Filosofia e fisica per una nuova chiave della realtà. Intervista a Fabio Fracas

Fabio Fracas – già Docente Invitato per la SISF/ISRE, Scuola Superiore Internazionale di Scienze della Formazione, e Graduate Research Assistant presso la Florida Atlantic University di Boca Raton, USA – è docente di Fisica applicata alla Radioterapia e alla Radioprotezione presso il Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova, dal 2019 è Scientic Associate presso il CERN di Ginevra. I suoi attuali interessi di ricerca sono rivolti all’interazione fra il cervello e le radiazioni elettromagnetiche e meccaniche. ma è anche anche scrittore e fondatore di una scuola di scrittura, e al tempo stesso sviluppatore di giochi di ruolo, nonché critico cinematografico e musicista, nel senso che la musica l’ha studiata (è laureato in Musica Elettronica) e la compone, oltre a scriverne su riviste specializzate.

Fabio Fracas è uno di quei fisici assolutamente atipici: un grande bagaglio culturale e una predisposizione spiccata a mettere in dialogo la Fisica con tutte le arti e discipline, con la vita in generale. Umile e mosso da una forte passione, è una di quelle persone che sa osservare il mondo con quella meraviglia pura tipica dei bambini, relazionandosi così coi tanti dubbi che la scienza è capace di suscitare in chi vi si avvicina con umiltà e con passione. Il suo ultimo libro Il mondo secondo la fisica quantistica, è un viaggio attraverso qualcosa di nuovo e affascinante: lo studio della Fisica Quantistica, delle sue logiche, delle sue potenzialità, delle sue applicazioni e dei suoi possibili sviluppi. Avvalendosi di contributi nuovi e di interviste inedite e esclusive, i dieci capitoli che lo compongono ricostruiscono i momenti fondamentali del pensiero quantistico. Sullo sfondo delle ricerche più attuali, il libro utilizza le voci e le esperienze di chi con la fisica quantistica e grazie alla fisica quantistica riscrive ogni giorno un pezzo di realtà.

 

Nel tuo libro Il mondo secondo la Fisica Quantistica” (Sperling&Kupfer Editore) affermi «La fisica quantistica riscuote una così forte attenzione, anche da parte di persona che mai si sarebbero interessate alla fisica classica, perché ha l’innegabile fascino di sconvolgere tutte le nostre conoscenze, tutto ciò che diamo per scontato». A fronte di questo fascino capace di sconvolgere tutte le nostre conoscenze, può dirci con quale scoperta e con chi nacque la fisica quantistica? Forse è bene anche fissare quale sia la distinzione tra la Fisica Quantistica e la fisica tradizionale, cercando di capire che la fisica classica e la fisica quantistica sono due strumenti che hanno caratteristiche differenti e si occupano di due distinti piani della natura.

In effetti, più che di fisica tradizionale, per evitare fraintendimenti, bisognerebbe parlare proprio di Fisica Classica. Da un certo punto di vista, infatti, anche la Fisica Quantistica può essere considerata “tradizionale” poiché la sua nascita risale al lontano 1900. Nell’ottobre di quell’anno, Max Planck arrivò a formulare la famosa legge E = h ∙ ν che stabilisce che l’energia posseduta da una radiazione è proporzionale alla sua frequenza moltiplicata per un valore costante chiamato inizialmente “quanto d’azione”. Valore che oggi conosciamo semplicemente con il nome di costante di Planck. Tornando alla differenza esistente fra la Fisica Quantistica e la Fisica Classica, allora, è possibile spiegarla chiarendo che la prima si occupa di descrivere il comportamento della materia e delle radiazioni – comprese le loro interazioni reciproche – su scala atomica e subatomica. La Fisica Classica, invece, fa riferimento a tutte quelle teorie e a quei modelli che descrivono i vari fenomeni fisici a eccezione di quelli che rientrano nella Fisica Quantistica, nella Relatività Generale o in altre teorie ancora più recenti. Oltre alla meccanica, nella Fisica Classica possiamo far rientrare la termodinamica, l’elettromagnetismo, la gravità newtoniana, l’ottica, l’acustica e persino – secondo l’opinione del grande fisico Richard Feynman – la Relatività Ristretta del 1905.

«Mi rendo conto che uno dei problemi principali legati alla comprensione della fisica – e di conseguenza, della visione del mondo che essa offre – deriva dal fatto che spesso non si riesce a comunicare efficacemente la grande semplicità dei concetti che sono alla base anche delle formulazioni più complesse. È compito di chi la insegna e di chi si occupa della sua divulgazione cercare di superare questo scoglio, offrendo a studenti e lettori delle chiavi di interpretazione il più possibile semplici e dirette». Il problema di cui parli in questo breve passaggio, trovo possa essere esteso anche a molte altre discipline che molto spesso vivono chiuse entro le mura accademiche o in centri di ricerca scientifici. Inoltre, dal punto di vista di un pubblico ampio ed eterogeneo spesso si considerano la matematica, la fisica, ma anche la filosofia e la psicologica come discipline riservate solo ad un élite di studiosi. Secondo te come è possibile accorciare le distanze tra lo specialismo, tipico degli ambienti di ricerca, e un pubblico ampio ed eterogeneo? Detto altrimenti, come possono queste discipline comunicare in modo divulgativo pur rispettandone il loro rigore?

Bisogna ripartire dal concetto stesso di “divulgazione” e dall’etimologia della parola. Divulgare deriva dall’omonimo termine latino e significa diffondere fra il volgo, ovvero: rendere noto a tutti; rendere comune, generale. Quindi, quando si fa divulgazione si deve cercare di rendere generali, comprensibili da tutti, idee e significati che, nella quotidianità, non sempre lo sono. Molto spesso, a volte anche per necessità, le varie discipline – indipendentemente dal fatto che si tratti di materie scientifiche o umanistiche – tendono a sviluppare un proprio linguaggio, un lessico specifico, che permetta agli addetti ai lavori di comprendersi velocemente e senza fraintendimenti. Se portata all’esterno, però, questa stessa modalità di scambio delle informazioni risulta il più delle volte incomprensibile. È questo lo “scoglio” al quale facevo riferimento nel brano citato. Uno scoglio che è possibile superare, a mio avviso, evitando di ricorrere a tecnicismi eccessivi e rendendo accessibili con esempi e terminologie più vicine al vissuto di quel pubblico eterogeneo a cui ci stiamo rivolgendo, i temi che si stanno affrontando. È un equilibrio non semplice da ottenere perché da un lato ci sono le esigenze legate alla comprensione mentre dall’altro c’è la necessità di trasferire le informazioni nella loro integrità e senza banalizzarle. Ottenerlo, sempre dal mio punto di vista, dev’essere l’obiettivo di chiunque si occupi di divulgazione.

«Oggi, uno degli aspetti che lascia maggiormente sconcertati quando ci si avvicina alle logiche della Fisica Quantistica è il carattere di incertezza insisto al loro interno. In un mondo determinista e pragmatico come il nostro, lasciare spazio al dubbio e al non conosciuto sembra inaccettabile». Da questo passaggio penso a come Fisica e Filosofia condividano un comune denominatore che le muove, ovvero il dubbio. La prima muove il dubbio di fronte alla realtà fisica dell’esistenza, la seconda, la filosofia, nasce a partire dal ‘perché’ delle cose e dell’esistenza. Aristotele affermava che la filosofia nasce e si sviluppa a partire dal cosiddetto ‘thauma’, quella meraviglia che si genera di fronte alle cose, ma che è allo stesso tempo torpore, una meraviglia che scuote, che lascia l’uomo mai fermo e passivo, ma lo rende reattivo, generativo. Ritieni che in questo momento storico preciso ci sia ancora posto per questa meraviglia? Se sì, come è possibile riscoprirla?

Nel 1900, quando Max Planck scoprì la quantizzazione dell’energia, molti scienziati – e fra questi, Lord Kelvin – erano certi che la fisica avesse già raggiunto tutti i traguardi possibili e che non ci fosse più nulla di nuovo da scoprire, salvo l’ottenere misure sempre più esatte. Eppure, nella notte fra il 7 e l’8 ottobre di quell’anno, nacque una nuova fisica che avrebbe rivoluzionato per sempre la nostra visione del mondo e della realtà: la Fisica Quantistica. Pensare, in un qualunque campo, che non ci sia più nulla di nuovo da scoprire o da realizzare, significa rinunciare alla meraviglia della conoscenza, intesa non come sapere acquisito ma come anelito a una comprensione del mondo sempre in divenire. Come scrisse Albert Einsten nel 1921 sul diario di una studentessa mentre era in visita al liceo classico “Galvani” di Bologna – la ragazza si chiamava Adriana Enriques ed era figlia del matematico Federigo Enriques –: «Lo studio, e in generale la ricerca della verità e della bellezza, sono un campo nel quale ci è lecito restare bambini per tutta la vita». Ed è proprio con la meraviglia con cui i bambini sanno osservare il mondo che tutti noi dovremmo, dal mio punto di vista, relazionarci coi tanti dubbi che la scienza è capace di suscitare in chi vi si avvicina con umiltà e con passione.

Faynman nel suo discorso per premio Nobel per la Fisica nel 1965 si chiede «come mai si può formulare la stessa teoria – che spiega e prevede accadimenti e risultati sperimentali in un contesto specifico – in tanti modi differenti? Forse perché la natura è semplice». Il fisico Giulio Peruzzi, poi, aggiunge: «il fatto che io possa arrivarci anche da strade diverse, invece, apre nuove possibilità e mi permette una maggiore libertà d’azione e di pensiero». È interessante questo spazio di libertà d’azione e di pensiero di cui si parla, perché non solo diventa un approccio di analisi e studio efficace per qualsiasi questione in oggetto, ma perché permette all’uomo di esercitare la capacità di considerare percorsi alternativi di fronte ad un dato problema. Quanto secondo te la fisica insegna all’uomo che non esiste un’unica via praticabile di fronte ad un problema?

Il secondo capitolo del mio saggio Il mondo secondo la Fisica Quantistica” (Sperling&Kupfer Editore) ha il seguente, provocatorio, titolo: «Due è sempre meglio di uno – Ovvero, perché accontentarsi di un’unica teoria?. In effetti, nel caso della Fisica Quantistica è proprio cosi: quelle che chiamiamo con i nomi di “Meccanica delle Matrici” e di “Meccanica Ondulatoria, per fare un esempio, sono due facce della stessa medaglia e concorrono alla comune definizione della “Meccanica Quantistica». Senza entrare troppo nel dettaglio delle varie teorie, la possibilità di rappresentare la Natura con differenti modalità parimenti valide, può essere ben compresa grazie a una frase di Werner Karl Heisenberg: «La fisica non è una rappresentazione della realtà, ma del nostro modo di pensare a essa». In questo senso, la libertà di pensiero, la ricerca di un punto di vista “altro” e la capacità di immaginare differenti approcci allo stesso problema, sono alcuni dei tratti caratteristici che dovrebbe possedere, secondo me, chiunque decida di approcciarsi senza preconcetti allo studio del mondo che ci circonda.

Sulle questione dell’universalità e della verità della scienza mi torna alla mente il filosofo Karl Popper, il quale, per descrivere il proprio approccio filosofico alla scienza, ha coniato l’espressione razionalismo critico che implica il rifiuto dell’empirismo logico, dell’induttivismo e del verificazionismo. Popper pone al centro la fondamentale asimmetria tra verificazione e falsificazione di una teoria scientifica: infatti, per quanto numerose possano essere, le osservazioni sperimentali a favore di una teoria non possono mai provarla definitivamente e basta anche solo una smentita sperimentale per confutarla. Da singoli casi particolari non si potrà mai ricavare una legge valida sempre e in ogni luogo, proprio perché non possiamo fare esperienza dell’universale. La fisica quantistica cos’ha da dire nei confronti di quanto portato avanti da Popper?

Sui concetti di universalità e di verificazione/falsificazione delle teorie scientifiche, così come proposti da Karl Popper, posso fare direttamente riferimento al pensiero di Stephen Hawking: «Qualsiasi teoria fisica è sempre provvisoria, nel senso che è solo un’ipotesi: una teoria fisica non può cioè mai venire provata. Per quante volte i risultati degli esperimenti siano stati in accordo con una teoria, non si può mai essere sicuri di non ottenere la prossima volta un risultato che la contraddica.» Quella di Stephen Hawking non è solo un’affermazione provocatoria: è la base per una più profonda riflessione sul metodo scientifico e sulla sua applicazione alle nuove frontiere della fisica. Il metodo scientifico – così come definito dal celebre scienziato e filosofo Galileo Galilei nella prima metà del XVII secolo – afferma che in base all’osservazione sperimentale degli eventi è sempre possibile stabilire un principio di causalità, cioè una sequenza di azioni concatenate fra loro in cui una data causa produce uno specifico effetto. Non solo: afferma anche, tramite il principio di riproducibilità, che se tutte le condizioni nelle quali si è verificata la causa rimangono identiche, ciò che si otterrà sarà sempre il medesimo effetto. Com’è possibile, allora, che senza cambiare le condizioni degli esperimenti, Stephen Hawking dichiari che si possano ottenere risultati differenti? E la sua, fra l’altro, non è una posizione isolata. Già Werner Heisenberg, nel 1927, l’aveva espressa e persino Richard Phillips Feynman, nel 1963 tenendo una conferenza presso la University of Washington, aveva concluso che “[dalla parola ‘scienza’] molto rimane escluso, fenomeni per i quali l’approccio sperimentale non funziona, e non è escluso che siano importanti. In un certo senso sono i più importanti”.

Nella terza parte del libro affronti le possibili ricadute degli studi della Fisica Quantistica negli ambiti della biologia e della medicina. Quali interventi e quale scoperte sono state fatte in questo versante?

Gli ultimi tre capitoli de Il mondo secondo la Fisica Quantistica nascono dal tentativo di dare una cornice scientifica basata sulle nostre attuali conoscenze ad alcuni temi scottanti e di attualità che negli ultimi anni sono diventati argomento di discussione anche in contesti molto lontani da quelli della ricerca e dell’università. In particolare, ai temi legati alle applicazioni della Fisica Quantistica nei campi della medicina e delle neuroscienze. Dal mio personale punto di vista, dato che alcune delle ipotesi che ho dovuto esaminare sono attualmente in fase di studio e risultano non condivise da tutti i fisici e dalle altre figure professionali che se ne occupano, ho scelto di ritagliarmi un ruolo super partes di osservatore presentando vari punti di vista differenti, spesso anche in contrapposizione fra loro. Punti di vista, supportati da un’ampia bibliografia – disponibile nelle note – che permettessero a chi legge il volume di farsi un’idea quanto più esauriente e imparziale possibile sui vari argomenti. È stato un lavoro particolarmente complesso, soprattutto nella ricerca delle fonti, che mi ha portato a muovermi su un terreno potenzialmente minato: per questo motivo ho deciso di far parlare il più possibile gli stessi protagonisti delle ricerche, offrendo per ogni elemento trattato differenti visioni; anche critiche o totalmente contrarie.

Con l’intervento del prof. Enrico Fracco, e servendoti degli studi di grandi filosofi come Platone, Immanuel Kant e Severino, evidenzi come ‘quanto è conosciuto, è necessariamente parziale e provvisorio, inclusa la conoscenza scientifica’ e dunque ‘la realtà è necessariamente una creazione congiunta del mondo fisico e mondo della coscienza’. Puoi spiegarci meglio in che rapporto si trovano Fisica Quantistica e coscienza? Che cos’è la Mente Quantica?

In relazione al concetto di ipotesi quantistiche applicate ai processi cognitivi, conviene accennare brevemente a quella più famosa e discussa: la Teoria Orch-Or proposta dal matematico Roger Penrose e Stuart Hameroff. Questa teoria, nata originariamente come Teoria Or nel 1989, viene proposta inizialmente nella forma di un’intuizione non suffragata da evidenze sperimentali. Nel volume La mente nuova dell’imperatore, Roger Penrose suggeriva l’ipotesi che il funzionamento del cervello non fosse guidato da algoritmi logici o formali, appartenenti alla fisica classica, bensì da processi quantistici legati al collasso della funzione d’onda. Contemporaneamente, Penrose proponeva anche la nuova definizione di “riduzione obiettiva” per indicare come il momento del collasso dipendesse da fattori concreti legati al rapporto fra la massa e l’energia degli oggetti coinvolti nel processo. In riferimento alla coscienza, la riduzione obiettiva di Penrose proponeva che la determinazione degli stati che subivano il collasso avvenisse in maniera casuale e fosse influenzata anche dalla geometria dello spazio-tempo. All’iniziale formulazione della teoria – considerata fantasiosa da molti ricercatori – diede un determinante contributo il medico anestesista americano Stuart Hameroff, che propose a Penrose, come probabili siti neurologici attivi nell’elaborazione quantistica, le strutture microtubolari presenti nei neuroni. I microtubuli, infatti, sono una delle componenti strutturali del citoscheletro neuronale, e sono i principali componenti dell’apparato di trasporto neuronale a lunga distanza. Questa loro caratteristica, in base agli studi di Hameroff, li rendeva i candidati ideali per la concretizzazione dell’intuizione di Penrose. Dagli studi congiunti dei due scienziati, nel 1994, venne realizzata la pubblicazione “Ombre della mente” contenente l’attuale definizione della Teoria Orch-Or. In essa, il termine “orchestrato” fa riferimento al fatto che i microtubuli esercitino fra loro un’influenza reciproca e come in un’orchestra ben diretta, risultino contemporaneamente influenzati dalle attività classiche legate alle sinapsi neuronali. La teoria di Penrose e Hameroff è stata confutata – fra gli altri – dal fisico e cosmologo svedese Max Erik Tegmark che ha calcolato il lasso di tempo delle dinamiche rilevanti sia per le normali scariche neuronali sia per il trasporto dei segnali nei microtubuli, scoprendolo più lento del tempo di decoerenza di almeno 10 miliardi di volte. Una differenza enorme che riporterebbe i processi relativi alla coscienza dalla scala quantistica alla scala classica.

Concludiamo, come sempre succede nelle nostre interviste, con la domanda un po’ banale e un po’ difficile: che cos’è per te filosofia? Quanto la filosofia è importante nella tua professione di fisico?

Come affermo ancora nel mio saggio, l’evoluzione della Teoria Quantistica non è solo un processo storico che inizia nei primi anni del XX secolo con la scoperta dei quanti energetici e continua, fra il 1925 e il 1926, con la definizione della Meccanica delle Matrici e della Meccanica Ondulatoria. È soprattutto un radicale progresso del pensiero scientifico che proprio negli anni successivi al 1926 comincia ad assumere, spesso autonomamente, anche contorni filosofici. Con questa affermazione non intendo sostenere la tesi che dal 1927 in poi, tutte le discipline scientifiche abbiano dovuto tenere in particolare conto la filosofia perché è stata formalizzata la Fisica Quantistica e il suo innovativo modo di descrivere la materia. Ciò che sto mettendo in evidenza è che la filosofia e la fisica – che dialogano fra loro dal tempo degli antichi greci e probabilmente ancora da prima – con l’avvento della Fisica Quantistica sono state obbligate a confrontarsi profondamente l’una con l’altra per cercare di definire, assieme, una nuova chiave di lettura della realtà. Questa mia personale posizione non è condivisa da tutti i fisici ma trova i propri presupposti sia nel pensiero dei fondatori della rivoluzione quantistica (Albert Einstein, Niels Bohr, Erwin Schrödinger, Werner Heisenberg e Max Born) sia in quello di altri scienziati come Wolfgang Ernst Pauli, David Bohm, Victor John Stenger e persino Carlo Rubbia. Dal mio personale punto di vista, la filosofia ha un’enorme valenza anche a livello formativo. Sono convinto, infatti, che per la crescita di una comprensione della Natura e dell’Universo risulti assolutamente necessario il confronto sia con l’oggettività della materia sia con le idee – con le ‘elucubrazioni’, come direbbero alcuni colleghi – che tramite quell’oggettività ricercano una comprensione più profonda della realtà.

 

Elena Casagrande

 

[immagine tratta da Il Mattino di Padova]

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Intervista a Vittorino Andreoli: alla scoperta dell’uomo

Vittorino Andreoli, psichiatra di fama mondiale, è stato direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave ed è membro della New York Academy of Sciences. Uomo di scienza e di grande cultura umanistica, si è sempre occupato di studiare e comprendere in profondità i segreti della mente, per poter aiutare concretamente l’uomo alleviandone le sofferenze con straordinaria competenza scientifica, sensibilità, delicatezza e coerenza. Sempre alla ricerca dell’umanità dell’uomo, negli anni ha analizzato per la magistratura grandi criminali che hanno scosso l’opinione pubblica italiana, fra i quali Pietro Maso e Donato Bilancia.

Fra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: La mia corsa nel tempo (Rizzoli, 2016); La gioia di vivere (Rizzoli, 2016); Ma siamo matti (Rizzoli, 2015); L’educazione (im)possibile (Rizzoli, 2014); I segreti della mente (Rizzoli, 2013); Le nostre paure (Rizzoli, 2010); La fatica di crescere (Rizzoli, 2009).

Professore, nel corso della sua vita si è sempre occupato di esseri umani. A suo parere qual è la condizione dell’uomo contemporaneo?

Anzitutto c’è una condizione che è del tutto umana: l’uomo ha delle peculiarità per le quali è propriamente homo sapiens sapiens. Questi due sapiens non mi piacciono, ma sono l’indicazione per collocarci nell’albero delle specie che aveva disegnato Darwin. Quindi la condizione umana è quella di un animale. C’è una famosa e bellissima espressione di René Dubos (neuroscienziato francese, ndr) che ha scritto So human an animal (1968). Siamo dunque degli animali e abbiamo, in quanto specie umana, la caratteristica della coscienza, una capacità di porci questioni che si legano al cogito di Cartesio e all’Io penso di Kant. Siamo portati a porci domande a cui non sappiamo dare risposte. Attraverso la coscienza abbiamo la consapevolezza dei limiti della specie: la morte, la domanda dal nulla all’esserci, il limite drammatico del dolore, particolarmente quello inevitabile. Io credo che ci siano delle caratteristiche legate propriamente alla condizione dell’essere uomo e a queste caratteristiche e a questo senso del limite e del mistero si legano poi alcune condizioni del tempo presente. Le caratteristiche dell’essere del tempo presente sono: l’insicurezza, la paura, la percezione di un futuro che non si riesce nemmeno a immaginare, la violenza che ha una dimensione che non era mai stata così nel passato, inoltre c’è la paura che la nostra storia su questa terra finisca. Stephen Hawking afferma che sarà una grande fortuna se questo pianeta avrà ancora l’uomo fra mille anni. Questa è un’affermazione drammatica perché, dal punto di vista della fisica e della cosmologia, sappiamo che il pianeta va verso l’estinzione poiché il sole è una stella che nel giro di due miliardi di anni finirà. Ma tra due miliardi di anni e mille anni passa una bella differenza. Hawking non lega tanto questa ipotesi al consumo dell’energia stellare, quanto piuttosto alla paura che l’intelligenza artificiale possa creare dei comportamenti distruttivi per l’uomo. Attualmente i limiti e le paure sono davvero di grande portata.

I suoi ultimi scritti, su tutti La gioia di vivere (2016), si occupano di esplorare in linea teorica ma anche praticamente gli ingredienti per poter condurre un’esistenza all’insegna del benessere e della gioia. Come mai ha sentito l’esigenza e l’urgenza di trattare questi temi, paradossalmente essendosi sempre occupato delle sofferenze dell’anima?

Devo premettere una considerazione: io amo l’uomo e lo amo indipendentemente da quelle che sono le qualità buone o cattive. Io mi sono occupato di casi estremi e ho sempre trovato l’uomo. L’ho trovato persino in Donato Bilancia, che ha ammazzato 17 persone in 6 mesi. In quanto uomo, io ne ho sempre grande considerazione. Amo l’uomo e il mio sogno è quello di un uomo che riesca a vivere insieme secondo l’umanesimo. Quell’insieme di principi che in ciascun tempo devono essere applicati perché si possa vivere meglio. Amo l’uomo, sogno e so che può vivere in un modo che sia dell’umanesimo. Questo significa rispetto dell’altro, significa far dominare il Noi e non più l’io.
Per quanto riguarda la gioia, la spinta è una visione tragica del tempo presente. Io sono un tragico, non solo perché mi dedico ai casi estremi, non solo perché ho amato i tragici greci fin da piccolo, ma proprio perché la mia percezione tragica si sta espandendo e sta arrivando a previsioni quasi apocalittiche, è allora che ho ritenuto necessario promuovere la gioia, la vita. La gioia è certamente l’elemento fondamentale che io ritengo mancare nel residuo di umanesimo che questa società ha ancora in sé. Perché domina l’io, sostenuto anche dalle psicologie. Con Freud nasce la psicologia dell’Io, e tutti noi che l’abbiamo sostenuta (e per questo c’è persino un po’ di senso di colpa) abbiamo finto che sia possibile parlare dell’uomo singolo, mentre l’uomo è sempre relazione ed è sempre storia. Quindi ho pensato che era tempo di cambiare gli occhiali e di vedere il mondo in modo diverso e qui mi sono appoggiato, da una parte a un grandissimo filosofo come Kant, dall’altra ad un grandissimo psichiatra come Karl Jaspers. Kant ha detto: “il mondo com’è non lo conosciamo però ne percepiamo una rappresentazione” che dipende da quelle categorie a priori che per noi sono la biologia del cervello. Così ho cominciato a illustrare quali sono le caratteristiche del mondo della gioia, di questa visione del mondo e di come si fa a promuoverla. Perché, a differenza dei filosofi della tradizione io sono un operativo, uno che vorrebbe cambiare la storia di un uomo e in fondo questo è lo scopo che ho sempre messo nella mia professione. Mi pare che bisogna guardare il mondo in modo diverso da come ce lo presentano i giornali, i politici. Ormai è consuetudine svegliarci in una visione che è catastrofica e qui si inserisce la mia idea che bisogna cominciare a guardare i Nessuno e non il potere. Io sono contro il potere inteso come verbo “posso e quindi faccio”, mentre sono per la condivisione e quindi per il Noi. Perché io per vivere ho bisogno degli altri. Gli egocentrismi sono una lettura sbagliata. L’io è una finzione rispetto al Noi.

Quindi, come possiamo ‘fare la gioia’?

Bisogna avere la percezione della fragilità. Io sono fragile e in quanto fragile ho bisogno dell’altro. Se ho bisogno dell’altro devo avere verso l’altro un’attesa, una ricerca, devo trovarlo, devo legarmi e questo naturalmente porta a dare maggiore importanza al pronome Noi. Pensiamo al legame di coppia, al legame con i figli, al legame con la comunità, con gli uomini. Se c’è qualcosa di filosofico nel mio pensiero è estremamente semplice, non se ne può più di complicazioni. Pensi alla solitudine del tempo presente, ai vecchi, all’abbandono. Oggi c’è la voglia dell’altro ed è su questo che noi dobbiamo fondarci. Per questo, i miei richiami alla filosofia sono dentro all’umanesimo. Questa è una filosofia che non si distacca nemmeno un istante dall’essere terapeutica. Il De tranquillitate animi (Seneca, ndr) è un’ottima seduta di un buon psichiatra, così come i dialoghi platonici, che sono esempio di una relazione che oggi è fondamento delle psicologie e della psichiatria. I dialoghi platonici ci dicono: “c’è un problema, vediamo di analizzarlo”. Platone non fa esercizi di razionalità, quanto piuttosto di un’arte relazionale per vivere. La filosofia dev’essere insegnamento di vita. Oggi c’è una filosofia da riproporre come “terapia”. Parola educativa e parola terapeutica sono per questo molto affini. Mi meraviglio ancora di come la filosofia sia stata distolta completamente dal contesto della classicità. Io amo la civiltà occidentale e dopo i nichilismi, la filosofia non può essere che una filosofia della vita.

Binswanger affermava che l’oggetto della psichiatria è l’uomo. Egli veniva dal sostrato filosofico della fenomenologia, così come Jaspers e Minkowski.

Essi sono dei filosofi, dei fenomenologi. Lei ha colto un punto importante: l’unione fra filosofia e insegnare vivere, che ha trovato nella fenomenologia un terreno estremamente ricco. Io sono e voglio essere un clinico, però ho avuto la grande fortuna di respirare l’atmosfera fenomenologica e di aver avuto un amico come Minkowski che è stato un grande filosofo e psichiatra.

Qual è quindi il suo rapporto con la psichiatria fenomenologica e quale invece quello con la psicoanalisi?

Debbo fare una premessa: io voglio cambiare l’uomo. Da me vengono persone che stanno male, che desiderano stare meglio e chiedono il mio aiuto. Io sono un operativo e in questo sono un empirico, per questo voglio fare qualsiasi cosa per poter aiutare. Naturalmente non mi propongo mai, ma quando interpellato cerco di rispondere sempre. La fenomenologia è una filosofia straordinaria. Io ho conosciuto dei fenomenologi, per esempio Cargnello, che avevano anche responsabilità di cura. Le posso dire che con la fenomenologia non è facile curare perché è troppo lontana dalla clinica che è empirica, mentre la fenomenologia è molto teorica. Molti mi dicono che sono un fenomenologo, ma io sono un clinico, un empirico, uno che vuole far star meglio, uno che vuole essere-con per far star meglio colui che gli sta vicino. Le mie radici sono nella fenomenologia, ma le mani vanno in una disciplina scientifica, perché ho bisogno di strumenti per agire.
Per quanto riguarda la psicoanalisi è inutile che stiamo a discutere l’importanza di Freud e il suo apporto storico. Ma sono molto critico rispetto alla psicologia dell’Io. Il principio freudiano per cui se una persona presenta delle anomalie occorre trovare la radice dentro di lui… beh su questa convinzione sono molto critico perché l’io è una finzione, mentre credo nel Noi. Se colui che ha i conflitti, invece di guardarlo solo dentro lo metto in relazione con un’altra persona, questi in relazione cambia.
Io sono un clinico che ha bisogno della scienza (mi sono dedicato per molti anni in laboratorio allo studio del cervello). Sono un clinico tradizionale però con strumenti attuali. Mi spiace dover dire che di clinici oggi non ce ne sono più e per questo la psichiatria è in una crisi spaventosa. Ma oggi bisogna aiutare l’uomo. Un valido ausilio a questo può venirci da un filosofo come Schopenauer che nell’Ottocento ha capito cose molto utili anche all’uomo d’oggi, nella crisi del tempo presente.

Qual è il suo parere su Franco Basaglia?

È molto semplice. Basaglia è sicuramente un uomo della storia. Non ho simpatia per tutti quelli che ne fanno un uomo del presente. Nella storia ha un significato preciso e storicamente apprezzabile. Ho conosciuto molto bene Basaglia. Non sono mai andato in piazza per lui, ma l’ho sempre rispettato. Da lui nasce lo stimolo per una legge (legge 180, ndr) che io ho seguito. Il primo ottobre 1980, giorno in cui venivano chiusi i manicomi, cioè non vi entrava più nessuno, io ho lasciato il manicomio dove in fondo ero un personaggio di significato e sono andato rispettando la legge 180. Basaglia, essendo un grande trascinatore, ha messo in moto un movimento che ha contribuito a dare una svolta alla psichiatria, anche se è stato più nel chiudere senza sapere cosa aprire. Nel mio libro Un secolo di follia (1991) a Basaglia ho dedicato quindici righe perché io credo nella psichiatria scientifica. Credo nel come si debba fare la psichiatria, credo quindi nella scienza. Per esempio, Cesare Lombroso oggi non è accettabile, ma storicamente è un grandissimo autore. È un uomo della storia. Perché dicendo che il matto, il criminale, ha una degenerazione cerebrale ha allontanato gli spiriti del male. La donna delinquente (saggio di Lombroso, ndr) è certamente un libro che oggi va condannato, ma che storicamente ha allontanato questa dominanza del male e poi fino ad allora il cervello non lo studiava nessuno, perché c’era l’anima da qualche parte, mentre lui ha detto che tutto va riportato al cervello. Oggi sembra ridicolo perché è noto, però storicamente è stato importante. Nell’ambito della psichiatria scientifica, con radici nell’umanesimo e nella fenomenologia, Basaglia non ha tanto spazio, però storicamente è stato il protagonista di un mutamento storicamente utile. Quindi merita alcune righe nella storia.

Qual è il suo rapporto con la religione e in particolare con il Cristianesimo? Secondo lei la vita può avere un senso al di là della fede in Dio?

Il tema della religione meriterebbe un ampio spazio di riflessione e dialogo. Vi sono due punti di riferimento circa le mie considerazioni in merito. Primo: il libro Il sacro di Rudolf Otto, del 1917, il quale dice che nell’uomo, oltre alle categorie della razionalità, ci sono delle categorie per quello che è il mistero, il sacro. Tutti gli uomini hanno le categorie per percepire il sacro, che è mistero, senso del limite, tutto ciò che si lega alla morte. Otto dice che il religioso è la risposta che si tende a dare del sacro. Il sacro avverte il mistero della morte, la religione dice che invece c’è il paradiso, o il Nirvana, o le metempsicosi, o il nulla. Io credo veramente che esista il sacro e che le religioni siano dei tentativi di risposta.
Il secondo pilastro è la figura di Gesù di Nazareth. Indubbiamente tra i grandi della storia e forse il più grande uomo che io conosca storicamente, persino più di Socrate, Platone, Montaigne. Io l’ho studiato come uomo e l’ho trovato grande come tale. Se poi c’è qualcuno che dice che è anche Dio, sarà ancora di più. Ma io mi occupo di uomini… e certamente lo ascolterei.
Altro punto di riferimento è la Chiesa, della quale non amo il culto e non condivido diverse espressioni, ma della quale ho comprensione. La Chiesa è una struttura molto umana che si è attaccata a Gesù e che penso a Gesù non piaccia molto. L’immagine e l’esempio di Papa Francesco mi piacciono. Amo molto i preti ai quali ho dedicato molta attenzione.
Io sono un non credente nel significato che dice che non ho l’esperienza di Dio, che non l’ho mai incontrato. Se Dio venisse a trovarmi, dopo aver fatto le debite ricerche, certamente la mia vita cambierebbe, probabilmente diventerei un credente. Non sono ateo e ho rispetto per quelli che credono (anche questo fa parte del Noi). Sono un non credente, ma pronto a credere se avessi l’esperienza di Dio.

Alessandro Tonon

[Immagine tratta da Google Immagini]