come uno schiaccia sassi per la propria strada, senza fare del male a nessuno, senza prevaricare, rimanendo sempre leali.

– Che consiglio darebbe ad un giovane di oggi che voglia intraprendere un percorso artistico nel mondo odierno così sopraffatto da qualunquismo, raccomandazioni e superficialità?

Il mio primo consiglio spassionato è quello di studiare per essere sempre pronti, senza ascoltare i media che cercano di inculcare che basti fare un grande cugino o un grande cognato per diventare un attore, perché non è assolutamente così. Il secondo è quello di tenere sempre presente il confronto con l’estero, perché oggi non possiamo più pensare al paese-Italia; chi vuole fare questo mestiere deve guardare oltre i confini senza rimanere qua. Noi siamo piccoli e produciamo cose piccole e provinciali solo per l’Italia, non venendo mai esportate da nessuna parte. Ma tutto questo quanto può ancora durare? Se noi guardiamo gli altri paesi, bastano quelli intorno a noi, i francesi, gli spagnoli, gli inglesi, loro sì che viaggiano! Perché da loro l’arte è arte e rimane tale, pura, i grandi cugini rimangono grandi cugini. Molti giovani scelgono il talent come via per il successo, però io consiglio loro di vedere come va a finire la maggior parte dei ragazzi che vi partecipano: girano all’interno degli stessi programmi e vengono frantumati in breve tempo, perché non hanno un background solido costruito nel tempo; guardiamo invece a Claudio Baglioni, Zucchero, Vasco Rossi che vengono da una gavetta vera, avendo iniziato a suonare nei garage, negli scantinati, facendo un percorso lungo e faticoso prima di arrivare dove sono. Questo è il successo duraturo. Quello dei talent quanto può durare realmente? Il nostro difetto è quello di vedere nei programmi il vero talento e di cercare in essi di apparire senza essere veramente; se proviamo invece ad andare in Russia? Qui quando si parla di danza si parla solo di Bolshoi, lo stesso vale per gli attori che sono tutti grandi attori.

– Vi è una grande disparità nella percezione della cultura teatrale tra le città del Nord e per esempio Napoli, lei cosa ne pensa?

Concordo. A Napoli il teatro fa parte della città, i napoletani si mettono da parte i soldi per avere una poltrona per assistere a qualche spettacolo teatrale, sono abituati, fa parte della loro cultura. Basti pensare che quando le compagnie romane, torinesi o bolognesi devono andare a Napoli, hanno tutte paura perché quelli seduti in platea sono degli esperti veri, anche se fanno il calzolaio, il droghiere, il barbiere, a livello teatrale non li batte nessuno. Questo è anche il motivo per cui le compagnie napoletane sono le uniche in attivo, mentre nel resto di Italia si chiudono i teatri, le compagnie falliscono e agli spettacoli assiste solo un pubblico anziano, a differenza di Napoli dove vedi anche i ragazzi.

– L’ultima domanda che facciamo a tutti i nostri ospiti: cosa pensa lei della filosofia?

La filosofia c’è in tutto perché è vita!

Per parlare in assurdo la filosofia è presente anche quando devi comprare un panino al prosciutto: c’è la scelta del tipo, la riflessione sulla differenza tra uno e l’altro, il perché si usi un coltello piuttosto di un altro. La filosofia è un mondo fantastico e chi la considera inutile non sa nemmeno di cosa stia parlando, perché non riesce a vedere che la storia del pensiero è dietro ogni cosa e ne andrebbe aumentato lo studio per aiutare a sviluppare il pensiero. Ma evidentemente chi la rinnega ha paura di formare persone pensanti e cerca di lobotomizzarle anche attraverso i Social Network, perché in questo modo tu non scendi più in piazza ma ti sfoghi con un semplice post, facendo, così, il loro sporco gioco. Mi auguro che tutto questo prima o poi sparisca e che la gente, soprattutto i giovani, capiscano che è molto meglio ritrovarsi al tavolino di un bar per discutere e cercare di cambiare le cose.

Le parole di Luca Ward, in questa intervista, sono rivelatorie di un mondo che sempre più si basa sull’apparenza e sull’esistere piuttosto che sull’essere. Occorre riflettere sul concetto di Arte e sulla persona che la interpreta per vocazione, l’Artista, arrivando a capire che essere artisti non significa per forza essere solo speciali, famosi, conosciuti e riconosciuti, ma vuol dire fare un lavoro di studio, fatica, disciplina e passione, come qualunque altro lavoro; però ciò che può fare la differenza tra questo mestiere e uno più ‘consueto’ è la persona che lo svolge e il modo di approcciarsi ad esso: la semplicità di essere Artista, i valori che gli appartengono possono distinguere un vero artista da una meteora pronta a sparire.

Ancora più evidente è che essere Artisti non è da tutti e non è per tutti.

Il vero artista è chi ha la consapevolezza del mondo per poterlo interpretare ogni volta in modo diverso; è colui che, a volte, prende le distanze dalla vita per poterla oggettivare e raccontare agli altri, riunendo il tutto nel suo sguardo o nella sua voce o nei suoi movimenti.

L’Artista vero è quello che conosce il sacrificio e il valore del rispetto del lavoro altrui che gli ruota attorno ed è in grado di stare al livello degli altri sentendosi a proprio agio.

Occorre essere sempre critici, prudenti e obiettivi quando si parla di Arte, per non rischiare di semplificarla e banalizzarla. Allo stesso modo è necessario porre attenzione nello scovare l’artista vero, colui per cui onore e successo sono indifferenti perché l’unica cosa che conta è l’arte per cui si sacrifica.

 

Esistono due modi per non apprezzare l’Arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell’apprezzarla con razionalità.

Oscar Wilde

 

Valeria Genova

[Immagini di proprietà di Luca Ward]

 

Invece che questuare la politica

Sempre più spesso ci si affida alla politica per la risoluzione di problemi essenziali (addirittura a volte non semplicemente chiedendo ma pretendendo tale risoluzione) – sintomo di uno spaesamento generale che innalza la richiesta di pater familias. Ma una simile richiesta, pretesa, supplica è giustificata? La politica può e/o deve soddisfarla?

Innanzi tutto, per avere almeno una chance di soddisfarla i politici dovrebbero essere degli uomini di cultura e pensiero, cosa oggi sempre più rara, basti notare la pochezza culturale e la piattezza argomentativa di molti di loro.

Ma soprattutto, i politici non possono e non devono soddisfare quella questua di senso, perché la politica – che evidentemente prendo qui in termini istituzionali – è mera amministrazione dell’esistente.

L’amministrazione è il tratto distintivo della politica. Esattamente a questo si riferiva la Arendt in Vita Activa quando comparava il modello politico antico con quello moderno. La teorica della politica notava infatti come nelle poleis la vita domestica, da lei definita come “sfera privata”, era nient’altro che gestione delle necessità biologiche per la sopravvivenza, oikonomia nel senso di amministrazione della casa, mentre la vita pubblica, che si esercitava in quello che lei definiva come “spazio pubblico”, era la sede deputata al perseguimento dell’eccellenza, e l’eccellenza non è amministrabile, è al di là di qualsiasi amministrazione – en passant, ecco il perché del disprezzo per gli schiavi nell’antica Grecia: essi preferiscono aver salva la vita rinunciando al perseguimento dell’eccellenza, possibile solo per gli uomini liberi, anziché rischiare di perdere la vita nel ricercare quella libertà che è conditio sine qua non per il perseguimento di qualcosa di eccellente, e in quanto tale degno di essere ricordato dalle future generazioni. Successivamente (attraverso uno sviluppo per la Arendt imputabile sostanzialmente al cristianesimo ed al marxismo), la politica ha assunto i caratteri che erano in precedenza della sfera privata, trasformandosi in ciò che la pensatrice tedesca chiama il “sociale”, divenendo così mera amministrazione dell’esistente; ed ecco che scompare dal mondo un luogo deputato al perseguimento dell’eccellenza.

A questo punto possiamo chiederci: perché mai la politica come amministrazione non è in grado di affrontare le questioni essenziali?

In sintesi, per almeno due ordini di motivi, uno generale ed uno particolare.

In generale, perché l’amministrazione delle cose lascia le cose essenzialmente come sono: non inserisce fratture nel divenire, non muta l’ordine stabilito delle cose, essendo anzi essa stessa a definirlo, non permette che si diano deviazioni, anomalie, differenze, anormalità ma le riconduce a sé amministrandole; invece, perseguire un’eccellenza, ovvero mettere al mondo il proprio talento, significa proprio eccedere l’ordine stabilito delle cose.

Nel particolare, perché la specifica forma di amministrazione di oggi è dettata dalla razionalità strumentale, esito di un certo rapporto che intratteniamo con la tecnica. Ovvero, è un’amministrazione informata dal criterio della pura efficienza, dell’efficienza per l’efficienza – che in quanto tale, si badi, è efficienza cieca. Prova ne sia il fatto che i politici si vantano di essere efficienti, ad esempio nell’amministrazione di una città o di un Paese, e criticano chi appare non tale.

Eppure, di un’amministrazione c’è pur sempre bisogno. Infatti, cercando di integrare il discorso della Arendt, si può affermare come anche l’antico spazio pubblico fosse retto da un certo tipo di amministrazione. E allora come si può uscire dalla problematica di un’amministrazione senza la quale non si può stare e che però al tempo stesso tende ad impedire l’eccellenza che si dà nella messa al mondo del proprio talento?

Con un tipo speciale di amministrazione, che sia finalizzata alla creazione di luoghi e tempi, contingenze, propedeutici alla realizzazione del proprio talento. Ma come sviluppare un simile tipo di amministrazione?

Assolutamente non chiedendo, pretendendo o implorando che i politici facciano ciò (e così mi ricongiungo all’inizio di questo breve articolo). La politica si può orientare alla realizzazione di talenti solo se e quando le persone, in primis, vivono il proprio talento. Nel Simposio Platone afferma che tutti gli uomini nascono gravidi ma che solo alcuni riescono a sbloccare la propria gravidanza. Bene, coloro i quali partoriscono il proprio talento non vi riescono certo perché un politico, o chi per lui, lo ha fatto in loro vece. Il parto di qualcosa che è dentro di sé avviene sempre in prima persona, o non avviene affatto. E se ciò avviene su larga scala, la politica si adeguerà a tali circostanze: l’amministrazione amministra quel che trova da amministrare.

Invece che questuare la politica, dunque, ci si dovrebbe dedicare alla coltivazione di se stessi. I problemi che emergono nella politica odierna non sono altro che il frammento terminale di una mancanza ben più originaria: artisti e pensatori che accettano di non essere tali, poeti che non poetano, filosofi che non filosofano…

Ma per riuscire a realizzare ciò per cui si è nati – quindi, tanto per farlo quanto per non illudersi che lo si stia facendo solo perché i risultati sociali possono essere buoni e/o perché si sta facendo qualcosa di eccentrico – l’inaggirabile punto di partenza resta sempre il socratico gnothi seauton, conosci te stesso.

Impresa ardua sempre, soprattutto nell’epoca della dismisura strumentale e mediatica.

Federico Sollazzo

[Immagine: Google Immagini]

Balotelli, l’ultimo dei romantici

Ieri sera si è giocata Udinese Milan, prima da titolare nella sua nuova avventura al Milan per Mario Balotelli, figliol prodigo atterrato a Malpensa questa volta con l’etichetta di oggetto misterioso, e subito sotto, sulla confezione regalo, un’altra scritta che recitava “last chance”, con tanti saluti da Liverpool.

A Mario bastano però solo cinque minuti per riaccendere la luce sul palcoscenico della sua carriera. Punizione dai venti, venticinque metri. Rincorsa corta e destro potente a girare, con la palla che finisce la sua corsa nell’angolo alto alla destra di un Karnezis immobile.

Io non sto seguendo la partita e vedo il replay del goal su internet praticamente in diretta e mi chiedo: è questo un momento-Mario? È un (altro) punto di svolta nella breve ma già abbondantemente ondivaga carriera di Balo? Cosa significa questo bellissimo goal? È giunta finalmente la redenzione, la maturità personale e calcistica che tutti si aspettavano da lui? Oppure non significa niente e sarà solo un altro fuoco di paglia, con i giornali che si scaglieranno sulla prima bravata del numero 45, e l’inizio di una nuova stagione deludente e tormentata?

Queste domande me le sono fatte io ma penso se le facciano un po’ tutti gli amanti del calcio, tifosi milanisti in primis. Per me è stato un altro tassello della mia storia d’amore travagliata con Super Mario, sbocciata in tenera età -di entrambi- tifando Inter. Il gol all’Udinese è una rete da fuoriclasse (come si chiamavano una volta), di un fuoriclasse che spesso si dimentica di esserlo, per molti motivi difficili da rintracciare e spiegare compiutamente da gente che non abbia uno straccio di laurea in psicologia. E allora cosa è andato storto e cosa nel verso giusto nella carriera di un giocatore capace di far innamorare e farsi odiare in egual maniera? Un calciatore che al giorno d’oggi divide -in Italia sì, ma chiedete anche in Premier- come pochi altri. Ne faccio esperienza quasi quotidiana con i miei amici: chi lo incensa e chi lo definisce sopravvalutato, spesso per partito preso più che sulla base di dati oggettivi; e come in ogni storia di alti e bassi talvolta prevalgono gli uni, talaltra i secondi. Dipende da dove tira il vento e dove tira lui.

Ho scritto nel titolo che Balotelli è l’ultimo dei romantici e intendo sia in senso letterario che calcistico. Se la vita di Mario fosse un libro sarebbe sicuramente un Bildungroman (romanzo di formazione) di metà Ottocento, alla Foscolo o Goethe, bello lungo, nel quale però a metà racconto questa benedetta formazione non pare arrivare; o meglio sembra si arrivare ma non arriva mai.

Anche perché Mario a 25 anni di vite ne ha vissute già fin troppe: dall’affido alla famiglia Balotelli a Brescia da parte dei genitori ghanesi, alle giovanili nel Lumezzane e all’esordio in Seria A a 17 anni con l’Inter. Da lì non è più stato un giocatore normale. Grandissimo talento controbilanciato da problemi comportamentali dentro e fuori dal campo che dividono l’opinione pubblica. Mario è un caso quando subisce insulti razzisti dai tifosi, quando gioca male o quando reagisce a provocazioni in campo. I media contribuiscono montando storie su ogni cosa che lo riguardi. Diventa così ancora giovanissimo un’icona e uno dei personaggi più chiacchierati e discussi del panorama sportivo e non solo. Vive di alti e bassi, momenti esaltanti alternati a periodi bui e bravate, sempre puntualmente rinfacciategli da giornali e tifosi. Ma la storia di Mario è fatta di montagne russe, vittorie, fallimenti, grandi occasioni buttate e nuove occasioni da sfruttare. Per questo mi sento di paragonarlo all’archetipo dell’antieroe letterario, in balia della sua personalità contrastata, che rischia di oscurarne il talento, e delle alterne fortune. Romanzescamente fa’ fortuna, vince (Inter e Man City), ma poi cade e delude. C’è sempre chi è pronto a scaricarlo e chi a dargli una seconda possibilità.

In un calcio moderno di star e giocatori fisicamente perfetti, automi strapagati e duri da incrinare, Balotelli incarna il ruolo del giocatore-divo nella sua versione piena di contraddizioni, prima personali-caratteriali e dunque calcistiche. Coniuga le due facce della medaglia come pochi negli ultimi decenni. Rare volte si era vista una giovane promessa così frequentemente sul punto di esplodere, ma puntualmente tornata sui suoi passi. Un giocatore dal potenziale che a inizio carriera non si faticava a definire illimitato. E come tutte le cose vaghe e indefinite, come diceva Leopardi, questo eterno incompiuto ci stuzzica assai. Moltissimo si è scritto e detto sul talento inespresso e sulle potenzialità del giocatore Balotelli che andando avanti nella sua carriera è sempre più diventato un facile bersaglio se le cose andavano male e un nome da titolone in caso contrario. Romantico quindi perché in conflitto, con se stesso e col mondo; e perché anche il suo modo di giocare -da molti criticato soprattutto tatticamente- è prettamente figlio dell’emozione, della voglia di stupire e confermare prima di tutto a sé che non è un giocatore normale. Colpi estemporanei, imprevedibili e incalcolabili che stonano con i tatticismi ad oltranza odierni. Goal di stordente forza mista a bellezza: vedi i due contro la Germania nella semifinale degli Europei del 2012; altro momento-Mario, forse il punto più alto finora della carriera di Balotelli, e la sera nella quale ho pensato che si finalmente era arrivato il SUO turno. Lì doveva spiccare il volo, ma anche quel momento durò una notte.

Veniamo al problema di fondo che ci pone di fronte il ritorno di Balo al Milan, dopo un’annata molto deludente al Liverpool, e il suo primo goal in Seria A 2015/2016. Può Mario Balotelli, ultimo discendente della tradizione romantica trovare un suo posto nel mondo del pallone di oggi o rimarrà un anacronismo, un giocatore dalle gesta folgoranti, ma in definitiva impalpabile? E se un posto per lui c’è, e fidatevi che c’è, come fare per ottenerlo e tenerlo stretto. A parer mio Mario non può né dovrà rinnegare la sua natura, bensì bisognerà inserirlo in un contesto diverso, che lo protegga, valorizzando i suoi colpi all’interno di un sistema di gioco che non gli richieda di improvvisare sempre, ma senza negarglielo a prescindere. Lui deve solamente avere di nuovo voglia di dedicarsi al calcio e trovare costanza di rendimento e fiducia, tutto il resto viene dopo. Perché come disse un mio caro amico: “Non venitemi a dire che Balotelli è scarso”.

Io, comunque vada, continuerò a seguire le gesta di Mario sperando trovi finalmente la zolla giusta perché, in fin dei conti, che gusto c’è a stare dalla parte di chi vince sempre?

Tommaso Meo

[immagine tratta da Google Immagini]

Il pifferaio magico

Chi non conosce la storia del pifferaio magico? Beh, io ne ho incontrato uno.
Ma partiamo dalla famosa fiaba.
C’era una volta un uomo con un piffero che si presentò ad Hamelin, in Bassa Sassonia, per proporsi di disinfestarla dai ratti che la occupavano. Avuto l’assenso delle autorità (e la promessa di esser ben pagato) il pifferaio cominciò a suonare. I ratti, presi dall’incanto della musica del pifferaio, lo seguirono fino al fiume e lì annegarono. Compiuto il suo dovere, il pifferaio pretese il pagamento, ma le autorità di Hamelin si rivelarono essere bugiarde ed infide e non lo vollero pagare. Il pifferaio, allora, decise di vendicarsi. Mentre gli adulti erano in chiesa, cominciò nuovamente a suonare, attirando a sé a poco a poco tutti i bambini della città che lo seguirono fino ad una caverna. A questo punto, la fiaba ha molte versioni: c’è chi la fa finire bene e chi no, ma io non voglio svelarvele.

 
Tornando a noi… poco meno di un mese fa anch’io ho conosciuto un pifferaio, e un poco magico lo era. Trascinava un carrettino colmo di strumenti musicali da lui costruiti con materiali naturali, in legno, osso, conchiglia. Principalmente pifferi e flauti di ogni forma e dimensione, di tradizione etrusca e celtica. Si chiamava Ferentz Janos (questo il suo sito: tutora.tripod.com), ed è un artista liutaio e musicista ungherese simpaticissimo che gira l’Europa da anni con la sua musica.
Affascinate dal suo carro, io e mia sorella l’abbiamo avvicinato mentre suonava un flauto nel mezzo della via principale di Pergine Valsugana, nel pieno delle Feste Medievali.

 
Ci ha mostrato ogni pezzo che aveva costruito con le sue mani, traendone suoni bellissimi, e poi, nel mezzo della conversazione, ci ha stupite con: «Io sono il vero filosofo. Non seguite gli altri, seguite me».
Sono convinta che ogni persona possa diventare consapevole di essere filosofa. Siamo tutti filosofi. Eppure, il pifferaio “magico” che ho incontrato non era d’accordo. Ci ha invitate a seguirlo, come ogni pifferaio che si rispetti farebbe. La sua musica era affascinante, melodiosa, incantatrice, come ogni musica di pifferaio dovrebbe essere. Ma noi abbiamo a sua volta stupito lui. O forse non l’abbiamo stupito, ma abbiamo intravisto come cambiare il corso della storia del pifferaio.
Abbiamo comperato un flauto. Ci siamo fatte insegnare i segreti del mestiere (o meglio, quel poco che lui voleva condividere). E poi, l’abbiamo salutato e siamo andate per la nostra strada con un pezzetto di lui. Un flauto per diventare, se solo lo vorremo, a nostra volta pifferai magici. A nostra volta “veri” (chissà) filosofi.

 

Sara Caon

[immagine di proprietà di Sara Caon]