Il bivio esistenziale: le due strade di Guido Gozzano

L’una luminosa, ricca, autentica; l’altra posata, priva di brio, grigia: sono queste le due strade esistenziali descritte nell’omonima poesia di Guido Gozzano, personificate da due figure, metafora del cammino di ogni singolo individuo. Grazia e la Signora, entrambe donne: l’una molto giovane, l’altra ormai in età avanzata «da troppo tempo bella, non più bella tra poco»1, come la definisce il poeta, privata di quella vitalità tipica dell’adolescenza, che fa apparire il mondo vivace e colorato, ricco di gioia.

Sembrano così diverse all’apparenza: Grazia ha «una bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose», dei «biondissimi capelli» e una «bocca vermiglia», la Signora è «triste», passiva, nostalgica in molti suoi atteggiamenti, eppure «la vita una allacciò all’altra» afferma il poeta, il destino vuole che entrambe si incontrino, si sfiorino sebbene per poco tempo.

Grazia a cavallo della propria bicicletta, dinamica, vitale incontra dopo molto tempo la Signora che quasi stenta a riconoscerla, tanto è cresciuta e diventata donna. Ma l’incontro dura poco, poi la giovane riparte per la propria strada.

Cosa significa? Cosa simboleggiano queste due figure che occupano in fondo l’intera scena poetica?

Si tratta di due immagini simboliche, che personificano due condizioni esistenziali: l’una autentica, forse più facilmente assimilabile alla giovinezza spensierata, quando, come afferma Leopardi «solazzo e riso» sono della «novella età dolce famiglia»; l’altra inautentica, matura, sicura, ma priva di quella brillantezza che dovrebbe caratterizzarla. Due modi di vivere, dunque, paragonabili ad un bivio, dove una scelta esclude l’altra.

Non a caso il poeta che, per costrizione sociale o per condizione personale, si sente più simile alla Signora, vede partire per sempre Grazia, di lei conserva solamente l’eco della sua voce e la promessa di un futuro ritorno che non giunge. «Grazia è scomparsa. Vola – dove? – la bicicletta»2 afferma infatti in chiusura Gozzano, di lei non è rimasta traccia tangibile: la felicità se ne è andata con la scelta di una strada diversa.

L’immagine portante attorno a cui è costruita questa poesia, apparentemente spensierata e redatta come un ritornello, è dunque un tema filosofico tra i più significativi e profondi: l’uomo e le proprie scelte, i bivi esistenziali che si presentano come biforcazioni antitetiche, in quanto ogni persona può prendere una sola strada.

Ciò porta a una serie di conseguenze di non poco valore: l’abbandonare alcune possibilità rispetto ad altre, il subentrare della nostalgia o del rimpianto alla vista di chi ha effettuato altre scelte, la rinuncia di vite parallele alla propria. È ciò che si trova a sperimentare la Signora e il poeta stesso che afferma «che valse la luce mattutina raggiante sulla china tutte le strade false?/cuore che non fioristi, è vano che t’affretti verso miraggi schietti in orti meno tristi3. Entrambi hanno rinunciato alla felicità, per abbracciare una vita di doveri e sicurezza, che manca di emozioni spontanee e intense. Da qui quel senso di rimpianto, che solo chi ha fatto questa scelta può percepire, difronte a una persona – Grazia – che invece incarna un’altra possibilità, forse più precaria, frivola per certi aspetti, ma piena di gioia.

È un tema che si ritrova fin dalle origini nella scena filosofica: si pensi anche solo a Parmenide che mostrava come due erano le strade percorribili: l’una “la via della verità”, dello svelamento e l’altra “la via dell’opinione”, fallace, ingannevole, via che porta necessariamente all’errore.

In fondo questa antitesi tra strade e vie diverse è un il fil rouge di tanta riflessione filosofico-letteraria che si trova ad affrontare i dilemmi dell’uomo diviso tra varie scelte esistenziali, senza una risposta su quale sia la migliore per sé.

Gozzano tuttavia mostra un punto di vista, una soluzione, sia pure poco rassicurante, che rispecchia la propria condizione: ovvero quella di un uomo troppo preso da una vita impostata, piena di doveri. Ciò non significa che egli non dia possibilità nelle scelte, ma in un certo senso ammonisce il lettore a fare attenzione a quali sono le vie calpestate, perché spesso queste hanno un unico senso di marcia.

Un bozzetto colorato ma allo stesso tempo ricco di indagine filosofica, quello presentato dunque dal poeta, che lascia il lettore con alcune profonde domande: quanto distante è la felicità dalla nostra vita? Quanto influenziamo il destino con le nostre scelte? Dove si trova la vera felicità?

Forse, dice Gozzano, basta osservare meglio e non lasciarsi sfuggire quella donna «dolcesorridente» quando sfiora la nostra strada con la sua veloce bicicletta.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. G. Gozzano, Poesie e prose, a cura di Luca Lenzini, Milano, Feltrinelli, 2011, p.104.
2. Ivi, p. 107.
3. Ivi, p. 105.

 

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Il sogno di un viandante: Sbarbaro e il cammino esistenziale

Se osserviamo con attenzione le opere pittoriche del Novecento, leggiamo una raccolta di poesie dello stesso periodo o un romanzo che narra le vicende del secolo, possiamo notare come tra le immagini, spesso compare un leit motiv: la figura di un uomo che cammina per le vie cittadine, di un personaggio colto nell’atto di spostarsi o di un viandante che si riversa tra la folla.

Si tratta di raffigurazioni che hanno fatto strada, diventando metafora di una condizione esistenziale: la vita come un viaggio, un percorso in cui l’uomo si trova a dover muovere dei passi, sicuri o incerti, soli o in compagnia. In fondo che cosa significa vivere se non viaggiare? Che si tratti di un viaggio fisico o mentale, l’uomo da sempre è spinto per propria natura al dinamismo, a percorrere vie che lo conducono a successi ed insuccessi, sperimentando strade sempre nuove.

Camillo Sbarbaro, in linea con le tendenze del secolo, rende il viandante, l’uomo camminatore, il protagonista della sua raccolta Pianissimo, rappresentando un personaggio che si muove, nel mentre si trova a riflettere sui profondi significati dell’esistenza: il dolore, l’amore, la solitudine, la vecchiaia.

«M’incammino/pei lastrici sonori nella notte./ Non ho rimorso e turbamento»1. L’io poetico vaga, va oltre le case, gli alberi, la folla, si insinua nelle vie più oscure e dimenticate della città, senza trovare una meta precisa al suo viaggio, quasi fosse un ubriaco che non conosce il fine dei suoi passi. L’uomo di Sbarbaro è un uomo privo di punti di riferimento, la vita lo sovrasta, non è lui a guidare il timone della sua nave, ma si lascia trasportare dalla realtà, dalle cose, spesso si trova in difficoltà lungo il percorso, è costretto ad affrontare l’aridità del vivere. Si tratta di una chiara metafora esistenziale, non molto distante dall’immagine che altri poeti, come Leopardi, ci hanno trasmesso nella storia della letteratura.

Ciò che Sbarbaro ricorda ai suoi lettori è la condizione di ognuno di noi: sempre in cammino, spesso travagliati da una serie di dolori, inconsapevoli di dove voltarsi o dove recarsi.

Quante volte ci sentiamo anche noi «come una nave senz’ancora né vela che abbandona la sua carcassa all’onda?» Quante perdiamo i punti di riferimento a noi consueti e vaghiamo come sonnambuli «sull’orlo di un burrone» senza nemmeno accorgerci dove ci troviamo?

Proprio queste situazioni sono, secondo il poeta, l’essenza del nostro vivere, lo spazio di tempo in cui alterniamo sonno e veglia, due condizioni che talvolta si mescolano tra loro, quasi a dire che

l’uomo non vive appieno la realtà, ma spesso non si accorge di vivere.

«Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo/come in sonno tra gli uomini mi muovo./ Di chi m’urta col braccio non mi accorgo»dichiarava l’io poetico, come se la meraviglia di scoprire la realtà fosse venuta meno, lasciandolo in uno stato di perenne torpore.

Si tratta di una condizione che spesso coinvolge anche i più attenti, tanto la nostra quotidianità ci spinge a camminare velocemente, incrociando le persone senza assaporare il loro carattere o la loro personalità.

Tuttavia, come capita talvolta in alcune narrazioni poetiche e non, anche la figura umana può in qualche modo trovare una forma di riscatto, in alcuni sentimenti eterni quali l’amore per la famiglia, il radicamento alla terra, la condivisione.

«Forse un giorno sorella noi potremo/ ritirarci sui monti, in una casa/ dove passare il resto della  vita./Sarà il padre con noi se anche morto»diceva Sbarbaro, quasi sognando un nuovo incontro familiare.

In conclusione dal libro Pianissimo emergono due importanti verità: l’uomo contemporaneo tende a muoversi con velocità tra gli spazi del reale, spesso inconsapevole di se stesso; contemporaneamente, in questo viaggio verso una meta sconosciuta, è possibile amare ed essere amati, riscoprire la natura, il legame profondo che abbiamo con le nostre origini.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di Lorenzo Polato, Marsilio, Venezia 2001, p. 45.
2. Ivi, p. 60.
3. Ivi, p. 63.

 

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Dentro il paradosso: quando il barbiere si rade da sé

Se è vero che per natura – come ci dice Aristotele – l’ uomo ama conoscere, ama anche – e ciò è confermato dai quiz televisivi come dalle riviste di enigmistica – che lo si provochi nella conoscenza. Questo fanno enigmi e paradossi che l’uomo per secoli si è divertito a costruire e a cercare di risolvere. Ma, al di là della nostra contingente soddisfazione nel risolverlo o della frustrazione nel non riuscirci, qual è il valore conoscitivo del paradosso, cosa ci dice cioè sul modo di pensare dell’uomo e sulla scienza che egli elabora?

La storia dei paradossi corre parallela alla storia dell’uomo che si ingegna nel superarli: la sfida che essi gettano all’uomo costituisce l’altra faccia della loro debolezza. Per essere più espliciti: una contraddizione indica di cambiare strada – di lì proprio non si passa –, il paradosso invece invita a cambiare modo di percorrere la stessa per evitare un ostacolo imprevisto, magari essendo più consapevoli dei propri mezzi e di certi limiti. Così ad esempio il paradosso del barbiere, che ci chiede: chi rade il barbiere, posto che il barbiere rade solo chi non si rade da sé? Esso ha portato a riflettere sui limiti dell’autoriferimento in logica e in matematica spingendoci ad elaborare soluzioni che evitino questo tipo di difficoltà.

In generale il paradosso così inteso è il sintomo che dobbiamo fare un check-up tecnico, cioè tornare ad analizzare gli strumenti base che utilizziamo nel pensiero, per assicurarci che non li stiamo usando in modo scorretto. Se il paradosso, fatte queste verifiche, regge, allora ciò è indice che stiamo sfiorando il limite del pensiero o del linguaggio.

Quanto detto vale per i cosiddetti paradossi logici o sintattici, esistono però anche i paradossi semantici o pragmatici, come quello celebre e antichissimo del mentitore, che nella formulazione più breve recita: «Questa proposizione è falsa», oppure la battuta di Georg Carlin che si chiede: «Se uno cerca di fallire e ci riesce, cosa ha fatto?». Questo tipo di paradossalità è legata al rapporto parola-mondo e richiede per funzionare di essere inserita almeno con la fantasia in un contesto concreto. Sicché i paradossi del primo caso nascono in forma logico-matematica e vengono poi tradotti, quando è possibile, in forma narrativa, questi secondi invece nascono dal concreto e non è possibile, salvo forzature, trasporli in un contesto logico.

Con il paradosso pragmatico si fa evidente un altro lato di quella fascinazione umana verso il paradosso che cercavamo di indicare all’inizio dell’articolo, e non per nulla esso è usato da maestri della comunicazione, comici e letterati: Wilde, Nietzsche, Chesterton – e la lista potrebbe indefinitamente estendersi –p furono tutti amanti e grandi frequentatori dell’uso retorico del paradosso.

Elegante e spiritoso, problematico e sfuggente il paradosso ha conquistato tanto i letterati quanto i matematici. Alcuni ne spiegano il successo sostenendo che è la struttura stessa della realtà ad essere paradossale, secondo altri invece esso si riduce a nulla più che ad un uso errato del linguaggio, un gioco di parole. Rimane nondimeno del tutto intatto il mistero del suo fascino sull’animale razionale che è l’uomo.

Francesco Fanti Rovetta

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Apocalisse dell’amore: David Casagrande intervista se stesso

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Anzitutto mi faccia dire che trovo presuntuoso che lei abbia accettato questo incontro.

Lei voleva intervistarmi, io ho acconsentito: dov’è la presunzione? Trovo piuttosto singolare che uno chieda un favore a qualcuno, sperando che costui glielo rifiuti.

Senta, vorrei essere breve, e m’impegnerò per riuscirci: detesto ogni secondo che passo con lei.

La capisco. Starmi vicino non è facile: ho un carattere terribile. Anch’io, se fossi un’altra persona e mi conoscessi, mi detesterei. Ma partiamo, dunque!

Partiamo dall’articolo sulla meraviglia. Lei sostiene che la gratitudine che proviamo innanzi alla meraviglia si chiama “amore”. Però non spiega minimamente cosa sia l’amore: potrebbe descriverci questo sentimento?

Scrive il Tao-te-ching: «Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao». Tao significa sentiero: io ritengo che l’Amore-vero sia esattamente questo: il punto d’arrivo (e quello di partenza) d’una strada su cui dirigere i nostri passi. Noi uomini possiamo percorrere varie direzioni, evidentemente, ma solo la strada dell’Amore è giusta.
Il problema è che, esattamente come l’eterno-Tao della tradizione cinese, anche l’Amore-Vero lo possiamo dire in mille modi, ma non riusciremo mai a coglierlo, perché l’amore-che-può-essere-detto non è l’Amore-Vero.

Come risolvere questa scollatura tra Amore-vero e amore quotidiano?

Cercando di cogliere, per approssimazione, l’Amore-vero nelle varie tipologie di amori-umani e, una volta individuato, declinarlo nella pratica.

Sia più chiaro.

Kierkegaard insegna che l’uomo è tripartito in corpo, anima e spirito, ponendo questi tre aspetti in grado crescente di perfezione. Perfezione che, però, si raggiunge solo nella sintesi: lo spirito è, appunto, sintesi tra corpo e anima: ricomprendendo i due estremi nell’eterno che li ha posti, è perfezione. Ora, a ciascuno di questi tre lati dell’umano, corrisponde una diversa tipologia d’amore.
All’elemento corporeo corrisponde l’amore fisico, la prossimità corporale. All’elemento pneumatico dell’uomo corrisponde il rispetto, l’amicizia. All’elemento spirituale corrisponde la compassione.
Delle tre, la tipologia di amore-umano che più si avvicina all’Amore-vero, è la compassione, ed è tale perché ricomprende in sé passione e rispetto, e li infinitizza.
Quando agisco con compassione, seguo la via dell’Amore-vero, pur mantenendomi nell’ambito dell’amore-umano: questo perché la compassione, essendo universale, eternizza tanto la passione quanto il rispetto.
In questo senso, così si spiega il mio articolo del mese scorso: quando mi-meraviglio io amo, perché nelle cose che provocano stupore, avverto la gratuità dell’altro-da-me; attraverso di essa, sento in me compartecipazione alla vita-del-mondo, mi inserisco sulla strada giusta – anche se poi spetta a me seguirla fino in fondo: non basta stupirsi di qualcosa per dire: sono giunto all’Amore; la strada è molto più impervia. In ogni modo, più ci stupiamo, più avvertiamo com-passione, e più l’avvertiamo, più avviciniamo l’Amore.

Ma i fondamenti dell’uomo non sono lo scontro, la lotta, il desiderio di predominanza?

Queste sono le radici dell’homo-sapiens, cioè d’una razza di scimmie, non dell’essere-umano, cioè di quella creatura che ha studiato filosofia e astronomia. Ed è questa, in verità, la cosa che più mi spaventa di questo mondo: vedo molti homines-sapientes, ma pochi esseri-umani.

La sua teoria dell’Amore-Vero, che si manifesta in compassione, prevede anche una sorta di nobilitazione del sesso?

Non esattamente. L’amore fisico non è atto-sessuale, è piuttosto bisogno-di-contatto: ciò significa che la compassione non necessita del coito, ma della prossimità fisica con l’oggetto amato.
Tuttavia è evidente che l’atto sessuale, filosoficamente, è illuminante su come l’Amore-Vero necessiti parimenti di rispetto e contatto: quando infatti mi accosto alla persona che penso d’amare e toccandola, baciandola, penetrandola, capisco che (oltre a desiderarla) rispetto ogni sua caratteristica (anche i suoi difetti), allora giungo a capire la com-passione (passione-insieme).
Se invece non ne rispetto le particolarità, cercando in lei solo precisi canoni estetici, allora non ho più a che fare con un singolo, ma con un corpo: di conseguenza, non sto “facendo-l’-amore”, mi sto “accoppiando”.

Lei mi sta dicendo che quando amiamo il partner, l’amiamo con la stessa forza con cui dovremmo amare, generalmente, il mondo…

Le sto dicendo l’opposto! Sul mondo – su ogni ente del mondo – dobbiamo aspergere la stessa compassione che riverseremmo sulla persona che vogliamo al nostro fianco.
Tutto ciò, naturalmente, sperando di intrattenere relazioni veramente d’amore … eviterò, per signorilità, di parlare qui di altri tipi di rapporti, basati s’uno squallido do ut des: ignobile mercato delle vacche ove i favori sessuali sono scambiati con oggettistica varia. Queste “relazioni” somigliano all’Amore-Vero (e alla compassione) esattamente come lo sterco somiglia alla Sachertorte.

Come facciamo a capire che l’amore che proviamo per una persona è compassione, e ci può guidare all’Amore-Vero? Come possiamo essere certi della purezza del sentimento?

Occorre ripartire da sé stessi: vede, non esiste un solo modo di innamorarsi, non esiste un solo tipo di amore, perciò dobbiamo imparare ad ascoltare le nostre emozioni. Se, quando guardiamo una persona, proviamo solo desiderio o solo rispetto, e non riusciamo a sintetizzare le due cose, evidentemente non l’amiamo.

Quali sono dunque i sintomi dell’innamoramento?

Non esiste un’eziologia: io guardo i singoli sperando di cogliere l’Universalità, non il minimo comun denominatore, quello è compito dello scienziato (con l’evidenza che la scienza non spiega il mistero, e il senso, della totalità umana); al massimo potrei raccontare quello che è successo a me, ma non credo che v’interesserebbe. Di certo una cosa è chiara: l’Amore-Vero non chiede d’essere ricambiato: lo dimostra la vita-del-mondo, che non necessariamente ama i singoli, mentre esistono singoli che amano la vita-del-mondo.

Certo, è bello pensare che lei abbia ragione: mi spaventa sapere che lei, però, sbaglia. Il mondo è odio, terrore.

Quella dell’Amore è la-strada, non l’unica-strada. Ognuno si determina a seconda delle scelte che compie: nulla obbliga l’uomo a prendere una particolare direzione, se non vuole. Ed è evidente che chi sceglie l’Amore, oggigiorno, è in minoranza.

(continua, purtroppo…)

David Casagrande

Attimi di fotografia di strada: intervista a Umberto Verdoliva

Spesso si dice che uno sguardo vale più di mille parole. Nonostante io gareggi nel team delle parole, finisco col convincermi della verità di questa massima mentre osservo in anteprima le fotografie in allestimento alla mostra che presto inaugurerà presso Ca’ dei Carraresi a Treviso, 100 attimi. Fotografia di strada. Certo, bisogna che questo sguardo sia sapiente, riflessivo, incessantemente indagatore – come quello di un bravo fotografo. Incontro allora Umberto Verdoliva, fotografo e curatore della mostra (visitabile dal 2 al 13 settembre 2016 nel capoluogo veneto), e cerco di scoprire da lui che cosa si celi dietro quello sguardo così prodigioso, ma anche qualche prospettiva su quello che gli sta davanti: l’umana realtà quotidiana.

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1) La fotografia è nata nella prima metà dell’Ottocento quando si ricercava una più rapida e più fedele riproduzione della realtà, apparentemente possibile soltanto attraverso la scienza e la tecnica; solo in un secondo momento è diventata un’arte. Con la tecnologia di cui ciascuno dispone oggi, chiunque può scattare una foto, mentre naturalmente cala il numero di persone che può progettare e realizzare un’architettura oppure una composizione musicale. Che cosa dunque contraddistingue la fotografia “da album delle vacanze” da un oggetto d’arte?

La fotografia oggi è alla portata di tutti e ciò comporta una continua produzione d’immagini al punto tale che potremmo parlare di un vero e proprio spreco di fotografie. Il processo in atto è talmente ampio e complesso che è difficile per me immaginarne il futuro. La massificazione della fotografia ha trasformato quest’ultima in continui appunti visivi da utilizzare nei social, dei veri e propri “post it” che vengono in breve tempo accantonati e dimenticati negli hard disk e nelle diverse memorie di smartphone e pc; invece, se la fotografia è supportata da un’idea, da una visione personale, da un progetto, continua ad essere quella che era un tempo cioè uno strumento di documentazione, racconto, mezzo di espressione, testimonianza, memoria storica, occasione di aggregazione e socializzazione. In questo senso la fotocamera è uno strumento che potrebbe dar vita a dei veri e propri “oggetti d’arte”; di conseguenza ha molta importanza il pensiero di chi si approccia alla fotografia e il senso che vuole attribuire ad essa.

2) L’immagine del fotografo è spesso quella di una persona sola e attenta dietro al suo obiettivo mentre è a caccia… di cosa è a caccia? Perché si diventa fotografi e perché lei è diventato fotografo?

Ogni fotografo ha un suo percorso personale. Ho scoperto la fotografia per caso, in età matura e con una professione diversa già avviata e consolidata. E’ iniziato un percorso che mi ha portato a scoprire non solo la bellezza del quotidiano e a collezionare momenti che assumono un significato particolare, ma a partecipare alle vicende umane restandone inevitabilmente contaminato. E’ questa la bellezza della fotografia di strada: l’incontro con l’umanità; un incontro che non si riduce a un catturare un istante ma è un entrare in contatto con la dimensione esistenziale più profonda, quella nascosta nei piccoli gesti e/o nelle espressioni di un volto o di una situazione particolare.
Non mi sento un fotografo ma un uomo che utilizza la fotografia per mostrare agli altri oltre alla quotidianità anche se stesso; è un modo per comunicare la mia visione delle cose, del mondo e la mia sensibilità.

3) A parte in alcuni casi (quasi ovvi) o per specifiche “serie”,  le sue foto sono in bianco e nero: che cosa offre in più la mancanza dei colori?

La maggior parte delle mie foto sono in BN, ma non perché ci sia una chiusura verso il colore, anzi, ho serie nate e pensate a colori ed amo moltissimi fotografi che lo sanno utilizzare al meglio.
L’uso del BN deriva essenzialmente dal fatto che sono portato più a “celebrare” la vita e ad enfatizzare il lato emotivo della memoria e il BN mi sembra più adatto rispetto a quello della cruda realtà che attribuisco maggiormente al colore. Il BN, come del resto anche il colore, fanno parte entrambi della mia visione della realtà e li scelgo ogni qualvolta li reputo più adatti a rappresentarla; fotografare in BN o a colori non ha molta importanza, dipende cosa meglio si adatta a ciò che voglio mostrare.

Intervista Verdoliva colori - La chiave di Sophia

 

4) Il suo lavoro come fotografo si ascrive a quel genere denominato “street photography”, mentre quotidianamente veste i panni dell’architetto-urbanista. Quanto i suoi studi e il suo lavoro hanno influito sul suo sguardo da fotografo? E come può descrivere, a me neofita, la street photography?

Molti attribuiscono la pulizia compositiva e le geometrie spesso presenti nelle mie fotografie al fatto che abbia studiato materie come disegno tecnico o progettazione architettonica. Probabilmente ha influito, ma avere cura della composizione fotografica è stato assolutamente naturale. Compongo l’inquadratura velocemente e quasi sempre in maniera pulita e lineare.
Descrivere adeguatamente la street photography è molto difficile, ogni definizione ha i suoi limiti. I confini sono talmente labili da confondere spesso anche chi la pratica da anni. Una definizione di Luciano Marino descrive bene che cosa rappresenta  per me: «La street photography è la fotografia che fa dell’inquietudine il motore per la ricerca dell’umano e delle sue rappresentazioni. E’ quindi un intenso atto di scoperta, di avvicinamento, di contaminazione. Diventa il mezzo per partecipare alla vicenda umana, cogliendone la raffigurazione quotidiana, la sua messa in scena».
La parola “street photography” è solo un termine che identifica una certa attività, come esiste il fotografo di moda o il fotografo di matrimoni o il fotografo paesaggista e così via, essa identifica l’attività di un fotografo che sceglie di raccontare il quotidiano e le infinite interazioni tra genti in spazi di condivisione comune seguendo determinati approcci essenzialmente personali, pertanto molto variabili. Le diatribe infinite e le tante polemiche orientate a una ricerca di regole o definizioni le trovo inutili e destabilizzano la considerazione di chi ha scelto questa attività con consapevolezza.

5) Quando penso alla strada ed alla sua vitalità mi appare sempre alla mente una delle prime scene de Il favoloso mondo di Amelie, quando la protagonista aiuta il vecchio signore cieco ad attraversare la strada e gli racconta ciò che vede, gli descrive gli odori che sente, raffigura ciò che succede. La strada è un microcosmo di attività e di sensazioni di cui facciamo esperienza più o meno tutti i giorni, ma ad una tale velocità e con tanti pensieri nella testa che ci impediscono di vedere veramente qualcosa. Si può dire che la street photography aiuta noi, nuovi ciechi distratti, a notare tutto quello che ci perdiamo?

Nella domanda credo ci sia implicitamente anche la risposta. Infatti, è la dimostrazione di quante possibili descrizioni/definizioni può avere la street photography. Attraverso l’occhio di chi fotografa si possono vedere cose che non vedi o a cui non fai caso; camminando per le strade puoi sentire, spesso distrattamente, senza esserne consapevole, gli odori e le atmosfere di una città, ma la fotografia, se praticata consapevolmente, ti porta all’incontro con l’altro. Un incontro a volte sfuggevole, altre volte vissuto e condiviso, ma che quasi sempre lascia un segno: sia nell’osservatore, che può restare colpito, affascinato, sconcertato e sorpreso da come mostri il quotidiano e dalla tua idea, sia in chi fotografa. Più l’osservatore ne resta coinvolto e più hai raggiunto il tuo scopo e tutto questo diventa linfa continua per il tuo cercare.

6) Parliamo ancora un po’ di questo specialissimo set. Lei vive a Treviso, che oltretutto è molto vicina ad una città completamente sui generis come Venezia, ma ha avuto modo di visitare e vivere anche altre città italiane, nonché all’estero. Come cambia la vita della strada e la visione che si può avere di essa di Paese in Paese? Che cosa si cerca nelle strade di New York che è diverso (o magari che è uguale) rispetto a ciò che si ricerca a Treviso o a Praga? C’è poi un’altra città, che esiste e che non esiste, che lei definisce “Mental City”: cos’è e che cosa ha di così peculiare?

Mental city è un progetto fotografico che rappresenta una mia visione di Treviso. Ci vivevo da poco e la prima impressione è stata quella di una città elegante, discreta, che ti permette di isolarti e di perderti tra i portici e per le sue strade silenziose. Era una città che non conoscevo ancora e quella è una sintesi mentale dell’idea che avevo di essa e la realtà conosciuta nel tempo; ne sono rimasto molto colpito ed è stato naturale per me rappresentarla fotograficamente così.

Intervista Verdoliva Città mentale - La chiave di Sophia

Da “Mental city”

Un buon fotografo di strada è un attento osservatore e le sue ricerche e riflessioni spesso dipendono anche dal luogo in cui vive, pertanto quello che cerchi e trovi può variare da città a città e condiziona inevitabilmente la fotografia. Una foto scattata a New York è molto diversa da una foto scattata a Firenze, e non solo per il differente impianto urbanistico, ma soprattutto perché entrambe esprimono una propria essenza totalmente diversa e caratterizzante. Una delle sfide di chi fotografa è riuscire a cogliere questa essenza e saper raccontare attraverso le immagini uno dei tanti volti di una città.
Così descrivere una città come Napoli, partendo dalla stessa idea che mi ha spinto a fotografare, ad esempio Treviso, porta ad un risultato diverso, perché l’anima della città è diversa; ma allo stesso tempo fotografare la stessa città da un’altra prospettiva e con un’idea differente, la stessa risulta originale e nuova. L’idea dell’autore e quello che vuole mostrare è sempre determinante. La fotografia di strada è versatile e se devo parlare di una regola importante, dico che, in spazi pubblici e d’interazione tra le persone, la spontaneità del momento e la non costruzione della scena sono degli elementi fondamentali per cogliere aspetti peculiari di un vivere quotidiano; anche lì però possono esserci delle deroghe, per me è importante il cammino che nel tempo fa l’autore con la sua fotografia al di là di regole e consuetudini.

7) Ogni giorno e ad ogni ora, decine, centinaia, migliaia di persone brulicano nelle strade, di tutti i tipi i colori e gli scopi; le sue fotografie ne hanno colto aspetti intensi, casuali, divertenti – basti pensare alla sua serie Sex and the City o Prisoner of the Privacy. Pensa di aver imparato qualcosa di più sul genere umano guardandolo attraverso il suo obiettivo?

Sicuramente sì. La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro: ho imparato a capire e prevedere le reazioni, a essere discreto e allo stesso tempo furtivo per cogliere espressioni oggettivamente difficili da prendere in posa; cerco di mostrare le persone come se fotografassi la mia famiglia, con amore e rispetto, pertanto non ho timore di loro. Inoltre, con la fotografia mi diverto tantissimo e il mio senso ironico emerge spesso. Chi guarda le mie immagini percepisce immediatamente la grande passione che mi anima e quanto mi diverto per strada: la passione è contagiosa e la trasferisco con piacere.

Intervista Verdoliva sexandthecity - La chiave di Sophia

Da “Sex and the city”

Intervista Verdoliva Privacy - La chiave di Sophia

Da “Prisoner of the privacy”

8) Non posso fare a meno di cogliere alcuni aspetti di irrealtà nelle sue foto: in alcune di esse infatti, attraverso sovraesposizioni, riflessi fortuiti e fortunate casualità, riesce in qualche modo a cristallizzare una realtà parallela, spesso ironica oppure onirica. Quale significato ha dunque per lei il concetto di “realtà”?

Quando per anni sei in strada a fotografare l’umanità, l’ambiente e le relazioni, sviluppi delle visioni sempre più complesse, vai oltre il semplice sguardo su ciò che c’è intorno a te. Approfondisci, entri nella realtà a tal punto che puoi riuscire anche a stravolgerla. La fotografia dà questa possibilità e personalmente questo mi attira particolarmente; la complessità degli sguardi, la reinterpretazione della realtà attraverso punti di vista o prospettive inusuali, far soffermare l’osservatore rendendolo instabile nelle sue certezze, mostrare cose non intuibili a prima vista ma che sono davanti ai nostri occhi è il mio principale obiettivo. La realtà la puoi immortalare e la puoi ricreare, non è per me una dimensione stabile e univoca.

9) Il 2 settembre presso Ca’ dei Carraresi a Treviso verrà inaugurata la mostra 100 attimi. Fotografia di strada, di cui lei è il curatore e che resterà allestita fino al 13 settembre. Essa raccoglie cento fotografie, da qui al titolo il passo pare breve. Che cosa rende questi attimi così speciali? Perché questa mostra?

Se sono attimi effettivamente speciali lo lascerei dire ai visitatori, la mia speranza è attirare interesse, incuriosire e avvicinare il pubblico al tipo di fotografia, dare una risposta esclusivamente con le immagini a chi cerca di capire cosa è la street photography. Sono cento istantanee che rappresentano, per me, il buon livello raggiunto oggi dalla fotografia di strada italiana. È un confronto e una presa di coscienza anche rispetto alla street photography internazionale che fino ad oggi ha dettato i tempi, le mode e le tendenze. Ho scelto le fotografie attingendo dai lavori di autori che fanno parte di collettivi fotografici tra i più stimolanti in Italia, focalizzando l’attenzione verso questa forma di aggregazione inusuale per il genere, anche se non nuovo nella storia della fotografia: dal gruppo Mignon, collettivo storico padovano, a Spontanea, InQuadra e EyeGoBananas, collettivi giovani e con autori interessanti che si mettono in gioco continuamente per migliorarsi, formatisi in questi ultimi anni sull’interesse di massa verso il genere. Insieme a loro esporranno sei autori veneti di cui apprezzo il talento e la passione per questo tipo di fotografia.
Una mostra che ha il compito di presentare, a chi non conosce ancora la street photography, quanti possibili approcci e visioni possono esserci nel praticarla, quanto sia difficile e non banale cogliere attimi significativi, di quanto lavoro in termini di tempo e di confronto ci sia alle spalle ma soprattutto del legame sempre presente con la Fotografia e i grandi maestri di un tempo. Il mio intento è che essa riveli non solo qualità – molte delle foto presentate sono state selezionate e riconosciute valide in numerose manifestazioni internazionali importanti – ma, lontano da termini e definizioni, i tanti possibili volti della fotografia di strada. Un piccolo tributo a quanti la praticano con passione e una occasione per stabilire un punto d’incontro fisico e non virtuale tra noi.
Vorrei inoltre lasciare un consiglio a chi vuole avvicinarsi alla street photography o la pratica da poco, di farlo con grande umiltà evitando quei processi autoreferenziali che mistificano qualsiasi riconoscimento che credo debba arrivare da più parti nel tempo e in maniera assolutamente naturale. Viceversa, non si aiuta la fotografia di strada ad essere presa seriamente in considerazione.

10) Per noi la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno. Che cos’è invece per lei la filosofia?

Se la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno, allora ci sono tanti punti in comune con la fotografia, che attraverso gli occhi di qualcuno continuamente indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana. La realtà e la verità sono due parole chiave della filosofia, così come anche della fotografia, poiché entrambe le ricercano incessantemente.

 

Osservazione della realtà e ricerca della verità (o di una verità) sono dunque due punti di contatto tra fotografia e filosofia, entrambe sono degli strumenti che ci aiutano a trovare delle risposte – la prima tramite l’estetica e l’immagine, la seconda attraverso la sfera razionale e la parola. Entrambe indagano l’uomo e ne fanno anche la storia. Sono personalmente molto affascinata da queste fotografie, forse proprio perché me ne vado per il mondo il più delle volte distratta dalla mia interiorità e dalle mie domande, senza accorgermi dei dettagli visivi in cui si trovano alcune risposte. Per esempio, che la vita va presa anche con una buona dose d’ironia, o semplicemente con più leggerezza. Penso ai versi immortali di Shakespeare, “Il mondo è un palcoscenico, / e tutti gli uomini e le donne sono soltanto attori”; in queste foto però non ci sono quasi mai attori. E’ un po’ come il Gengè Moscarda di Pirandello che vuole vedersi vivere, perché appena si vede riflesso non riconosce più se stesso, si scopre inevitabilmente a recitare. In un certo senso in queste fotografie vediamo noi stessi, come siamo quando pensiamo che nessuno ci stia guardando o giudicando – forse allora solo la fotografia, l’occhio di qualcun altro, è capace di mostrarci come siamo. Nonché di mostrare nero (o colori) su bianco le nostre invariabili incomprensibilità e le nostre innate contraddizioni, il nostro voler stare insieme pur richiudendoci a volte in noi stessi, dentro e fuori, definiti o evanescenti. Delle realtà multiformi che si cristallizzano nel momento dello scatto, e che così diventano memoria di noi per i posteri, ma anche per noi stessi. «La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro», ha detto Umberto; ciò che trovo incredibilmente sorprendente è proprio che anche io, io del tutto ignorante in materia di fotografia, osservando queste immagini, all’improvviso mi scopro a capire qualcosa di più di me stessa.

Giorgia Favero

Per approfondire il lavoro di Umberto Verdoliva: sito ufficiale, flickr, Facebook.

Qui tutte le informazioni relative alla mostra.

Tutte le immagini sono di proprietà di Umberto Verdoliva.