Il dubbio nell’arte: il surrealismo psicoanalitico di Max Ernst

<p>F6EBYP Max Ernst - The Fireside Angel (The Triumph of Surrealism)</p>

Instancabile pensatore e prolifico artista, Max Ernst è una delle più eminenti personalità del XX secolo e protagonista d’una nuova e suggestiva mostra a Palazzo Reale (MI) a partire dal 4 ottobre 2022. In questo grande pittore tedesco naturalizzato francese convivono diverse sfaccettature, a partire dalla formazione filosofica che s’intreccia con la passione per la storia dell’arte e per il mondo onirico. Sotto l’influsso di De Chirico, del movimento dadaista ed in seguito di quello surrealista e dopo diversi studi su Freud e l’inconscio, inizia ad esprimere la propria vocazione artistica nei collages, nei quali convivono paesaggi onirici, figure ambigue, surreali, eterogenee.

Ernst vive tra il 1891 ed il 1976, riporta sulla propria pelle le ferite di un’epoca lacerata dalle guerre, teatri di violenza e sofferenza tanto fisica quanto psichica, che lo spingono ad immaginare una realtà inattuale, differente da quella presente da lui vissuta. A tal proposito vi sono diversi bizzarri aneddoti sulla sua vita, tra cui la sua strana passione per il mondo ornitologico nata da un episodio infantile: il suo pappagallo morì il medesimo giorno della nascita della sorellina, evento grazie al quale Ernst si convinse che l’anima dell’uccello si fosse trasferita nella neonata. Affermava persino di essere nato da un uovo d’aquila che sua madre aveva messo in un nido e nei suoi lavori appare frequentemente LopLop, una sorta di uccello supremo con cui si identificava.

Il processo creativo di Ernst trova ispirazione proprio nella capacità che i volatili hanno di abitare tra terra e cielo, facendosi trasportare da raffiche di libertà durante i loro voli. Questa metafora richiama il suo stile pittorico, eccentrico e basato su giustapposizioni di figure che prendono forma grazie ad un lessico che non può essere ingabbiato nella logica tradizionale. L’arte, per Ernst, è uno strumento che permette di scandagliare i fondali della realtà in tutta la sua arcana varietà, muovendosi sul palcoscenico della vita che mette in scena se stessa dopo essersi spogliata di quella parvenza di integrità che tenta di coprire i propri aspetti più scuri e catastrofici. L’arte è, per Ernst, ciò che permette di immergersi nel buio, andando oltre la luce; egli diceva, infatti, che «per osservare un’opera d’arte occorre aprire gli occhi, ma per comprenderla bisogna chiuderli» (A. Morandotti, Minime, 1980). Solo dopo aver scoperto il buio è possibile incontrare il dubbio; non a caso questo potrebbe essere uno dei principi cardini della filosofia, l’unico in grado di porci in ascolto di noi stessi, di fermare il flusso inesorabile del tempo comprendendo che non sempre la verità risiede nell’apparenza e nell’immediatezza. Il dubbio può mettere in difficoltà l’essere umano, in quanto lo priva delle proprie certezze, ma è l’unico modo che egli ha di accettare la vita nella sua totalità e nelle infinite possibilità che gli si presentano dinanzi, parafrasando Heidegger.

L’arte di Max Ernst incarna proprio questo principio: la vita che agisce nella sua totalità secondo la logica tradizionale ma che possiede delle venature inconsce, ambigue, oniriche che possono essere riportate sulla tela. Ed ecco che l’arte si qualifica non come la raffigurazione passiva di ciò che ci circonda, ma come un metodo di approfondimento del mondo e delle sue sfuggenti sfaccettature. Come scrive Jung nella sua opera del 1964, infatti: 

«Le idee creative rivelano il loro valore per il fatto che, come chiavi, servono a dissuggellare connessioni di fatti prima incomprensibili, e consentono quindi all’uomo di penetrare più a fondo nel mistero della vita» (C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, 2020).  

 

Elena Alberti

 

[immagine tratta da Google immagini]

banner riviste 2022 ott

Lo straniamento tra Freud e Magritte

Teorizzato puntualmente da Freud ma già anticipato qualche decennio prima da altri studiosi (per esempio Meury e de Saint-Denis) l’inconscio e la sua scoperta hanno aperto un’intera e quasi inesplorata nuova dimensione a cui gli artisti hanno cominciato ad attingere, traducendo nel linguaggio artistico anche concetti ad esso connessi come quello di straniamento.

Particolarmente noto è il legame tra il Surrealismo e le teorie psicanalitiche freudiane, ma è interessante sottolineare che qualche movimento lo si può riscontrare anche nei decenni (forse persino nei secoli) precedenti. Ad una dimensione onirica inquietante ha fatto per esempio riferimento Francisco Goya (1746-1828), che può essere emblematicamente racchiusa nella sua famosissima acquaforte Il sonno della ragione genera mostri del 1799, a proposito della quale pare che Goya stesso abbia scritto che «la fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili». Quella fantasia che dà sfogo agli orrori interiori è facilmente riscontrabile anche nelle “opere al nero” del pittore Odilon Redon (1840-1916), che traccia con carboncino o traduce nella stampa le impossibili e spesso mostruose creature che popolano il suo inconscio, fortemente suggestionato dalla sua infanzia solitaria e infelice.

Le opere di Redon tuttavia sono particolarmente interessanti perché anticipano, di quasi quarant’anni, il concetto freudiano di straniamento, Das Unheimliche, spesso tradotto come perturbante, da un saggio pubblicato nel 1919. Con questo termine Freud faceva riferimento a una sensazione di angoscia e paura generata da una situazione avvertita al contempo come familiare ed estranea. Così nelle opere di Redon cominciamo a trovare immagini che mescolano oggetti e situazioni reali calate in contesti e scenari impossibili, come in L’occhio come un pallone bizzarro si dirige verso l’infinito (litografia del 1882) scorgiamo un gigantesco occhio-mongolfiera che fluttua su una superficie marina. Per Freud il sogno è contaminato della realtà ma questa viene trasfigurata e da questo nasce il perturbante: la familiarità di ciò che conosciamo si mescola con qualcosa di totalmente altro, spesso fantasioso, mostruoso, impossibile. Proprio come questo occhio mongolfiera.

Il fascino dello straniamento è tale da ricorrere in un altro grande maestro del novecento, Giorgio de Chirico (1888-1978). Nelle sue visioni metafisiche, sospese nello spazio e nel tempo e dunque (forse) collocabili in una dimensione interiore, gli oggetti della vita diurna si combinano in modo assurdo: l’arte dunque non è altro che un gioco cosciente analogo all’involontaria attività onirica. Tante sono le opere che si potrebbero citare come spunto, per cui prendiamo un po’ casualmente come esempio Canto d’amore del 1914. Qui vi troviamo un guanto inchiodato, una testa statuaria, una sfera verde, un profilo cittadino sullo sfondo: elementi del tutto reali collocati in maniera del tutto innaturale, accostati in modo apparentemente casuale che, al primo impatto, non possono che farci aggrottare le sopracciglia.

Giungiamo dunque al Surrealismo citato in apertura, il cui Manifesto (1924) dichiaratamente esplicita il suo rifarsi alle teorie freudiane, anche se – come abbiamo ormai capito – il cammino dei surrealisti si colloca su un solco già segnato, o per lo meno abbozzato, da pittori precedenti. Tra i molteplici riferimenti a concetti freudiani tradotti in arte dai pittori surrealisti (Salvador Dalì e Max Ernst tanto per citarne due) torna inevitabilmente anche lo straniamento, il cui interprete più geniale è però a mio modesto parere il belga René Magritte (1898-1967). Ancora più che in de Chirico è evidente e impattante il perturbante, poiché le tele di Magritte si popolano di oggetti e paesaggi reali combinati in modo del tutto improbabile. L’artista ci costringe in una lotta corpo a corpo con gli automatismi della nostra mente, ci sfida ad immaginare una realtà totalmente altra. Si perde in parte la dimensione angosciosa freudiana (non a caso Magritte prende più volte le distanze dal Surrealismo) e i soggetti diventano quasi un puro gioco, un esercizio di domanda. Che ci fa una tromba in fiamme su una spiaggia? O tre giganteschi sonagli sospesi nel cielo? O un bicchiere in bilico su un ombrello aperto? O degli uomini in bombetta che piovono dal cielo? La nostra ragione è sotto scacco e dobbiamo sondare dei modi alternativi con cui “vincere” l’opera. Anche la tecnica iper realistica, quasi fotografica, adottata dall’artista cerca di strapparci dalla dimensione onirica ma al contempo anche dalla realtà, facendoci precipitare in una sur-realtà, una realtà diversa. Difficile dunque trovare una sorta di “morale” o di messaggio nelle tele di Magritte; certo è che anche il mondo a occhi aperti, oltre a quello onirico, è fatto di momenti e cose stranianti, che possono provocarci angosce, ma più la nostra mente è flessibile e allenata al bizzarro e all’imprevisto, più saremo in grado di sopravvivervi.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit: immagine quadro di Magritte da flickr]

abbonamento2021

Ad occhi aperti o chiusi, l’importante è sognare

A volte ci dimentichiamo di sognare, e non perché non pensiamo più al futuro, ma perché siamo troppo occupati ad organizzarlo, programmarlo e scandirne le tempistiche. Sembra quasi che il tempo di fantasticare abbia una scadenza specifica nella vita di ognuno di noi: si smette perché “non c’è più tempo” e quindi gli unici sogni che ci permettiamo sono quelli che iniziano quando spegniamo la luce. Tuttavia, sarebbe davvero ingiusto declassare i sogni notturni a strane immagini caotiche dopo secoli di ricerche. Nel II secolo, i Greci manifestavano grandissimo interesse nei confronti dei sogni, ritenuti in grado di predire il futuro, se uniti alla simbologia. Proprio per questo, la figura dell’interprete dei sogni era considerata quasi sacra e godeva di grandissimo rispetto. Tra questi, uno dei più conosciuti fu Artemidoro di Daldi, scrittore e filosofo che dedicò la sua vita a studiare e riportare nella sua opera Onirocritica1 i sogni di centinaia di persone che si rivolgevano a lui per trovare spiegazioni. La curiosità umana di scoprire quale oscuro significato si celi dietro ai nostri sogni non si è mai spenta nel corso della storia e ancora oggi tutti noi, almeno una volta, abbiamo googlato appena svegli quei ricordi offuscati o consultato un libro, magari comprato qualche tempo fa sperando ci tornasse utile, prima o poi.

Parlando di libri e di sognare, non si può non citare L’interpretazione dei sogni2 di Freud. Secondo lo studioso, i sogni sono una sorta di pulsione che ci spinge verso l’appagamento del desiderio, la ricerca di qualcosa che non ci è concesso quando il Super Ego è vigile. Anche durante la fase REM, ossia quando il sonno è più profondo e quando i sogni si manifestano, continua il conflitto tra il principio primario (il piacere, l’inconscio) e il principio secondario (la realtà, la razionalità) che ci impedisce di fare sogni chiari e riconoscibili. Sembra quindi che la notte sia il momento che ci concediamo per lasciare che tutti i nostri istinti, desideri e segreti escano allo scoperto, o almeno in parte. Spesso ci capita di svegliarci pieni di domande: “perché ho sognato questa persona?” o “cosa ci facevo in quel posto?”; altre volte con un po’ di imbarazzo ci chiediamo se forse non abbiamo mangiato troppo pesante la sera prima; altre ancora siamo semplicemente molto confusi e dimentichiamo quelle immagini psichedeliche in un paio di minuti.

La corrente artistica che ha come nucleo «la fede nell’onnipotenza del sogno»3 è il Surrealismo. Nel Manifesto pubblicato nel 1924, lo scrittore Breton, oltre a fare esplicito riferimento a Freud e ai suoi studi, scrive: «perché allora non accordare al sogno ciò che a volte rifiuto alla realtà, ossia questo valore di certezza in se medesima che, nella sua temporalità, non è affatto esposta alla mia negazione? […] Non può anche il sogno essere utilizzato per la soluzione dei problemi della vita?». Il Surrealismo, definendosi «un mezzo di liberazione totale dello spirito e di tutto ciò che lo rassomiglia»5, aveva l’obiettivo di esprimere figurativamente l’inconscio e l’irrazionale automaticamente, senza mediazioni. Potremmo quasi dire che i pittori cercavano di rendere il sognare realtà.

Un altro modo, non sempre facile, per trasformare i sogni in realtà è quello di realizzarli nel corso della nostra esistenza. Quando siamo piccoli dedichiamo tanto, tantissimo tempo a fantasticare su come sarà la nostra vita, il nostro “lavoro”, le nostre amicizie e le nostre relazioni. C’è chi sogna di rimanere sempre nello stesso paese e chi non vede l’ora di scoprire tutto quello che il mondo ha da offrire; chi ha in mente un progetto ben preciso e chi non esclude alcuna possibilità. Eppure, a un certo punto, ci ritroviamo a percorrere un percorso che non ricordiamo di aver scelto o ci sta troppo stretto. Se c’è una cosa positiva che la pandemia ci ha concesso (almeno all’inizio) è la chance di fermarci e domandarci se quello che stiamo facendo corrisponde davvero a ciò che sognavamo in principio o se stiamo solo andando avanti per inerzia con il terrore di perdere preziosissimo tempo. E se siamo così fortunati da poter scacciare i nostri dubbi, allora perché non lasciare la nostra immaginazione libera di sognare ancora, senza restrizioni o limiti autoimposti? In fin dei conti, citando Paulo Coelho, «c’è solo una cosa che rende un sogno impossibile da realizzare: la paura di fallire»6.

 

Beatrice Pezzella

Beatrice Pezzella, classe 2000, studia Scienze della Comunicazione all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, dopo aver frequentato il Liceo Linguistico a Treviso. Amante della lettura, dell’arte, dei viaggi e della cultura in generale, nel tempo libero scrive riflessioni su temi ispirati alla quotidianità e al mondo che la circonda.

 

NOTE:
1. Artemidoro, D. del Corno (a cura di), Il libro dei sogni, Adelphi,  Milano, 1975, 7ª ediz., pp. LVIII-366
2. S. Freud, L’interpretazione dei Sogni, Einaudi, Torino, 2014
3. A. Breton, Manifesto del Surrealismo, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 340
4. Ivi, p. 329
5. M . De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 181
6. P. Coelho, L’Alchimista, La nave di Teseo, Milano, 2017

[Photo credit Johannes Plenio su unsplash.com]

Razionale + inconscio: il sur-realismo un secolo dopo

I primi trent’anni del secolo scorso hanno prodotto dei movimenti artistici di cui si parla col termine, tratto dal lessico militare, di Avanguardie Storiche, che indica il carattere progressivo spesso provocatorio dell’arte prodotta da tali correnti, un’arte innovativa da un punto di vista stilistico che promuove un rinnovamento sostanziale del linguaggio. Le Avanguardie Storiche, ovvero Futurismo, Espressionismo, Dadaismo e Surrealismo tra le altre, introducono nell’arte e nella letteratura di inizio Novecento una svolta, una frattura rispetto al passato ponendosi in opposizione tanto al Naturalismo e alla sua concezione dell’arte come riflesso oggettivo della realtà quanto all’Estetismo con la sua aristocratica chiusura nella contemplazione dell’Io o nel vagheggiamento di una vita intesa come opera d’arte. Le Avanguardie condividono inoltre il carattere totale dell’arte ossia la contaminazione di tutte le arti (pittura, letteratura, teatro, musica), un’idea di arte intesa come produzione materiale di oggetti e sperimentazione di tecniche quali réclame, happening, spettacolo provocatorio e una concezione dell’arte come opera di una collettività in costante scambio di esperienze con altri gruppi; centrali poi le riviste come «Lacerba» per il Futurismo o «291» per il Dadaismo e i manifesti, riflesso di una vera e propria ideologia condivisa. 

Il primo manifesto del Surrealismo viene scritto e firmato nel 1924 a Parigi da André Breton che cita un numeroso gruppo di compagni di strada, tra cui Aragon, Péret, Soupault, Eluard, Desnos. All’atto della fondazione il Surrealismo è un movimento essenzialmente letterario anche se tra gli amici abituali di questi poeti non mancano artisti quali Duchamp, Giorgio De Chirico, Max Ernst. Risale all’anno successivo il saggio di Breton Le Surrealisme et la peinture pubblicato a puntate sulla «Révolution Surrealiste», organo ufficiale del movimento fino al 1927. 

A distanza di un secolo quali sono i lasciti del Surrealismo? Come il Dadaismo, il Surrealismo non genera uno stile ma un atteggiamento verso l’arte: il Surrealismo nasce con una forte componente dada e anzi sembra precisare alcuni aspetti che il Dadaismo aveva prefigurato senza dar loro una struttura sistematica. Inoltre il Surrealismo come il Dadaismo si caratterizza per la “religione del caso”: il caso non viene cioè assunto solo come elemento scardinatore rispetto a un progetto ideologicamente fondato ma come elemento rivelatore che impone di prendere in esame dati che la logica tradizionale non prenderebbe in considerazione.

Centrale poi il rifiuto della tradizione e la rivendicazione di una piena libertà di espressione artistica. Rilevante in tal senso la scelta del nome Dadaismo, coniato da Tristan Tzara: sia che “dada” indichi il balbettio infantile o il gioco del cavalluccio a dondolo in romeno o la ripetizione di “sì” in russo, è una semplificazione onomatopeica, quasi istintiva, che vuole ricollegarsi alle origini del linguaggio verbale prima di ogni ideologizzazione. Quanto al Surrealismo, si pensi all’écriture automatique ovvero alla registrazione dell’intero flusso del pensiero senza limitazioni logiche, morali, estetiche: qualsiasi immagine va registrata al suo affacciarsi alla coscienza senza censure, e emblematico è il gioco nato da un esperimento di scrittura collettiva, cadavre esquis. E si aggiunga anche la definizione che Breton dà di Surrealismo nel Manifesto del ‘24 ovvero “automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere il funzionamento reale del pensiero”.

Oltre al caso ricopre grande importanza l’analogia: già Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista (20 febbraio 1909) aveva accennato all’effetto poetico dell’immaginazione senza fili ovvero una serie di immagini slegate tra loro. Breton propone sull’esempio di Lautréamont delle analogie composte da termini incommensurabili come il famoso “bello come l’incontro fortuito, su un tavolo anatomico, di una macchina da cucire e di un ombrello”. E non si tratta solo di un procedimento letterario ma anche artistico, si pensi alle immagini doppie di Dalì, ai paradossi di Magritte, alle combinazioni disparate di De Chirico.

Convinti sulla base della freudiana Interpretazione dei sogni (1899) – che iniziava a circolare nelle prime traduzioni francesi proprio agli inizi degli anni ’20 – che il linguaggio possa rivelare la psiche, i Surrealisti promuovono la ricerca del nuovo affidata all’inconscio coniugando razionale e immaginario. Centrali quindi il recupero dell’infanzia, perché età incontaminata dalla razionalità, l’amore, che consente di risperimentare l’immaginazione, e la follia, intesa come inosservanza delle regole sociali. A tal proposito è bene infine precisare che il termine che oggigiorno noi tutti usiamo, “sur-reale”, non è, almeno nella sua accezione originaria, sinonimo di “irrazionale” ma allude piuttosto a una realtà più grande non in senso metafisico ma nell’accezione di includere anche ciò che è stato escluso appunto l’immaginario, l’inconscio.

 

Rossella Farnese

 

[Immagine tratta da flickr]

copertina-abbonamento-2020_nuovo

Un viaggio nell’arte del surreale

Ogni viaggio che si compie porta inevitabilmente a delle riflessioni, siano esse in merito a un dato stile di vita oppure a ciò che vediamo per le strade e le piazze, nei musei e ovunque possa nascondersi qualcosa che stimola il nostro interesse. La visita alla città di Madrid è stata per me senza dubbio una delle più fruttuose in questo senso, specie se prendo in considerazione i suoi grandi musei, veri e propri monumenti all’arte spagnola e non solo. Ma se da una parte ciascun grande museo europeo può facilmente stimolare l’interesse e l’attenzione nei confronti di qualche particolare autore o di una specifica corrente artistica, i due principali musei madrileni, il Prado e il Reina Sofia, riescono con successo a unire le loro forze per restituire al visitatore, tra le altre cose, una sorta di compendio della pittura del surreale, o, meglio, un percorso tematico che dalle prime immagini fantastiche e visionarie assimilabili all’irrazionale conduce fino alla corrente artistica e letteraria che di questi principi ha fatto il suo manifesto, vale a dire il Surrealismo.

È il Museo Reina Sofia a offrire al visitatore un’ampia carrellata di opere dei due tra i più grandi esponenti di questa importante Avanguardia, Salvador Dalì e Joan Mirò. Profondamente influenzati dalla lettura dei testi di Freud e Jung, nonché vicini all’opera letteraria di André Breton, fondatore del movimento nel 1924, e all’opera pittorica di alcuni colleghi, in primis René Magritte e Max Ernst, essi hanno sviluppato autonomamente due poetiche dalle caratteristiche estetiche molto diverse ma dalle basi concettuali ovviamente simili.

Loro obiettivo è quello di rappresentare in pittura e in scultura visioni oniriche che volutamente non hanno alcun senso, e che sono quindi definibili come totalmente irrazionali e assurde. Tuttavia queste complesse immagini sono talvolta pregne di simboli dai connotati spesso grotteschi, che, se adeguatamente interpretati in relazione l’uno con l’altro, riconsegnano un significato non banale celato dietro l’intera composizione. La creazione di queste opere, d’altronde, avviene non senza un’ampia conoscenza alle spalle dell’autore, che, una volta assimilate le teorie della psicanalisi, consapevolmente perde consapevolezza del suo essere razionale per stimolare in sé, mediante numerose tecniche, pensieri e immagini appartenenti alla sfera dell’inconscio, i quali, elaborati con estrema libertà e disinibizione, vengono prontamente trasformati in pittura o scultura. Si ottengono così composizioni dall’aspetto straniante e assurdo, marcatamente contrapposte alle ricerche figurative dell’arte tradizionale e delle altre avanguardie storiche, tendenzialmente legate a un forte senso di razionalità (soprattutto Cubismo e Futurismo).

Va detto, però, che nella storia dell’arte occidentale non mancano alcuni rari ed eccezionali episodi di manifestazione dell’irrazionale e dell’inconscio precedenti all’esperienza surrealista, e proprio a Madrid, spostandosi di qualche centinaio di metri dai capolavori di Mirò e Dalì, si trovano alcuni degli esempi più eclatanti in questo senso, capolavori pittorici dalle caratteristiche uniche, conservati all’interno del Museo del Prado.

Il capostipite, il precursore inconsapevole del surreale nella pittura figurativa è senza dubbio Hieronymus Bosch, artista fiammingo attivo tra la fine del Quattrocento e il 1516, anno della sua scomparsa. Al Prado sono presenti alcuni dei suoi maggiori capolavori, primo tra tutti il Trittico delle Delizie, che quanto a figure surreali, scene assurde e immagini fantasiose riesce sicuramente a superare persino l’estro unico e irripetibile di Salvador Dalì. Quel che si para di fronte agli occhi dello spettatore è un ampio giardino popolato da decine e decine di figure in preda al delirio, al piacere più sfrenato, alla follia. Alcune creature mostruose o animali dalle proporzioni totalmente irreali accompagnano il grande turbinio che anima la composizione e il tutto è condito da numerose scene che vanno da quelle di un erotismo deviato presenti nel pannello centrale a quelle apocalittiche del pannello laterale.

Se confrontato con le opere di Dalì, questo dipinto può facilmente essere indicato come un’anticipazione dei soggetti del Surrealismo. Tuttavia l’opera è una grande allegoria di difficile interpretazione, spesso indicata come rappresentazione dei vizi umani, e pertanto ha poco a che vedere con la poetica surrealista del Novecento: le immagini presenti nel dipinto hanno esclusivamente funzione simbolica e, nonostante siano frutto di una fervida e invidiabile immaginazione, non possono essere del tutto assimilate alle immagini dell’inconscio presenti nelle opere dell’Avanguardia, caratterizzate da un forte taglio individuale, strettamente legato alla personalità dell’artista.

Le stesse considerazioni possono essere fatte sul più grande dipinto esistente del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio, la Festa di San Martino (anch’esso al Prado), inclemente raffigurazione della bestialità umana che risente della lezione di Bosch. Questi capolavori presentano immagini irrazionali, grottesche e di straordinaria visionarietà, che tuttavia fungono da mezzo per trasmettere messaggi razionali e in genere condivisi dal contesto culturale nel quale essi sono stati creati. Di conseguenza, nonostante la loro vicinanza estrema alle opere del Novecento del Museo Reina Sofia per quanto riguarda l’approccio alla visione surreale, mostruosa ed estraniante, è il tipo di lettura e, dunque, il loro fine ultimo a decretare una distanza in realtà incolmabile con i capolavori della corrente surrealista.

Altro discorso invece va fatto per la serie di 14 dipinti noti sotto il nome di Pitture nere, realizzati da Goya nei suoi anni estremi (1820 circa) e originariamente eseguiti ad olio sulle pareti della sua casa (la “Quinta del sordo”). Trasportati poi su tela alla fine dell’Ottocento, sono oggi visibili tutti insieme in una sala loro dedicata all’interno del Museo del Prado. Eseguiti in un’epoca in cui già esisteva una marcata sensibilità nei confronti dell’irrazionale e dell’onirico, questi dipinti rappresentano forse il vertice insuperato e insuperabile dell’arte del surreale, in quanto autentiche e pure rappresentazioni delle spaventose visioni del vecchio Goya, ormai sempre più vicino alla fine dei suoi giorni. Rappresentazioni macabre e visionarie, frutto dei terrificanti pensieri dell’autore, incubi a occhi aperti, caratterizzati dal medesimo caos disturbante che regna nei nostri sogni più ambigui e ansiogeni, una vera e propria trasposizione materiale dell’inconscio dell’artista, da lui gestito con lucidità e sincerità, senza le inibizioni e le censure imposte all’operato degli artisti quando non lavorano per sé stessi.

Mancano qui le immagini fantasiose e surreali di Dalì e Mirò, ma, d’altro canto, a essere surreale è l’umanità che vi è rappresentata, l’atmosfera generale in cui queste scene sono pensate e il significato stesso delle raffigurazioni. Nessuno prima di Goya si era davvero avvicinato così tanto alla poetica e ai concetti che il Surrealismo avrebbe manifestato circa un secolo più tardi. Tuttavia, qui c’è qualcosa che va addirittura oltre: non vi è alcuna sovrastruttura culturale dietro queste opere, nessuna lettura freudiana, nessuna intenzionalità, ma un uomo solo di fronte al proprio destino, con le sue paure, le sue debolezze, il suo mondo interiore.

Nulla di più coerente e significativo per concludere un viaggio all’insegna dell’irrazionale e dell’inconscio, che unicamente nella capitale spagnola può trovare così numerosi e straordinari spunti di riflessione.

 

Luca Sperandio

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

copertina-abbonamento-2020-ultima

 

“Orecchie”: la riscossa del cinema italiano

In una stagione cinematografica a dir poco altalenante, il cinema italiano ha dato finora ben pochi segnali di vita sia a livello artistico che economico. Con l’arrivo del mese di maggio però la situazione sembra destinata a cambiare: sono diversi, infatti, i titoli degni di nota presenti in sala in queste settimane che rischiano però di passare inosservati senza un buon passaparola che li promuova. Basti pensare al caso dell’eccellente documentario di Michele Rho, Mexico! Un cinema alla riscossa, uscito in appena sette cinema in tutta Italia. Una sorte che purtroppo rischia di ripetersi anche per Orecchie, il nuovo film di Alessandro Aronadio, presentato in anteprima, lo scorso settembre, alla settantatreesima Mostra del cinema di Venezia.

Prodotto da Biennale College, Orecchie è uno dei lavori più originali di quest’annata cinematografica. Un road-movie pedestre, fortemente caratterizzato da un’intelligente vena comica e da situazioni a dir poco paradossali. Tutto ha inizio una mattina con il suono di un fastidioso fischio alle orecchie percepito da Lui, un uomo sull’orlo di una crisi esistenziale, costretto a intraprendere un indimenticabile viaggio a piedi attraverso le strade di Roma per scoprire l’identità di Luigi, suo fantomatico amico, venuto a mancare poche ore prima. Partendo da una sceneggiatura impeccabile, dove i tempi comici e narrativi sono calcolati alla perfezione, Aronadio costruisce la sua odissea capitolina valorizzando le impareggiabili eccentricità di un’umanità tanto singolare quanto grottesca. Enfatizzando le nevrosi che caratterizzano buona parte del nostro tempo, Orecchie racconta con leggera intelligenza quel senso di inadeguatezza che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita. Il disagio provocato dal sentirsi inadatti traspare tutto negli occhi espressivi e stralunati di Daniele Parisi, straordinario interprete intorno a cui ruotano una serie di indimenticabili personaggi secondari, su cui svettano Rocco Papaleo (in versione sacerdote fuori dagli schemi) e Piera Degli Esposti, nel ruolo di una direttrice sagace e senza scrupoli.

Pur nella sua semplicità, Orecchie colpisce nel segno perché è un prodotto che mancava da tempo al nostro cinema. Grazie ad alcune trovate stilistiche piuttosto raffinate, come l’utilizzo dell’immagine ristretta dello schermo che si allarga di pari passo con il procedere della storia, fino al tema del surrealismo come chiave interpretativa del nostro presente, Aronadio regala al pubblico un film delicato e prezioso, in cui si ride di gusto ma allo stesso tempo si riflette su sé stessi e sulle proprie paranoie. Il fischio alle orecchie diventa così metafora di un malessere contemporaneo che si può curare solo lavorando su noi stessi e sull’accettazione di un presente dominato sempre più dall’assurdo. “Secondo lei c’è ancora speranza per il mondo?” E’ la domanda che apre il film. La risposta, categorica, è un secco “No”. Alla fine della proiezione di Orecchie, invece, provate a chiedervi: “C’è ancora speranza per il cinema italiano?” La risposta potrebbe lasciarvi piacevolmente sorpresi.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google immagini]

 

banner-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia

 

Claude Cahun: le mille identità di un’eroina non convenzionale

Il rifiuto per ogni categoria che limita e vincola l’individualità e il suo mutare nel corso del tempo è il filo conduttore dell’opera di Claude Cahun.

In un fotomontaggio creato da Cahun e incluso in Aveux non avenus questo si fa chiaro attraverso le immagini e i simboli che l’artista sceglie. Tre embrioni campeggiano nella parte superiore del lato destro del foglio come a voler simboleggiare lo sviluppo e la crescita dell’essere umano. Su di essi si staglia una piccola piramide in cui compare un’ipotetica famiglia unita fisicamente da un cordone ombelicale. Il padre solleva il figlio tenendolo per i capelli e una piccola bandiera con la dicitura “la sainte famille” ci aiuta a comprendere come un’avversione dichiarata nei confronti dell’istituzione tradizionale della famiglia e della sua gerarchia implicita sia al centro di quest’opera dell’artista francese.

Claude Cahun, Self Pride 1929-1930

Claude Cahun, Self Pride 1929-1930

Proprio sotto a questa costruzione piramidale, troviamo un triangolo nero e all’interno tre autoritratti di Claude in maschera, in netto contrasto con la triade della “santa famiglia”, formata da padre, madre e bambino. Tra la piramide e il triangolo con gli autoritratti troviamo una statua priva di testa, dal cui ombelico cresce un albero di rami: su ogni ramo si può trovare una parte del corpo dell’artista, un chiaro riferimento ai cinque sensi.

Nell’angolo a destra un embrione sembra diventato un feto e sotto una sovrapposizione di autoritratti in maschera dell’artista dà vita a una nascita, la nascita di Claude. Evidenziando gli occhi in un primo momento e poi la bocca, la scritta “Sous ce masque une autre masque. Je n‘en finirai pas de soulever tous ces visages”, ci aiuta a fare chiarezza sull’intento di questo fotomontaggio.

Un’identità in costruzione o in dissoluzione? Claude Cahun, un’artista dalle mille forme, che ama il dinamismo e il movimento: dei corpi, delle idee e della vita. È la sua avversione nei confronti della staticità che le permette nel corso degli anni di confrontarsi con più forme artistiche, così diverse una dall’altra, ma tutte necessarie per un’espressione artistica che non tralasci neanche un aspetto della propria personalità. La scrittura, la fotografia, il teatro: tutte modalità che le permettono di concedere solo una parte di sé, un fotogramma che però non basta per comprendere la complessità della personalità e della storia che si cela dietro quel volto. Un volto che compare in quasi ogni opera, il più delle volte mascherato, truccato, travestito. Il viso che viene coperto per scoprire, un’autenticità che è stata negata, qualcosa di travagliato che l’artista vuole portare alla luce attraverso l’uso sapiente di un obiettivo che diventa una superficie riflettente, uno specchio. Dietro una maschera se ne trova un’altra e così via: l’identità è forse una chimera, il sé viene concesso un po’ per volta e mai del tutto.

Un rifiuto netto nei confronti della famiglia borghese, dettato probabilmente dalle sue vicende autobiografiche, fa di Claude Cahun un’eroina contemporanea.

Uno spirito anticonformista, animato da una voglia di ribellione e dal desiderio di affermare la propria individualità attraverso il rifiuto di ogni istituzione, convenzione o categoria che possa in qualsiasi modo vincolare e limitare la sua creatività. È proprio questo anticonformismo insieme alla curiosità e all’amore per l’arte a spingere Claude lontano dalla sua famiglia e dalla sua città di origine, Nantes.

Già a partire dal nome è evidente il gioco con l’ambiguo, che accompagnerà sempre l’opera dell’artista francese. Niente viene mai lasciato al caso, ma ogni dettaglio contiene in sé rimandi ricchi di significato, racconti sempre volontariamente scelti. All’anagrafe Lucy Renée Mathilde Schwob, Claude firma le sue opere in un primo momento come Cloude Courlis, poi come Daniel Douglas, per poi approdare a quello che l’artista sentirà come il suo vero nome, un nome “neutro”, declinabile sia al maschile che al femminile e un cognome che richiama le sue origini ebraiche, la nonna paterna a cui venne affidata all’età di quattro anni, quando la madre viene internata in una clinica psichiatrica.

Sarà l’incontro con Marcel Moore, che diventerà sua compagna di vita, a regalare a Claude Cauhn la possibilità di dare voce con ancora più forza alla sua libertà creativa e a incrementare la sua figura di outsider.

Senza farne forzatamente un’anticipatrice del gender, la metamorfosi dell’individualità con la sua moltiplicazione incessante, per Claude porta inevitabilmente con sé la demolizione delle categorie di “maschile” e “femminile”, che vengono smascherate nella loro convenzionalità.

Ecco allora che l’artista si presenta negli autoritratti con un carattere asessuato, proprio perché la sessualità, come l’identità, non può essere definita, ma solo rappresentata nella sua instabilità e inconsistenza:

«Maschile? Femminile? Ma dipende dai casi. Neutro è il solo genere che mi si addice sempre».

Come riconobbe anche André Breton, poeta e teorico del surrealismo in una lettera del 1938 indirizzata a Claude, l’artista dai mille volti sembra essere dotata di un potere magico, in grado di comporre e rivelare per immagini ciò che soltanto secoli dopo troverà un corredo teorico e filosofico.

Greta Esposito

[Immagine tratta da Google Immagini]

Introduzione senza parole: “La Metamorfosi di Narciso”

Oggi ai filosofi si rimprovera di usare come oggetto d’indagine preferito il concetto di arte attribuendole una specie di missione metafisica, che le farebbe, parafrasando Heidegger “mettere in opera la verità”. Così si risente del fatto che l’arte venga sottratta dall’azione della pratica artistica, dal suo luogo, dai suoi ateliers, come un territorio di silenzio che l’analisi concettuale verrebbe a disturbare. L’arte e la filosofia sono giunte a superare l’esercizio di una “teoria estetica” dando vita ad una simbiosi, dove ciascuna ha bisogno dell’altra per comunicare. Assioma che richiama la necessità di almeno due interlocutori − non a caso, il termine “comunicare” significa in primo luogo “condividere”. Questo non vuol dire che la relazione instaurata con gli oggetti non sia comunicazione: tali relazioni non possiedano le stesse caratteristiche della comunicazione tra due soggetti, ma ne condividono parte dei processi percettivi che costituiscono qualsiasi esperienza umana.

Non approfondiremo questa riflessione, ma proporremo a partire da essa, un salto di dimensione “artistica” e “corporea”, che spieghi la scelta di un’opera, come la Metamorfosi di Narciso (1937) di Salvador Dalì. La comunicazione artistica “eccede” qualsiasi linguaggio, collocando i soggetti in una “quarta dimensione”: non solo temporale, contingente all’atto del fluire, ma piuttosto il frutto della sintesi tra creazione e osservazione. Essa è il luogo che ciascun professionista dovrebbe raggiungere per dar vita ad una comunicazione “artistica”. L’idea emerge dalla struttura del quadro, dalla coesistenza delle sue parti secondo le regole di cui non sempre si è capaci di esternare le formule. L’artista compone la sua opera rivolgendosi al potere di interpretare tacitamente il mondo e gli uomini e di coesistere con loro. La forza dell’arte è di mostrare come qualcosa diventi significato dalla disposizione spaziale/temporale dei suoi elementi. In una delle sue autobiografie, Diario di un genio Dalì scrive: «Tutti vogliono sapere il metodo segreto del mio successo: si chiama metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho inventato e lo applico con successo, benché non sappia ancora in che cosa consista. Grosso modo, si tratterebbe della sistemazione più rigorosa dei fenomeni e dei materiali più deliranti, con l’intenzione di rendere tangibilmente creative le mie idee più ossessivamente pericolose».

Metodo che applica in quest’opera, dove ripropone la trasformazione del personaggio mitologico calandolo nell’estetica e nel suo surrealismo. A sinistra del quadro si vede dipinta, con colori caldi, la figura umana di Narciso, in posizione fetale e pronto alla trasformazione. Sulla destra, con colori più freddi e con la precognizione della morte, si staglia una mano che ha le stesse forme del corpo di Narciso. Una mano tiene tra le dita un uovo dal quale nasce un fiore. Sullo sfondo una serie di personaggi, statue e figure che richiamano al Rinascimento; a cui si aggiungono elementi contrastanti, per dare sfogo all’inconscio e complicare il lavoro interpretativo dei critici.

La speranza di recuperare la condizione perduta, i tentativi di adattarsi al nuovo stato, i comportamenti familiari e sociali, l’oppressione della situazione, lo svanire del tempo sono gli ingredienti con i quali l’autore elabora la trama dell’uomo contemporaneo, un essere condannato al silenzio, alla solitudine e all’insignificanza. Da qui ne scaturisce, a mio avviso, la necessità di ritirarsi e chiudersi in un mondo tutto personale nel quale ritrovare un possibile sollievo e la negata serenità, ossia l’identità per sempre perduta. Si è incapaci di accettare le diversità, di rompere la realtà convenzionale, le abitudini di una società che rimane primitiva, ferma e ben salda su pregiudizi infondati e aberranti, che ha paura di scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa che possa scontrarsi contro i principi, molto spesso assurdi e incomprensibili, alla base della vita. Diversità non è sinonimo di follia, di malattia o di mostruosità, ma può produrre in noi la necessità di una vera e propria “metamorfosi”. Ci si trova di fronte ad un livello di significato eccedente che si pone al di là di ogni intenzione simbolica di comunicare un contenuto.

Così l’arista si trova nell’opera, nella psiche del creatore e del fruitore, intessendo un dialogo attivo con le vari sfere della cultura. L’opera d’arte in questo senso crea una struttura sociale, comunicativa ed interpersonale. Il suo messaggio (finalizzato come opera d’arte), non deve mai essere inteso come dato e dogmaticamente statico, esso è sempre una proposta, l’esempio dialogico di un lavoro creativo che comunica con il mondo e con noi.

Rosaria Iacovino

Rosaria Iacovino, nasce in Basilicata ventotto anni fa in un piccolo paesino di provincia, Castelsaraceno. Tra le sue passione c’è l’arte e la letteratura di tutti i generi, tranne quella mielosamente romantica. Ama viaggiare, conoscere usanze e posti nuovi.
Verso i quindici anni s’innamora profondamente della filosofia, un amore a prima vista, che la porta a trasferirsi a Firenze dove frequenta il Dipartimento di Filosofia, ed è prossima alla laurea in Scienze filosofiche con una tesi in Neuroestetica.
Adora scrivere sulla sua scrivania, ma presto dovrà comprarsene una nuova perché è quasi finito lo spazio sul piano di quella che ha adesso.
Sogna un domani da insegnante.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Ricetta universale dell’Arte e non solo

<p>Opera dada Prattismo Arte</p>

Per preparare l’Arte – e non solo… – mettete sul fuoco una pentola contenente abbondante Tempo che, a bollore, salerete ed idealizzerete moderatamente, in considerazione del fatto che il contesto ha già un condimento molto sapido ed ideale.

Nel frattempo tagliate gli impulsi sessuali del corpo dando loro una certa forma e spessore cosicché il desiderio non rimanga crudo, mettete il tutto in padella antiaderente, senza l’aggiunta d’amor proprio. Lasciate sul fuoco per qualche minuto, senza bruciarne l’essenza, fino a quando il desiderio diventerà trasparente e leggermente croccante. Togliete dal fuoco e lasciate intiepidire leggermente.

Rompete dei cuori in una ciotola, uno per ogni commensale più uno extra al quale togliere il senso, sbatteteli, quindi unite delle belle parole – Meglio della filosofia se ne avete in frigo – secondo gusti del pepe e dell’ego e mescolate per bene il tutto con una frusta fino ad ottenere un composto omogeneo, una sorta di crema chiamata anche Emozione, quindi mettete a cuocere il contesto.

A fine cottura, scolate e versate il contesto in una ciotola assieme agli impulsi sessuali del corpo e alle emozioni ed amalgamate per bene. Non serve far saltare ulteriormente.

L’Arte è pronta! Servite immediatamente e, all’occorrenza, aggiungete altre belle parole o altra filosofia, pepe e ego.

Questa pietanza si abbina con dell’estro di medio corpo, secco, intenso, equilibrato e all’olfatto caratteristico e con note floreali. Meglio se con bollicine cosicché risaltino al meglio le note sapide ed ideali del piatto.

Ma il personalissimo gusto di ogni commensale – compreso quello del creatore – potrebbe opporre resistenza a questo eventuale abbinamento, cosicché, nonostante sia consigliabile ricercare sempre l’estro appropriato per ogni sapore, in certi casi è possibile trasgredire la regola e dar ad ognuno la possibilità di sperimentare soluzioni secondo gusto. Quindi, in definitiva, per buona pace del creatore e di tutti i commensali si consiglia un estro dal finale aperto.

Buon appetito e non solo …

Salvatore Musumarra

Scrittura automatica surrealista – La libertà

La storia è una lunga catena montuosa che in pochi sanno valicare ma che dalla quale ogni uomo può astrarre il meglio ed il peggio che vi sia già stato su questo mondo. Dopo una lunga scorpacciata di avvenimenti storici sorge così una domanda: Cercare o creare tutto ciò che manca? Subito sovviene una risposta: In questo eterno presente ciò che più conta non è vivere appieno il desiderio bensì ciò che lo rende autentico.

Quindi, cosa dovrei farne?

Indubbiamente qualunque cosa andrebbe fatta deve essere autentica seppure non eccessivamente brutta o veritiera; invalicabile, così da poter essere spacciata come ideale ed astratta cosicché più anime possano crogiolarsi nel torpore di questa nuova fede. Si dovrebbe redarre un testo che ne enfatizzi gli aspetti e che esorcizzi la sua eventuale fine: tuttalpiù, che rendi la morte di questo nuovo ideale il fiore all’occhiello della sua eventuale resurrezione.

Dovrei pensare ad una musica composta malamente ma che possa essere eseguita egregiamente anche dal più mediocre musicista. Dovrei pensare ad un’estetica artistica di facile accesso ma di difficile ascesso: ogni buona arte getta perché nel fondo dello spirito di ogni uomo, seppure piena di errori stilistici e incongruenze anacronistiche. Dovrei, dovrei, dovrei… ecco! Il dover Fare è la mia più alta aspirazione in un mondo così affollato da incompiuti vorrei e da una frenesia libertaria, tutta umana, che usa il suo oggetto – la libertà – come strumento per debilitare il prossimo dal suo personalissimo estro, rendendolo uguale al prossimo.