La banda dei buonisti inconsapevoli

Si aggira indisturbata ormai da anni, inerpicandosi e infiltrandosi nelle più nascoste intercapedini dell’informazione. Si mostra quotidianamente, in modo beffardo, sfidando la piazza – quella del web – con tutte le sue contraddizioni.
È una banda di profili dietro i quali vi sono persone che vivono in mezzo a noi, compiono le normalissime mansioni che la vita richiede, sono irriconoscibili a prima vista… si manifestano solo da ciò che seminano: commenti, ingiurie, grandi e inconcludenti sermoni.
La banda dei buonisti inconsapevoli non ha un’organizzazione alle spalle, non ha una struttura definita, gli affiliati non sempre sanno di appartenervi.

Avete presente il proverbio del bue che dà del cornuto all’asino? Ebbene, modificandone gli elementi e mantenendone intatta la forma loro sono i buonisti che danno del buonista al prossimo.
Com’è possibile, direte voi, che tante persone cadano in un paradosso simile?

Occorre entrare nel delicato mondo della cronaca nera, quello che piomba nelle nostre case attraverso telegiornali e social, in particolar modo quella cronaca nera legata alle violenze sessuali e agli omicidi in cui sono vittime le donne.
Occorre anche assistere all’epilogo di una notizia data in pasto all’opinione pubblica per veder materializzarsi la famigerata banda al completo.

Indignazione, rabbia, sentenze di morte, palchi di tribunale improvvisati, cataste di legna pronte per un nuovo rogo a Giordano Bruno, urla in formato scritto riassumibili con: crucifige crucifige!1
Tralasciando l’inopportuno volersi sostituire alla legge, sarebbe altrettanto ipocrita affermare di non provare rabbia davanti a fatti del genere e lo sfogo, entro certi limiti, è comprensibile.
Il problema sorge quando il giudizio della massa sconfina in ambiti non propriamente legati al fatto criminoso, poiché diretti ad altre persone nella ‘piazza’, quelle che inizialmente scelgono di tacere, di non esprimere un’opinione a loro avviso troppo frettolosa, coloro che attendono dettagli più consistenti rispetto ad una freschissima breaking news.
Persone che prima di sentenziare si chiedono perché, scavando alle origini sociali del male per trovare, forse invano, una possibile verità.

Questa attesa, questo voler scavare più a fondo, è visto con sospetto.
Viviamo in un mondo che vuole tutto e subito; molti poi, nutrendosi di assoluti, pongono la gente davanti a bivi: o sei con noi o contro di noi / o condanni il gesto, oppure sei amico dell’assassino.
Un buonista insomma.
Complicità, sostegno, addirittura sadico piacere nelle disgrazie altrui, queste sono le accuse mosse a chi stona dal coro delle ingiurie… se il colpevole del fatto criminoso è straniero. Se è italiano, beh, le cose cambiano e parecchio.

Gli assetati di giustizia “fai da te”, davanti ai crimini di un italiano, diventano spesso i veri buonisti di questa triste storia. Le accuse mosse ai prudenti, diventano improvvisamente virtù: l’attesa, il capire meglio, la presunzione di innocenza fino-a-prova-contraria nei confronti del reo.

«Era… rimasto senza benzina. Aveva una gomma a terra. Non aveva i soldi per prendere il taxi. La tintoria non gli aveva portato il tight. C’era il funerale di sua madre! Era crollata la casa! C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa sua!»2.

E lo stupro di un homo italicus ai danni di una donna? Il «se l’è cercata» balza agli occhi in molti commenti, ferisce e dilania – per due volte – la dignità della vittima e anche di chi legge, di chi è madre, di chi è donna, di chi crede nel rispetto reciproco.
Il reato cade, cade la sua efferatezza, cade la malattia che lo provoca, rimane il giudizio impietoso del colore della pelle. «Si può sapere la nazionalità?» precede di gran lunga il «come sta la ragazza?».
Le accuse al giornale che cela inizialmente le generalità del criminale sembrano voler chiedere indicazioni sul comportamento: dicci in fretta che dobbiamo sapere se giustificare o reclamare la testa.

La banda dei buonisti inconsapevoli ha fame, vive aspettando il macabro spettacolo degli orrori, arroccata ai suoi leader eletti a rappresentanza le cui autorevoli voci legittimano tutte le altre.
I pessimi esempi crescono, si fanno forza e vomitano tutta la loro inconfondibile assurda contraddizione.

 

Alessandro Basso

 

NOTE: 
Jacopone da Todi, Donna de Paradiso, verso 28, XIII sec.
Citazione modificata presa in prestito dal film “The Blues Brothers”, USA 1980.

[immagine tratta da google immagini:
Antonio Ciseri “Ecce homo”, (pre 1891), dettaglio, Galleria di Arte Moderna Palazzo Pitti, Firenze.]

 

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Chi siamo per parlare di giustizia morale? L’immigrazione ci svela i nostri limiti

Tutti parlano di migranti. Tutti vogliono esprimere il loro giudizio a riguardo. Oggi provo anch’io a dire la mia, e ad organizzare in qualche riga i miei ingarbugliati pensieri.

Come prima cosa vorrei mettere al bando ogni tipo di giudizio di valore che è stato formulato in merito a questa vasta e complicata questione. Io credo che affrontare il dibattito a suon di “è giusto accogliere”, “è giusto rimandare a casa” non sia affatto efficace. In particolare, ciò che mi sembra fallace è lo stesso coinvolgimento della sfera della Giustizia. Perché non limitarci ai soli dati di fatto? Perché deve esserci per forza una Verità a riguardo?

L’intero processo storico è stato marcato da fenomeni di emblematica rilevanza; credo che possa essere elevata a tale anche l’ondata immigratoria che negli ultimi tempi si è posta con così tanta determinazione al cospetto della nostra attenzione e delle nostre sensibilità. È banale affermare che una migrazione di una così vasta portata (che coinvolge persone provenienti da svariati paesi, e spinte a partire da svariate motivazioni) sia una delle sfide più imponenti che finora si siano mai presentate nella lista delle cose da fare dei cosiddetti paesi “avanzati”. Una sfida che però li coglie (e forse, ci coglie) impreparati. Ma d’altronde, come si può essere pronti a gestire una tale emergenza? Forse arrabbiarsi con i vari organismi statali e con l’Europa tutta è superfluo: chi ha mai immaginato una situazione come questa?

La Storia, inoltre, non insegna! La Storia offre chiavi di lettura, parametri di confronto, strumenti; ma non fornisce alcuna soluzione. Ecco perché non mi piace, in quanto anacronistico e dunque totalmente inutile, associare il fenomeno immigratorio attuale con altri avvenuti in passato. L’unico punto in comune tre i migranti di oggi e quelli di ieri è il ritrovarsi costretti a partire, a lasciare il proprio luogo di origine. Indipendentemente dagli ideali politici, questo fattore dovrebbe toccarci tutti, in quanto cittadini e in quanto uomini. Mi auguro (e voglio sperare) che nessuno sia capace di rimanere indifferente di fronte alle notizie e alle immagini che quotidianamente fuoriescono dalle pagine dei giornali, dagli schermi televisivi, o addirittura dagli stessi telefoni che con costanza ed ossessione stringiamo in mano. Ma ciò che veramente fa la differenza, tra ieri ed oggi, sono le congiunture sociali, politiche e soprattutto economiche. Ed è questo il vero punto decisivo, in quanto influisce non solo sull’elaborazione delle strategie politiche volte a regolare il grande flusso umano, ma anche sulla nostra percezione di quanto sta accadendo. Questo punto, a mio parere, è tanto decisivo quanto spaventoso: il migrante, letto alla luce delle sovrastrutture che inevitabilmente condizionano il nostro pensare, viene scorporato della sua dignità e viene percepito come minaccia. Minaccia alla nostra “perfetta” e “pacifica” società; minaccia alla nostra economia; minaccia al nostro già travagliato mondo del lavoro. L’empatia, l’elogio dell’interculturalità, lo spirito di fratellanza, l’altruismo, talvolta vengono messi in ombra e soffocati. Ma infondo, è davvero legittimo condannare del tutto un tale atteggiamento, seppur di chiusura si tratta?

Io non ho risposte, e con queste righe non ho voluto esprimere alcun giudizio di parte. Ho cercato di descrivere la situazione così come appare ai miei occhi forse inesperti; ma soprattutto ho cercato di evidenziare la problematicità intrinseca ad ogni ragionamento in materia di immigrazione. Mi premeva il desiderio di stimolare la riflessione al dubbio e all’ignoto, perché troppo spesso riscontro un abuso delle etichette “moralmente giusto e quindi buono”, “moralmente sbagliato e quindi da denigrare”. Chi siamo noi per parlare autenticamente di giustizia morale?

Federica Bonisiol

[immagine di proprietà de La Chiave di Sophia]

Lavoro ergo sum…?!

Le istanze portate avanti dal “diverso” nell’ambito sociale esigono una presa di posizione decisa da parte dei ceti al potere, al fine di non veder rimessa in discussione la globalità istituzionale da essi stabilita.

Il “diverso” pone delle questioni alle quali si deve, che lo si voglia o meno, fornire una risposta; infatti trascurarne i comportamenti e le reazioni equivarrebbe a lasciar crescere a poco a poco dentro il corpo statale un’insoddisfazione crescente, una specie di infezione interna che potrebbe produrre delle corrosioni pericolose.

Meglio quindi porsi positivamente o negativamente nei confronti del “diverso”, ma comunque occuparsene dimostrando di riuscire a far fronte alle proprie responsabilità e allo stesso tempo fingendo un interessamento ed un’apertura mentale considerevole.

Su come la società cerca di prevenire ed eventualmente bloccare il “diverso” Deleuze sottolinea in particolar modo l’oppressione e la repressione esercitate sull’individuo e di contro la forza enorme e il pesante sforzo che all’individuo si richiede per non essere del tutto privato delle sue caratteristiche.

Nello sforzo che l’uomo attua, sostiene Deleuze, egli manifesta la propria volontà ma anche la propria superiorità, l’ostacolo diviene il tramite che pur non volendolo sviluppa la facoltà degli individui.

Di rilievo è il confronto compiuto da Deleuze tra questa teoria nietzscheana e la vita stessa di Nietzsche.

Il potere non ha alcun vantaggio, in situazioni di questo genere, a lasciar sfuggire al proprio controllo degli elementi potenzialmente pericolosi; il rischio di venire accusati di chiusura o di disinteressamento è troppo grande. Ecco allora che l’unica cosa utile da attuarsi nell’immediato è proprio venire incontro, far fronte in qualche modo alle esigenze del “diverso”, facendogli perdere molta della sua carica e d’altro canto non consentendogli di assumersi una sorta di vittimismo, che gli potrebbe far acquisire delle simpatie o almeno una parziale attenzione da parte di altri membri del corpo sociale.

Nel far fronte quindi al “diverso” la società borghese può scegliere a grandi linee tra due possibilità di intervento: “integrazione” ed “emarginazione”. La prima consiste nel tentativo di inglobare nel proprio ambito quanto pare generare critica e deviazione, la seconda consiste nel prendere in esame e considerare nelle radici più profonde la diversità per concludere poi che sia consentito al sociale un estraniare da sé il diverso.

Qualora il potere riesca a sviluppare in pieno una di queste possibilità o entrambe, rivela nella pratica la propria forza e sicurezza; esso palesa, non più solo a livello teorico, la capacità di riuscire a regolamentare oppure ad allontanare senza timore di reazioni l’altro.

L’”integrazione” nel sociale si verifica per i “diversi” in condizione di incoscienza oppure in condizione di abbastanza acuta consapevolezza.

Quando si parla di integrazione il riferimento non può che essere ad uno degli strumenti principali con cui nel sociale si attua la regolamentazione: il lavoro.

In proposito significative sono le affermazioni di Nietzsche:

Il bisogno ci costringe al lavoro, col cui ricavato il bisogno viene acquietato; il continuo ridestarsi dei bisogni ci abitua al lavoro. […]. E’ l’abitudine al lavoro in genere, che ora si fa valere come un nuovo, ulteriore bisogno.”.

Nell’esaltazione del “lavoro”, negli instancabili discorsi sulla “benedizione del lavoro” vedo la stessa riposta intenzione che si nasconde nella lode delle azioni impersonali di comune utilità: la paura, cioè, di ogni realtà individuale. […] il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce ad impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio di indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare; esso si pone sempre sott’occhio un piccolo obiettivo e procura lievi e regolari appagamenti.

Altri riferimenti di Nietzsche al lavoro sono contenuti in

La gaia scienza:

Esistono però uomini rari che preferiscono morire piuttosto che mettersi a fare un lavoro senza piacere di lavorare.

Lavoro degli schiavi! Lavoro dei liberi! Il primo è ogni lavoro che non viene fatto per noi stessi e che non ha in sé alcun appagamento.

Frammenti postumi (1887-1888):

“Eccesso di lavoro, curiosità e simpatia – i nostri vizi moderni.”

Umano, troppo umano I:

[…] ognuno desidera (prescindendo da ragioni politiche) l’abolizione della schiavitù e aborre nel modo più assoluto del ridurre gli uomini in questa condizione: mentre ognuno deve dirsi che sotto tutti i rispetti gli schiavi vivono più sicuri e felici del moderno operaio, e che il lavoro dello schiavo è molto poco lavoro in confronto a quello del “lavoratore”.”.

E’ possibile confrontare il discorso di Nietzsche con quello, fondato su un’analisi economica, di Marx in particolare per quanto riguarda l’automazione.

L’automazione pare essere il grande catalizzatore della società industriale che opera un mutamento qualitativo nella base materiale e che agendo sul processo sociale esprime infatti la trasformazione o meglio la trasmutazione della forza lavoro, la quale, separata dall’individuo, diventa un oggetto produttore indipendente e quindi un soggetto autonomo.

A proposito di automazione Nietzsche scrive:

La macchina insegna, attraverso se stessa, l’ingranarsi di folle umane in azioni in cui ognuno ha una sola cosa da fare: essa dà il modello dell’organizzazione di partito e della condotta di guerra. Non insegna invece la sovranità individuale: fa di molti una sola macchina, e di ogni individuo uno strumento per un solo fine. Il suo effetto più generale è di insegnare l’utilità della centralizzazione.”.

Essere senza lavoro equivale ad essere emarginati dalla comunità sociale e basti pensare a molte leggi promosse da svariati stati che associano in maniera netta integrazione sociale allo status lavorativo che si rivela niente di più che modo di omogeneizzare e disinnescare la carica innovativa del “diverso”. Il lavoro è la misura della nostra integrazione e a questo punto al di là degli stranieri alla ricerca di una speranza si potrebbe guardare a tante giovani donne e giovani uomini che oggi versano senza lavoro, possono dirsi davvero parte di una comunità? O dobbiamo invece ritenerli più liberi di ripensare un sistema  economico che sembra non stare più in piedi?

Oltre ai flussi migratori crescenti e alla crescente disoccupazione giovanile la società è chiamata a dare una risposta ai “diversi” o forse è affidato ai “diversi” il compito di portare una ventata di innovazione nel sistema sociale stesso, chi prevarrà?

 

Matteo Montagner

[immagine tratta da Google Immagini]

Il machete, il ferroviere e l’ambiguità dello xenos

Dispiace vedere che la discussione sull’aggressione a colpi di machete di Milano ci porti nuovamente a dividerci tra chi sfrutta la paura per produrre consenso e chi invece si rifiuta di comprendere i fenomeni che stiamo vivendo minimizzando tutto come allarmismo. Dispiace che ancora una volta ci ritroviamo in balia di chi ragiona per 0 e 1, chi o si abbandona all’odio e teorizza fantomatiche esecuzioni e chi invece indulge in una storica malattia della sinistra italiana nota come buonismo.

Non sarebbe più semplice dire che a problemi complessi non esistono risposte semplici?

Il problema dell’integrazione, del confronto con culture diverse, di flussi migratori e di ghetizzazione culturale è diffuso e comune in Europa, vedi il caso Le Ballie in Francia. È giustissimo esigere che il problema venga affrontato in una logica europea e che si cerchi di mettere in pratica misure adeguate di distribuzione dei flussi ricordandoci però che parliamo di persone e non di pacchi postali. Il problema che porta molti cittadini stranieri a delinquere o ad avere atteggiamenti negativi in fondo non è molto diverso da quello che ho avuto modo di vedere tra italiani “ariani” crescendo in un quartiere abbastanza povero come quello di Via Altobello anche noto come Macallè dove c’erano fenomeni di criminalità diffusa, degrado, problematiche sociali. La ricetta messa in campo è stata quella di integrare misure di supporto sociale, urbanistiche e di repressione portando avanti in decenni un piano di risanamento della zona che oggi sembra rinata. A tutto questo aggiungerei anche il ruolo fondamentale della scuola che se vogliamo è il primo luogo di integrazione tra persone che vengono da storie diverse, ceti sociali diversi, culture diverse.

Se vogliamo che certi fatti non si ripetano forse dovremmo guardare a un approccio più pratico e operativo piuttosto che invocare le esecuzioni in pubblico, perché il mondo cambia molto più attraverso il nostro esempio che attraverso le nostre opinioni. In più i sospettati sono due sudamericani maggiorenni che pare facciano parte di una gang di latinos. Uno era già stato indagato in passato per fatti analoghi. Si sa anche che uno è irregolare.

Qui si vede anche il vuoto di una politica che troppo spesso è vittima di ragionamenti semplici e slogan.

Dobbiamo fare attenzione ad abbandonarci a pensieri semplici perché rischiamo di fare come coloro che credono che l’introduzione della pena di morte riduca i reati, cosa falsa, senza invece capire che la parte riabilitativa gioca un ruolo importante nella prevenzione di reati minori riducendo il rischio di recidività.

Uno dei grossi problemi poi è la nostra situazione economica, perché i fenomeni di emarginazione sociale non riguardano solo i migranti, ma anche le fasce più deboli della popolazione in un Paese che ha troppo spesso bloccato ogni tipo di mobilità sociale e dove intere generazioni sono state condannate a una eterna adolescenza fatta di precariato e scarse opportunità. Servirebbero più pari opportunità e un po’ di attenzione per il merito, senza anche in questo caso indulgere nella trita e ritrita retorica sessantottina del sei politico e di slogan che hanno raccontato a intere generazioni che in fondo si era tutti speciali a prescindere, senza che ci si dovesse confrontare con i veri ostacoli della vita, alla fine al motto che tutti erano speciali è finito per non esserlo nessuno.

Mi spiace di sentirci così arrabbiati, così pieni di livore e così poco capaci di formulare proposte oltre a proteste.

Non è che abbiamo così tanto bisogno di trovare un capro espiatorio perché forse dovremmo invece metterci davanti a uno specchio e riflettere meglio sulle scelte che abbiamo compiuto?

È questo misto di rabbia e di rassegnazione a non piacermi, l’idea che le cose non possano stare diversamente e che invece non si possano cambiare semplicemente iniziando ad abbracciare tutta l’immensa complessità dei problemi che abbiamo di fronte, magari facendo una lista di cose da fare e iniziando a farle una alla volta. Non dobbiamo neanche raccontarci che possiamo però sostenere flussi migratori infiniti, perché a risorse finite non possono corrispondere flussi migratori infiniti, però in questo forse i partiti dovrebbero prestare più cura al lavoro che viene svolto in Europa cercando di uscire dal gioco di ruolo della politica e dalla tifoseria e proponendo invece compattamente misure che coinvolgano e responsabilizzino una comunità che in effetti oggi ci sta lasciando un po’ da soli. In più continuo a credere che il nostro Paese sia in difficoltà per una classe dirigente politica, sia a destra che a sinistra fino al M5S, che non è all’altezza di chi in questo Paese continua a lavorare e a crederci.

Al di là del merito della misura preferirei cento volte una destra che non rispondesse a tutti i problemi solo invocando azioni violente, ma proponesse misure concrete come quelle al vaglio di Cameron in Inghilterra che pensa a un numero chiuso di permessi e a un aumento delle tasse per chi assume persone non provenienti dall’Europa.

L’Italia avrebbe davvero bisogno di una classe dirigente all’altezza di un passato glorioso che può tornare solo se iniziamo a volare alto al posto di ridurci, come stiamo facendo, una volta giunti a fondo, a metterci anche a scavare…

In più fin la logica filosofica ci permette di non incorrere in un errore molto diffuso, cioè estendere un caso particolare con responsabilità personali a una intera categoria, una inferenza questa che scorgiamo in moltissimi dibattiti politici. L’idea dello stereotipo è un fenomeno naturale in cui cerchiamo di riportare al noto qualcosa che ci sfugge per estensione e complessità così per pigrizia al posto di conoscere e comprendere i fenomeni ci limitiamo ad “attaccarci” sopra delle etichette preconfezionate.

In realtà la paura per il diverso ha origini antiche, basterebbe infatti pensare all’antica Grecia e al termine Xenos, un termine controverso che possiamo reperire fin da Omero. Il termine Xenos ha infatti una duplice valenza di “straniero” nel senso di persona esterna allo Stato greco, un viaggiatore straniero insomma, ma anche come una persona con cui siamo in una relazione di amicizia. Lo Xenos può essere un membro esterno alla comunità che è semplicemente straniero, l’altro, alterità e diversità.

Lo Xenos può quindi a seconda del contesto risultare straniero in sesno stretto, ma anche ospite o perfino amico!

È interessante inoltre ricordare un dialogo di Platone in cui compare la figura dello Xenos di Elea col quale attraverso Socrate Platone ingaggia indirettamente una discussione sulla dottrina parmenidea e nel quale lo Xenos tanto temuto ha invece un ruolo importante perché dal confronto dialogico entrambi gli interlocutori pervengono a nuove formulazioni, crescono insieme e si confrontano.

La figura dello Xenos resta controversa, complessa, difficile da decodificare, ma quando parliamo dovremmo sempre ricordarci che esso racchiude problemi, ma anche opportunità.

Matteo Montagner

[Immagini tratte da Google Immagini]

I danni del razzismo

 

“Coloro che a noi sembrano semplicemente una massa informe di immigrati sono persone con diverse storie, con bagagli culturali ed esperienze molto varie, sono comunque individui che- prima di essere immigrati in un paese come ad esempio l’Italia- sono “emigrati” da un altrove a noi ignoto.”
Renate Siebert

Gli immigrati sono divenuti oggi, era della globalizzazione, del principio d’uguaglianza, della fine del dominio coloniale e della frantumazione del sentimento d’appartenenza nazionale il bersaglio prediletto del razzismo.
Volgendosi contro un gruppo di persone accomunate soltanto dal fatto di possedere una tradizione e una cultura differente da quella occidentale, il razzismo trova giustificazione tra la popolazione, perché non ricorre più alla categoria della razza, della differenza biologica tra individui di pelle bianca e individui di pelle nera ormai smentita dalla scienza.
Tuttavia pare lecito chiedersi se possa mai esistere una giustificazione valida per il razzismo, posto che tutti gli atteggiamenti derivanti da esso vanno a costituire un filtro tra le persone, che ne impedisce il reciproco riconoscimento.
La sfida della nostra epoca, secondo la sociologa Renate Siebert, consiste quindi nel disimparare il razzismo che si annida nelle relazioni quotidiane, che serpeggia nei sottotitoli dei quotidiani locali, che viene nascosto tra un emendamento e l’altro tentando così di passare inosservato.
Il dovere di ciascun uomo oggi consiste nell’autocritica, nella riflessione quotidiana sui gesti che compie in modo da scovare dove si annida il razzismo e sconfiggerlo, perché questo è una passione, come diceva Sartre, che l’uomo deve vincere per poter instaurare delle relazioni interpersonali, basilari per la la realizzazione della vita propria e altrui.
Il punto di partenza dell’analisi condotta dalla sociologa Siebert in merito al razzismo è l’uomo, e tale scelta contrasta palesemente con le leggi che ogni stato Europeo ha prodotto per dotarsi di una politica migratoria completa, le quali mettono al centro l’interesse economico.
Siebert comincia dal “L’uomo invisibile” richiamando il titolo dell’opera scritta da Ralph Ellison nel 1947, infatti colui che vive sulla propria pelle il razzismo sente di non contare nulla per la società in cui vive, la quale si disinteressa totalmente delle sue azioni, dei suoi bisogni e dei suoi pensieri e si accontenta dell’immagine stereotipata che le viene fornita dai mezzi di comunicazione.
Accade così che, rifiutando di vedere l’altro e negandogli l’esperienza della relazione interpersonale, gli uomini si macchiano le mani di una grave colpa, infatti diventano responsabili del mancato processo di identificazione.
L’ altro, che solitamente è colui che si differenzia per il colore della pelle, ottiene di rimando un’immagine corporea e un’identità disturbate, infatti non vede riconosciuta la sua specificità ma si sente inglobato all’interno di una categoria, come ad esempio “il marocchino”, e per questo prova dapprima vergogna, fino ad arrivare ad una vera e propria sofferenza fisica e mentale. L’atteggiamento razzista fa provare sulla pelle di coloro che ne sono vittima il rifiuto fisico del loro corpo da parte di altri, il disprezzo, la nausea e di conseguenza porta all’isolamento e alla solitudine.
I danni del mancato riconoscimento non si limitano però a ledere irreparabilmente l’umanità di un singolo individuo, ma vanno ad intaccare le identità di tutti gli individui che gli gravitano attorno, infatti sopprimendo una differenza, perdiamo per sempre la possibilità di relazionarci con essa e di costruire il nostro Io tenendone conto.

“Riconoscere il rapporto con l’altro come costitutivo della mia stessa identità vuol dire che la mia autorealizzazione non può andare disgiunta dall’autorealizzazione dell’altro, che la mia autonomia non può essere promossa senza promuovere l’autonomia dell’altro. Come ha mostrato Hegel, l’identità non può essere costruita senza rapporto con la differenza: quando l’identità viene costruita semplicemente contro l’altro, in via di principio sto lavorando contro la mia stessa identità, in quanto tendo a distruggere uno dei suoi elementi essenziali, ovvero la possibilità di vederla riconosciuta dall’altro.”

Utilizzando le parole di Franco Crespi, Siebert sposta l’asse della sua analisi dal singolo soggetto vittima di razzismo all’insieme degli esseri umani che costituiscono la società e afferma che il bisogno primario di qualsiasi uomo sta nel vedersi riflesso nello sguardo altrui.
L’esistenza dell’alterità diviene allora un presupposto fondamentale per poter vivere, se non esistessero altri soggetti che riescono a vederci per intero, non riusciremmo a ovviare alla nostra costitutiva incompletezza, e soprattutto senza lo sguardo altrui non appagheremo il bisogno di riconoscimento.
Per avvalorare la sua tesi la sociologa di origine tedesca fa ricorso alla dialettica servo-padrone di Hegel, il quale pone un padrone e un servo, apparentemente opposti, inconciliabili ma che si scoprono essere l’uno legato all’altro, in quanto il padrone non sarebbe tale se non avesse un servo che così lo riconosce e lo stesso vale per il servo, che non esisterebbe senza lo sguardo umanizzante del padrone. Sia il servo che il padrone partecipano attivamente a questa lotta per il riconoscimento, sono in una condizione di reciprocità assoluta, mentre nel rapporto minato dalrazzismo l’individuo che viene considerato diverso viene escluso totalmente dalla dialettica perché ritenuto estraneo al genere umano.
Tra le ragioni che portano l’uomo “bianco” ad estromettere dalla dialettica servo-padrone l’uomo “nero” spicca la paura, il terrore di ritrovarsi di fronte ad un individuo portatore di caratteristiche totalmente diverse dalle nostre, con il quale non sappiamo come rapportarci e della cui reazione abbiamo timore.
Accade così che invece di intraprendere la strada della conoscenza dell’altro utilizziamo definizioni e immagini già in uso nella società, che hanno come vantaggio la limitazione dell’impatto con l’alterità che ci troviamo innanzi, ma come svantaggio la perpetrazione di pregiudizi infondati che impediscono di fare esperienza della diversità. Si tratta delle rappresentazioni sociali, costrutti che trapassano dalla società ai singoli individui, i quali grazie ad esse hanno sempre la sensazione di vivere in un mondo sicuro e sotto controllo, perché ogni qual volta fa ingresso un elemento di rottura, subito lo travestono per ricondurlo alle categorie già note. Oltre alle rappresentazioni sociali, le opinioni, che non sono altro che verità forti e schiette travestite con l’abito del giudizio soggettivo, e il senso comune, che è il bagaglio che ciascuno di noi si porta appresso di tutte le convinzioni, le abitudini, le regole che considera ovvie, costituiscono una barriera che ci impedisce di esperire l’altro, perché lo cristallizzano in un’immagine stereotipata che non trova riscontro nella realtà.
La figura che oggi meglio incarna l’alterità è l’immigrato, che differisce da noi per cultura, per religione, per colore della pelle, per posizione sociale e la sfida della nostra epoca consiste, secondo Siebert, nel mutare lo sguardo, infatti sostiene:

“Per affrontare la problematica del riconoscimento, indubbiamente, occorre innanzitutto partire da una ristrutturazione, da un ri-posizionamento dello sguardo. Anziché limitarci a scambiare la figura dell’immigrato – che rappresenta una parte – per il tutto, dobbiamo fare lo sforzo di conoscere l’emigrato, la parte nascosta e vitale.”

Solamente quando abbandoniamo le categorie cui siamo soliti ricorrere nella classificazione dell’alterità e andiamo fisicamente incontro all’altro riusciamo a rompere la barriera che si frappone tra il “noi” e il “loro”, e finalmente guardiamo colui che ci stava di fronte, lo riconosciamo ed egli fa altrettanto con noi.

Valentina Colzera

[immagini tratte da Google Immagini]

Straniero in terra straniera

<p>Ryszard Kapuściński con i soldati, Angola, 1975</p>

“Straniero in terra straniera”

Mosè in Esodo 2:22

Essere stranieri è scritto nel nostro destino di esseri umani.
Alzi la mano chi non ha mai avuto la sensazione di essere straniero a chi gli stava attorno.
Tocchiamo con mano la nostra estraneità rispetto agli altri per il colore della nostra pelle, per gli ideali che ci spingono ad agire, per il Dio davanti al quale ci inginocchiamo e per un’infinità di altre cose che ci rendono diversi, unici.

Siamo tutti stranieri

La terra sulla quale ergiamo le mura per dividerci dai nostri simili non conosce il significato della parola confini nazionali, perchè non è altro che terra; che sia ricoperta di ghiaccio, battuta dal sole rovente, ricoperta di cemento e grattacieli rimane terra. Tutti noi essere umani siamo estranei alla terra composta per lo più da elementi duri come il ferro, e ci libriamo sopra di essa grazie alla nostra elevata percentuale di ossigeno, come fossimo foglie che galleggiano sullo stagno.

Siamo stranieri in una terra straniera.

Questa rubrica vuole parlare di stranieri, sostanzialmente di uomini e donne e delle loro vite e lo vuole fare con le parole…con le immagini…con la musica e con qualsiasi artefatto che possa rompere le “mura di carta” che sono state create tra me e te straniero e renderci finalmente entrambi stranieri.

Valentina Colzera

[foto tratta da Google Immagini]