Il dovere della memoria in un paese senza verità

La memoria di importanti avvenimenti passati rischia sempre in Italia di essere vista come un dovere vuoto, un obbligo stantio o un valore istituzionalizzato che però finisce col non avere più presa sulle persone e sul mondo di adesso. Anche perché se il ricordo è legato a fatti sui quali non si è fatta giustizia né si è arrivati a una verità, dopo molti anni di indagini, condanne, assoluzioni o depistaggi, può sopraggiungere una certa stanchezza anche nell’opinione pubblica, che il ricordo e la ricerca della verità dovrebbe sempre avere a cuore.

Durante la serata condotta da Fabio Fazio e trasmessa da Rai 1 in onore di Giovanni Flacone e Paolo Borsellino, i giudici uccisi dalla mafia a Palermo 25 anni fa, ho invece avuto la sensazione che il dovere della memoria sia veramente fondamentale per il nostro paese e per dei motivi anche incredibilmente pratici.

Questo me lo hanno fatto capire, come in un’epifania, un discorso ascoltato quella sera e dei fatti accaduti quasi due mesi dopo, arricchendo il significato che il termine memoria può avere per l’Italia in certi casi. A parlare con grande chiarezza durante quella trasmissione, ben fatta e con molte buone intenzioni ma inevitabilmente colma della retorica che accompagna sempre questi avvenimenti, è stata la figlia più giovane del giudice Borsellino, Fiammetta, che oggi ha 44 anni.

Una delle frasi che più mi ha colpito del ricordo di Fiammetta, che nel ’92 aveva solo 19 anni, è questa: «Il valore della memoria è necessario a proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato». Il ricordo inoltre è una presa di posizione per tutti noi anche adesso, dice la donna, per ribadire che stiamo dalla loro parte, quella dei magistrati, e dalla parte della legalità.

Insieme al dovere di ricordare, e inscindibile da esso, la Borsellino pone la ricerca della verità. Ricordare significa non arrendersi, ricordare deve significare pretendere una verità e, come ha sentenziato Fiammetta Borsellino, «non una verità qualsiasi», ma una verità che dopo 15 anni di false piste e 25 di processi stabilisca le responsabilità materiali e quelle delle menti raffinatissime, come le chiama la figlia del giudice, che hanno lavorato sia subito dopo la strage sia negli anni seguenti perché la verità non venisse a galla. La verità bisogna pretenderla, solo in questo modo il ricordo non sarà vuoto, fine a se stesso, o al massimo relegato a una serata di commemorazione.

Il 13 luglio si è conclusa la revisione del processo per 9 imputati condannati per la strage di via D’Amelio. Sono stati tutti assolti a 25 anni distanza dal fatto, dopo che le accuse del falso pentito Vincenzo Scarantino erano state smentite nel 2008 dal nuovo pentito Gaspare Spatuzza, che si è autoaccusato del furto della Fiat 126 utilizzata come bomba. La storia giudiziaria di via D’Amelio comprende al momento quattro processi. Dopo il 2008 e le confessioni di Spatuzza si è giunti alla condanna di alcune persone, Spatuzza compreso, per la preparazione materiale della strage, ma molte verità sono ancora da stabilire, ivi comprese quelle sul depistaggio che ha indicato per più di un decennio un balordo (Scarantino) come uno degli artefici della strage. La sentenza del 13 luglio sancisce infatti che per almeno 15 anni abbiamo creduto a una versione falsa dell’accaduto, che magistrati e investigatori hanno avallato e difeso nella migliore delle ipotesi. Ce ne sono voluti 25 perché le persone che scontavano la pena per un fatto non commesso venissero scagionate.

Questo è l’altro pezzo di storia che, assieme ad alcune letture, mi ha fatto riflette sul valore e oserei dire sul dovere di ricordare, soprattutto in casi come questo. Dopo 25 cosa bisogna ricordare? Qual è la verità? Come si può onorare delle vittime della mafia se non si può garantire loro verità e giustizia?

Per via D’Amelio e per molti altri misteri d’Italia non ci si può limitare a ricordare passivamente. La verità giudiziaria deve andare di pari passo con quella storica, ma quando così non è non si può fare finta di niente. Bisogna porsi delle domande per aiutare la costruzione di una verità. L’opinione pubblica deve ricordare criticamente, non accogliere qualsiasi verità come LA verità, come per molto tempo (non da parte di tutti ovviamente) è stato fatto. La formula “un colpevole purché sia” non deve poter essere accettata mai, tantomeno quando si tratta di una delle stagioni più drammatiche della recente storia del nostro paese.

Laddove una verità certa e completa non è ancora stata rivelata è ancora più importante non perdere il ricordo. Come si può ricordare in maniera sincera e puntuale un avvenimento in cui sono morte una o più persone se non si conosce fino in fondo la dinamica del fatto, se non si conoscono le responsabilità ai più alti livelli e se non si è fatta abbastanza chiarezza intorno al contesto storico che ha portato al verificarsi di quell’evento.

In questa piccola riflessione, sia per la concomitanza con l’anniversario della strage di via D’Amelio (19 luglio 1992), sia per le ultime notizie processuali, ho preso quel fatto e i non pochi misteri che ci sono ancora come paradigmi. Ce ne sono stati e ce ne sarebbero molti altri di fatti sui quali nel nostro paese non si è fatta ancora chiarezza, catalogati sotto l’obbrobriosa definizione di “misteri italiani”. Come se i responsabili fossero destinati a rimanere avvolti nell’ombra, con la speranza tutta italiana che un po’ alla volta che le vittime come la gente si stanchino di ricordare e di chiedere verità e giustizia. Per questo la voce forte ed emozionata della signora Fiammetta sono così importanti: sanciscono un punto di partenza e non di arrivo. La memoria di cui abbiamo bisogno è quella da cui scaturiscono domande, che non si accontenta, che se è necessario accusa le storture del nostro sistema e, cosa più importante, tende alla verità.

Tommaso Meo

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia

Sparatutto e GTA, nuove frontiere del terrorismo

<p>The truck which slammed into revelers late Thursday, July 14, is seen near the site of an attack in the French resort city of Nice, southern France, Friday, July 15, 2016.  France has been stunned again as a large white truck mowed through a crowd of revelers gathered for a Bastille Day fireworks display in the Riviera city of Nice. (AP Photo/Luca Bruno)</p>

Ricordo bene l’arrivo del Natale quando si era ragazzi. Ricordo bene quel senso di eccitazione che ruotava attorno all’attesa dei regali, che per i più fortunati significava un gioco nuovo per la Play Station. Ma in un modo o nell’altro quel gioco sarebbe arrivato tra le mani di ognuno di noi, a casa di un amico o magicamente scaricato dal web. Andava di moda GTA, in una delle tante versioni passate alla storia. Un gioco a dir poco irriverente e per questo spopolava: si trattava di fare tutto quello che nella realtà le leggi e il senso etico ci impediscono. Possiamo sparare a tutti, investire persone in auto, andare a puttane in pieno giorno e picchiare, picchiare a sangue chiunque si metta in mezzo tra noi e la nostra onnipotenza.

Non scandalizzatevi! È solo un gioco!”, ripete ogni ragazzo come un mantra, mentre la mamma lo guarda preoccupata, sperando che almeno i compiti per il giorno dopo siano stati fatti.

Nel frattempo il mondo è stato messo a ferro e fuoco da notizie di cronaca nera e di terrorismo, di stragi e di tutto quello che quotidianamente ci fa storcere il naso, quanto più accade vicino ai nostri confini. Il nostro radar del disgusto e del ribrezzo sociale si attiva ogni giorno accendendo il telegiornale, eppure c’è un altro meccanismo che ormai è costantemente attivo in quasi ognuno di noi.

La disinibizione.

Siamo disinibiti di fronte alla violenza, dopo esserci allenati per anni con un joystick in mano; non ci sembra in fondo così strano se qualcuno spara all’impazzata e senza un motivo per strada.
Sì sì, ci scandalizziamo per quei cinque minuti dopo aver sentito la notizia, ma l’informazione in entrata rientra comunque in una gamma di possibilità (cioè di azioni fattibili, possibili) anche perché le abbiamo già esperite virtualmente. È solo un gioco, quello di GTA, certo, ma ci introduce in un climax sinaptico che rafforza nella nostra testa certe connessioni. Strada? Camion? Sì, se scaviamo tra le possibili azioni combinando questi due elementi, ci troviamo anche quella di stendere passanti e polizia, roba da una sola stella tra l’altro (per gli intenditori).

Gli scopi del gioco sono sicuramente quelli di far divertire e sfogare anche con ciò che abitualmente non possiamo fare. Il gioco virtuale potenzia nell’immaginazione le nostre possibilità e ci regala qualche ora di gloria incontrastata. L’effetto però non si ferma qui, il potenziamento a lungo termine dei neuroni (LTP) non guarda in faccia alla morale e rafforza nel nostro bagaglio esperienziale anche l’intera gamma di azioni che abbiamo compiuto giocando. Virtuali o tangibili il cervello le ha esperite, ci siamo macchiati di un peccato da poco, apparentemente, ma che non si può lavare con l’oblio o con una risata.

Scappando dalla polizia o tirando sotto i passanti il nostro cervello ha messo in atto quel meccanismo tanto straordinario quanto delicato della plasticità del sistema nervoso. Addestrando i collegamenti sinaptici che riguardano un determinato comportamento, le connessioni tra i neuroni e il verificarsi di certe condizioni si intensificano, modificando permanentemente la nostra struttura. Il cervello non è elastico, non ritorna allo stato di quiete iniziale dopo aver passato il pomeriggio a sparare e investire persone (virtuali), anzi si modifica e rimane marcato.

Se infatti diamo un I-phone in mano ad un indigeno, non lo userà certo per cercare Pokemon, al massimo proverà a spaccare noccioline, perché nel suo ventaglio di azioni concepibili con un oggetto di quella consistenza, si dipana solo qualche simile possibilità. Per noi, invece, il camion era sempre stato un mezzo di trasporto: me lo ricordo quando ci giocavo da piccolo, per non aver  ricevuto in regalo GTA. Il mio cervello non aveva ancora vagliato una possibilità diversa perché il mio avere-a-che-fare (l’Umgang heideggeriano) con quell’oggetto si nutriva di altre finalità.

Ormai invece siamo immersi in una quotidiana violenza con ogni oggetto che ci capiti tra le mani, vediamo obiettivi da sterminare ad ogni difficoltà o fastidio. Non diventeremo tutti assassini, certo, ma abbiamo inserito nel nostro mondo del possibile anche atrocità che ora iniziano a presentarsi sempre più frequenti.

Non sono azioni isolate di persone disturbate, ma alcuni tra gli esiti e le conseguenze della cultura della violenza, che addestra miliardi di neuroni a disinibirsi di fronte alla brutalità e a uccidere non più per fame, non più per protezione di un confine, ma per un’idea, per uno sfizio che ci si voleva togliere, o per passare un pomeriggio di svago al centro commerciale…

Giacomo Dall’Ava

Indifferenza assordante

– Mi chiamo Aarif, ho 15 anni ma me ne sento 70.

– Sono stanco, tutto sporco e bagnato.

– Sento ancora urlare, correte vi prego, sento la mia mamma che urla e…non sento più i miei fratelli!

– Ho freddo ho fame ho paura.

– Ho paura da quando sono nato. Nel mio paese c’è la guerra ed io sono cresciuto scappando, sempre correndo, infatti voglio partecipare alle Olimpiadi da grande, perché sono fortissimo!

– Ho cinque fratelli ma ora non li vedo. Sapete dove sono? E la mia mamma?

– Mi ricordo solo che mi hanno picchiato e mi hanno messo con la forza su una piccola barca, ma per me eravamo troppi, ma mamma diceva di non avere paura.

– Io mi fidavo della mia mamma.

– Ma dov’è? Non la vedo…voglio la mia mamma.

– Poi all’improvviso ho visto solo acqua, ho sentito solo urlare. Non ho più sentito il calore della mamma che mi stringeva forte e da allora la sento solo urlare. Anche adesso.

– Perché sento ancora le urla? È come per le armi. Quando vado a dormire sento sempre gli spari, anche se non ci sono. È molto fastidioso perché così non riesco a dormire.

– Ora non so dove sono. E non so dove sono tutti i miei compagni di viaggio.

– Ho visto tanti letti appena arrivato qui, con delle lenzuola sopra. Forse sono per farci riposare, ho pensato! Invece mi hanno detto di non avvicinarmi…ma non so perché.

– Ma insomma dove sono tutti i miei fratelli?

– Io da solo cosa faccio? Non conosco nessuno.

– Quasi quasi preferivo dormire sentendo gli spari ma abbracciato a mamma piuttosto che qua tutto solo con gente che mi parla ed io non capisco niente.

Una storia qualsiasi.

Una tra le pochissime che ancora possiamo ascoltare di fronte a 1750 storie distrutte dal mare dall’inizio del 2015 ad oggi.

Come vivranno tutti Aarif sopravvissuti? Tutti i bambini che hanno perso l’intera famiglia?

Ai rumori degli spari, nella notte, si uniranno le urla che hanno sentito, la solitudine che si porteranno dietro come un macigno e l’insaziabile domanda “Perché?”.

E noi? Come andiamo a dormire?

L’indifferenza verso queste storie credo stia diventando assordante.

Per tutti.

Valeria Genova

[Immagini tratte da Google immagini]