Bruxelles, un anno dopo (ormai già due)

Questo pezzo è stato scritto nel giorno del primo anniversario degli attacchi terroristici del 22 marzo 2016 all’aeroporto di Zaventem e alla stazione metro di Maalbeek.

 

Oggi è il 22 marzo 2017. Primo anniversario degli attacchi terroristici all’aeroporto Zaventem di Bruxelles e alla metropolitana di Maalbeek. A marzo 2016, Bruxelles era già una città militarizzata: dopo gli attacchi di Parigi di novembre 2015, era emerso che la cellula di terroristi veniva da Bruxelles, dal quartiere di Molenbeek. Da lì era partita la ricerca serrata di Salah Abdeslam, che ci aveva imposto una settimana di città blindata.

Questa mattina, ad un anno di distanza, camminando verso il lavoro ho ripercorso mentalmente quella giornata. L’ho fatto una infinità di volte nell’ultimo anno, stile Sliding Doors, ma oggi aveva un sapore diverso. La mattina del 22 marzo 2016 mi ero svegliata più tardi del solito: alle 8.30 ero ancora a casa ed ascoltavo il telegiornale. La giornalista parla di un esplosione all’aeroporto di Zaventem. Non si sapeva ancora a cosa fosse dovuta, la notizia era troppo fresca. Inutile giungere a conclusioni troppo affrettate.
Esco di casa. Anche se penso che forse non sia una buona idea prendere la metro, almeno finché non si ha la certezza del motivo dell’esplosione all’aeroporto, mi faccio convincere dal fatto che se ci fosse stato alcun pericolo, l’avrebbero chiusa. Quando la metro arriva a Schuman, una fermata prima di Maalbeek e tre prima del mio ufficio, il mio telefono si spegne, scarico. Le porte rimangono aperte per pochi secondi, ma la quantità di pensieri che passa per la mia testa è notevole. Non volevo prendere la metro dal principio, c’è stata un esplosione di cui ancora non sappiamo nulla, sono senza telefono e se qualcosa mai dovesse succedere non posso nemmeno comunicare. Così in qualche secondo decido di scendere.
Guardo le persone che lascio dentro e quelle che salgono: mi chiedo perché nessuno pensa che salire in metro non sia una buona idea e mi rispondo che mi sto facendo prendere dalla paura. Inizio a camminare verso Maalbeek: la strada che porta al mio ufficio è una lunga strada trafficata e dritta, sulla quale si trovano le stazioni metro successive.

È difficile calcolare le tempistiche quando si tratta di secondi di scarto, ma saranno circa le 9:10 quando passo davanti all’entrata di Maalbeek. La bomba esploderà alle 9:11. Non appena supero Maalbeek inizio a vedere ambulanze e macchine della polizia venirmi incontro e penso che stiano andando all’aeroporto. Continuo a camminare. Ripensandoci a posteriori, mi chiedo come mai non mi sia mai girata. Se mi fossi girata avrei visto, e la mia mattina sarebbe stata differente. Alla fermata dopo, Art-Loi, vedo la gente che esce urlando, correndo e piangendo. Penso che sia un’evacuazione precauzionale, forse un pacco sospetto. Il militare di pattuglia alla stazione urla qualcosa e indica alla gente di correre e allontanarsi. A quel punto inizio a correre anche io. Non so quanto forte sia l’esplosione di una bomba, ma se stanno evacuando di certo è meglio andarsene il più velocemente possibile. In quei momenti, esattamente come durante i sette giorni di ricerca serrata di Salah, ti senti totalmente vulnerabile, nuda, sai che stai scappando da qualcosa, contro cui nessuno può proteggerti, nemmeno un militare con un mitra. In ufficio, eravamo solo in tre, nessuno ancora sapeva della metro, così spiego cosa ho visto e nel frattempo le notizie iniziano ad emergere. I miei colleghi sembrano più scioccati di me, qualcuno piange, anche loro erano passati per Maalbeek, come ogni giorno. Per tutto il giorno, penso che quella era sicuramente la mia metro: solo qualche giorno dopo scoprirò dalle foto diffuse del vagone che non lo era. Non mi sono salvata; non ne sarei uscita in ogni caso con ferite fisiche.
Eppure ci sono andata così vicino che non sono rimasta totalmente immune dalla giornata. Nei giorni successivi, mi sembra di non riuscire a realizzare bene cosa sia successo. Per i mesi successivi accuserò un generale senso di vuoto e insofferenza, ma senza realmente fare un collegamento con gli attacchi: in fondo non ho vissuto né visto molto e penso piuttosto allo stress del lavoro. Solo dall’incontro con una psicoterapeuta predisposta dalla compagnia per tutti i dipendenti, realizzo che non era altro che la conseguenza di quella mattinata. A partire da questo momento, sarà poi molto più semplice dare il giusto peso a quelle sensazioni.
Ho capito così il vero significato della resilienza1 e come anche da un’esperienza traumatica si può trarre qualcosa di positivo: mai come in questi attimi, una persona è sola, nuda a fare i conti con il proprio essere. Un’occasione rara, per essere onesti con se stessi: nessuno ti chiede il permesso, una mattina ti svegli, e ti ci ritrovi lì, dove starai per i mesi successivi, volente o nolente. Tanto vale saperla sfruttare una tale opportunità.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. F. Capano, La resilienza uno strumento contro il terrorismo, La Chiave di Sophia

[Photo credit: Geert Vanden Wijngaert / AP]

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Hikikomori: l’universo in una stanza

Un ritiro dalla vita sociale e da tutto ciò che la caratterizza. Ogni forma di comunicazione con l’esterno viene interrotta, la stessa identità inizia a vacillare sotto il peso del silenzio che l’isolamento porta con sé. Questi sembrano essere i denominatori comuni dell’hikikomori, fenomeno dilagante in Giappone che sembra stia assumendo i contorni di una vera e propria “piaga sociale” e le cui vittime sono soprattutto i giovani.

Hikikomori, espressione formata dalle parole hiku (tirare) e komoru (ritirarsi), fu coniato dallo psichiatra Saito Tamaki per definire l’autoisolamento tipico di un giovane che sceglie un luogo sicuro come la stanza della propria abitazione per fuggire dalla società e da tutto ciò che essa rappresenta, ma che con il passare del tempo diventa una vera e propria prigione di solitudine. Un esilio volontario che può durare mesi o in alcuni casi anche molti anni, un allontanamento da tutto ciò che costituisce e scandisce la nostra quotidianità: la scuola, il lavoro e le interazioni con gli altri e che spesso comprende anche la totale mancanza di comunicazione e relazione con gli stessi membri del nucleo familiare. Un allontanamento che rappresenta e la paura del confronto con tutto ciò che costituisce l’altro da sé, che si ritiene in quel preciso momento pericoloso per la propria psiche e che dà vita a una forma di fobia sociale. È possibile rintracciare i fattori determinanti che spingono un giovane nel pieno della sua forza fisica e psicologica a isolarsi tra le mura di casa, riducendo al minimo lo scambio con il mondo esterno? Un fenomeno come quello dell’hikikomori non può essere semplicemente associato a una comune forma depressiva, dal momento che ha delle specificità che lo rendono un fenomeno complesso dal punto di vista clinico e sociale.

L’aspetto sociale, sottolineato da molti sociologi e antropologi, riveste un’ importanza fondamentale e può essere delineato nelle sue forme generali. La cultura tradizionale nipponica è costituita al suo interno da gerarchie, ruoli sociali e familiari molto ben delineati che impediscono una mobilità sociale libera da vincoli. Il conformismo e l’omologazione sembrano i caratteri dominanti, dal momento che nella società giapponese l’individualità assume valore solo in rapporto alla collettività e al gruppo di appartenenza. Da questo punto di vista l’identità del singolo dipende ed è vincolata per tutto il corso dell’esistenza all’identità sociale e al riconoscimento all’interno della scala sociale. Il confucianesimo, dove il modello di società è rappresentato dalla famiglia, fa sentire senza dubbio la sua influenza. In tal senso, lo stato si configura come una grande famiglia, dove i singoli devono adempiere ai loro compiti solo rispetto al grande meccanismo sociale.

Il ruolo che riveste la famiglia è un altro tassello importante da considerare se si vuole indagare il fenomeno dell’hikikomori. Le famiglie di origine, infatti, soprattutto nei confronti dei giovani di sesso maschile, riversano grandi aspettative in termini di progettualità futura e realizzazione professionale: lo studio e il lavoro sono aspetti determinanti nella vita di un giapponese di classe sociale medio-alta. È proprio per cercare di sfuggire alle pressioni sociali che l’hikikomori cerca di preservare la propria integrità psicologica scegliendo l’isolamento. La perdita del proprio ruolo all’interno della società e della famiglia sgretola l’identità generando ansia, stress e senso di colpa. Proprio per questo la famiglia e le mura domestiche vengono viste dall’hikikomori come un vero e proprio rifugio. Sono le stesse famiglie che spesso, a causa della vergogna generata dal bisogno di salvare a tutti i costi le apparenze e dalla paura del giudizio altrui, non chiedono aiuto, minimizzando e nascondendosi dietro a una passiva indifferenza: «Il ragazzo in hikikomori rimane in famiglia, sta uchi (dentro), dove non è mai rifiutato, dove può provare vergogna senza essere biasimato, dove la sua rabbia è consentita e persino la violenza è accettata»1.

Solo costruendosi una realtà alternativa, il giovane che ha fatto della solitudine e del silenzio la sua scelta esistenziale riesce a sfuggire allo sguardo dell’altro e alla perdita totale della propria identità che quello sguardo rappresenta. Ecco allora che l’ “altro”, da occasione di dialogo, confronto e ricchezza per lo sviluppo della personalità, diventa una minaccia da cui fuggire.

Il fenomeno dell’hikikomori getta luce sui limiti di una società che ha fatto dell’economia e del prestigio sociale fattori determinanti per lo sviluppo del singolo, in cui, tuttavia, le attitudini e i desideri dell’individuo sfumano, schiacciate da un senso di appartenenza invalidante e dal peso dell’omologazione.

Greta Esposito

NOTE:
1. C. Ricci, Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, p. 41-42

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Ascoltarsi: come la malattia diventa un alleato

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L’incontro Ascoltaci, ascoltati e scegli: non alimentare la malattia, tenutosi presso Villa Fior di Castelfranco la sera del 23 novembre e organizzato da Rebellato Center, ha cercato di mettere al centro delle relazioni del dottore Mark Pfister e della dottoressa Federica Becherin, un aspetto focale della medicina contemporanea: il significato della complessità e, insieme, dell’unicità di ciascun essere umano.
Lungi dall’essere considerata come un ‘castigo degli dei’ oppure come ‘una macchina non funzionante’, la malattia dovrebbe invece costituire un momento inevitabile – anzi, di certo si può ben parlare di più momenti necessari – di quel complesso insieme di funzioni biologiche che è il nostro corpo. Un corpo che abbiamo, quindi. Ma anche, e soprattutto, un corpo che siamo. Un corpo oggetto che entra in interazione con l’ambiente esterno e un corpo vissuto, attraverso il quale ciascuno di noi si esprime. Un insieme di leggi biologiche rispondenti agli input esterni, e una dimensione coscienziale che continuamente ne è chiamata all’appello. 
Esisterebbe una fisiologia normale, definita normotonia. Nel nostro organismo però, essa non può realizzarsi in termini assoluti.
Pertanto, quella umana è una fisiologia speciale, che entra in relazione con ciò che accade su più livelli.
Così chiamata simpaticonia, essa ci permette di attivare, nel nostro organismo, precise funzioni fisiologiche rispondenti ad un avvenimento inaspettato e improvviso, ovvero a ciò che in altri termini chiamiamo comunemente shock.
Lo shock, generante il momento di stress psicofisico, costituisce un periodo necessario e fondamentale.
Questa fase conflittuale, già precedentemente definita simpaticonia, ci permette in seguito di rispondere biologicamente all’iper-stress, attraverso un momento di compensazione e riparazione: la fase vagotonica.
Ciò che è risultato interessante nella relazione del Dottor Pfister è stata l’esplicazione del legame esistente tra l’accadimento generante lo stress emotivo nel presente e il richiamo – inconscio – ad un avvenimento passato, generalmente della nostra infanzia. In questo senso, possiamo perciò affermare di non essere unicamente il nostro corpo. Le relazioni fisiologiche che ci attraversano sono spesso legate a un richiamo al passato, facente sorgere in noi il momento ‘conflittuale’. È necessario tuttavia saper bilanciare momenti di stress con fasi di riposo, affinché la tensione accumulata in simpaticonia non produca in seguito un’eccessiva stanchezza fisica e mentale.

La seconda parte dell’incontro, invece, avente come relatrice la Dottoressa Federica Becherin, era focalizzata sul cibo e sul rapporto di quest’ultimo con la medicina.
Malgrado gli alimenti possano moderare e influenzare una simpacotonia oppure una vagotonia, essi non possono avere un valore assoluto circa i cambiamenti del nostro corpo.
Avere un regime alimentare corretto non è facile. E non lo è soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui siamo tempestati da modelli alimentari incitanti la performance (per esempio, nel caso di una preparazione sportiva) e da ‘mode’ alimentari presumibilmente salutari.
Tutto dipende dalle ragioni che ci spingono a escludere un cibo, piuttosto che ad assumerne un altro. Vivere con il proprio corpo e la propria mente la scelta di seguire, per esempio, una dieta vegana significa farlo con serenità, senza sentirsi privati da qualcosa. Senza resistenze, né tanto meno restrizioni.

L’alimentazione rappresenta dunque parte del nostro ‘esserci’: include in essa desideri e bisogni. È importante, perciò, non fare del cibo che assumiamo la nostra identità, la nostra ‘etichetta’: l’individuo sopravvive grazie a ciò che mangia; tuttavia, il cibo rappresenta solo una delle componenti di cui abbiamo bisogno per vivere serenamente.
Il consiglio, come lo suggerisce bene il titolo della conferenza, è ascoltarsi. Ascoltarsi e comprendersi. Comprendersi e cercare di ristabilire un’armonia con se stessi.
Solo così, l’evento della malattia può trasformarsi da nemico a alleato.

Sara Roggi

In collaborazione con Salute+ Treviso

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

Delle scuse che ci diciamo per non cercarci mai

Eccomi, volevi vedermi?

Sì: ho un problema.

Che problema? Mi sembri in forma; cioè non hai l’aria di un fiore appena sbocciato ma mi stupirebbe il contrario. A guardar bene, hai preso qualche chilo ma non t’abbattere: un po’ di palestra e va via tutto.

Non ti ci mettere, non ho voglia di scherzare. Se t’ho detto che ho un problema, ho un problema.

Lapalissiano. Che hai?

Mi vedi veramente ingrassato? Non la dovevo comprare ‘sta camicia: ha un taglio troppo particolare e cade male, sembra che io abbia la pancia. O forse sono ingrassato veramente? Perché fai quella faccia?

Scherzavo: non sei ingrassato, idiota. Questo problema tanto urgente, allora? Me lo dici cos’hai o aspetto la notifica?

Ah sì: è che ho questo problema che mi assilla. Non riesco più a comporre.

Ah sì?

Sì non so cosa fare, le ho provate tutte: ho provato a comporre di notte, di giorno; a digiuno, a stomaco pieno; l’altra settimana son stato via, sono andato in un posto bellissimo, lontano da tutto e da tutti per allontanarmi dai rumori: a proposito, t’ho postato le foto dell’albergo sul diario ma non hai commentato.

Lontano da tutti proprio, eh?

Come dici?

Niente, fa’ nulla. Allora: hai pensato alla causa di questo blocco?

Ma sì, ti dico che ho provato di tutto: è l’ispirazione che mi manca.

Ti ricordi?

Cosa?

Non ti ricordi: questo è il punto.

Ma di cosa non mi ricordo?

Eh no, non ti ricordi, se hai bisogno di chiedere; un tempo ti sarebbe venuto in mente senza chiedere.

È che sono incasinato ultimamente, son sempre di fretta, in una mano l’agenda e nell’altra il telefono. E poi le prove, le lezioni, i concerti. Praticamente penso nei ritagli di tempo, mi sorprendo a pensare mentre sono sul treno, mentre sono in fila per comprare il pane. A proposito: devo comprare il pane.

Stronzate.

Che dici?

Che sono stronzate, sono tutte scuse: la verità è che sei distratto. Tu e la maggior parte delle persone che ti scivolano attorno e ti fanno la cortesia di non travolgerti mentre “ti soprendi a pensare”. Non vai fino in fondo.

La fai facile tu: ho mille cose da fare. E poi non capisci: tu hai sempre il naso in quella cavolo di biblioteca, con un libro ti svegli e con un altro ti addormenti. A che ti serve, poi, un giorno me lo dovrai spiegare. Io devo lavorare, non posso perder tempo a lambiccarmi il cervello come voi.

E infatti stai lavorando bene, eh? E guarda che quei libri qualcosa da dire ce l’hanno, altrimenti nessuno li leggerebbe più.

Ah sì: infatti è pieno così di lettori di Agostino!

Infatti è pieno così di gente serena, che sa almeno di dover cercare, verso dove andare, in che direzione affannarsi per procedere.

Senti non ho bisogno della paternale da filosofo proprio adesso. Non so se l’hai dimenticato, ma ho un problema, io.

No, non l’ho dimenticato. Infatti t’ho portato una cosa.

Cos’è? Un pezzo di carta?

Sì, tutto Agostino in un biglietto non ci stava.

«Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi».1

E che significa?

Scoprilo tu, se non ti sei già dimenticato anche di te.

Emanuele Lepore

NOTE
Agostino, Confessioni, X, 8.15

31 Dicembre: speranza, nostalgia o indifferenza?

Spesso durante l’anno si usa sempre l’acceleratore e difficilmente si pensa di rallentare men che meno di fermarsi. Anche solo un attimo, un istante per pensare a sé o agli altri con calma, anzi pensandoci davvero e non frettolosamente.

Poi d’improvviso arriva la fine dell’anno e, volenti o nolenti, ci si ritrova anche solo inconsciamente a fare un bilancio di ciò che è stato, pensando a ciò che sarà o potrà essere nel nuovo. Come se il passaggio dal 31 all’1 comportasse cambiamenti davvero significativi! Eppure noi siamo convinti di questo: ciò che è stato fino al 31 non sarà più dall’1 in poi. Tutto si trasformerà magicamente, in meglio o peggio non è dato sapere, quello che basta è essere convinti che un cambiamento ci sarà automaticamente.

È qualcosa che, se ci si fermasse un solo secondo a pensare, è fuori da ogni logica eppure appartiene all’essere umano da sempre. Forse è propria della sfera della speranza che ci guida e ci spinge ogni giorno dell’anno ma che noi sappiamo riconoscere solo il 31 Dicembre.

La speranza che qualcosa succeda, come se tutto quello che abbiamo fatto durante l’anno non fosse già quel ‘qualcosa’ che noi stessi abbiamo fatto succedere con sacrificio o facilità, con piacere o meno. Una speranza ingabbiata dalle reti che la società ci impone durante l’anno e che noi accettiamo inconsapevolmente o meno  perché assorti dai mille pensieri che abbiamo e che ci costruiamo.

Ecco che allora dobbiamo capire cosa davvero ci faccia stare bene, se l’annebbiamento mentale che ci portiamo dietro tutto l’anno con solo la sincerità con cui il 31 Dicembre si rivolge a noi, oppure il rallentare i nostri ritmi, privilegiando le pause, per pensare e riflettere su ciò che ci rende felici davvero, arrivando al 31 Dicembre solo per stappare una bottiglia, senza aspettarsi troppo o troppo poco dall’anno nuovo, ma consapevoli già di tutto quello che è stato, capaci di dire all’amico 31 ‘Sì, lo so già!’.

Sforzarsi di preferire la seconda opzione non è cosa naturale è facile da ottenere, ne sono consapevole, però il riuscirci dimostrerebbe il nostro voler vivere non nella speranza che ‘qualcosa’, non si sa cosa, accada ma nel presente per viverlo appieno, giorno dopo giorno e non solo il 31 Dicembre che altro non è se un giorno qualunque.

Il mio augurio per voi lettori è quello di trovare il vostro ritmo naturale che non sia dettato dagli altri ma che sia davvero solo vostro, affinché possiate arrivare al 31 Dicembre 2016 consapevoli di tutto quello che è stato e capaci di prevedere con cognizione di causa quello che sarà il giorno dopo.

Valeria Genova