Paesaggi sonori, paesaggi emotivi

Il paesaggio riguarda la vista, si dice. Lo si vede, lo si ammira, lo si ricorda, cercando di ricreare con la mente la sua immagine, appunto. Invece l’evento del ‘vedere un paesaggio’ è un’occasione conoscitiva peculiare perché per quanto possa sembrare, non riguarda affatto la vista, se non in minima parte, ma uno stato emotivo e conoscitivo ben più profondo ed eloquente.

Nella nostra modalità contemplativa interagiscono una serie di fattori in cui quello visivo non è che una parte: osservare un paesaggio ci riporta a un insieme di stimoli visivi, sonori ed emotivi, intendendo questi ultimi come una tensione tra noi stessi, la situazione, il materiale visivo che ci sta di fronte, la nostra biografia, ciò che la trascende. ‘Tensione’ non ha qui la valenza negativa di stress, di logoramento, ma di semplice attrito, reazione tra elementi distinti che si sintetizzano in una unità che ci comunica qualcosa. L’elemento che cuce insieme vista, suono e stato emotivo è proprio quello della tensione intesa in questo modo.

Non è un caso che parte della musica contemporanea si concentri nella creazione di composizioni chiamate proprio Soundscapes (che unendo le parole sound, suono, e landscape, paesaggio, formano l’espressione ‘paesaggio sonoro’). Il paesaggio sonoro non solo dà la possibilità di porre vari elementi (diversi suoni più o meno saltuari ed eterogenei) unificati in uno sfondo costante (la tonica), nello stesso modo in cui case, alberi, oggetti vari si stagliano sul terreno o sul cielo, che sono rispettivamente gli elementi e lo sfondo; ma cerca di offrire una sensazione, uno stato emotivo finale dato appunto dalla disposizione delle cose in quel modo o in quel momento, attraverso il rapporto musicale che intercorre tra gli elementi e lo sfondo tonale, che crea appunto tensione[1]. In questo modo si potrà provare e quasi vedere ciò che sperimentiamo con l’udito.

Questo stato del ‘vedere’ in cui vista, suono e coscienza si mostrano come un intreccio unico, è la totalità di ciò che si intende anche quando ed esempio vediamo un panorama e ci sentiamo compresi in esso.

Gli input da cui è possibile giungere a quello stato sono tre: una nostra disposizione, la vista di qualcosa di bello, un suono particolarmente evocativo. Ma queste non sono appunto che tre facce di un unico stato. Per questo di fronte a un panorama ci viene allo stesso tempo da restare in silenzio, o siamo in grado di pensare a una ‘musica giusta’; oppure sperimentiamo momenti particolarmente importanti a seguito di un’esperienza sonora particolare. Ricordate l’epifania pirandelliana al fischiare del treno? Il protagonista sperimenta uno stato di coscienza nuovo al suono del fischio («Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai», vista e suono, ancora in uno perché avvenga «lo spettacolo della vita»). Allo stesso modo, curiosamente, Steven Wilson nella sua Trains raccontava di rendersi conto di «morire d’amore» al passare del treno in lontananza. Il fischio lontano di un treno non è un suono casuale nel discorso che qui si tenta di fare. Il suono è altamente riverberato e la sua diffusione sottile ma ampia, rimanda subito all’apertura degli spazi esterni come quando li si ricomprende in un unico movimento dello sguardo: la mente tende subito a quel suono e così si astrae, sperimentando quasi di perdersi nello spazio enorme e vuoto in cui è cullata. Questo nuovo luogo può evocare una disposizione mentale più originaria che dà luogo a un rinnovato spazio conoscitivo lontano dagli affanni quotidiani (nel caso di Pirandello) o all’epifania nell’oppiacea perdita di senso dello stato amoroso (Wilson).

Quel senso di apertura  e di ripetizione dato al suono è una costante di celebri brani che sono particolarmente intensi nei loro risultati ‘visivi’. Si pensi ai Soundscapes di Robert Fripp, a The Sheltering Sky dei King Crimson, a molto materiale dei Pink Floyd, a A Warm Place dei Nine Inch Nails, a Lost Keys o Disposition (!) dei Tool: riverbero, delay e lunghe code riescono a creare la giusta tensione e la giusta disposizione per direzionare tutta la mente verso una «tonalità del mondo»[2], come la chiamava Heidegger, che simula il mostrarsi e l’andirivieni delle cose nel nostro spazio mentale, il loro svanire, il loro avvicinarsi e allontanarsi, il loro insistere.

Un aneddoto particolarmente interessante può fare da simbolo a tutto questo. Il re Ludwig II di Baviera, personaggio sensibile alle bellezze naturali e artistiche (di sua ideazione è il celebre castello di Neuschwanstein), fu anche grande ammiratore di Wagner e della sua musica. Dopo aver assistito a una sua opera a Bayreuth, ritornando verso il castello il re fece inaspettatamente fermare il treno nel bel mezzo delle buie campagne tedesche, in piena notte. Prese uno dei suoi cavalli e commosso e irrequieto, con ancora il rimbombo della grandiosa opera wagneriana nella testa, cavalcò per i boschi tutta la notte, fino al mattino, solo.

In questo caso vediamo come la tensione provocata dalla musica ha evocato quello stato emotivo che di gran lunga supera il semplice piacere dell’ascolto, come quello della semplice vista. Tale tensione può trovare equilibrio nel contesto giusto, in cui tensione sonora ed emotiva si congiungono e sintetizzano: nell’atmosfera misteriosa e spaesante di un bosco notturno e disabitato, al chiaro di luna. Lo spazio fisico naturale, accoglie al meglio lo spazio dischiuso dalla tensione sonora. Solo ritrovando questa unità è possibile comprendere ciò che si è provato.

Ogni suono è anche un vero e proprio luogo e ogni luogo è un sentimento. Questa strana e rara unità del percepire è ciò che in diversi modi la quotidianità ci mette di fronte a partire dal nostro semplice vedere o ascoltare. Saper cogliere in questo modo le situazioni e gli oggetti può sicuramente ben disporci verso il superamento di quel primato della vista di cui parlava Aristotele riguardo la conoscenza[3], che viene in questo modo facilmente semplificata e ci fa separare in modo troppo approssimativo il modo di cogliere le esperienze mondane. E può anche farci apprezzare di più ciò che ci sta intorno e gli stimoli che riceviamo, farci assaggiare le cose per come di mostrano, compito al quale sicuramente non siamo pienamente educati e che forse solo una mente al limite come quella del re Ludwig o del protagonista pirandelliano, può tentare di comprendere e raccontare.

Luca Mauceri

NOTE

[1] ‘Disposizione’ è in generale un’ottima parola, perché indica sia la posizione delle cose su un piano, sia l’umore, aspetti che in questo discorso stanno insieme.

[2] M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano, 2011, pp. 195-203.

[3] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2013, p. 3.

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”

Oh rete d’astri, quanta meraviglia,
contro cui il guardo uccellino s’impiglia,
mi sono fatto ardito matematico
(e astrologo e filosofo astigmatico)
pur di cader nel fosso tenebroso

Pier Franco Uliana
Siderea arx mundi, De Bastiani, 2009.

Non so se sia stata la somma di una serie di casualità o una prolifica congiunzione degli astri che mi ha portata ultimamente a riflettere sul cosmo. C’è da dire anche che i fisici di questi tempi vanno di moda ed emerge un rinnovato interesse verso la ricerca e la scienza, la quale a sua volta si dimostra sempre più generosa nell’offrirci risposte o almeno nell’indirizzare le domande giuste.
Dopo la stimolante lettura delle Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) di Carlo Rovelli – un prezioso libricino in grado di affascinare astrofili e non – e con la scusa di mettere alla prova tecnicamente la mia nuova macchina fotografica, mi ero decisa a fotografare le stelle, integrando il mio consueto peregrinaggio estivo con mete segnalate, dagli enti promotori del cosiddetto “turismo astronomico”, come buoni punti di osservazione.

Guardare il cielo stellato per distrarsi dalle brutture del mondo o per perdersi nella meraviglia dell’infinito è una possibile chiave di lettura, ma la sete di sapere è la più grande virtù dell’uomo e le stelle rappresentano le muse – in apparenza immobili e silenziose – che accompagnano colui che è desideroso di conoscere.
Esplorando gli astri l’umanità ha iniziato a smarrirsi rendendosi consapevole della sua piccolezza. Il dominio della tecnologia è solo l’illusione di avere ancora una posizione centrale nell’universo, ma d’altra parte i progressi della scienza non fanno che rimarcare la nostra imperfezione e impotenza.
Cercando di superare questa sua condizione fragile e mortale, l’uomo ha dato origine alla filosofia, alla religione e all’arte.
Ma forse è proprio questa imperfezione che ci fa sentire più vicini al cosmo e tutt’uno con l’universo, concetto che il fisico Guido Tonelli – protagonista insieme a Fabiola Gianotti della scoperta del bosone di Higgs – spiega nel suo illuminante libro La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016): ­«la forma delle cose nasce dall’imperfezione che ha rotto la simmetria delle origini». Da questo minuscolo difetto abbiamo avuto inizio anche noi.

Se però analizziamo da un punto di vista etimologico la parola cosmo, vediamo come non ci sia nessun riferimento all’imperfezione, anzi, essa deriva dal greco κόσμος (kósmos) che significa “ordine”; la filosofia stessa è nata con la cosmologia (kósmos e lógos, quindi discorso sull’ordine) nel tentativo di decifrare l’armonia del reale.
C’è voluto parecchio tempo perché il pensiero umano imparasse ad apprezzare anche la disarmonia e l’errore e l’arte ben esemplifica questo percorso. Pensiamo alla bellissima volta celeste di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il cielo stellato che il pittore rappresenta agli inizi del XIV secolo è una metafora dell’ordine dell’universo, un universo meraviglioso e perfetto perché si identifica con Dio. Ma di certo i cieli più emotivamente impattanti della storia dell’arte sono i notturni stellati di Van Gogh, c’è qualcosa di stridente in queste rappresentazioni che paradossalmente le rendono più comprensibili, più umane, o meglio ancora più reali, nonostante non vi sia nulla di naturalistico in esse.

Van Gogh, Notte stellata - La chiave di Sophia

Vincent Van Gogh, “Notte stellata”, 1889

Tra Giotto e il pittore olandese passano ben sei secoli, molti cieli sono stati dipinti, sognati e immaginati in questo lungo periodo: gli astri celesti hanno ispirato artisti, poeti, viaggiatori, scienziati.
Penso per esempio all’Ariosto e alla sua dote visionaria che lo renderà capace di immaginare il primo viaggio dell’uomo sulla Luna. Nell’Orlando Furioso questa viene descritta come una sfera di immacolato acciaio, in conformità con l’incorruttibilità aristotelica dei cieli, ed è anche il luogo dove ritrovare la ragione perduta sulla Terra. Ariosto rende quindi omaggio all’ordine che regola la sua epoca, ma il suo potere immaginifico è lo sguardo anticipatore dell’arte.
Restando in tema, segnalo la mostra che qualche anno fa è stata allestita a Ferrara (Palazzo dei Diamanti) per celebrare i 500 anni dalla prima edizione dell’Orlando Furioso stampato proprio in questa città. Per comprendere un visionario bisogna sempre chiedersi cosa egli veda chiudendo gli occhi, ed è questo l’interessante punto di vista proposto dai due curatori che invitano ad entrare nell’universo dell’immaginario ariostesco.

Contemporaneo dell’Ariosto, Copernico scrive il suo De revolutionibus orbium coelestium nel 1512, mentre Galileo inventerà il telescopio nel 1609, quasi un secolo dopo il poema cavalleresco.
È evidente come ogni rivoluzione necessiti sempre del suo bardo: la poesia è utile alla scienza perché ha la sensibilità e l’intuizione di mescolare la materia senza limiti fisici e creare corrispondenze sensoriali in grado di ispirare le menti più acute.
Qualche settimana fa sono venuta a conoscenza (sempre per casualità o per disposizione astrale) del progetto Sentire le stelle, realizzato dal compositore Francesco Rampichini. Questo è costituito da un’interfaccia digitale in cui spostando il mouse è possibile ascoltare la mappa di una costellazione o di una sua singola stella, individuandone posizione e magnitudine attraverso il rapporto delle intensità luce/suono.
Ecco le corrispondenze a cui accennavo prima, interessante notare che questa ricerca ha anche una base linguistica: in sanscrito, antica lingua indoeuropea da cui provengono molti nostri vocaboli, suono si dice svara e luce si dice svar, i due termini hanno la stessa radice fonetica (che accomuna anche la parola sole).
La luce diventa quindi suono, le stelle ci parlano, il cosmo è vivo e comunica, non è solo un velo dipinto.

Nel libro di Rovelli che citavo inizialmente, l’autore ci spiega come il saper vedere e il saper ascoltare siano fondamentali non solo per il progredire della scienza, ma anche per comprendere meglio il nostro ruolo come essere umani: «noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo». Capire questo, significa anche adottare un comportamento di rispetto e di cura nei confronti del pianeta che ci ospita.

Per concludere: quest’estate mi sono fermata a osservar le stelle ma no, non sono riuscita a fare le foto che mi ero proposta. In compenso ho pensato al genio rivoluzionario di Copernico, all’ “oscuro labirinto” dell’universo che Galileo s’impose cocciutamente di decifrare e ad Astolfo che andò a cercare il senno di Orlando sulla Luna. Ma anche alle menti avide di sapere che si sono susseguite nei secoli fino ad oggi donandosi completamente alla scienza e all’emozione dell’animo sensibile dell’artista che guarda il cielo stellato.
Con un brivido ho sentito quanto l’umanità possa essere splendente anche nella sua naturale limitatezza, un potenziale che passa in secondo piano se si pensa alla stupidità e all’insensatezza diffuse nel mondo attuale.

Spero quindi che Dante avesse ragione in quell’ultimo verso del suo Inferno, spero che questo (ri)veder le stelle ci indichi adesso un nuovo cammino di luce e di conoscenza, dandoci il giusto grado di speranza per renderci migliori.

Dorè, Incisione per Divina Commedia - La chiave di Sophia

Gustave Doré, incisione per la “Divina Commedia”, 1857

 

Claudia Carbonari

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

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