Un giorno durante un colloquio: i giovani e il futuro

C: Buongiorno
IO: Buongiorno, si accomodi pure nella postazione che preferisce. Ha avuto problemi a trovare l’indirizzo?
C: No, nessun problema, la ringrazio. Con Google Maps ormai si arriva dappertutto.
IO: Molto bene, mi fa piacere – controllo brevemente i dati del curriculum per assicurarmi che corrispondano a quanto scritto – . Mi dica, come mai si candida per questa posizione? Quali aspetti le piacerebbe trovare nel suo futuro lavoro?
Silenzio. Il candidato mi guarda con due occhi che esprimono paura e smarrimento allo stesso tempo; gli occhi di chi non sa quale sia la risposta giusta, gli occhi di chi si chiede a sua volta perché si trovi seduto su quella sedia difronte a me. 

Spesso nel corso del mio lavoro di Recruiter, mi imbatto in giovani che mi trasmettono tali sensazioni, percepisco il concreto disagio di chi, terminati gli studi superiori, si trova a dover fare scelte importanti di vita: cerco un lavoro oppure mi iscrivo all’Università? Se opto per il lavoro, mi proietto nel mio ambito di studi oppure no? In altre parole: Quale è la mia strada?

In questi ultimi anni di profondi rivolgimenti sociali e politici, che hanno contribuito a creare disagio nelle nuove generazioni, sempre di più manca un appiglio, un concreto progetto sociale, umano, che dia ai ragazzi delle prospettive e li faccia sentire meno persi nelle loro scelte. L’approccio che ritrovo nei giovani è spesso rivolto a provare senza troppa convinzione, prima di aver realmente effettuato un’analisi interiore su quali siano le proprie inclinazioni, i propri sogni o progetti. Ciò significa forse che i ragazzi d’oggi – solita ramanzina degli anziani – non sono più in grado di sognare?

In realtà essi sono inseriti in un contesto sociale così iper-connesso e ricco di stimoli (dal cellulare, alla televisione, alle innumerevoli attività che scuola e istituzioni propongono) che lascia davvero poco spazio e tempo al raccoglimento, alla riflessione, all’analisi di sé, elementi essenziali per conoscere il proprio io profondo. A ciò si aggiunge una società che inneggia al cambiamento, quasi che la stabilità sia necessariamente sinonimo di fallimento, di inattività. Tuttavia, ci dimentichiamo che ogni cambiamento per essere assimilato e dare i propri frutti sulla persona, necessita di un periodo di stabilità interiore, durante il quale tutto ciò che l’uomo ha appreso viene colto dentro di sé, cosa che non accade nel cambiamento continuo senza frutto.

Insomma, per dirla con le parole del filosofo Zygmund Baumann, oggi ci troviamo inseriti in una società liquida, vacillante e incerta, dove le relazioni lavorative e personali vanno decomponendosi e ricomponendosi con una rapidità inquietante, lasciando spazio ad un vuoto di senso. In questa società l’uomo si trova a vivere mille realtà, una dietro l’altra, senza che nessuna sia veramente appagante. A ciò si aggiunge l’apparente tangibilità delle prospettive lavorative e personali: in un mondo in cui ogni barriera è venuta meno e anche persone sconosciute riescono a diventare note – è ad esempio il caso degli influencer – tutto sembra facile e raggiungibile senza sforzo. Manca insomma l’idea di una costruzione di sé passo dopo passo, con i necessari fallimenti e soprattutto la pazienza che un lavoro professionale richiede.

A quegli occhi disorientati che vedo quotidianamente passare davanti a me vorrei dunque dire: imparate a guardarvi dentro, a riflettete su voi stessi. Magari la filosofia può aiutarvi in questo: a cercare di costruire concretamente un progetto in cui credere, seguendo le vostre più profonde inclinazioni, senza troppa fretta ma con tenacia e convinzione. Come disse Steve Jobs in uno dei tanti interventi della sua carriera: «Il miglior modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che fate 1. Se non lo avete ancora trovato, continuate a cercare» e, aggiungerei, quando lo troverete capirete che è ciò che fa per voi.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Conferenza di Steve Jobs per i neolaureati alla Stanford University del 2005

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Two beautiful minds

C’è un’occasione che ha sancito definitivamente il mio passaggio all’età adulta, che mi ha fatto guardare disinvolto e senza ingenuità alle favole che da piccolo mi tenevano compagnia.

All’inizio del mio percorso di studi, il professore di logica era incalzante, riempiva la lavagna di formule e aneddoti, così pieno di trasporto e passione da catturare l’attenzione di centinaia di studenti, seduti anche per terra, stipati. Si arrivò ad Alan Turing, matematico, padre della programmazione moderna, del computer e dell’intelligenza artificiale. D’un tratto, gli occhi del professore si riempirono di lacrime, il cuore gli finì in gola e il silenzio per tutta la stanza. Il nostro non era imbarazzo, quanto invece un rispetto reverenziale: nessuno aveva il coraggio di far traballare quella tensione emotiva così delicata.
Ci spiegò che Turing, dopo aver decrittato i codici nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, venne accusato di omosessualità dalla stessa nazione che aveva salvato, dalla nazione al cui servizio prestava tutto il suo intelletto. Il patteggiamento fu una condanna: una cura ormonale dalla quale Turing uscì distrutto, stravolto a livello fisico e psicologico, senza più riuscire a vivere con quel corpo mutato, evirato.
Le favole che ci raccontano da bambini hanno sempre un bel finale, non ci preparano al mondo che in realtà ci aspetta: Turing si suicidò con una mela avvelenata, senza alcun principe azzurro ad impedirne il tragico epilogo.

Qualche anno dopo l’Inghilterra diede i natali a un’altra mente geniale, macchiata anch’essa di quel peccato imperdonabile dell’omosessualità: Oliver Sacks, uno dei neurologi più famosi al mondo. La mela era ancora lì, priva di quell’unico morso letale. A lui la scelta, ma l’esperienza fu maestra e Sacks fuggì oltreoceano a realizzare il suo sogno americano. Brillante, preparato, ironicamente britannico di spirito, la sua fama crebbe in tutti gli Stati Uniti. Scienziato pazzo, per alcuni, pazzo al punto di sperimentare sostanze stupefacenti e provare ciò che i suoi stessi clienti sentivano, per poi scriverne libri di successo internazionale. Senza di lui le neuroscienze sarebbero rimaste relegate soltanto agli ambienti più accademici, rimanendo un’oscura e affascinante disciplina.

L’eredità che ci hanno lasciato Turing e Sacks è legata al progresso della tecnologia, con cui l’indagine filosofica sulla mente umana ha potuto fare passi in avanti, consentendoci di studiare empiricamente l’attività cerebrale dell’uomo. Ci siamo affidati all’informatica, alla minuziosa precisione degli studi sul cervello e delle attivazioni sinaptiche che intervengono nei processi cognitivi di base.
Sacks ha raccolto il frutto di Turing, ma non quello avvelenato; le neuroscienze hanno raccolto l’affinamento del progresso tecnologico e si sono unite alla filosofia per discutere su cosa sia la mente umana, come funzioni e quali siano gli aspetti fisiologici e patologici della cognizione.
Spesso, purtroppo, è solo con lo studio di una disfunzione che si può teorizzare una struttura fisiologica e così, ad esempio, Sacks ha spiegato nei suoi scritti quanto il cervello di un paziente non sia propriamente malato e manchevole di funzionalità, ma sopperisca ad attività neuronali compromesse, mettendo in atto un nuovo modo di percepire la realtà, un nuovo modo di riorganizzarla a livello cognitivo, comprenderla, rielaborarla.

Deliri, allucinazioni, anomalie dalla percezione non sono cose da pazzi, anzi, sono la più sana risposta del nostro cervello ad un cambiamento o ad un malfunzionamento; sono una modalità differente di affrontare la realtà, considerata sempre più spesso una rielaborazione soggettiva della propria percezione. Il cervello si riorganizza, si riassetta su una nuova struttura che dà vita ad una percezione differente della realtà e ad un’interazione con essa rinnovata. Grazie a Oliver Sacks il corpo dei malati ha assunto un’importanza diversa, un valore più umano e degno di rispetto. Dalla fenomenologia si è arrivati alle neuroscienze, percorrendo una strada di valorizzazione del corpo e del cervello, sede delle attivazioni dei nostri processi cognitivi, che ha conferito dignità ad un corpo malato, ad un corpo che in realtà combatte in maniera sana e si adatta con una nuova struttura.

Quella mela però era rimasta sospesa, quasi nascosta. Ci pensò poi Steve Jobs a riportarla alla luce, mettendola sotto gli occhi di tutti, marchiata su ogni apparecchio Apple di cui è popolata la terra. Che la lezione sia servita, dunque, e che Oliver, a pochi giorni dalla sua scomparsa, possa ora riposare in pace.

«E ora, debole, col fiato corto e i muscoli una volta sodi sciolti dal cancro, trovo che i miei pensieri, non sulle cose soprannaturale o spirituali, ma su cosa si intende per vivere una vita buona e utile – hanno provocato un senso di pace dentro di me. Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno di riposo, il settimo giorno della settimana, e forse il settimo giorno della nostra vita, quando possiamo sentire di aver fatto il nostro lavoro, e di potere, in buona coscienza, riposare.» (Oliver Sacks)

Giacomo Dall’Ava

[immagine di proprietà di La Chiave di Sophia]