Arte dalle mille forme

Quando si parla di uno specifico artista o di un intero movimento artistico, è facile notare che la tendenza è troppo spesso quella di imprigionare una data personalità all’interno di una categoria preconfezionata coincidente con la forma artistica maggiormente praticata dal soggetto, categoria che, tuttavia, nella maggior parte dei casi veste davvero troppo stretta. Infatti, se un personaggio si può definire “artista” è perché nella sua vita ha saputo produrre o ideare dei manufatti in cui materia e concetto (o idea) coesistono per dare un risultato finale leggibile e appagante, a livello estetico e/o intellettivo. È ovvio che la materia può presentarsi di molti tipi differenti, e ancor più ovvio è, dunque, che un artista, in quanto tale, sa estrapolare opere belle (o, meglio, appaganti) da qualsiasi tipo di supporto e con qualsiasi materiale. Perché, in fin dei conti, è l’idea quello che conta, e la capacità di spiegarla con una o più immagini.

Ciò che connota l’attività di un artista è dunque la creatività e la capacità di comunicare mediante manufatti con specifiche qualità tecniche. In questo senso, etichettare Degas come pittore è limitativo, perché così escluderemmo la sua meno conosciuta ma altrettanto interessante attività di scultore. Allo stesso modo, risulterebbe insufficiente limitare l’attività di Bernini alle discipline della scultura e dell’architettura, poiché egli si dimostrò in più occasioni anche un abile pittore, specie nei numerosi autoritratti che ancor oggi si possono ammirare. Questo dimostra che moltissimi artisti del passato e altrettanti odierni possiedono abilità che esulano dalla scelta di un singolo materiale o di una singola tecnica formale, e che li pongono quindi come artisti polivalenti, capaci di ottenere risultati d’eccellenza in diverse discipline artistiche. A partire dal disegno, o da un progetto, o comunque da una ideazione che rappresenti la base su cui fondare poi l’esecuzione materiale, la mente di un grande artista saprà sempre trovare soluzioni che, talvolta pur con qualche compromesso, risulteranno uniche, e pertanto inscindibili dal contesto in cui vengono create e dall’animo stesso dell’artista che le ha ideate.

Per comprendere in modo pratico quello che è stato detto fin qui, credo possa essere utile fare riferimento a due grandi artisti italiani del passato, i quali, inizialmente formatisi in bottega imparando una data disciplina artistica, hanno poi espresso il meglio della loro creatività in un’altra. Il primo caso è quello del celebre Filippo Brunelleschi, da tutti noto come grandissimo architetto e autore dell’opera edilizia più ardita di tutto il Quattrocento, la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Ebbene, va ricordato che egli praticò inizialmente l’attività di scultore, nella quale seppe peraltro dare dimostrazione di ottime doti, come ancora visibile nel suo crocifisso oggi a Santa Maria Novella. Solo successivamente egli abbandonò la scultura per dedicarsi all’architettura, arte che lo consegnò definitivamente alla storia.

Quello che porto come secondo esempio vede invece protagonista un artista molto meno noto di Brunelleschi e vissuto circa due secoli più tardi. Si tratta di Antonio Gherardi, figura artistica molto interessante attiva soprattutto a Roma nella seconda metà del Seicento. Raggiunta la notorietà come pittore, egli ebbe solo successivamente modo di confrontarsi, grazie ad alcune “indovinate” commissioni, con la disciplina dell’architettura, nella quale, a mio parere, dimostra qualità creative eccezionali, non riscontrabili nelle sue opere pittoriche e paragonabili a quelle dei più grandi architetti attivi a Roma nel Seicento, Bernini e Borromini. D’altronde, nella mia ultima visita alla città di Roma non sono riuscito a trovare il ciclo decorativo della volta della chiesa di Santa Maria in Trivio, suo capolavoro pittorico, tanto geniale e sbalorditivo quanto la complessa struttura prospettica della Cappella Avila nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, dove ha saputo inserire in pochi metri di superficie un numero di soluzioni ingegnose da far impallidire perfino i più noti architetti della storia.

Questi due casi, per quanto apparentemente banali, dimostrano quanto un artista riesca, in molti casi, a sfruttare qualsiasi situazione spaziale e materiale a favore suo e dei committenti, compiacenti fautori di tali capolavori, per ottenere soluzioni che, grazie alla capacità dell’invenzione (nel senso della parola latina inventio), riescono a stupire l’osservatore, spesso ignaro che tali opere non sono frutto dell’ingegno di un professionista di una o di un’altra disciplina (come oggi potrebbe essere concepito), ma di personalità che sanno immaginare qualcosa di bello o ricco di significato in relazione a un blocco di marmo non lavorato, a una tela non preparata, a uno spazio vuoto, a un libro dalle pagine vuote o a qualsiasi altro oggetto al quale si possa applicare una lavorazione che lo renda non più una semplice tela o un banale blocco di marmo grezzo.

La trasformazione della materia in arte presuppone creatività, e la creatività non conosce limiti, ma solo obiettivi. E questo concetto non può esprimersi meglio che nell’arte contemporanea, nel cui ambito molti artisti hanno sentito la necessità di esplorare sempre nuovi orizzonti utilizzando mezzi diversissimi che mai hanno impedito loro di ottenere quello che la loro intuizione voleva. Non deve dunque meravigliare vedere i tagli di Lucio Fontana applicati anche a piccoli fogli di carta e persino a piatti di ceramica, così come non deve necessariamente apparire folle che Duchamp, in un preciso contesto storico e culturale, sia addirittura giunto a rendere un orinatoio un’opera d’arte, con un’azione che in senso tradizionale va definita anti-artistica ma che, dal punto di vista creativo, rappresenta un perfetto esempio di come la geniale mente di un artista possa ricoprire di significato qualsiasi oggetto, il quale rimane così testimonianza tangibile di un’azione essa stessa densa di significato e, di conseguenza, reputabile essa medesima opera d’arte.

Luca Sperandio

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Sebastiano Zanolli e Giacomo Dall’Ava: alla ricerca delle doti per ottenere risultati

Il festival filosofico della città di Treviso prosegue.
Pensare il presente: già dal titolo si sente il bisogno di qualcosa di tremendamente attuale, vivo nei nostri giorni e insidiato nelle dinamiche che affrontiamo.
Sebastiano Zanolli e Giacomo Dall’Ava danno uno schiaffo crudo e secco ai nostri pensieri, ancora annidati sulle riflessioni di Latouche e Galimberti.
L’incontro Intenzionalità e mercato è stato diverso, è stato volutamente più pratico e diretto, colloquiale. I due relatori hanno portato in scena una riflessione diversa. Al di là di quello che è teoricamente perfetto ed eticamente condivisibile, cosa serve per fare la differenza nella nostra società? Come possiamo ottenere dei risultati solidi, immersi e sommersi nella società liquida?

Sono partiti dalla piazza del mercato di Marrakech, Jamaa el-Fna, un coacervo di venditori che riescono a farti finire con le braccia piene di borse e di acquisti. Ancora una volta siamo stati vittime di un sistema e non abbiamo esercitato la nostra intenzionalità. Non ci siamo imposti, non siamo riusciti a far emergere quello che davvero volevamo, la nostra intenzione.
Ma in fondo cos’è tutto questo parlare sull’intenzionalità?
A partire dalla fenomenologia (poggiando in punta di piedi su Brentano e Husserl), l’intenzionalità è l’attitudine del pensiero ad avere sempre un contenuto, a essere essenzialmente rivolto ad un oggetto, senza il quale il pensiero stesso non sussisterebbe. Allora eravamo intenzionalmente attivi anche quando eravamo pungolati e accerchiati da venditori che ci facevano comprare ogni cosa che ci mettevano in mano. L’intenzionalità è quella proprietà della mente che ci fa tendere verso un oggetto, che esista materialmente o no, poco conta, basta essere lì concentrati a pensarci.
Sono stati interpellati poi due filosofi contemporanei, Searle e Bratman, che garantiscono che per fare intenzionalmente un’azione, basta fare qualcosa per cercare di raggiungere l’esito di quell’azione. Allora filosoficamente il risultato non conta, l’importante è partecipare ed essere intenzionalmente coinvolti nel cercare di raggiungere uno scopo.

Il mercato è molto più severo, è l’unico giudice che ci guarda dall’alto e ci smista a destra e a sinistra: da una parte il risultato e il successo e dall’altra il fallimento.
Lì le intenzioni non contano, conta il risultato. Nel mercato non basta mettere in atto dei tentativi, perché verremo valutati soltanto per l’esito che riusciremo a raggiungere.
L’intenzione però può essere la miccia che ci mette in moto, che ci innesca e che ci fa partire nel tentativo di migliorare e cavarsela egregiamente.

Dovremmo però seguire alcuni punti costanti che Zanolli ha raccolto nel corso della sua vasta esperienza. Ha portato al pubblico l’essenza dei comportamenti che negli anni ha visto essere efficaci, utili, concreti e diretti al risultato.
Entrambi i relatori si allontanano dal tracciare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, ma cercano di mostrare come funzionano attualmente le cose. 
Per cercare di uscire dal marasma del mercato in cui siamo troppo spesso attori passivi, Zanolli e Dall’Ava propongono cinque doti per fare la differenza:

  • Chiarezza degli obiettivi: per partire con un progetto di qualunque tipo occorre strutturare al meglio l’obiettivo a cui vogliamo arrivare. Avremo modo di cambiarlo, ma anche questo fa parte del processo di struttura del proprio obiettivo.
  • Flessibilità: e contaminazione. Cercare il filo rosso che unisca in maniera nuova e inedita le idee che ci vengono in mente, le soluzioni che sicuramente qualcuno avrà già trovato: ma noi possiamo trovare una maniera diversa e creativa di metterle assieme.
  • Cambiamento: apertura alla diversità, da costruire su nuove conoscenze, competenze, abitudini e attitudini. Tutto è sottoposto al cambiamento e possiamo direzionarlo verso il nostro obiettivo.
  • Personal branding: un modo unico di presentare se stessi, di vendersi agli altri e di trasmettere la nostra immagine. Se riusciamo a venire in mente alle persone nel momento in cui hanno bisogno di noi, non c’è campagna di marketing che tenga.
  • Networking: le relazioni. Si finisce sempre lì, nella rete di relazioni che riusciamo a costruire e nel modo in cui riusciamo a diventare animali sociali perfettamente aristotelici, in collegamento con i nostri simili e con persone che abbiano bisogno delle nostre soluzioni.

Alla fine dell’incontro siamo ancora immersi nel dubbio se l’intenzionalità influisca sulle nostre azioni o se ne sia influenzata, ma filosoficamente non abbiamo ancora trovato risposta al dubbio “è nato prima l’uovo o la gallina?”.
Le risposte filosofiche sono state lasciate ad altri, durante questo dialogo aperto e dinamico abbiamo trovato soluzioni e riflessioni pratiche, veloci, immediate, da applicare domani, macché, oggi, per la nostra stessa vita e per ottenere risultati migliori.

La Redazione

Articolo scritto in occasione dell’incontro Intenzionalità e mercato svoltosi sabato 11 marzo ed organizzato dal festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

Alla ricerca della perfezione: il doppio volto della corsa al successo

Se dovessi descrivere il mio rapporto col successo, mi salterebbe subito alla mente il perturbante freudiano: qualcosa che esercita un fascino irresistibile, simultaneamente a paura e repulsione. Questo perché la scalata verso la massima realizzazione e il riconoscimento sociale, seppure appaia una meta allettante, può risultare allo stesso tempo ansiogena – se non terrorizzante – per la prospettiva di un possibile fallimento.

Dopotutto, siamo una generazione cresciuta con la convinzione di poter raggiungere qualsiasi scopo grazie alla sola forza di volontà. Incoraggiati da genitori, favole televisive, uno stato di benessere diffuso e la consapevolezza di un forte stacco generazionale, uno solo è stato il mantra della nostra giovinezza: possiamo qualsiasi cosa, basta volerlo.

E se un problema ci si para davanti, osserva Miriam Goi in L’ossessione per il successo ci sta distruggendo?, ci sarà sempre una soluzione pronta all’uso per risolverlo in totale autonomia, dalle app per dimagrire ai libri per smettere di fumare, dai corsi per “inventarsi un lavoro da zero” ai gadget motivazionali (You have as many hours in a day as Beyoncé, recita uno slogan tanto incoraggiante quanto minaccioso). Il mantra si rivela così un’arma a doppio taglio, poiché non solo il trionfo ma anche l’insuccesso dipendono interamente e solamente da noi stessi: il fallimento è impietoso e si consuma in solitudine.

E così non importa quanto siamo stanchi, sottopagati, tristi, malati: il nostro profilo Instagram dovrà sempre e solo mostrare una versione perfetta della nostra vita, in una costante ansia da prestazione e rincorrendo desideri che non sappiamo neanche se definire genuini o indotti.

Forse è per questo che, specularmente a questo meccanismo, se ne instaura un altro, inconscio, difensivo, che disincentivando all’azione schiva il possibile fallimento: la procrastinazione. Come argomenta Oliver Bukerman (in L’ossessione per la perfezione ci fa rimandare le cose) la procrastinazione è solo paura mascherata, paura che deriva da standard troppo alti: se il progetto che abbiamo in mente (la carriera, una relazione amorosa, ristrutturare casa, ecc.) rischia di non essere perfetto, meglio rinunciare – anzi, rimandare. Perché l’eterno procrastinatore, ovvero l’eterno perfezionista, non può ammettere di voler rinunciare, può solo temporeggiare per non affrontare quello che teme di più al mondo: l’inadeguatezza rispetto alle aspettative (proprie e altrui). In una parola, la banalità.

Non siamo più figli di un platonismo che insegna innanzitutto ad accettare i limiti umani, assumendo che sia impossibile raggiungere la perfezione (esclusiva ultima del mondo delle idee), ma che tale perfezione sia piuttosto un modello per guidarci in un mondo ontologicamente imperfetto. Oggi, al contrario, se considerare la perfezione alla portata di tutti da un lato ci sprona a inseguire i nostri sogni più coraggiosi, dall’altro ci porta a colpevolizzarci per i nostri limiti, ossessionarci fino alla psicosi, mentire a noi stessi per proteggerci. Ci hanno insegnato ad essere ottimisti, fino a non saper gestire le sconfitte. Mentre è proprio il pessimismo l’unica soluzione: il partire dal presupposto che le cose potrebbero, non sicuramente ma con una certa probabilità, andare male, ci aiuta ad accettare la possibilità del fallimento come parte del processo, a porci una meta con una approssimazione meno precisa, a ritagliarci un margine di errore. E ci permette di buttarci, come quando da bambini ci buttavamo a giocare senza paura di sbucciarci le ginocchia (perché tanto sì, ce le sbucceremo).

Rinunciare al mito della perfezione per abbracciare la perfettibilità della realtà: ripartire da Empedocle, quando sosteneva che la vera perfezione è l’imperfezione, perché offre sempre infinite possibilità di miglioramento.

Anna Merenda Somma

Anna Merenda Somma, Ravenna, classe 1990, da piccola voleva fare la disegnatrice Disney, poi l’arredatrice Ikea, poi la giallista e infine, alla costante ricerca di mestieri sempre più ardui, l’insegnante. A 14 anni scopre la filosofia ed è amore a prima vista, poi è la volta degli studi di genere, e l’amore si rinnova. Consegue la laurea in Scienze Filosofiche nel 2016 a Firenze, e da allora si occupa di identità di genere, femminismo, eteronormatività, queer theory, LGBTQ rights e altre cose difficili da pronunciare. Specializzata anche in procrastinazione e dolci bruciacchiati.

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Habermas e la politica deliberativa: un’utopia?

Ma perché tutto questo ottimismo?

Se c’è una cosa che non manca mai di stupirmi è la fiducia che alcuni pensatori attribuiscono ancora oggi alle capacità proprie della sfera politica. Io la guardo con un atteggiamento di pura rassegnazione: per me politica è soltanto sinonimo di slealtà e manipolazione. Di fronte al panorama odierno non riesco ad avere occhi ottimisti, e forse proprio per questo motivo fuggo a cercare consolazione in qualche pagina di sana filosofia politica, perché quella si che riesce a far vedere la realtà con un po’ di speranza in più. A volte però, di fronte ad alcune pagine, qualcosa non mi torna. Mi sembra, infatti, che alcune problematiche vengano liquidate con troppa rapidità.

Fatti e norme è un testo scritto da Jürgen Habermas nel 1992, e da allora è uno dei punti di riferimento del dibattito politico contemporaneo. Qui Habermas permea le sue teorie di un ottimismo che a tratti potrebbe apparire addirittura fuori misura. Bisogna dire fin da subito, però, che il 1992, per quanto cronologicamente possa sembrare un passato recente, in realtà per tutta una serie di fattori socio-culturali, si distanzia dal nostro presente in maniera piuttosto decisa.

Habermas apre la sua riflessione con una distinzione tra due attitudini comportamentali tipiche dell’essere umano: orientamento al successo e orientamento all’intesa. L’orientamento al successo, di matrice evidentemente hobbesiana, è da lui avversato, in quanto intrinsecamente impossibilitato a realizzare una democrazia che possa dirsi solida e stabile: se ciascuno pensasse soltanto al proprio interesse, infatti, non tarderebbe ad utilizzare qualsiasi mezzo al fine di proteggere la sua sfera d’azione, arrivando con ciò anche ad ostacolare libertà ed integrità altrui. L’orientamento all’intesa invece, è l’attitudine da Habermas considerata non soltanto corretta, ma anche da promuovere all’interno della società. Essa infatti, fonda l’idea centrale del testo e dell’intera proposta politica habermasiana: l’interazione discorsiva come presupposto di ogni processo decisionale in campo politico.

L’obiettivo della partecipazione politica per Habermas deve essere il raggiungimento del bene comune. Questo deve essere individuato non più attraverso il riferimento alla sfera morale, bensì attraverso l’attuazione di discussioni pubbliche tra individui che si riconoscono l’un l’altro come liberi ed eguali. In ciò consiste la politica deliberativa proposta da Habermas, e in ciò si fonda anche tutta la mia perplessità.

Mi pare infatti che il ricorso alla strutturazione di spazi pubblici di dialogo politico, sia non soltanto un tentativo già proposto da altri in passato, ma sia anche una strada difficilmente percorribile. Come possiamo, attraverso il dialogo, accordarci? Come possiamo, al giorno d’oggi, accantonare l’orientamento al “successo” in favore di un’intesa profonda con gli altri individui? In taluni casi non è il mero successo ciò a cui pensa la gente, ma è il poter vivere serenamente e con dignità. Inoltre, quanto può incidere la parola di noi cittadini sulle direttive politiche? A me pare che la risposta sia piuttosto evidente. E per questo motivo la mia lettura di filosofia politica questa volta sembrerebbe deludermi: troppo ottimismo, troppa sbrigatività. La realtà mi sembra talmente complicata!

Poi però mi ricordano: ciò che attribuisce ad una norma un potere regolatore è il suo discostarsi dalla realtà. Se non vi fosse questa distanza, allora non vi potrebbe essere nemmeno margine di miglioramento. A questo punto mi sembra di poter tornare a dormire sogni tranquilli. Ma un’ulteriore domanda mi blocca: qual è la distanza massima per non dover rischiare di sprofondare nell’utopia?

 

Federica Bonisiol

Testo: J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2013

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Il successo di far “succedere”: intervista a Oscar di Montigny

Spesso quando si pensa alla parola Banca, vengono in mente concetti per lo più aridi, fatti di numeri, concretezza e soldi.

E le persone che vi lavorano? Come le vediamo? Come le percepiamo?

Questa intervista realizzata al Direttore Marketing Comunicazione e Innovazione di Mediolanum, Oscar di Montigny, fa luce sull’aspetto persona, dimostrando quanto il pensiero conti nella vita privata dell’uomo e lo aiuti ad affrontare anche gli ambienti più ‘aridi’ con la passione del cuore.

– Se non conoscessimo il suo cognome, dunque il suo lavoro e la sua vita, come definirebbe l’ “anonimo” Oscar?

Un viandante.

– Cosa avrebbe fatto l’ “anonimo” Oscar se non fosse diventato Direttore Marketing di un colosso bancario?

Probabilmente sarei stato un attore di teatro e un viaggiatore con zaino e sacco a pelo.

– La chiave di Sophia ha lo scopo di dimostrare quanto la filosofia sia presente nella nostra quotidianità e, leggendo il suo blog omonimo oscardimontigny.it, mi viene da pensare che nella sua vita ma anche nel suo lavoro la Filosofia la faccia da padrona. Conviene con me?

La filosofia è molto importante nella mia vita, insieme ad arte, scienza ed economia. Intendo la filosofia soprattutto come disciplina che si occupa del “bene”, l’arte quella che si occupa del “bello”, la scienza del “vero” e l’economia quella che si occupa del “giusto”.

– Che significato può avere per un uomo che lavora in un mondo fortemente concreto, fatto di numeri, di bilanci, di guadagno, la Filosofia? Può questa essere considerata ancora una materia importante nella nostra società?

Sì, la filosofia è la prima disciplina con cui noi esseri umani ci misuriamo. È lo strumento di cui ci siamo dotati per indagare il concetto di “bene”, per poter osservare e interpretare noi stessi e quello che ci accade intorno. E quindi ha un ruolo centrale nella vita di ognuno di noi. In realtà la filosofia, in quanto “amore per la sapienza” è alla base di ogni altra disciplina e ci rivela al contempo il nesso tra l’amore e ogni forma di conoscenza.

– Nel suo blog pone una domanda: Stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti o un vero e proprio cambiamento d’epoca? Lei è riuscito a rispondere?

Dopo tante epoche di cambiamenti, abbiamo la fortuna di vivere un vero e proprio cambiamento d’epoca. Si tratta di una grande fortuna perché credo sia un momento bellissimo e interessantissimo per essere vivi. Tuttavia, al tempo stesso è un passaggio caratterizzato da una grande pressione psicologica, per cui la filosofia ci può essere di grande aiuto.

– In Italia la cultura è allo sbando, pochi vogliono investire su di essa, eppure lei afferma che la sfida delle aziende è soprattutto culturale: cosa intende? Lo crede davvero possibile?

Credo sia un cambiamento possibile, anche se non facile. È una sfida culturale perché il cambiamento richiesto deve accadere, più che nelle aziende, nella coscienza delle persone, che nelle aziende lavorano ogni giorno. È necessario cambiare prospettiva in una fase storica in cui stanno cambiando i paradigmi della nostra società. È in corso d’opera un’evoluzione dei meccanismi che finora hanno regolamentato il tessuto sociale ed economico. Per questo ognuno di noi deve capire se vuole essere protagonista attivo di questo cambiamento oppure subirlo passivamente. Le aziende sono grandi agglomerati di persone e non hanno la pesantezza degli apparati statali – che si traduce in lentezza dei processi e incapacità di prendere decisioni. Di contro, non hanno la reattività della società civile, che tuttavia sconta la sua frammentarietà e mancanza di identità unitaria. Per questo trovo che le aziende siano un’eccellente mediazione tra la società civile e l’apparato statale, un soggetto cruciale per far accadere le cose e guidare questo cambiamento. Per far sì che sia un’evoluzione positiva le aziende devono iniziare ad occuparsi non solo del proprio vantaggio, ma anche del vantaggio della comunità a cui fanno riferimento. Il futuro è di quelle aziende che riusciranno a prendersi cura di se stesse, dei propri clienti e al contempo anche della collettività.

– L’uomo, quindi il pensiero come arte di profonda riflessione, oserei dire, deve essere posto al centro. Quali sono, a suo avviso, le potenzialità dell’uomo, oggi, soggiogato dalla tecnologia e accecato dall’ambizione?

L’uomo oggi può andare a una velocità impensabile fino a poco tempo fa. È stato capace di inventare tecnologie in grado di consentire in breve tempo la soluzione di problemi prima considerati insormontabili e che al contempo possono produrre enormi vantaggi personali. Oggi il tema centrale non è più quindi quello dell’accelerazione, ma la necessità di dare il giusto orientamento a questa straordinaria velocità. Per questo, oggi più che mai, l’uomo e il suo pensiero devono stare al centro, in cabina di comando: ci sono grandi opportunità ma anche il rischio concreto di uno schianto, se si continua a procedere nella direzione opposta al bene comune.

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– Lei ha avuto la fortuna e soprattutto l’onore di incontrare molte personalità, alcune delle quali, credo, assolutamente in grado di trasmettere una visione di essere umano autentico, capace di forza, entusiasmo e coraggio puri. Quale l’ha commosso di più, quale le ha dato un motivo in più per combattere nella vita di tutti i giorni e quale le ha fatto pensare “quanto sono fortunato”?

Ognuno di loro mi ha fatto pensare a quanto fossi fortunato. Innanzitutto perché avevo la possibilità di poterle incontrare di persona e non limitarmi a dover leggere storie, libri e autobiografie, o sentire racconti. La premessa importante è che ho voluto fortemente incontrare ciascuno di essi, non è semplicemente successo: questo perché credo che ciascuno di noi secondo la propria possibilità – e in questo sono più fortunato di altri – deve cercarsi dei modelli. E, se possibile, conoscerli. Tutti questi individui straordinari esprimono – nella loro carne e nelle proprie azioni quotidiane – i valori che raccontano. Penso a Patch Adams per l’amore, Yoani Sanchez e Lech Walesa per la libertà, Tara Gandhi per la pace, Simona Atzori per il superamento del limite, Miloud Oukili per il donarsi agli altri, Jetsun Pema – sorella del Dalai Lama – per la compassione, i tanti atleti olimpici che ho incontrato per l’impegno. Tutti mi hanno insegnato tanto e mi hanno reso migliore.

– Che significato hanno per lei, nel 2015, le parola “economia” e “potere”?

Della parola “economia” ho riscoperto il valore del significato originario, che possiamo trovare su ogni dizionario: “arte di reggere e amministrare bene le cose della famiglia e dello stato”. Per me l’economia è proprio questo: un “arte” che sono felice e orgoglioso di praticare, laddove la parola chiave è “bene”. Infatti tutto ciò che è antieconomico, che non produce un risultato positivo è tale perché non sta funzionando bene. Oggi il capitalismo è fortemente e giustamente sotto attacco perché ha perseguito scopi sbagliati nella maniera sbagliata. Non è il capitalismo ad essere sbagliato di per sé, ma sono errate le modalità utilizzate per raggiungerne gli scopi. Anche riguardo al “potere” è utile una riflessione sul significato originario della parola, ovvero la capacità di far accadere delle cose. Credo che ogni uomo occupi un proprio luogo di potere, in ragione della propria sfera di influenza: un genitore ha un potere sui figli, un insegnante sugli allievi, un manager sui collaboratori. Per me il potere è l’espressione di un orientamento, che tutti gli uomini possono esprimere all’interno di un gruppo e che può contribuire a far sì che qualcosa accada.

– Il successo ha cambiato l’ “anonimo” Oscar? Se sì, in che modo? 

Non so cosa si intenda per “successo”: ormai se ne sarà accorta, ma a me piace insistere sul significato delle parole. “Succedere” significa far accadere le cose, quindi un uomo di successo è qualcuno che fa accadere qualcosa, consapevolmente. Negli ultimi anni mi sono effettivamente impegnato molto per far accadere diverse cose: la differenza sta non tanto nel “successo” ma proprio nella consapevolezza di poter far accadere qualcosa a vantaggio mio, dell’azienda, dei clienti, della collettività. Quando ci sono riuscito, mi sono sentito una persona di successo.

– Da utilizzatore di Social Network, per lei, come possono interagire, se possono farlo, le “relazioni umane” e le “visualizzazioni di profilo”?

Il mondo digitale non è virtuale. Spesso si confonde la digitalizzazione con la virtualità. Io credo che il mondo digitale sia un nuovo ambiente in cui accadono le stesse cose che si verificano dalla notte dei tempi: la gente cerca relazioni di diverso tipo: sentimentali, commerciali, “sociali” in genere. Sono solo cambiati gli strumenti e i linguaggi: oggi in tutto ciò che è digitale – come i profili nei social network – vedo semplicemente un nuovo linguaggio, certamente con le proprie regole, che sono pronto ad accogliere e a utilizzare per comunicare con gli altri.

– Ad un giovane che vorrebbe diventare Manager, cosa direbbe? A quali compromessi dovrebbe scendere per realizzare questo sogno?

Nessun compromesso. Piuttosto, la capacità di trovare una consonanza tra le proprie aspirazioni e le proprie capacità, l’umiltà come abilità di sapersi posizionare in ragione di ciò che si è. A un giovane direi: “Se sai fare tanto, datti subito grandi obiettivi. Se sai fare poco dati degli obiettivi alla tua portata e al tempo stesso impegnati per poter fare di più.” Fare il manager significa gestire persone e progetti, per cui credo che il requisito fondamentale sia quello di essere sufficientemente responsabili per sé e per gli altri. Bisogna lavorare sul senso di responsabilità, ovvero sull’abilità di dare le risposte. Tutti noi ogni giorno dobbiamo rispondere a delle domande: il bravo manager è colui che sa dare le risposte giuste.

– ​Non le ho chiesto nulla del suo lavoro perché sono convinta che la maggior parte del suo lavoro stia nella sua estrema capacità di riflessione e di analisi della vita e, credo, sia proprio questo il segreto del suo successo. Mi vuole smentire?

Qui torniamo al significato di “successo”. Quello che posso dire è che sono certamente una persona riflessiva, molto di più di quanto sicuramente sarei stato se non mi fossi educato ad esserlo, ma al contempo molto meno di quanto aspiro ad essere. Se questa mediazione produce dei buoni risultati ne sono felice, ma è molto meno di quanto vorrei.

 

Far accadere le cose non è mai semplice e spesso l’uomo vive inseguendo questo obiettivo senza mai centrarlo veramente.

Il “far succedere” significa non sottomettersi al destino, ad un’impostazione deterministica della realtà; trova il suo senso nella libertà di esprimersi andando alla ricerca di ciò che può migliorarci.

Ricadere nell’indeterminismo non vuol dire rifiutare un disegno prestabilito o, peggio ancora ricadere nel caos, ma significa lottare con i propri mezzi affinché quel destino che ci spetta possa essere plasmato dalle nostre azioni, dalle nostre scelte che non sono infinite ma che ci lasciano intravedere uno spiraglio di libertà.

Oscar di Montigny, in questa intervista, ha dimostrato la capacità dell’ “uomo semplice ma non banale”, cioè di ricerca personale del giusto, del vero, del bello per potersi spogliare delle etichette che il lavoro impone e per questo sentirsi libero di essere persona in mezzo a persone, Soggetto di fronte all’Altro.

Grazie ad Oscar di Montigny per questa sua testimonianza.

Valeria Genova

[Immagini di proprietà di Oscar di Montigny]

La chiave

Mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme è un successo.

Henry Ford

Henry Ford ci presenta tre affermazioni, semplici e chiare, delimitate solamente da virgole.

Lette velocemente si pensa siano qualcosa di ovvio e scontato, ma così non è.

Appena trovato questo aforisma illuminante ho pensato alla mia esperienza con questo progetto che, insieme ad altri ragazzi, sto portando avanti.

Dopo una bella riflessione ho concluso che Henry Ford ha più che ragione come anche no.

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