La forma della paura: in margine a It di Stephen King

Come ha scritto Kierkegaard, paura e angoscia non sono sinonimi. L’angoscia è l’irrequietezza di essere difronte all’ignoto, la paura invece è un’emozione precisa, terribile nel suo essere nitida. Detto altrimenti: mentre è raro sapere cosa ci angoscia, la paura ha sempre un contenuto specifico. E la paura atterrisce, cioè getta al suolo, ci inchioda a terra. Non solo metaforicamente, visto che in latino paura (da păvŏr) e pavimento (da păvīmentum) condividono la stessa etimologia, essendo entrambi legati al verbo păvīre che significa battere il terreno e quindi, per estensione, essere sbattuti a terra.

Una paura così intesa è al centro del più celebre romanzo di Stephen King, It, fonte di terrori per l’immaginario collettivo.

La trama del romanzo è nota: il piccolo Georgie muore a seguito dell’incontro con un clown assassino che lo aggredisce mentre gioca con la barchetta di carta costruitagli dal fratello Bill. Quest’ultimo raccoglie un gruppetto di sei coetanei, uniti da un legame quasi magico. Insieme sfidano l’indifferenza dei cittadini di Derry nei confronti dei terribili eventi che accadono, indolente maschera pubblica di ciò che si nasconde sottoterra, nel sepolto inconscio della città: It, mostro dai mille volti, capace di assumere la forma di ciò che più spaventa chi ha davanti.

A dispetto del pronome generico, It è tutto fuorché indefinito: è “il male in sé per me”, il male assoluto fattosi spavento cucito su misura per me. E le nostre paure sono il nostro punto debole perché ci svelano, parlano di noi. La forma in cui It si manifesta a ciascuno dei protagonisti del romanzo ne tratteggia il carattere. Dimmi cosa ti spaventa e ti dirò chi sei. Così le giornate dei sette ragazzi si popolano inizialmente di lupi mannari, mostri, fantasmi, mummie. Un intero arsenale da film dell’orrore che li svela e li sconvolge, certo, ma non li terrorizza davvero: quelle infatti sono solo le forme che la paura assume per loro in superficie, per le strade di Derry, quando scappare difronte ad esse appare una valida alternativa.

Ben diverso è quando i ragazzi affrontano il vero volto di It, senza più dissimulazioni, e realizzano che la paura (come i sogni e i clown) cela sempre il proprio reale aspetto dietro immagini e allusioni. Alle soglie della tana di It, trovano una porta con inciso un ideogramma in cui ciascuno vede qualcosa di diverso, personalissimo e segretamente terrificante. D’improvviso le loro paure calano la maschera infantile: niente più mostri. Esse di colpo si fanno adulte, concrete.

Bill, divorato dal senso di colpa, vede l’odiata barchetta di carta costruita per Georgie, causa indiretta della sua morte. Stan, sempre a caccia di uccelli rari, è lacerato dalla sua ambizione a un ideale sempre così distante dalla realtà, e gli appare una fenice, l’unico uccello che non potrà mai scovare perché forse neppure esiste. Richie vede un paio di occhi dietro a spesse lenti, quegli stessi occhiali che anche a lui sfigurano i lineamenti e scivolano sempre sul naso, perenne monito del suo sentirsi inadeguato. Mike, ragazzo di colore, scorge un vecchio razzista incappucciato e la paura (più reale di qualsiasi mostro) di doversi guardare le spalle per via del colore della sua pelle. Beverly, spesso oggetto di violenza da parte di un padre che dice di amarla, vede un pugno chiuso. L’ipocondriaco Eddie vede un lebbroso, paralizzato com’è dalla paura di morire per qualche grave malattia. Ben, vittima prediletta dei bulli per la sua obesità, vede un mucchietto di carte di merendine, allegoria assai poco sottile di quel cibo a cui compulsivamente non sa rinunciare e che fa di lui il sovrappeso fuoriclasse dei perdenti.

Quella che maturano i protagonisti davanti a quella porta è una svolta. Si fa un enorme passo in avanti conoscitivo quando si accetta che ciò che ci atterrisce non è il mostro che ci sbrana da fuori, ma quello che ci divora da dentro e a cui piace nascondersi e indossare maschere per rendere più arduo il nostro sforzo di identificarlo ed esorcizzarlo. Per questo è essenziale imparare a dare un nome alla paura; ma deve essere quello corretto: inutile continuare a chiamare lupo mannaro ciò che in realtà si chiama frustrazione o rimorso o timore di non farcela.

Tuttavia, in un originale contributo al compito che la filosofia si è assunta ab origine, ossia liberare dalla paura, King ci offre un’inedita via d’uscita: tutte le creature devono obbedire alle leggi della forma che abitano. E la paura non fa eccezione: ogni forma che essa assume la imbriglia e la depotenzia vincolandola a obbedire alle regole che quella forma implica. I vampiri si dileguano alle prime luci dell’alba, i licantropi non resistono ai proiettili d’argento; l’insicurezza è annientata da irremovibili decisioni, il timore rispetto al domani si vince progettandolo. Insomma, ogni forma può diventare un punto di leva: quando contringiamo la paura a mostrare uno specifico volto stiamo in realtà già ponendo le basi del suo ribaltamento. Perché saperla de-finire significa anche riuscirla a con-finare all’interno di limiti invalicabili, e ci fornisce gli strumenti per porre fine al suo potere paralizzante.

 

Filippo Rinaldo

Filippo Rinaldo, 31enne padovano, laureato in Scienze Filosofiche all’Università di Padova, da cinque anni insegna Filosofia e Storia in un liceo della città di Antenore. Tiene anche corsi di Filosofia per adulti e di Scrittura argomentativa. Appassionato di cultura pop, legge Kant con lo stesso trasporto con cui segue “Black Mirror” o “American Gods” (e viceversa). Scrive per diletto, per chiarire prima di tutto a sé stesso il senso nascosto di ciò che legge, vede e sperimenta.

[Photo credit unsplash.com]

 

“It” è un film che banalizza la cognizione dell’orrore

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, il filosofo americano Noël Carroll provò a teorizzare nel libro The Philosophy of Horror (1990) il paradosso dell’orrore. Si tratta di una variazione del più tradizionale paradosso della tragedia, dovuto al filosofo David Hume e riducibile alla domanda: “perché siamo attratti da cose che (se fossero reali) riterremmo orribili?” La notizia che un film come It abbia incassato al box office statunitense oltre duecento milioni di dollari nelle prime due settimane di programmazione, è la dimostrazione che il pubblico è ancora molto attratto dal fascino dell’orrido. Ma che cos’è l’horror? Per Carroll si tratta di un genere eminentemente moderno, che ha avuto origine nel XVIII secolo in Europa con la cosiddetta letteratura gotica. Nell’analizzare l’horror Carroll evidenzia come questo genere sia un dispositivo che funziona nella sua totalità. Tuttavia, il filosofo mette in rilievo alcuni elementi tipici che appaiono essere più importanti di altri nella costruzione della finzione scenica. In particolare: la presenza nel cast di un gruppo di protagonisti generalmente umani (nel caso di It si tratta dei ragazzini che fanno parte del Club dei perdenti) contrapposti a un’entità mostruosa che li minaccia e che, a seconda dei casi, può assumere molteplici forme (tra cui quella umana).

Il successo del romanzo pubblicato nel 1986 da Stephen King è in gran parte dovuto alla sua capacità di riuscire a raccontare con incredibile efficacia un male archetipico, confinandolo in una mostruosa personificazione mutaforma delle paure di ognuno di noi. It è un mostro senza genere (anche se nel libro si ipotizza la sua propensione verso il lato femminile), è la personificazione di ogni nostra paura e si nutre del terrore che riesce a suscitare nelle sue vittime. L’unica soluzione possibile per eliminare un antagonista simile è compiere una crescita personale, superando le paure primordiali dell’infanzia e arrivando alla maturità dell’età adulta, dove i turbamenti non scompaiono ma si evolvono a una fase più consapevole rispetto al terrore di cui si nutre It. Nel nuovo adattamento cinematografico diretto da Andy Muschietti, gran parte di queste tematiche vengono banalizzate e ridotte a una lotta, nemmeno troppo spaventosa, tra un gruppo di ragazzini e un clown assassino (personificazione preferita del mostro creato da King).

Chiariamo una cosa: il nuovo lungometraggio di Muschietti non è del tutto esente da meriti. È girato con grande maestria registica, cura con grande attenzione gli elementi della messa in scena e, con un cast di tutto rispetto, ha il coraggio di prendere una serie di soluzioni narrative che in qualche modo lo rendono libero e indipendente dal peso incombente del romanzo a cui si ispira. It è un film che reclama una sua indipendenza ma che al tempo stesso si dimentica di mettere in scena l’elemento chiave nel conflitto tra il mostro e i ragazzini, vale a dire: l’immaginazione. La parte del viaggio onirico di Bill raccontata da Stephen King, poco prima dello scontro con il clown Pennywise, sarebbe stata una componente fondamentale da mettere in scena per mostrare allo spettatore come rabbia e coraggio non siano sufficienti, in questo caso, a eliminare un antagonista così spaventoso. Serve immaginazione per vincere le proprie paure ma Muschietti sembra dimenticarlo, portando in scena un film che punta molto sullo spavento più immediato e concreto, causato da esplosioni sonore a tratti esagerate e sulla diabolica fisicità del giovane Bill Skarsgård che interpreta It scegliendo saggiamente una prova di sottrazione attoriale, ispirata ai grandi antagonisti del cinema muto. Fatta eccezione per la splendida sequenza iniziale infatti, il clown di Skarsgård è un personaggio quasi muto e presente in scena pochissime volte, divenendo così una presenza metaforica più che un personaggio vero e proprio. In attesa di vedere la continuazione della storia cinematografica nel secondo capitolo dell’opera, questo primo vero adattamento cinematografico di It rimane un ottimo prodotto commerciale per la grande fruizione di massa, anche se la paura dei produttori di fallire al botteghino ha impedito all’opera di galleggiare verso l’Olimpo dei grandi film, rischiando di far naufragare una delle più belle storie mai scritte nella banalità ordinaria dell’intrattenimento orrorifico, già visto decine di volte sul grande schermo.

 

Alvise Wollner

 

[immagine tratta da google immagini]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03