Le storie vere sono la rovina del cinema

Tratto da una storia vera. Sono queste le parole che stanno uccidendo il cinema. Fateci caso, i film che negli ultimi mesi stanno uscendo nelle sale italiane si dividono sostanzialmente in due categorie: i blockbuster dedicati ai supereroi e i film ispirati a vicende realmente accadute. Alcuni esempi? La macchinazione di David Grieco, Race di Stephen Hopkins, 13 hours di Micheal Bay e Colonia di Florian Gallenberger sono solo alcuni dei titoli che nei primi cinque mesi del 2016 hanno invaso i cinema di tutto il mondo. Il fenomeno è in parte dovuto a una generale mancanza di idee all’interno dell’industria cinematografica. Senza perdere tempo nella creazione di soggetti nuovi e originali, produttori e registi hanno preferito adagiarsi nella comodità di storie già pronte che necessitavano solo di piccole modifiche per essere adattate sul grande schermo. Non stiamo parlando di film storici, bellici o in costume, bensì di episodi che raccontano fatti reali poco noti al grande pubblico, in una veste che spesso rischia non solo di stravolgere la realtà storica ma anche di produrre una serie di pellicole mediocri e retoriche.

Il caso più eclatante è il recente Stonewall di Roland Emmerich. Il regista americano, abbandonati i kolossal catastrofici come Indipendence day The day after tomorrow si cimenta nel nobile intento di raccontare una delle pagine più difficili della recente storia americana: i moti di Stonewall per il riconoscimento delle libertà gay. Vicenda che nel giugno del 1969 portò a violenti scontri tra le forze dell’ordine e la comunità omosessuale di New York, guidata dalla transessuale Sylvia Rivera, che diede vita alla protesta gettando una bottiglia contro un poliziotto. Grazie alle loro lotte, in America, nacque il Movimento di liberazione gay e, con il tempo, crebbero a dismisura i diritti per le persone omosessuali. Nel suo film Emmerich rovina questo grande spunto e trasforma la Storia in una favola di formazione, in cui il bianco, rassicurante e ben educato Danny, lascia la propria casa e la propria famiglia (solo) perché costretto, e finisce nel “magico” mondo dei ragazzi che si prostituiscono da quando erano bambini, occupano luride stanze di hotel e piangono la morte di Dorothy Gale come quella di una sorella. Storie vere raccontate sempre con un punto di vista distaccato e stereotipato, senza rischiare mai di allontanarsi dal politicamente corretto, in una sorta di lunghissimo e stucchevole elogio dell’ideologia democratica pro-Obama.

Stonewall ci dimostra come la scelta di adattare storie realmente accadute sul grande schermo sia il modo migliore per uccidere il buon cinema. La settima arte nasce come elogio della finzione per antonomasia. Anche quando sembra voler raccontare la realtà, il cinema riesce sempre a superare i confini del reale. Il treno ripreso alla stazione dai fratelli Lumiere avrebbe dovuto uscire dallo schermo e investire gli spettatori, invece la locomotiva non solo sparisce oltre i confini dell’inquadratura, ma dimostra anche che il cinema è il luogo in cui la finzione prende il sopravvento. Nel buio della sala ci dimentichiamo della realtà che ci circonda ogni giorno e accettiamo di farci guidare dall’immaginazione. Tenetevi alla larga da tutti quei film che vi parlano di storie vere. Sono solo una proiezione bugiarda di un qualcosa che è successo. Quando deciderete di andare al cinema, scegliete le storie originali, scegliete di perdervi nel buio di un’inedita fantasia. Solo così riuscirete a trovare la vera magia di quest’arte.

Alvise Wollner

Niente è come te – Sara Rattaro

Esiste una forma di dolore che rischia di non vedere mai la fine. E’ una fessura, una lacerazione o, meglio ancora, una ferita che nasconde fra i suoi lembi strappati tutti i tuoi compleanni senza di me, i lunghi viaggi della mia fantasia nei quali tornavi sempre qui dove sei nata e tutti i giorni in cui ho atteso una risposta che non è mai arrivata.

Francesco è un padre a metà. La figlia, Margherita, gli è stata portata via illegalmente all’età di cinque anni dalla madre, Angelika, danese. Una madre che non si è limitata a scegliere per sé. Con le sue azioni ha cambiato per sempre il destino di sua figlia e dell’uomo che un tempo aveva scelto di amare.

Dieci anni dopo, Francesco riceve una telefonata. «Angelika è morta. Devi venire a prendere Margherita». Dieci anni di attesa, di vita non vita, di speranze puntualmente disattese, di un dolore sottile ma persistente, di mancanza e vuoto. Così inizia la storia di Francesco e Margherita che diventano padre e figlia con dieci anni di ritardo, due sconosciuti legati da un dolore cieco e da un amore vivo ma ancora in boccio.

Ma noi ne abbiamo troppo pochi di ricordi insieme. Abbiamo in comune solo un grande vuoto, quello che, in modo diverso, ci ha procurato tua madre.

Niente è come te è la storia di un caso di sottrazione internazionale di minore. E’ la storia di un amore tra un ragazzo italiano e una ragazza danese e della nascita di una bimba di nome Margherita. E’ la storia di un matrimonio in crisi. E’ la storia di una menzogna. Di un viaggio di sola andata. Di una bambina che cerca il suo papà. E che poi non lo cerca più. E’ la storia di una battaglia burocratica, di un’attesa senza fine, di un’ingiustizia protratta troppo a lungo. E’ la storia di un padre innamorato di sua figlia e di una ragazzina fragile, cresciuta in un affilato castello di bugie. Ma Niente è come te è soprattutto una storia vera.

La narrazione è affidata a Francesco e Margherita che, a capitoli alterni, mettono a nudo pensieri ed emozioni che accompagnano il  loro incontro e la nuova vita insieme, ma anche ricordi del passato, del periodo antecedente al ricongiungimento.

Una storia come quelle che ascoltiamo di sfuggita al telegiornale, genitori che tornano nel loro paese d’origine portando con sé i figli, mariti e mogli che in un giorno qualunque, senza alcun preavviso, si trovano catapultati in un incubo, privati di ciò che di più caro possiedono.

Ero un giovane uomo con tutta la sua forza, Margherita, ma non ci sono riuscito. Non ce l’ho fatta a riportarti qui, a tenerti legata a me, e mi chiedo se potrai mai perdonarmi perché te l’avevo promesso, così come fa un padre, quando il tuo piccolo pugno aveva stretto il mio dito per la prima volta.

Vivere questa vicenda dall’interno, attraverso la penna di Sara Rattaro è stato un colpo al cuore, come spesso accade con i suoi libri. Con uno stile intenso e palpitante, l’autrice ci conduce nella mente di Francesco e Margherita, nelle paure di un uomo che ha lottato tutta la vita per essere padre, nel senso di inadeguatezza di una ragazzina di quindici anni che trova conforto solo nella musica, nell’amato violino, l’unico punto fermo della sua vita, l’unico amico a non averla abbandonata.

A Francesco e Margherita si aggiungono altre vittime. Enrica, giovane ricercatrice e compagna di Francesco, che negli anni ha imparato a stare accanto ad un uomo ferito e sfiduciato, ha rinunciato alla possibilità di avere un figlio suo, ha accettato di convivere con i silenzi e i fantasmi di un passato sempre presente e lo ha fatto col sorriso, un sorriso che non ha mai vacillato, anche quando da sorridere c’era ben poco. E poi la madre di Francesco, morta prematuramente a causa di un male incurabile o forse schiacciata dal dolore, dal senso di impotenza davanti ad una battaglia senza vincitori.5680116_291163

I personaggi sono vivi, reali, con pensieri e sentimenti che si attaccano alla pelle, impedendoti a tratti di respirare. Difficile scrollarsi di dosso le lacrime di Francesco, le lapidarie verità di Enrica, le domande senza risposta di Margherita.

E, soprattutto per un genitore, impossibile non porsi degli interrogativi: e se fosse successo a me?

Eppure la Rattaro riesce a parlare di argomenti così forti senza calcare mai la mano, con un realismo che non è mai brutale e nemmeno edulcorato, un realismo intinto nella speranza.

Tra un capitolo e l’altro sono presenti dei trafiletti che riportano ad altre storie, tutte diverse e tutte uguali, storie di genitori che hanno vissuto la stessa esperienza e che da anni hanno perso le tracce dei propri bambini.

Davanti a vicende simili si usa spesso l’espressione strappare. Una bambina strappata dalle braccia del padre, dalla sua casa, dal suo paese. Mi soffermo sul significato di questo verbo e mi rendo conto di come esprima bene ciò che avviene in questi casi. Uno strappo. Per quanto il tempo possa lenire le ferite o si possa persino giungere ad una soluzione, uno strappo non può sparire. Le persone coinvolte ne porteranno sempre i segni, i punti con cui la lacerazione è stata ricucita rimarranno ben visibili, cicatrici che continueranno a pulsare, a ricordare tutti i momenti persi.

Ma di una cosa sono convinto: sarà grazie ad ognuno di questi singoli minuti che un giorno capirai che niente, ma proprio niente, è come te, Margherita.

Perché forse l’amore trova sempre la strada per giungere a destinazione.

Vincitore del Premio Bancarella 2015, Niente è come te è una storia che tutti dovrebbero conoscere.

Stefania Mangiardi

[Immagine tratta da Google Immagini]