Maschi e femmine al tribunale della scienza: errori del passato e buoni propositi per il futuro

Possiamo certamente affermare che la scienza è stata e continua a essere fondamentale per la società e, seppur consapevoli che anch’essa incappa in errori, non siamo mai troppo sospettosi nei suoi confronti, proprio perché non sappiamo vivere senza i suoi risultati. La storia della scienza è per lo più la storia delle domande e delle risposte formulate dagli uomini. Dagli uomini, appunto, perché alle donne è stata a lungo preclusa la partecipazione alla costruzione del sapere, scientifico in particolar modo (ci sono poche eccezioni).

Vediamo un esempio di teoria scientifica e prendiamo Darwin, che è stato uno scienziato veramente brillante, una delle menti che ha sconvolto il panorama del sapere umano, in mezzo alle due altre grandi rivoluzioni: quella copernicana e quella freudiana. La prima ha spostato il nostro pianeta dal centro del sistema solare alla periferia, la seconda ci ha rivelato che l’io cosciente è solo una punta dell’iceberg sommerso dell’inconscio. Darwin ha smentito le nostre origini divine, mediandole quantomeno con milioni di anni di evoluzione a partire dal mondo animale, facendoci parenti stretti con le scimmie. Ma nel tracciare l’evoluzione Darwin ha osservato che i maschi delle varie specie sono più stimolati, grazie alla competizione per le femmine, a perfezionarsi sotto vari punti di vista. I pavoni maschi si sono sfidati, e continuano tuttora, sulle code più belle, ad esempio. I maschi umani invece, oltre alla competizione dei muscoli, hanno ingaggiato la sfida anche sul piano intellettuale, perché gli strumenti cognitivi di cui è dotata la specie umana hanno consentito loro di affinare, grazie a un circolo virtuoso, le loro menti. E le femmine? Beh, non hanno fatto granché, al massimo traggono profitto mutuando i successi evolutivi dei maschi grazie al fatto che si riproducono con loro. In sostanza Darwin, in qualità di scienziato, affermava che la disuguaglianza tra i due generi che oggi riscontriamo è frutto di differenze biologiche, perfettamente in linea di continuità con quella che era la tradizione di pensiero alle sue spalle e dei suoi contemporanei1.

Dopo Eva plasmata dalla costola di Adamo, anche la versione scientifica, addirittura la stessa che smentisce Adamo e Eva, conferma la donna come prodotto sub-evoluto subordinato all’uomo.

Se arrivati a questo punto vi siete un po’ indignate, ma anche indignati, mi auguro, allora vi interesserà sicuramente capire qualcosa di più intorno a domande del tipo: quali ragioni sottendono la diversità sociale maschio-femmina? Si tratta di una questione enorme, non si può rispondere certo qui in poche righe, occorre andare molto indietro nel tempo, addirittura fino al Neolitico, quando sembra che le differenze abbiano iniziato a essere giocate a sfavore delle donne. Anche la portata nella dimensione dello spazio è interessante, perché ad oggi, in angoli remoti del nostro pianeta, ci sono comunità umane intatte da millenni che talora ci raccontano una storia diversa sul ruolo delle donne. Si tratta di un lavoro lungo e paziente, che passa attraverso molti fonti bibliografiche, ma una delle risposte che facilmente emerge è la questione dell’istruzione. Alle donne è ripetutamente stato proibito di istruirsi lungo tutto il corso della storia della civiltà.

Questo permette di rispondere alla prossima domanda. Perché scienziati, filosofi, letterati e intellettuali vari sono quasi sempre maschi? In realtà, seppur in minoranza, le donne compaiono qua e là lungo tutto il corso della storia, sono quelle che sono riuscite a emergere, con sforzi disumani e talenti straordinari proprio perché da sempre stigmatizzate non appena si accingevano a varcare l’uscio di casa. Tuttavia, sebbene in minoranza, quelle donne prodigiose sono spesso state trascurate dai libri di storia, anche se oggi, grazie alla recente e fruttuosa tendenza editoriale di narrare i contributi delle donne al mondo del sapere, scopriamo che ce ne sono parecchie di donne eccezionali. Occorre però puntare la luce su di loro, perché, si sa, la storia non è solo la storia dei fatti, ma anche di chi li racconta e decide come farlo.

Se il sapere è stato prerogativa maschile per lungo tempo, questo ha sicuramente dato una tonalità piuttosto che un’altra ai contenuti del sapere stesso. Darwin, tra gli altri, non può che aver consolidato tale atteggiamento. Pensate a come sarebbe stata l’impresa della conoscenza se avesse ricevuto uguali contributi da entrambi i sessi. Anche la salute ne avrebbe risentito. La medicina infatti è stata, come tutte le branche del sapere, prerogativa maschile. Ancora oggi la ricerca medica soffre di una distorsione enorme, questo perché i modelli di studio di farmaci e malattie sono realizzati su campioni maschili, animali o umani. Le cavie animali e i volontari umani sono quasi sempre maschi e molti farmaci sono tarati sul metabolismo maschile. In alcuni casi ciò si è rivelato deleterio per le donne, basti pensare che un famoso farmaco per l’insonnia, Zolpidem, è stato ritirato dal mercato quando si realizzò che procurava grave sonnolenza diurna alle donne che lo assumevano, aumentando il rischio di incidenti stradali. È solo la punta dell’iceberg, perché la ricerca si sta adeguando a una metodologia più equa tra i sessi troppo lentamente.

La rivista Nature si è occupata più volte di questo argomento; nel 20102 e nel 20173 diversi autori riportavano che, se i medicinali pongono sempre qualche rischio per chi li assume, questo rischio è molto più alto per le donne, inoltre, sottolineavano che una stessa malattia non colpisce in ugual modo maschi e femmine.

È allora fondamentale prendere consapevolezza di come la scienza in passato sia stata ingiusta nei confronti delle femmine, privandole di tutti i meriti evolutivi della nostra specie e di come continui a essere faziosa nella ricerca medica. Per fortuna, oramai l’accesso all’istruzione non è più una ostacolo, almeno da noi, anche se è possibile che gli stereotipi di genere continuino a essere una barriera all’emancipazione del genere femminile. E qui si apre uno spazio per i contributi di chiunque, perché, se non è possibile che ciascuno/a di noi diventi scienziato/a, è assolutamente possibile che ognuno/a di noi cominci almeno a cambiare la cultura iniziando a riflettere sui propri stereotipi di genere, ovvero le più subdole delle barriere.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
1. Cfr. C. Darwin, The Descent of Man: Selection in Relation to Sex, London, John Murray, 1871.
2. Zucker et al., Males still dominates animal studies, Nature vol. 465, 10 Jun 2010.
3. A. Nowogrodzki, Clinical research: Inequality in medicine, in “Nature” vol. 550, S18–S19, 05 October 2017.

 

 

 

[Photo credits: Charles Deluvio via Unsplash.com]

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Africa: una storia che c’è sempre stata

Tra le tante cose, Hegel sosteneva che l’Africa è «un continente senza storia […] al di qua della storia cosciente di sé»1. Complici di questa visione un immaginario plasmato secondo esotismi vari, che vedeva nei popoli africani uno stadio primitivo della coscienza umana, e una cecità di fondo che non riconosceva la particolarità socio-storica delle proprie asserzioni. L’idea che l’Africa sia un continente senza storia è inoltre un’idea comune ancora oggi. Ancora più comune è poi l’idea che questa storia sia stata inaugurata dalle prime spedizioni europee e islamiche, le quali hanno movimentato delle terre prima sterili e pigre.
Ma l’Africa è stato – e rimane – un continente dalla storia ricchissima, complicata e sorprendente, raccontata non solo dai vari conquistatori e commercianti stranieri che si sono spinti nel suo entroterra, ma soprattutto dagli stessi popoli indigeni, fautori di innumerevoli regni e imperi di grande prestigio, cultura e lungimiranza. La storia, per esistere, non necessiterebbe di nomi altisonanti e date fondamentali, ma queste vengono ricercate per comprovare qualcosa che altrimenti rimarrebbe ignoto e ipotetico, poiché l’idea di una storia aperta, mobile e non scritta – cioè documentata – sembra impossibile.

Giochiamo allora per un attimo a questo gioco. L’Africa ha visto l’ascesa e il declino di moltissimi imperi, molti dei quali protrattisi per secoli. Le fonti scritte endemiche scarseggiano in favore però di una lunga tradizione orale, e insieme abbondano le testimonianze monumentali e i ritrovamenti artistici. Oltre al famosissimo Impero egizio, si possono dunque ricordare il regno di Axum nell’attuale Etiopia (IV a.C. – X d.C.), quello di Zimbabwe, con le sue mura ciclopiche e le arti metallurgiche (VIII d.C. – XV d.C.), e tutta la sfilza di imperi saheliani, del Ghana, del Mali, Kanem e Songhai, che si succedettero l’uno dopo l’altro tra il X e il XVI secolo d.C.

Ma al di là delle date e delle circoscrizioni, addentrandosi nella storia millenaria del continente, ci si imbatte in popoli vitali e creativi, sempre in movimento attraverso frontiere e confini da aggiornare, da mappare, da ristudiare in funzione dei nuovi assetti politici e culturali, fomentati ora da una ideologia, ora da un’esigenza, ora da un’occasione. Le spedizioni coloniali, ad esempio, non ridussero gli indigeni al mero ruolo di “vittime”, poiché questi vedevano negli avventori stranieri possibilità di scambi commerciali, culturali e tecnici. Nemmeno le spedizioni missionarie adombrarono la libertà agentiva dei popoli indigeni, perché questi riutilizzarono le icone e le professioni di quelle fedi in forme alternative e sincretiste. Addirittura lo schiavismo fu perpetrato e fomentato da numerosi regnanti, arrivando a fondarvi, in alcuni casi, l’economia dei propri regni.

I grandi imperi conservarono dunque una certa autonomia durante le prime colonizzazioni. Questa però si affievolì quando buona parte del prestigio economico cominciò a dipendere dal commercio con gli europei e questi col tempo iniziarono a pressare sempre più sulle autorità fino ad assoggettarle del tutto alle loro direzioni. Nel 1519 una legge portoghese imponeva che tutte le merci congolesi fossero trasportate su navi lusitane: lo stato europeo otteneva così il monopolio commerciale. Molte città venivano distrutte se restie a trattare; molte altre non venivano conquistate ma veniva loro imposto un pesante tributo monetario. Da lì in poi l’escalation di sfruttamenti fu inarrestabile e con l’arrivo di altre potenze europee l’Africa scivolò sotto le direttive di volontà straniere. Il XIX secolo fu un “secolo lungo” anche per l’Africa: dalle prime resistenze alla schiavitù di fine XVIII secolo, alle prime indipendenze dai dominî europei, il continente fu percorso da ribellioni e guerre intestine tra gruppi eterogenei (europei, africani, arabi) per il consolidamento delle egemonie e la nazionalizzazione delle regioni.

Fu questo il periodo delle esplorazioni e dei resoconti etnografici. Questi resoconti, che si alternavano tra il rispettoso e il razzista, stimolarono la fantasia occidentale, che subito creò l’Africa povera, selvaggia, dal “cuore di tenebra” che ancora oggi viene evocata. «L’Africa è un’invenzione»2, sostiene il filosofo Valentin Mudimbe; un’invenzione approssimata che nasconde e omette le dinamiche e le realtà presenti nei diversissimi contesti del continente. Come Hegel, anche nel contemporaneo ci si è lasciati traviare da immaginari sedimentati e da una concezione etnocentrica della storia. Le recenti tragicommedie politiche hanno poi esasperato questa approssimazione, producendo un oggetto che si adatta a tensioni più nostrane che altro. L’Africa resta un Paese inascoltato: quella che dovrebbe essere la sua storia, oggi forse più che mai, continua a essere manipolata da direzioni esterne che pretendono di conoscerne la realtà. La canizza politica diventa la storia (della salvezza!) di un intero continente.

La storia africana e il suo destino si tracciano ora all’insegna di una negoziazione continua. L’Africa non è un continente senza storia; e ancor di più non è un continente oscuro e violento, privo di ogni acume. Una intelligencija è presente da tempo in molti Paesi, anche se molti esponenti sono espatriati; ma si tratta comunque di figure auto-coscienti, consapevoli dei problemi del proprio popolo e della loro posizione, che hanno sempre cercato di definire un’identità africana in competizione con l’opprimente egemonia occidentale. Una cantante contemporanea del Mali, Fatoumata Diawara, scrive sull’infibulazione, sull’immigrazione, sulla libertà, sulla speranza, per sublimare il presente e così dischiudere il futuro. L’approssimazione è una forma di colonialismo rinnovata, forse più perversa: mantiene lo status quo e trasforma quei popoli in ciotole per le offerte, in sospetti, in minacce.

 

Leonardo Albano

 
NOTE
1. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, 2003, pp. 80 e 87
2- V.Y. Mudimbe, The Invention of Africa: Gnosis, Philosophy and the Order of Knowledge, Indiana University Press (1988)

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La tirannide della maggioranza

Negli ultimi anni con sempre maggiore insistenza, abbiamo sentito parlare di crisi della democrazia, di società liquida, di populismo, demagogia e di deriva autoritaria. Tutti effetti di un sistema tecnocratico, come l’Europa, burocratico e apatico alle sofferenze della gente. Almeno così si esprime un certo fronte comune.
Dall’altra troviamo invece la maggioranza degli intellettuali, di sinistra per lo più, che raccontano un’altra storia, altre dinamiche e quanto meno cercano di arginare il malcontento, predicando uguaglianza e garanzie costituzionali, basi della democrazia contemporanea.

Termini tecnici, e forse per questo non più ascoltati come un tempo.

È difficile scegliere da che parte stare, ma non sono le uniche strade possibili. Ce ne possono essere altre, la fatidica terza via, scappatoia ideale per ogni dilemma.

Nel 1835 uscì un volume, di Alexis de Tocqueville intitolato Democrazia in America. Opera di un aristocratico francese, considerato oggi uno dei padri della sociologia, curioso di indagare il sistema della democrazia rappresentativa repubblicana americana, dove nacque in termini moderni e dove prosperò a differenza di altri paesi. Pensatore che oggi ci può tornare utile con il suo lavoro d’indagine.

Pochi anni dopo la pubblicazione, sarebbero scoppiati i movimenti rivoluzionari del ’48, l’era costituente e l’inizio della fine per molti regimi monarchici in Europa. La fine di un modello politico durato da Augusto a Roma, fino allo zar di Russia.
Ed oggi invece, dopo vita così breve anche la democrazia è destinata alla stessa fine?
Seguendo l’insegnamento di Tocqueville, possiamo dedurre un’altra conclusione. Nel corso dell’intera opera, torna spesso una locuzione: la tirannide della maggioranza. Così lo studioso preferì definire la democrazia nascente:

Cos’è, infatti, una maggioranza presa collettivamente, se non un individuo che ha opinioni e più spesso interessi contrari a quelli di un altro individuo che si chiama minoranza? Ora, se ammettete che un uomo, investito di un potere assoluto, può abusarne contro i suoi avversari, perché non ammettete la stessa cosa per una maggioranza? Gli uomini, riunendosi, hanno forse cambiato carattere? Diventando più forti, sono forse diventati più pazienti di fronte agli ostacoli? […] un potere onnipotente, che io rifiuto a uno solo dei miei simili, non l’accorderei mai a parecchi […]
L’onnipotenza è in sé cosa cattiva e pericolosa […] si chiami essa popolo o Re, democrazia o aristocrazia, sia che lo si eserciti in una monarchia o in una repubblica, io affermo che là è il germe della tirannide.

Il sistema democratico, sempre per il pensatore, sancisce un abbassamento del livello di qualità nelle politiche di un popolo; aumenta l’omologazione del pensiero; mina la libertà d’espressione; rende deboli gli individui di fronte al potere dello Stato e dell’opinione comune e soprattutto disgrega l’unità sociale.

Quando negli Stati Uniti, un uomo o un partito subisce un’ingiustizia, a chi volete che si rivolga? All’opinione pubblica? È essa che forma la maggioranza e la serve come uno strumento passivo; alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi; alla giuria? La giuria è la maggioranza investita del diritto di pronunciare sentenze: i giudici stessi, in certi Stati, sono eletti dalla maggioranza […]
In America, la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero […]
Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi. Conserverai i tuoi privilegi di cittadinanza, ma essi diverranno inutili. Resterai fra gli uomini, ma perderai i tuoi diritti all’umanità.
Va in pace, io ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte.

Parole che pesano come pietre, soprattutto se le contestualizziamo nella prima metà dell’Ottocento e
alla luce di ciò, potremmo fare un azzardo: oggi la democrazia non sta morendo, e forse neanche evolvendo in qualcos’altro, ma crescendo. Si sta mostrando nella sua pienezza, potenza e autonomia. Si sta rivelando come parte del “mostro nero” che chiamiamo dittatura.

Una dittatura particolare perché collettiva. Un totalitarismo al contrario, ma con gli stessi caratteri. Eraclito ci dice che gli opposti si attraggono e forse avviene anche per la politica. Sembra un’insanabile contraddizione. Contrasto che è sempre dietro l’angolo, ma necessario per lo svolgimento della vita come ci insegna Hegel e per chi non lo conoscesse, si può ritenere una persona fortunata.

Comunque sia, una cosa ci deve essere chiara: un solo voto, come il nostro singolo, non conta pressoché nulla (prende il nome del paradosso dell’elettore medio), perché è la maggioranza che domina.
Non inganniamoci però.
Anche una spiaggia è una spiaggia, seppur sia un insieme di granelli; così la democrazia è la democrazia, seppur sia, indubbiamente un insieme di individui particolari e unici nella propria personalità. Come io e te.

Non so se l’argine possa essere eretto facendo leva su la coscienza collettiva, o sul senso proprio di responsabilità, sul dovere o sul piacere. So solo che tempi avversi creano uomini forti; che uomini forti creano tempi tranquilli; che tempi tranquilli creano uomini deboli e che uomini deboli creano tempi avversi.

In quale direzione siamo diretti?

 

Simone Pederzolli

Sono originario del Trentino, nato il 23 Gennaio del 1998 e ho conseguito il diploma presso il liceo “Andrea Maffei” di Riva del Garda, indirizzo Scienze Umane. Attualmente sono iscritto alla facoltà di filosofia presso la “Ca’Foscari” di Venezia.
Nel corso degli anni ho partecipato con l’Associazione Diplomatici – simulazione parlamento italiano.
La mia formazione concerne il campo filosofico-politico ed economico, ma aperto alla vastità del mondo conoscitivo, sempre alla ricerca di nuove connessioni interdisciplinari.

 

[Photo credits Unsplash.com]

Filosofia mediterranea

La filosofia da sempre si pone come strumento del pensiero su tutte le cose. Solo la filosofia pensa il Tutto, appartandosi e astraendo dalle conoscenze pratiche o relative a certune branche del sapere. Un’astrazione che non è eliminazione delle parti ma congiunzione di esse in unità. Essa non è il sapere specializzato di un uomo che pensa a come guarire meglio qualcun altro, o come costruire meglio una casa e, inizialmente, nemmeno come vivere meglio la vita.

La filosofia è riflessione dell’uomo sul mondo e se l’uomo è – come ovvio – parte del mondo, la filosofia diviene autoriflessione del mondo su se stesso.

Questo percorso si dice sia nato in Grecia. Sappiamo anche che il pensiero filosofico, soprattutto se inteso come degenerazione di un pensiero religioso originario, ha profonde radici nei culti religiosi arcaici, in cui uomini di somma saggezza riflettevano in modi a noi oggi inaccessibili sull’essenza del mondo.

La domanda che dovrebbe serpeggiare, sfidando i limiti della pura congettura è: perché proprio nella Grecia antica è fiorito il pensiero filosofico?

In più parti nelle varie opere greche rimasteci abbiamo notizie del completo agio che gli antichi provavano nell’ambiente circostante. I Greci fecero uno stile di vita il loro stare in armonia con la natura e il goderne di quanto concedeva. Il vivere secondo misura, la repulsione per gli estremismi, la comprensione e la vicinanza verso ogni parte del cosmo, erano favoriti da ciò che il cosmo stesso ha offerto loro: un ambiente estremamente vario che generava molti tipi di cibi diversi, una terra circostante fatta di rilievi non troppo aspri e mari non troppo mossi – adatti tra l’altro all’arte della navigazione, della pesca, dell’esplorazione – molti giorni di luce, un clima mite favorevole alla vita all’aria aperta e all’esposizione della bellezza.

Tutto questo e molto altro è stato il messaggero che ha portato ai popoli greci l’idea di un mondo equilibrato, loquace e onnicomprensivo: non ovviamente in senso morale – nota è la sfrontatezza con cui i Greci guardavano alla vita dolorosa e alla morte – ma nel senso di un’unità composta da parti aventi ognuna un ruolo degno del proprio essere, in una congiunzione di equilibri adatti alla proliferazione vitale e intellettuale. Più difficile pensare alla possibilità di ciò nella tundra o nei deserti, ambienti dal clima troppo duro e dall’ambiente più monotono.

Ecco allora che Eraclito guarda al tempo come ciclo di stagioni e Platone al sole come simbolo della verità ideale; ecco che nella Grecia antica pullula una miriade di menti attratte dal funzionamento di ogni aspetto della natura come fisici, biologi, astronomi: si scoprono leggi matematiche, solstizi ed equinozi, nasce il vegetarianesimo, la cultura del vino, quella del mare, i culti e le festività incentrate su quei prodotti della terra propedeutici alla comprensione ultima del mondo (vino e ciceone su tutti). I primi pensatori greci assistono al dispiegamento della varietà del cosmo attraverso tutti i sensi e con essa possono giungere all’apice contemplativo. Immaginiamo giovani Greci sulle sponde del mare verso sera, nel mezzo di ebbrezze dionisiache, a celebrare la vita nel suo semplice manifestarsi sottoforma di paesaggi intensi, festività, vesti svolazzanti, buon cibo, invocando la Terra a ripetere eternamente se stessa secondo il detto: «Piovi! Sii gravida!»1.

Si sviluppa insomma quell’intreccio di mondo e uomo che costituisce una vera e propria scala verso la conoscenza e la verità in senso stretto. Physis, che noi traduciamo oggi con Natura, non era usato che come sinonimo di Essere, di cui il filosofo custodisce e scopre la verità, che ricomprende in sé ogni cosa offrendo allo sguardo la varietà di sé stessa.

Solo uomini del tempo o di un certo tipo hanno occhi adatti alle caleidoscopiche sfumature del mondo: il sole adatta l’occhio alla luminosità, ai suoi riflessi sul mare e invita a esplorarlo; le viuzze accennate, le lievi cime e gli scorci naturali solleticano l’indole curiosa dell’uomo, che cerca strade, mari e isole nuove, che lo tengono allerta e sveglio, incline alla novità. L’uomo si trova di fronte ogni colore, una moltitudine di cibi diversi e vede così formarsi un gusto, l’attenzione per il dettaglio, l’apprezzamento per ciò che è offerto, impara a trarre energia dalla fonte più opportuna.

Solo così si prepara un uomo consapevole del mondo, che sa viverci, che sa comprenderlo e tramandarlo. Forse solo in quella fonte sfavillante e multiforme che è il Mediterraneo era possibile aprire nell’uomo una finestra verso se stesso? Solo riscoprendo la Terra nella sua massima espressione possiamo dirci davvero uomini?

Forse nel Mediterraneo per prima il mondo ha potuto cominciare a guardarsi, eleggendo questo luogo a tempio della verità.

 

Luca Mauceri

 

NOTE
1. A. Tonelli (a cura di), Eleusis e Orfismo, Feltrinelli, Milano, p. 193.

[Photo Credit: M@ssip, 26/8/2012, su turistipercaso.it]

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L’enigma della terza via: un racconto filosofico

Doxa era la capitale del regno.
Florida, ricca e felice, tra i suoi abitanti annoverava i migliori scienziati e i filosofi più rinomati. Ogni giorno qualcosa veniva scoperto e qualcosa veniva modernizzato. Non c’era ostacolo, non c’era impedimento che gli abitanti non riuscissero a risolvere in velocità, con un’abilità fuori dal comune.
Un giorno – però, o forse purtroppo − alle porte di questa città si presentò un viaggiatore che si fermò proprio sotto l’arcata che permetteva il passaggio, bloccando l’accesso e costringendo le persone che venivano dopo di lui ad arrestarsi. Le guardie cercarono di farlo smuovere dall’entrata ma egli non ne voleva sapere. Non faceva altro che bisbigliare sottovoce, come se non si rendesse conto di ciò che intorno gli accadeva. Fu convocato quindi il governatore della città, il Principe Firmissimum, e lo straniero fu portato a forza al suo cospetto per essere interrogato.
«Chi sei?»
Silenzio.
«Da dove vieni?»
Ancora niente.
«Perché sei qui?»
Dall’uomo non uscì neanche un suono, ma era la sua espressione a catturare l’attenzione dei presenti: sulla sua faccia infatti, fin da quando era arrivato al cospetto del regnante, era stampato un sorriso di pura felicità, che riempiva il cuore di allegria; ma i suoi occhi emanavano una tristezza così profonda che le persone non riuscivano a fissarli per più di qualche secondo senza che le lacrime iniziassero a rigare loro le guance.
Perfino il Principe era soggetto all’incantesimo ed iniziò ad infuriarsi: era impossibile provare due emozioni contemporaneamente, come poteva lo straniero non saperlo?
«Come ti permetti? Ma lo sai IO chi sono? Tutta la gente, dal tutto il Mondo, viene al mio cospetto per essere rassicurata. Io illumino la vita degli uomini, io sono infallibile, io sono immortale!» Niente da fare, l’uomo continuava a sprizzare gioia e a trasmettere disperazione ad ogni angolo della sala.
«Chiudetelo nelle segrete! E che ci rimanga fino a che non decida di togliersi quel sorriso e parlare!»
L’uomo non oppose resistenza e fu rinchiuso in una piccola cella, illuminata da una fievole candela. E lì trascorse i successivi giorni, senza toccare né cibo né acqua e continuando il suo misterioso silenzio. Era come se le regole di questo mondo non gli appartenessero. Era un estraneo. Era solo.

Intanto la vita aveva ripreso a scorrere nella città ma – non si sa come, non si sa perché – i suoi abitanti sembravano cambiati.
Ora gli ostacoli impiegavano molto tempo per essere superati. Le scoperte tardavano ad arrivare e anche il Principe, un tempo faro per il Mondo, sembrava iniziasse a perdere colpi.
Un giorno un bambino, si chiamava Ousia, giocando a nascondino nel castello si perse nei suoi meandri e si ritrovò nei sotterranei. Nella città le celle non erano mai state usate, non ce n’era bisogno, erano solo un capriccio dell’architetto, che non poteva concepire un castello senza una prigione; quindi anche la sicurezza era pressoché nulla.
Cercando la strada per tornare indietro, la sua attenzione fu catturata da una piccola luce che proveniva da una cella nelle vicinanze. Si diresse quindi in quella direzione − com’è risaputo la luce è migliore del buio per i bambini.
La cella era quella del misterioso viaggiatore e il bambino iniziò ad osservarlo. Dopo qualche minuto disse: «io sono Ousia e non dovrei essere qui, eppure ci sono arrivato».
Uno scintillio attraversò gli occhi dell’uomo che alzò lo sguardo e concentrò la sua attenzione verso il bambino.
«Tu come ti chiami?» continuò il piccolo.
«Io ho un nome, ma i miei genitori non hanno voluto darmelo. Io non ho un nome. Avevano paura».
«E perché?»
«Perché non si può dare un nome a chi non dovrebbe averlo, eppure si dovrebbe».
«Certo che sei proprio strano».
«Stavo per dirlo io. Fai domande a cui non si può dar risposta. Eppure ti sto rispondendo».
Ci fu una pausa di silenzio ed uno sguardo prolungato tra i due. Era come se non potendo intendersi con le parole provassero a farlo con gli occhi.
«Devo andare. Penso di aver vinto a nascondino, ormai mi daranno per disperso. Arrivederci» «Addio e a presto».
«Sì, sei decisamente strano» pensò Ousia allontanandosi. Eppure era come se in qualche modo le non-risposte dello sconosciuto invece che bloccare avessero fatto scattare la serratura che teneva chiusa la porta della sua curiosità.
«Ci rivedremo di nuovo» decise.

Il tempo però non era evidentemente d’accordo con il bambino, perché scelse di presentare alle porte della città un esercito invasore.
Due messaggeri si incontrarono nella terra di nessuno fra l’accampamento e le mura.
«Sappiamo che qualche tempo fa è arrivato da voi un viaggiatore e che lo tenete in custodia» esordì il messo degli invasori. Poi continuò: «vogliamo che ce lo consegnate, il nostro mondo è caduto in disgrazia dopo la sua visita e così abbiamo deciso di allontanarlo. Ma da quando se n’è andato le cose sono peggiorate ed ora pretendiamo da lui delle risposte. Se non ce lo affiderete raderemo al suolo la vostra città e lo preleveremo in ogni caso».
Firmissimum fu messo al corrente della richiesta e decise di incontrarsi da solo con l’altro sovrano, inviandogli la proposta. Egli accettò.
Il viaggiatore fu condotto in catene dal Principe sulla cima della collina vicino alla città, che dava una visone di tutta la pianura circostante. Ben presto furono raggiunti dal terzo uomo: «voglio quest’uomo e voglio delle risposte. Consegnamelo!»
«Anche io pretendo delle risposte, ne ho bisogno: la mia città ed il mio regno non sono più le stesse e se lo allontano la mia sorte non sarà diversa dalla tua».
«Entrambi vogliamo delle risposte, interroghiamolo insieme. Ma se quello che ci dirà non sarà soddisfacente procederò come ho deciso: attaccando la tua città».
«E sia» disse il Principe, poi si rivolse minaccioso allo straniero: «Voglio sapere cos’hai fatto e non ci muoveremo da qui finché non ce lo dirai, a costo di morire di fame!»
L’uomo tacque.
«Vogliamo una risposta!»
«Eccola dunque» fece una lunga pausa e per la prima volta la sua espressione mutò, diventando indecifrabile «questa risposta è falsa. Io non ho fatto nulla».
«Cosa significa?» domandò il sovrano invasore «ci stai dicendo che non hai colpe?»
«Certo che no» disse il Principe «altrimenti la sua risposta sarebbe vera, mentre ci ha detto che è falsa. Vuol dire che ha fatto qualcosa!»
«Non può essere» replicò l’altro «se quello che ha detto fosse falso, allora la sua risposta diventerebbe vera, ma ci ha detto che è falsa!»
Continuarono così a lungo tempo, dibattendo sulla verità o falsità della sua affermazione, e lui nel frattempo volgeva lo sguardo all’orizzonte ammirando il sole al tramonto che salutava la Terra per un altro giorno e nel frattempo dava il benvenuto alla sua cara amica notte.

Si fece buio e poi fu di nuovo luce. Il nuovo giorno portò con sé una novità: Ousia, che aveva voluto raggiungere il suo nuovo amico.
Fu messo al corrente della situazione perché desse la sua opinione su chi avesse ragione, ormai i due uomini erano stremati.
Appena saputo l’argomento della disputa il bambino si mise a ridere e rispose con semplicità disarmante a Firmissimum: «Papà, quest’uomo, non facendo niente, ha fatto tutto. Quindi la risposta è che nessuno di voi ha ragione».
«Non è possibile!» risposero in coro «una cosa deve essere o vera o non vera, tra i due non è possibile una terza via».
Ousia rispose: «quando capirete che una terza possibilità invece c’è e che il problema delle vostre città non è lui ma voi, allora forse riuscirete a risolvere l’enigma». E così dicendo prese per mano il viaggiatore e scesero insieme la collina, felici di essere finalmente riusciti ad intendersi.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Nell’immagine di copertina: opera di Caspar David Friedrich]

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La Polonia tenta di cancellare la storia?

«Imporre un bavaglio ai fatti storici è una questione molto seria. Un tentativo di falsificare la verità. Che a mio giudizio implicitamente ammette che parte della popolazione polacca fu complice del processo di eliminazione dei loro compatrioti ebrei durante la seconda guerra mondiale»1. Così si esprime Jan Gross, storico di Varsavia e professore emerito a Princeton, uno dei più importanti studiosi in merito alle complicità polacche nello sterminio degli ebrei. Le sue parole si riferiscono alla nuova legge della Polonia, definitivamente approvata in Senato l’1 febbraio, che proibisce ogni menzione di dirette responsabilità polacche nella Shoah. Chi lo fa, rischia fino a tre anni di carcere. Ora si attende solamente la firma istituzionale di di Andrzej Duda, il capo di Stato.

Ma quali sono i motivi di questa nuova legge?
Il primo, sicuramente, è uno dei discorsi più sentiti dalla popolazione: la questione dei “campi di sterminio polacchi”. «la nuova legge serve contro la menzogna su Auschwitz campo polacco» ha affermato il premier Morawiecki2. Su questo si può concordare. Fu il Reich ad introdurli in territorio polacco dopo averne preso il controllo e − almeno ufficialmente − non ci fu un governo collaborazionista (come ad esempio quello francese).
Ci si potrebbe allora chiedere perché questa legge ha generato indignazione e dure critiche da parte di Europa, Usa e Israele. È la risposta a questa domanda il nodo centrale della questione: il secondo motivo è di cancellare ogni collegamento dei polacchi con l’Olocausto, e quindi anche i casi di collaborazionismo.
In che misura i polacchi contribuirono all’eliminazione degli ebrei?
«Non esiste una risposta univoca. […] tantissimi polacchi (molto più dei collaborazionisti) difesero e vennero uccisi per aver protetto ebrei»3. Il problema è che, comunque, collaborarono «diverse migliaia di cittadini polacchi. Ma anche qui c’è dibattito tra gli storici: quanti lo fecero volontariamente? […] Il più grande eccidio commesso materialmente dai polacchi è il pogrom di Jedwabne: il 10 luglio 1941, quaranta polacchi (scelti dai nazisti) bruciarono vivi 340 ebrei rinchiusi in un pagliaio»4.
Inoltre potremmo indagare i perché più profondi di questa nuova disposizione: il clima politico attuale e ciò che lo ha preceduto. Negli ultimi tempi, la politica di destra al governo «si è fatta forte di uno slogan che è un’ossessione nazionale: “ridare dignità alla Polonia”. Che da una parte prende di mira l’Europa, accusata di limitare la sovranità nazionale all’interno dei confini. Dall’altro attacca gli sforzi per svelare la storia»5 è sempre Gross a parlare, che continua: «una nazione non può crescere e progredire senza fare i conti con il passato»6.
Attualmente Jaroslaw Kaczynski, presidente del Pis (Diritto e Giustizia), controlla il governo ed il Parlamento. L’ideale, sin dall’insediamento, era di promuovere una “politica storica”, quindi esaltando le virtù nazionali ma anche controllando direttamente la narrazione storica.
«Il fatto è che da quando il paese ha conquistato la libertà il principale tema della discussione pubblica sono i crimini perpetrati dai polacchi ai danni degli ebrei sotto l’occupazione tedesca. […] Era ed è una discussione che portava e porta alla messa in questione dell’identità polacca, intesa come appartenenza alla nazione cattolica, etnicamente omogenea, generosa con le minoranze (ebrei) e vittima dei vicini (russi e tedeschi)»7 è Wlodek Goldkorn a parlare, con una riflessione che può indicarci chiaramente come e perché questa legge sia stata promossa.
Infatti negli ultimi tempi il potere polacco sta scatenando una campagna d’odio verso l’Europa, la Germania ed i traditori interni. È proprio attraverso quest’ottica bisogna leggere la nuova disposizione che «per chi conosce le regole (non tanto) segrete della retorica polacca è ovvio che si tratta di un provvedimento in fin dei conti xenofobo e che si richiama all’immaginario antisemita»8 sempre parole di Goldkorn.

La scrittrice Halina Birenbaum − ebrea polacca sopravvissuta all’Olocausto − è rimasta sconcertata: «c’erano polacchi che segnalavano gli ebrei ai nazisti, ora potrebbero arrestarmi per averlo detto, ho un biglietto aereo per Varsavia ma ho paura. […] I tedeschi occupanti non sapevano sempre chi era ebreo, ma i polacchi sì. C’erano vicini coraggiosi che ci nascondevano, ma anche altri che denunciavano. Mi sento malissimo, questa legge ferisce i sopravvissuti e i milioni di cui non rimasero che numeri»9.

Non si può nascondere la storia sotto un tappeto, men che meno se si sta parlando di implicazioni con la tragedia ebraica. È certamente scorretto affidare colpe che non hanno ai polacchi, ma non si può negare che almeno qualcuno abbia favorito, aiutato ed in qualche caso sostenuto il massacro nazista. Il clima antisemita preesisteva già, in Polonia come in molti altri Paesi europei, e fare finta che così non fosse, minacciando con il carcere chi voglia fare ricerca e pubblicare le proprie scoperte in questo ambito è semplicemente controproducente.
Di sicuro le cause che hanno portato all’imposizione nazista in Germania sono sfaccettate, ma altrettanto certo è che due di queste siano state la sottovalutazione di eventi di questo genere e il non voler ammettere che la follia nazista dava voce ad un sentimento, se non condiviso, almeno già in parte esistente.

Pensiamo alla Germania ed al suo enorme sforzo di fare i conti con la propria storia. Il risultato? L’acquisizione dell’accettazione dell’altro. Non a caso quando c’è stato bisogno d’aiuto con la crisi migratoria, le porte tedesche si sono subito aperte.

 

Massimiliano Mattiuzzo

NOTE
1. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3
2. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 2
3. Ibidem
4. Ibidem
5. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3
6. Ibidem
7. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 28
8. Ibidem
9. 2 febbraio 2018, La Repubblica, pag. 3

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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Comunque andare, anche se è possibile inciampare

A chi scrive è capitato di partecipare a una conferenza, mesi fa, pensata per fare il punto dell’attuale situazione del pianeta, con riferimento alle problematiche specifiche dell’Antropocene. Uno degli astanti, con massimo sconcerto, contestò una delle affermazioni del relatore, in particolare quella sulla “presunta” sovrappopolazione: non è possibile che ci siano troppe persone sul pianeta, diceva, è sufficiente notare quanto sia diminuito il numero di bambini alla sagra di paese per capire che il problema è esattamente l’opposto.

L’intervento, per quanto ingenuo, tradiva evidentemente una squisita provincialità nel pensiero: dato che nel paesino X di seicento anime nascono pochi bambini, è evidente come la sovrappopolazione mondiale sia un falso problema. La percezione locale diventa regola dell’universale.

Il meccanismo che portava il signore di cui sopra a ignorare un problema come una popolazione globale di sette miliardi di individui umani (in crescita), però, è lo stesso che ultimamente genera allarmismi e catastrofismi in classi sociali e culturali tra le più disparate. Sono anni, ormai, che in Occidente si paventa un “ritorno alla barbarie”, che sia per i flussi migratori incontrollati per alcuni o per il riaffacciarsi dei fascismi per altri, per la progressiva islamizzazione d’Europa per i primi o per le preoccupanti vittorie dei populismi per i secondi. Indipendentemente da quali siano le minacce percepite, il risultato pare sempre lo stesso: la distruzione della civiltà (occidentale o totale, spesso considerate sinonimi) ed una imponente retromarcia storica.

Anche qui, però, la prospettiva da cui ci si affaccia per formulare simili profezie è a dir poco limitata e circostanziata: se i fatti percepiti come emergenze sono innegabili in sé, l’interpretazione catastrofista non tiene conto di una visione d’insieme decisamente più ottimistica. Mai come in questo secolo si sono diffusi il diritto alla salute e all’istruzione, si sono fatti enormi passi avanti nella lotta per l’equità di genere in paesi che tradizionalmente non avevano mai esteso alle donne neanche lo status di esseri umani, si stanno raggiungendo insperati livelli di benessere nonostante la permanente povertà di certe aree geografiche, la diffusa alfabetizzazione e partecipazione politica hanno aperto nuove frontiere alle democrazie e la ricerca medica e scientifica ci ha dato una comprensione inedita del corpo e della mente umani, del mondo e del cosmo.

Queste sono conquiste che l’umanità non può “disimparare” e che non possono essere cancellate da qualche colpo di coda di ideologie passate che, per quanto recrudescenti, non hanno certo il potere di portare indietro le lancette dell’orologio. Aveva certamente ragione Giambattista Vico, che coi suoi “corsi e ricorsi” riconosceva alcuni pattern che tendono a ripresentarsi a distanza di secoli nella storia umana, ma anche questi erano comunque inseriti all’interno di un percorso unidirezionale, che non è in alcun modo passibile di inversioni o arresti (per quanto, dal 1945 in poi, lo sviluppo dell’industria bellica presenti per la prima volta la possibilità più che concreta di un arresto totale della storia umana).

La storia può dunque ripetersi in alcune strutture di base, ripresentare vecchie problematiche su nuova scala, ma mai ripercorrere i propri passi. Il cammino storico dell’umanità prosegue in una sola direzione, e le conquiste che appartengono all’intera specie non possono essere cancellate dal declino politico o morale di una sua minima parte. Non si intenda questo, però, come un principio deresponsabilizzante per la collettività e per i singoli: appurato che la direzione del progresso è e rimane una sola, dovremmo seriamente preoccuparci di dove indirizzare i nostri prossimi passi. In fondo, camminare in una direzione sola non significa certo che sia impossibile inciampare o sbagliare strada.

 

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Perché fermarsi ad osservare il passato piuttosto che correre sempre avanti

Per dare un volto alla sua critica al progresso, Walter Benjamin sceglie Angelus Novus, un quadro di Paul Klee, in cui «è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo»1. Secondo il filosofo tedesco ciò che l’angelo sta fissando con occhi colmi di pietà è il passato, da cui è costretto ad allontanarsi da una violenta bufera che lo sospinge in avanti, verso il futuro: «ciò che chiamiamo il progresso è questa bufera»2.

angelus-novus-paul-klee_la-chiave-di-sophiaLa critica di Benjamin si muove su un piano storico: egli attacca il mito occidentale del progresso perché ci illude che la felicità sia sempre in avanti, alla fine della storia, e così ci convince a rimandare all’infinito la realizzazione dei nostri desideri. E questa bufera, oltre a strapparci dal presente, ci impedisce anche di osservare il passato. Se ci soffermassimo a guardarlo potremmo vedere che esso è pieno di detriti: sono gli scarti della storia, sacrificati sull’altare del mito del progresso; sono storie che ci parlano di felicità non realizzate, utopie di un mondo diverso che sono rimaste inascoltate. Interpretare la storia come una linea retta che procede inesorabile verso un punto d’arrivo finale ci porta a dimenticare ciò che è successo, il dolore che è stato causato, le idee che sono state abbandonate.

Le immagini di Benjamin si hanno solo un significato storico, ma si possono facilmente declinare anche sulla situazione individuale. Perché in fondo tutti noi siamo simili all’angelo di Paul Klee. Noi figli dell’Occidente ci siamo abituati fin da bambini a interpretare la vita come una corsa in avanti: la scuola ci deve preparare a studiare e ad essere performanti all’università, i corsi di lingua ci devono dare un’arma in più da usare per trovare un lavoro, lo stage deve essere un trampolino di lancio verso il posto fisso, il lavoro stesso deve avere una porta aperta verso una promozione… Una corsa che, in un’epoca in cui il futuro è sempre più povero di sicurezza, diventa ancora più frustrante.

Persi in questa forsennata corsa in avanti, quando ci guardiamo alle spalle anche noi vediamo gli inevitabili scarti della nostra vita: gli attimi che non abbiamo vissuto fino in fondo, le scelte che abbiamo sbagliato o che più semplicemente potevamo fare diversamente, le persone che non abbiamo apprezzato a sufficienza. Se ci fermassimo ad analizzare le nostre scelte passate forse potremmo capire meglio noi stessi, cogliere più a fondo i nostri desideri per provare a realizzarli. Ma la corsa in avanti non si può fermare. E forse guardarci alle spalle ci fa anche paura perché temiamo di realizzare che abbiamo sbagliato tutto, che a forza di correre sempre più veloce non abbiamo capito di aver sbagliato strada.  

Qual è dunque la soluzione? Dobbiamo abbandonarci alla bufera del progresso e sperare che essa ci trasporti in un qualche luogo felice? Benjamin fornisce la sua soluzione, o quantomeno la sua riflessione, attraverso un’altra immagine potete. Egli racconta che durante la Rivoluzione francese «giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili»3. Sparare agli orologi per fermare il continuum temporale, infrangere quella linea che procede solo in avanti per poter finalmente tornare indietro, passeggiare tra i detriti della (nostra) storia per guardarli da vicino, perché in fondo la «felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi»4.

 

Lorenzo Gineprini

 

NOTE:
1. W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 35
Idem
Ivi, p. 49
Ivi, p. 8

 

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La Terror Haza di Budapest: quando il terrore diventa realtà

Oggi, chi lavora nel campo museale o cura mostre d’arte si trova ad affrontare numerosi problemi di natura estetica e didattica: creare installazioni che valorizzino le opere esposte, rendere la struttura bella ma agevole al pubblico, istituire dei percorsi tematici che aiutino a comprendere gli autori e raggiungere l’osservatore medio, che intenditore d’arte non è. Purtroppo le scelte estetiche che vengono poste in atto, spesso non riescono ad avvicinarsi ai più, i quali, pur rimanendo colpiti sul momento, dimenticano dopo poco il fil rouge della mostra e, passate alcune settimane, non riescono a ricordare nemmeno le opere cardine delle collezioni che sono state esposte.

Un esempio  che contrasta con quest’ultima affermazione è facilmente riscontrabile in un noto museo di Budapest: si tratta della Terror Haza, una sorta di casa-museo nella quale vengono ricordati gli orrori e le vittime del regime comunista.

L’uomo medio che entra per la prima volta in questa struttura viene in primo luogo toccato dall’impianto stesso: una sorta di abitazione, quasi un ambiente familiare, costituito da più piani e diverse stanze. La sensazione che prevale non è quella di un classico museo, freddo e distaccato, istituzionale per così dire, ma di un ambiente raccolto, nel quale l’osservatore non si può perdere.

Il percorso che viene costruito è ad una via e ciò permette di seguire un filo logico, una strada ben definita. Il visitatore è dunque condotto in un’escalation di emozioni, ogni stanza ricorda un pezzo di storia ed è resa suggestiva sia nel gioco di luci, sia negli elementi che la compongono.

Quest’ultimi, in particolare, sono a loro volta disposti in modo da creare una sensazione tridimensionale: abiti d’epoca appesi su normali attaccapanni, scrivanie arricchite con telefoni datati, scartafacci o porta documenti del secolo scorso. L’assetto di questi elementi istituisce una sorta di processo d’inclusione, quasi l’osservatore fosse catapultato in un momento storico che non è il suo, in una realtà che riprende magicamente ad esistere e di cui si sente parte.

Tale idea è a sua volta consolidata da un espediente che rompe il gioco di ruoli: la possibilità di interagire con parte dei pezzi di storia che sono esposti, non solo di “guardare e non toccare”. Ecco che il visitatore comincia allora a giocare diversi ruoli: utilizza i telefoni per sentire la voce delle vittime, guarda filmati di testimonianze seduto tra i documenti dei condannati, osserva le minuscole celle nelle quali morivano i prigionieri. Colui che entra nella Terror Haza si sente in qualche modo parte di quel mondo, a sua volta vittima, prigioniero, perseguitato, quasi fosse stato risucchiato da una macchina del tempo.

Nel caso della Terror Haza di Budapest, dunque, l’installazione diventa in un certo senso parte di ciò che è esposto, la musica, i video, sia pure riprodotti con tecniche contemporanee, collaborano nell’impianto e anche il visitatore meno preparato comprende e viene mosso nell’animo da un groviglio di emozioni.

Forse questo esempio dovrebbe spingere a riflettere sulle scelte che vengono effettuate in diversi musei italiani. Talvolta, pur alla presenza di collezioni o manufatti di valore inestimabile, dimentichiamo di costruire un contorno che possa renderli vivi, che riesca a dialogare con chiunque e, di conseguenza, che faccia realmente apprezzare le opere.

Spesso si dice che l’arte è superata, che gli interessi contemporanei ricadono ormai su altri svaghi, dimentichi delle epoche passate. In realtà bisognerebbe chiedersi se ad essere superato non sia il modo di trattare l’opera più che l’opera in sé, il modo con cui un oggetto viene reso fruibile al grande pubblico e a colui che è davvero l’ultimo interlocutore del nostro patrimonio culturale.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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