“Il cervello è più esteso del cielo”: poesia e astronomia in dialogo

«The Brain is wider than the Sky/ For put them other will contain/ with ease and you beside». (Il cervello è più esteso del Cielo/perché mettili fianco a fianco/l’uno l’altro conterrà/ e tu accanto). Così ha inizio uno dei più celebri componimenti dell’enigmatica poetessa americana Emily Dickinson (1830-1886), nota per la sua insolita e solitaria vita vissuta prevalentemente nella sua dimora. Proprio nei foglietti ch’ella ripiegava e cuciva tra loro con ago e filo, Dickinson trova un luogo sicuro ove esprimere e incidere la propria acuta sensibilità, una qualità sempre eccessivamente denigrata in un mondo da cui la poetessa decide di ritirarsi, immergendosi nei suoi brillanti e introspettivi versi. I suoi componimenti riflettono una fervida e prolifica immaginazione che s’intreccia a temi d’ampio respiro come l’immobilità, la solitudine e il silenzio, elementi che hanno contraddistinto la sua breve vita. Al contrario di altri poeti suoi contemporanei, la cui ambizione era descrivere idilliaci e lontani luoghi con cui avevano modo di nutrire la loro vista e la loro esistenza, Dickinson descrive i paesaggi dell’animo umano, insegnandoci come sia possibile vedere con gli occhi del cuore e della mente molti più luoghi di quanto uno sguardo superficiale potrebbe notare.

L’arte, in questo caso la poesia, ci offre la possibilità di scrutare con occhio vivace e instancabile curiosità gli spazi in cui siamo immersi e da cui non possiamo ritirarci, neppure chiudendoci nella nostra stanza. La poesia non è solo frivolezza intellettuale ma, richiamando la sua etimologia greca poiesis, ossia creazione, è un atto creativo che permette di scrutare la realtà. Lo sguardo del poeta è uno sguardo nuovo, aperto a sinestesie, connessioni apparentemente illogiche di parole, forme, colori che portano a scandagliare la realtà esistenziale scoprendone le sfumature che l’essere umano ha il privilegio d’indagare, se animato da un’impavida volontà di rompere la glaciale superficie su cui sarebbe più comodo sostare. Tale postura dello sguardo ci aiuta a riconoscere la bellezza intrinseca di ciò che ci circonda in un mondo talmente rapido e iperattivo che talvolta non concede il tempo di contemplarla.

Questa modalità di osservazione fortemente riscontrabile nello sguardo dell’artista è talvolta visibile anche in quello dello scienziato. Il noto cosmologo e astrofisico britannico Steven Hawking (1942-2018) invita con un’emblematica frase pronunciata nel 2016 durante una lezione tenutasi al Royal Institution di Londra, a «guardare le stelle e non i tuoi piedi». Ammirare le stelle significa alzare lo sguardo, riconoscere che dietro la finitezza della nostra vita può esservi un’infinita bellezza che soggiace all’esistenza e che va indagata con un occhio che si nutre della beltà che con pazienza riesce ad intuire e riconoscere.

Questa volontà di vedere il mondo con una prospettiva diversa rende gli intellettuali, anche in un’epoca così colonizzata da logiche utilitaristiche ed economiche, ancora figure fondamentali per pensare la viva complessità che tiene insieme ambiti come scienza, filosofia e arte che apparentemente risultano così differenti in una società come la nostra che tende a formare professionisti sempre più specializzati in un unico settore. L’intellettuale, se considerato in tale ottica, è colui che abbraccia la ricchezza interdisciplinare non solo di contenuti ipostatizzati, bensì anche di prospettive e saperi che s’intersecano uscendo dalle asettiche recinzioni in cui spesso vengono richiusi. Tale riflessione è importante per lasciarsi meravigliare dagli infiniti sentieri di conoscenza che il pensiero ci permette di percorrere, avendo il coraggio di abbracciare l’ignoto, come l’Icarus di Matisse cerca di fare nel celebre dipinto del 1944 nel tentativo di raggiungere le stelle.

Questa è la prospettiva con cui dovremmo pensare e intendere lo studio, la ricerca: la possibilità d’incontrare un sapere che non si lascia afferrare e che c’invita ad andare sempre più in profondità, poiché l’approccio dell’intellettuale aperto alla complessità può fare la differenza in un mondo che ancora fatica a concedersi tempo per contemplare ciò che non è preda dell’immediatezza.

 

Elena Alberti

 

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Le stelle di Talete: l’oroscopo filosofico del vostro 2019!

È tristemente noto l’aneddoto riguardante Talete che, mentre camminava guardando le stelle, cadde in una fossa e fu deriso da una servetta. Noi de La chiave di Sophia abbiamo deciso di correre lo stesso il rischio di osservare il firmamento per scorgervi il futuro e poter così dare ai nostri lettori alcuni consigli utili, e rigorosamente filosofici. Nella speranza che questi possano aiutarvi a passare un anno saggio e felice.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-01-01ARIETE (21 marzo – 20 aprile): Per criticare il metodo induttivo Bertrand Russell racconta la storiella di un tacchino che cerca di capire quando gli viene portato da mangiare. Prima di trarre conclusioni affrettate, il tacchino osserva l‘arrivo del mangime per diversi giorni consecutivi e nota che, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, l’allevatore arriva sempre puntuale alle 9 del mattino. Da qui trae la ferma conclusione che le 9 del mattino siano l’orario in cui mangiare. Certezza che dura fino alla vigilia di Natale, giorno in cui alle 9 l’allevatore viene con ben altri propositi… Se non volete fare la stessa fine del tacchino, sarà meglio che anche voi, miei cari ma testardi arieti, iniziate a mettere in dubbio alcune delle vostre più incrollabili certezze.

 

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TORO (21 aprile – 20 maggio): L‘esteta secondo Kierkegaard è caratterizzato da una continua insoddisfazione, un passare sopra ai piaceri senza mai soffermarsi ad assaporarne nessuno. Al punto che se gli fosse data una bacchetta magica capace di poter esaudire ogni suo desiderio la userebbe solo per pulirsi la pipa. E se invece a voi, miei cari Tori, capitasse tra le mani questa potente bacchetta? Pensate a come farne un uso più produttivo dell’esteta kierkegaardiano, chissà che questo 2019 non vi regali un pizzico di magia.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-03GEMELLI (21 maggio – 20 giugno): Si sa che voi gemelli avete una grande capacità di adattamento e nelle occasioni pubbliche ve la cavate in scioltezza. Non trascurate però la vostra interiorità, un altro lato importante della vostra personalità, e riprendete la pratica dell’anachoresis eis heauton, il ritorno in voi stessi consigliato anche da Marco Aurelio. Concedetevi più spesso una serata in solitudine in cui ripensare alla giornata trascorsa e isolarvi dalle preoccupazioni quotidiane. Del resto come diceva l‘imperatore stoico «In nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare. Concediti quindi questo ritiro e in esso rinnovati». Non è facile in una quotidianità piena di impegni, ma se se lo permetteva un imperatore potrete trovare anche voi il tempo, no?

 

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CANCRO (21 giugno – 22 luglio): «Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi».  Su noi malinconici cancerini questa frase di Walter Benjamin esercita un grande fascino. È ora però di smetterla di crogiolarci nel passato incompiuto e di comprendere questa frase in senso attivo e propositivo: ossia andare alla ricerca di quella felicità perduta nel passato per portarla oggi a compimento.

 

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LEONE (23 luglio – 23 agosto): «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo”?» Provate anche voi leoni a rispondere a questa difficile domanda posta da Nietzsche. Suppongo che qualche brivido vi attraverserebbe la schiena, perché è impossibile essere così fieri e convinti di ogni nostra azione passata da volerle ripetere tutte all‘infinito. Concentratevi dunque su ciò che vorreste cambiare per capire quali sono gli errori da non ripetere e gli atteggiamenti da abbandonare in questo nuovo anno.
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VERGINE (24 agosto – 22 settembre): Voi vergini siete famose per essere delle rimuginatrici tendenti al pessimismo, passate cioè fin troppo tempo a immaginare il peggio invece di godervi la vita. Difficile che nel 2019 possiate abbandonare questo vostro tratto caratteristico e trasformarvi in sfrenate edoniste, meglio cercare di volgere a vostro favore questo aspetto della vostra personalità. Gli stoici parlavano di praemeditatio malorum, ossia immaginare possibili mali futuri per neutralizzare la paura dell’ignoto che ci attende e al contempo renderci conto che anche ciò che temiamo di più può essere superato. Vi renderete così conto di essere forti e attrezzate anche agli scenari più bui e verrete sorprese quando le cose andranno meglio di quanto previsto.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-10BILANCIA (23 settembre – 22 ottobre): Parlo a voi, Bilance alla ricerca dell’amore, convinte che solo trovando la vostra dolce metà potrete sentirvi appagate e in equilibrio: smettetela subito! Il mito degli androgini raccontato da Platone nel Simposio è uno dei passaggi più famosi, ma purtroppo più incompresi, della storia della filosofia. Questo ha avuto svariate conseguenze nefaste, come convincere voi Bilance che solo trovando l’anima gemella potrete raggiungere la felicità. Quel che il mito platonico significa è invece che ciascun uomo originario era composto da una parte maschile e una femminile (o talvolta due parti dello stesso genere). Ciò di cui dovete andare alla ricerca è quindi la metà nascosta dentro di voi: la serenità, care Bilance, sgorga dalla vostra capacità di sentirvi complete anche quando siete sole. Solo a questo punto potrete andare alla ricerca del vostro partner.

 

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SCORPIONE (23 ottobre – 22 novembre): Per scrivere Il Capitale Karl Marx passò anni a fare ricerche nella sala lettura della British Library di Londra e si racconta che dopo qualche tempo iniziò ad avvertire un forte dolore al sedere. Invece di fermarlo, questo gli diede nuova carica. Marx era infatti determinato a portare a termine un’opera capace di mettere in crisi il capitalismo e farla così pagare al sistema per ogni malefatta, compreso il suo dolore al fondoschiena! A voi scorpioni fumantini consiglio nel 2019 di prendere ispirazione da Marx, così da convogliare l’energia dei vostri momenti di irritazione in un’opera capace di cambiare il mondo (o anche qualcosa di meno grandioso, dai…).

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-05SAGITTARIO (23 novembre – 21 dicembre): Dal 1920 al 1926 Ludwig Wittgenstein si ritirò a fare il maestro elementare a Trattenbach, Puchberg e Otterthal, tre paesini sperduti tra le montagne austriache. Si dice che l‘esperienza, pur riservando momenti difficili e incomprensioni con i genitori dei bambini, aiutò Wittgenstein a formulare la teoria dei giochi linguistici. L‘esigenza di insegnare ai bambini un linguaggio reale lo portò infatti ad abbandonare l‘idea di una struttura logica uniforme del linguaggio per sostenere invece che il linguaggio sia costituito da un insieme di pratiche diverse comprensibili solo nel loro utilizzo pratico.  Voi Sagittari, amanti delle avventure, dovreste impegnarvi in un progetto estremo che aiuti a chiarirvi le idee e abbia un influsso positivo nel modo di guardare il mondo.

 

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CAPRICORNO (22 dicembre – 20 gennaio): «Di quale libertà godiamo se non quella di fantasticare?» si chiedeva Gaston Bachelard. La  rêverie, il sogno ad occhi aperti, è secondo il filosofo francese l’unico momento di completa libertà, in cui il soggetto, emancipatisi dai vincoli logici, può ridisegnare il mondo così da renderlo conforme ai suoi desideri. In questo 2019 Capricorni abbandonate più spesso la logica e cullatevi in fantasticherie dove sospendere quel principio di realtà così saldo in voi. Potreste rendervi conto che questi sogni ad occhi aperti non sono affatto infantili, ma da essi si impara quali sono le vostre aspirazioni più autentiche. 

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-06ACQUARIO (21 gennaio – 19 febbraio): Anche voi Acquari siete alla ricerca dell’amore in questo 2019? Ottimo proposito, ma prima dovete imparare a concentrarvi un po’ meno su voi stessi. Vi potrebbe essere utile la lettura di L’elogio dell’amore di Alain Badiou, dove il filosofo francese insegna che l‘amore è la «scena del Due». Non quindi fusione romantica di anime e neppure prevalere delle proprie esigenze, bensì faticoso percorso di costruzione di una visione, finanche di un‘esperienza, condivisa: «il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono». Un insegnamento prezioso per capire che costruire un amore comporta anche fatica e rinunce.

 

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PESCI (20 febbraio – 20 marzo): «Wie man wird, was man ist», ossia «come si diventa ciò che si è». Così recita il sottotitolo di Ecce Homo di Nietzsche. Ma come si può diventare ciò che già siamo? Portando a compimento i talenti ancora a uno stato latente dentro di noi. Perciò il filosofo tedesco usa spesso la metafora della pianta, che cresce rigogliosa fino a fiorire, e quella di un vulcano ribollente e pronto ad eruttare. Progetto ambizioso? Di sicuro, ma è ora di abbandonare la timidezza e sbocciare, per far vedere a tutti quella „stella danzante“ nascosta dentro di voi.

 

Lorenzo Gineprini

 

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Infinity and beyond: la matematica incontra la filosofia

pensare-linfinito-costantini_la-chiave-di-sophiaPresentazione di Pensare l’Infinito. Filosofia e matematica dell’infinito in Bernard Bolzano e Georg Cantor di Filippo Costantini (Mimesis Edizioni, 2016)

 

Chi non si è mai perso, magari da bambino, a guardare le stelle durante quelle meravigliose sere d’estate, in cui si resta letteralmente ipnotizzati al di sotto di quella miriade sterminata di puntini luminosi? Forse è proprio in quell’occasione che ci siamo misurati per la prima volta con la sensazione dell’immenso, dell’infinito. Abbiamo provato a portarci con la mente verso le più remote lontananze, percependo un giramento di testa una volta giunti troppo in là. Ecco, questo testo prova a darci un antidoto contro quel giramento di testa, contro quelle vertigini spesso interpretate come un’impossibilità dell’uomo di rivolgersi a tale profondità. In effetti, l’uomo può provare a pensare all’infinito! Molti matematici e molti filosofi ci hanno guidato e ancora ci guidano in questo cammino. Certo, un buon antidoto non può essere solo composto da belle parole e frasi accattivanti: ci vuole un buon equilibrio tra questa sfera e quella più tecnica riguardante i meccanismi con cui possiamo interpretare, per esempio, i numeri e gli insiemi; altrimenti sarebbe solo un placebo.

Filippo Costantini si avventura in una parte di questo percorso e, con competenza, ci porta per mano lungo una via che, giunti alla fine, forse non ci toglierà del tutto il senso di spossatezza di fronte alla sterminatezza dell’Universo, ma sicuramente ci farà sentire più liberi di godere, con cognizione, di quella dimensione ampiamente studiata per vie diverse e con diversi risultati. Chi non sia avvezzo alla Matematica e alla Filosofia della Matematica, forse potrà meravigliarsi di quanti spunti possano dare per rispondere alle fatidiche domande che ci siamo tutti posti da bambini cercando di farci descrivere il mondo e le cose. Non stiamo parlando della risposta definitiva, è ovvio. Ma spesso, quando la Matematica e la Filosofia viaggiano a braccetto, si resta sorpresi dalla lucidità con cui queste due cugine riescono a coinvolgerci nel cercare di esaminare e spiegare le parti più profonde del sapere umano. Anche se il percorso avrà dei tratti tecnici, una volta arrivati alla fine ci si sentirà più completi riguardo alla percezione di ciò che possiamo provare a conoscere.

Il testo prende le mosse cercando di farci capire in modo chiaro a cosa ci si può riferire quando si parla di “infinito” e ci guida da subito nel cercare di farci capire quale tipo di infinito anima la sua ricerca. Una possibile mappa tracciata da questo percorso si fermerà su alcune tappe suggestive disegnate a partire dalle riflessioni di Bernard Bolzano e Georg Cantor.  

La prima è rappresentata dalla ricerca di una teoria riguardante i fondamenti della matematica e la definizione di numero infinito che, per essere coerente, deve spingersi oltre la mereologia verso gli albori di quella nozione di insieme che interpreta i numeri infiniti come oggetti composti da infiniti elementi, una molteplicità la cui unità costituisce un nuovo oggetto.

Altra tappa di suggestiva importanza sarà quella che si sviluppa lungo la riflessione bolzaniana a proposito della gerarchia tra moltitudini infinite dotate di diverse estensioni. I risultati della riflessione di Bolzano, danno lo spunto per avvicinarsi alla diversa teoria di Cantor sullo stesso tema. Attraverso una interessante analisi degli studi sulla non numerabilità dei numeri Reali si arriva ad assumere una gerarchia tra infinito numerabile e non numerabile e a porre le basi teoriche per l’individuazione di quel transfinito che rappresenta una delle più importanti eredità del logico russo-tedesco. Questa parte rappresenta sicuramente una tappa di alto valore speculativo e il lettore non esperto e curioso non potrà che rimanere affascinato e interessato nel comprendere in che modo si possa parlare sensatamente di infiniti più grandi di altri. Ciò dà anche lo spunto per capire che l’infinito può essere anche pensato come qualcosa che si annida in maniera sinergica con il finito, come nel caso dei numeri irrazionali e dei numeri transfiniti. Un infinito che è quindi in una certa misura catturabile dalla ragione semplicemente perché ne è una parte costitutiva. Nonostante queste considerazioni, il valore speculativo del testo è ritrovabile sia nella difesa della posizione di Cantor, quando questi riesce a mostrarci delle buone ragioni per pensare ad una sorta di infinito attuale; sia nell’ ammissione della non conclusività della posizione cantoriana, quando si badi al fatto che l’universo dei numeri infiniti, nella sua interezza, non può far altro che rievocare il carattere potenziale dell’infinito.

Sempre a proposito del rapporto vigente tra molteplicità ed unità, ampio spazio del testo sarà dato all’esame di alcuni fondamentali paradossi logici: si evidenzierà la struttura logica che essi hanno in comune sfruttando, per esempio, alcune intuizioni di Bertrand Russell e di Graham Priest. Questa sezione tematica è sapientemente costruita per supportare la tesi dell’esistenza di concetti indefinitamente estensibili e mostra come i paradossi in questione siano generati dal considerare il tutto come un insieme e quindi come un oggetto. Il risultato della riflessione ci porterà a comprendere come l’unità in cui consiste l’intero sia un’unità che contempla anche il lato intensionale oltre a quello estensionale; unità che, per questo, sarà diversa da quella insiemistica. Lasciamo a chi voglia avventurarsi in questa lettura il piacere di scoprire i dettagli delle tematiche accennate suggerendo alla fine che, una volta approfonditi tali dettagli, il guardare verso le stelle sino alle porte dell’infinito dovrebbe farci sentire un po’ a casa.

 

Evan Battistel

Evan Battistel si è laureato in Filosofia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sulla concezione dell’esistenza e della contingenza nella Filosofia Analitica. Ha svolto attività di docenza in Filosofia e Storia nelle scuole secondarie di secondo grado e attualmente collabora con un gruppo di ricerca della stessa Università occupandosi di questioni legate alla logica modale.

Filippo Costantini (Dolo (VE), 1989) si è laureato in Filosofia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sulla teoria degli insiemi. Presso la medesima Università sta ora conducendo un Dottorato di Ricerca sulla questione dei paradossi logici e della “quantificazione non ristretta”. Ha trascorso periodi di studio presso l’Università di Tubinga (Germania), l’Institute for Logic, Language and Computation (ILLC) dell’Università di Amsterdam, l’Università di Oslo e l’Università di Oxford.

[Immagini tratte da Google Immagini]

Tu scendi dalle stelle

<p>Teddy Sczudlo via Getty Images</p>

Quando durante un’omelia del maggio 2014 Papa Francesco aveva scherzosamente sostenuto che la Chiesa avrebbe dovuto battezzare anche un marziano, qualora lo chiedesse, per “non chiudere le porte a nessuno”, la frase era stata accolta per quello che era: una semplice iperbole per far passare un concetto. Al momento in cui però, lo scorso 22 febbraio, la NASA ha reso nota la scoperta di Trappist-1, un sistema solare con sette pianeti, tre dei quali potenzialmente abitabili, il quesito ha assunto una dimensione se non del tutto nuova comunque concreta: come reagirebbero i sistemi teologici e culturali all’eventuale scoperta di vita extraterrestre, specie se senziente?

Nonostante l’apparenza, la questione non è certo secondaria, specie considerando che, quando Giordano Bruno teorizzò, in De l’infinito, universo e mondi del 1584, l’esistenza di altri mondi abitati oltre alla Terra, l’affermazione gli costò un processo per eresia che si sarebbe concluso con la sua morte sul rogo nel 1600. A ben guardare, però, il problema potrebbe essere tale solo da una prospettiva cristiana: per le grandi religioni orientali, infatti, il ciclo dell’esistenza non è affatto legato ad una dimensione terrestre, almeno non esplicitamente, e la presenza di altra vita senziente non scalfirebbe affatto una sensibilità che da sempre si professa universale. Anche l’ebraismo non riscontrerebbe particolari difficoltà: se da un lato alcune scuole cabaliste hanno riconosciuto in Trappist-1 il corpo celeste Neberu che, come profetizzato nel Sefer ha-Zohar, precederebbe l’avvento del Messia, per le altre (maggioritarie) scuole teologiche la vita extraterrestre sarebbe del tutto irrilevante in quello che rimane una relazione tra Dio e il popolo ebraico solo. Anche l’islam, che nella prima sura del Corano loda il “Signore dei mondi”, non avrebbe troppi problemi ad accettare l’esistenza di vita aliena, che come ogni altra rientrerebbe nel dominio di Dio.

Il cristianesimo, però, con la nascita, morte e resurrezione di Gesù di Nazareth, è indissolubilmente legato alla storia terrestre, e la presenza di altre creature senzienti su altri pianeti porrebbe lo scomodo problema di una rivelazione ripetuta: Gesù si sarebbe incarnato anche su altri pianeti? Il Suo sacrificio si sarebbe ripetuto tante volte quanti sono i mondi abitati? Vista così, la prospettiva di una civiltà aliena ripropone, “in grande”, gli stessi problemi che la Chiesa cattolica e, di lì a breve, quelle protestanti dovettero affrontare all’inizio del XVI secolo, quando le spedizioni spagnole provarono l’esistenza di un continente sconosciuto, abitato da altri popoli ed altre civiltà, che non avevano giocoforza mai conosciuto Cristo e il Suo messaggio. La prima reazione non fu esattamente esemplare, se passarono anni prima che si riconoscesse a indios e nativi il semplice status di esseri umani; fu l’impulso di Ignazio di Loyola a fornire una soluzione, pragmatica come da stile gesuita, del problema: Cristo non era stato nel Nuovo Mondo, perché era compito e missione dei cristiani del “vecchio” evangelizzarlo. L’impulso della Compagnia di Gesù non solo evitò una crisi teologica senza precedenti, ma dette portò nuova linfa alla cristianità, permettendole di espandere i propri confini come mai prima di allora, sopravvivendo ai colpi potenzialmente mortali della Riforma protestante.

Al momento, qualsiasi dibattito su come e se la religione cristiana uscirebbe dall’incontro con forme di vita extraterrestri rimane, ovviamente, nel regno della pura congettura, un esperimento mentale che però aiuta a capire se e quanto la specie umana sia preparata ad una nuova rivoluzione copernicana. Rimane il fatto che, indipendentemente da ogni altra considerazione, qualsiasi notizia ci porti ad alzare nuovamente lo sguardo verso le stelle è più che benvenuta.

Giacomo Mininni

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È meglio viaggiare tra le stelle o nel profondo dell’anima? Jung risponde

Per quanto la missione europea ExoMars non sia perfettamente riuscita, rimane comunque vero che imprese come questa confermano ogni giorno di più l’impressione che la rotta sia ormai tracciata: il pianeta Terra al­l’uo­mo non basta più, ed è quindi arrivata l’ora di incominciare a pensare a una nuova dimora per l’umanità. Le prospettive e gli scenari che si stanno aprendo sono senz’altro emozionanti, ma non tutti guardano con entusiasmo all’avventura che la specie umana si accinge a compiere nello spazio profondo. Pochi mesi prima di morire, Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, dichiarò ad esempio in un’intervista: «i voli spaziali sono solo un’eva­sio­ne, una fuga da noi stessi, perché è più facile andare su Marte o sulla Luna che non penetrare il proprio essere». Era il gennaio del 1961; appena otto anni dopo l’uomo avrebbe mosso i primi passi sulla superficie lunare con la missione Apollo 11.

La frase di Jung può, oggi come allora, destare qualche perplessità, ma non bisogna pensare che il famoso psicologo svizzero fosse un uomo incapace di guardare al futuro. Il percorso che Jung intende proporre all’Occidente non è infatti alternativo rispetto a quello già imboccato dal progresso tecnico e scientifico, ma è piuttosto un sentiero complementare a esso: egli sta suggerendo al­l’uo­mo moderno di ricordarsi di viaggiare nel profondo della propria anima, oltre che tra le stelle del cielo. Ciò che Jung cerca di dire a tutti noi è che c’è un mondo – anzi, un vastissimo universo – da esplorare non solo al di sopra delle nostre teste, ma anche all’interno della nostra stessa mente. Secondo Jung, infatti, «l’anima contiene non meno enigmi di quanti ne abbia l’universo con [tutte] le sue galassie», e solo scoprendo che cosa alberga all’interno di sé, l’uomo potrà veramente esprimere tutte le proprie potenzialità.

Jung, nel corso della sua lunga e fortunata carriera, ha scritto letteralmente fiumi di parole per cercare di descrivere le infinite costellazioni che ognuno di noi (e l’umanità nel suo complesso) porta nel proprio intimo. «È [proprio] questo» – egli afferma – «che intendo per psicoanalisi: scandagliare l’anima alla ricerca dei fattori psicologici nascosti». Si può senz’altro dire che egli sia stato l’autore di una delle teorie sulla psiche più profonde e ardite che siano mai state concepite. A differenza di Freud, che riteneva che l’inconscio fosse «soprattutto materiale rimosso, una sorta di discarica per le esperienze spiacevoli», Jung credeva che esso fosse «un fattore reale, autonomo, capace di agire in modo indipendente [dalla coscienza]». Per Jung, infatti, oltre all’in­con­scio personale individuato da Freud, che è diverso per ognuno di noi perché consta delle esperienze negative e traumatizzanti che abbiamo cercato di rimuovere e censurare, esiste anche un inconscio collettivo, che è identico per tutti gli esseri umani.

Tale tipo di inconscio è popolato dagli archetipi, che sono a tutti gli effetti dei ‘fossili psichici’, ovvero esperienze umane universali che, con il passare di innumerevoli generazioni, si sono cristallizzate e sedimentate nella struttura mentale della nostra specie. Scrive Jung: «così come l’essere umano ha un corpo, che in linea di principio non si differenzia da quello degli animali, anche la sua psicologia possiede per così dire dei piani inferiori, nei quali dimorano ancora gli spettri di epoche passate dell’umanità, come le anime animali del periodo del­l’an­tro­popi­teco, poi più in basso la ‘psiche’ dei sauri a sangue freddo e, infine, al livello più profondo, il mistero trascendente e il paradosso dei processi psicoidi del [sistema nervoso] simpatico e […] parasimpatico».

Jung sottolinea spesso che gli archetipi sono entità cariche di energia psichica, che, se viene sfruttata nel modo corretto, può portare gli uomini a conseguire grandi risultati, ma, se non viene adeguatamente espressa e incanalata, può portare la psiche umana a ‘ristagnare’ e a marcire, o anche ad andare in ‘corto­cir­cui­to’ e a incendiarsi, ossia a cadere preda della follia. Si può in questo senso paragonare l’inconscio a una pentola a pressione, che, se usata con saggezza, può cuocere a dovere quanto viene messo al suo interno e produrre così del buon cibo, ma, se viene ‘scoperchiata’ al momento o nel modo sbagliato, può esplodere e distruggere in un istante non solo la mente dei singoli, ma anche quella di interi popoli, se a ‘saltare in aria’ è non l’inconscio personale ma l’in­conscio collettivo.

«L’inconscio collettivo», sostiene Jung, «è più pericoloso della dinamite, tuttavia c’è il modo di maneggiarlo senza correre troppi rischi». Le attività artistiche, religiose e culturali permettono infatti al­l’e­­ner­gia contenuta negli archetipi di defluire verso la coscienza nel modo corretto, evitando che essa si accumuli in quantità eccessive per poi deflagrare all’improvviso in forma vulcanica e violenta. Proprio per questo, secondo Jung, dovremmo coltivare di più le doti creative che usualmente reprimiamo e teniamo nascoste: ciò, infatti, permette al nostro organismo di ripulirsi dalla «spazzatura psichica» che conserva al suo interno e di «fare spazio al libero gioco della fantasia».

Lo scopo non è necessariamente quello di esibirsi in chissà quali grandi opere o azioni, ma di trovare una nuova consapevolezza di sé, che si può rivelare anche nell’impegno che mettiamo nelle cose semplici e nei piccoli gesti quotidiani che rendono bella la vita, come preparare il caffè la mattina o piantare un cavolo nell’orto: «volgiamo lo sguardo della coscienza dentro la psiche per scoprire che cosa vi si cela. Cerchiamo di capire che cosa possiamo fare, ciascuno nel suo piccolo. Se pianto un cavolo nel modo giusto, ecco che nel mio pezzettino di orto ho reso un servizio al mondo. Che cosa potrei fare di meglio?».

«L’uomo in pace con se stesso», conclude Jung, «dà il suo infinitesimale contributo al bene del­l’uni­ver­so. Ognuno presti […] attenzione ai suoi conflitti interiori e personali e avrà ridotto, [anche se solo] di un milionesimo di milione, la conflittualità del mondo». Come a dire che se vogliamo veramente avere cura dell’universo e del pianeta che abitiamo, dobbiamo innanzitutto partire da noi stessi. In fin dei conti, anche sbrigare qualche faccenda nel nostro giardino o fare una carezza a chi ci vuol bene è un modo per esplorare e conoscere un po’ meglio il firmamento infinito che ci avvolge e ci ospita.

Gianluca Venturini

Sono nato a Treviso nel “lontano” 1989. Al Liceo Berto di Mogliano Veneto ho scoperto la filosofia. Fu in qualche modo amore a prima vista, ma non potevo immaginare che da lì a qualche anno sarebbe diventata una delle grandi “luci” della mia vita. Stregato dalla profondità inaudita dei pensieri che scaturivano da tale disciplina e conquistato dalla grande libertà intellettuale che essa rendeva possibile, decisi di seguirne le tracce iscrivendomi all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove mi sono laureato prima in Filosofia nel 2011 e poi in Storia nel 2013. Attualmente sto completando gli studi che mi porteranno a conseguire la laurea magistrale in “Filosofia della società, dell’arte e della comunicazione”.

BIBLIOGRAFIA:
C.G. Jung, Opere, vol. 8: La dinamica dell’inconscio, a cura di L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
C.G. Jung, Opere, vol. 14: Mysterium coniunctionis, a cura di L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
C.G. Jung, Jung parla. Interviste e incontri, a cura  di W. McGuire e R.F.C. Hull, trad. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2009.

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”

Oh rete d’astri, quanta meraviglia,
contro cui il guardo uccellino s’impiglia,
mi sono fatto ardito matematico
(e astrologo e filosofo astigmatico)
pur di cader nel fosso tenebroso

Pier Franco Uliana
Siderea arx mundi, De Bastiani, 2009.

Non so se sia stata la somma di una serie di casualità o una prolifica congiunzione degli astri che mi ha portata ultimamente a riflettere sul cosmo. C’è da dire anche che i fisici di questi tempi vanno di moda ed emerge un rinnovato interesse verso la ricerca e la scienza, la quale a sua volta si dimostra sempre più generosa nell’offrirci risposte o almeno nell’indirizzare le domande giuste.
Dopo la stimolante lettura delle Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) di Carlo Rovelli – un prezioso libricino in grado di affascinare astrofili e non – e con la scusa di mettere alla prova tecnicamente la mia nuova macchina fotografica, mi ero decisa a fotografare le stelle, integrando il mio consueto peregrinaggio estivo con mete segnalate, dagli enti promotori del cosiddetto “turismo astronomico”, come buoni punti di osservazione.

Guardare il cielo stellato per distrarsi dalle brutture del mondo o per perdersi nella meraviglia dell’infinito è una possibile chiave di lettura, ma la sete di sapere è la più grande virtù dell’uomo e le stelle rappresentano le muse – in apparenza immobili e silenziose – che accompagnano colui che è desideroso di conoscere.
Esplorando gli astri l’umanità ha iniziato a smarrirsi rendendosi consapevole della sua piccolezza. Il dominio della tecnologia è solo l’illusione di avere ancora una posizione centrale nell’universo, ma d’altra parte i progressi della scienza non fanno che rimarcare la nostra imperfezione e impotenza.
Cercando di superare questa sua condizione fragile e mortale, l’uomo ha dato origine alla filosofia, alla religione e all’arte.
Ma forse è proprio questa imperfezione che ci fa sentire più vicini al cosmo e tutt’uno con l’universo, concetto che il fisico Guido Tonelli – protagonista insieme a Fabiola Gianotti della scoperta del bosone di Higgs – spiega nel suo illuminante libro La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016): ­«la forma delle cose nasce dall’imperfezione che ha rotto la simmetria delle origini». Da questo minuscolo difetto abbiamo avuto inizio anche noi.

Se però analizziamo da un punto di vista etimologico la parola cosmo, vediamo come non ci sia nessun riferimento all’imperfezione, anzi, essa deriva dal greco κόσμος (kósmos) che significa “ordine”; la filosofia stessa è nata con la cosmologia (kósmos e lógos, quindi discorso sull’ordine) nel tentativo di decifrare l’armonia del reale.
C’è voluto parecchio tempo perché il pensiero umano imparasse ad apprezzare anche la disarmonia e l’errore e l’arte ben esemplifica questo percorso. Pensiamo alla bellissima volta celeste di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il cielo stellato che il pittore rappresenta agli inizi del XIV secolo è una metafora dell’ordine dell’universo, un universo meraviglioso e perfetto perché si identifica con Dio. Ma di certo i cieli più emotivamente impattanti della storia dell’arte sono i notturni stellati di Van Gogh, c’è qualcosa di stridente in queste rappresentazioni che paradossalmente le rendono più comprensibili, più umane, o meglio ancora più reali, nonostante non vi sia nulla di naturalistico in esse.

Van Gogh, Notte stellata - La chiave di Sophia

Vincent Van Gogh, “Notte stellata”, 1889

Tra Giotto e il pittore olandese passano ben sei secoli, molti cieli sono stati dipinti, sognati e immaginati in questo lungo periodo: gli astri celesti hanno ispirato artisti, poeti, viaggiatori, scienziati.
Penso per esempio all’Ariosto e alla sua dote visionaria che lo renderà capace di immaginare il primo viaggio dell’uomo sulla Luna. Nell’Orlando Furioso questa viene descritta come una sfera di immacolato acciaio, in conformità con l’incorruttibilità aristotelica dei cieli, ed è anche il luogo dove ritrovare la ragione perduta sulla Terra. Ariosto rende quindi omaggio all’ordine che regola la sua epoca, ma il suo potere immaginifico è lo sguardo anticipatore dell’arte.
Restando in tema, segnalo la mostra che qualche anno fa è stata allestita a Ferrara (Palazzo dei Diamanti) per celebrare i 500 anni dalla prima edizione dell’Orlando Furioso stampato proprio in questa città. Per comprendere un visionario bisogna sempre chiedersi cosa egli veda chiudendo gli occhi, ed è questo l’interessante punto di vista proposto dai due curatori che invitano ad entrare nell’universo dell’immaginario ariostesco.

Contemporaneo dell’Ariosto, Copernico scrive il suo De revolutionibus orbium coelestium nel 1512, mentre Galileo inventerà il telescopio nel 1609, quasi un secolo dopo il poema cavalleresco.
È evidente come ogni rivoluzione necessiti sempre del suo bardo: la poesia è utile alla scienza perché ha la sensibilità e l’intuizione di mescolare la materia senza limiti fisici e creare corrispondenze sensoriali in grado di ispirare le menti più acute.
Qualche settimana fa sono venuta a conoscenza (sempre per casualità o per disposizione astrale) del progetto Sentire le stelle, realizzato dal compositore Francesco Rampichini. Questo è costituito da un’interfaccia digitale in cui spostando il mouse è possibile ascoltare la mappa di una costellazione o di una sua singola stella, individuandone posizione e magnitudine attraverso il rapporto delle intensità luce/suono.
Ecco le corrispondenze a cui accennavo prima, interessante notare che questa ricerca ha anche una base linguistica: in sanscrito, antica lingua indoeuropea da cui provengono molti nostri vocaboli, suono si dice svara e luce si dice svar, i due termini hanno la stessa radice fonetica (che accomuna anche la parola sole).
La luce diventa quindi suono, le stelle ci parlano, il cosmo è vivo e comunica, non è solo un velo dipinto.

Nel libro di Rovelli che citavo inizialmente, l’autore ci spiega come il saper vedere e il saper ascoltare siano fondamentali non solo per il progredire della scienza, ma anche per comprendere meglio il nostro ruolo come essere umani: «noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo». Capire questo, significa anche adottare un comportamento di rispetto e di cura nei confronti del pianeta che ci ospita.

Per concludere: quest’estate mi sono fermata a osservar le stelle ma no, non sono riuscita a fare le foto che mi ero proposta. In compenso ho pensato al genio rivoluzionario di Copernico, all’ “oscuro labirinto” dell’universo che Galileo s’impose cocciutamente di decifrare e ad Astolfo che andò a cercare il senno di Orlando sulla Luna. Ma anche alle menti avide di sapere che si sono susseguite nei secoli fino ad oggi donandosi completamente alla scienza e all’emozione dell’animo sensibile dell’artista che guarda il cielo stellato.
Con un brivido ho sentito quanto l’umanità possa essere splendente anche nella sua naturale limitatezza, un potenziale che passa in secondo piano se si pensa alla stupidità e all’insensatezza diffuse nel mondo attuale.

Spero quindi che Dante avesse ragione in quell’ultimo verso del suo Inferno, spero che questo (ri)veder le stelle ci indichi adesso un nuovo cammino di luce e di conoscenza, dandoci il giusto grado di speranza per renderci migliori.

Dorè, Incisione per Divina Commedia - La chiave di Sophia

Gustave Doré, incisione per la “Divina Commedia”, 1857

 

Claudia Carbonari

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

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Dal cielo stellato alla filosofia

Concludendo la Critica della ragion pratica Kant scriveva: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me1. E a proposito della prima precisava: «La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata»2.

Queste righe sono indiscutibilmente fra le più celebri e suggestive del filosofo di Konigsberg. Esse non sono tuttavia un unicum all’interno della galleria filosofica e letteraria. Se infatti, come afferma Aristotele «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia»3, questo significa che a destare stupore e smarrimento negli uomini, dalla notte dei tempi, ha contribuito certamente l’immensità della volta celeste.

Ecco che, proprio contemplando il cielo e lasciandosi stupire (talvolta intimorire?) dalla sua incomparabile bellezza, gli uomini hanno cominciato a riflettere su se stessi, sulla propria condizione mortale, sulla propria origine, sul proprio destino. Hanno cominciato a filosofare.

È dunque possibile affermare che, sin dalle sue origini, la filosofia mantiene una fedele partnership con il cielo stellato. Di più. La filosofia smarrisce il suo originario movente qualora perde il contatto visivo ed emotivo con la volta celeste.

Proprio in queste notti agostane, contemplando il cielo in attesa di alcune stelle cadenti, scorgo fra le costellazioni i versi di poeti e filosofi che riescono ad evocare stupore, paura, meraviglia e spaesamento di fronte all’immensità del creato, alla sua forza e alla sua fragilità, che convivono e si completano in una profonda armonia, che chiamiamo bellezza.

Osservo Vega, la contemplo. Ai miei occhi è immobile, si fa via via più luminosa. D’improvviso però alcune nuvole la imprigionano, oscurandola senza spiegazioni, ma altrettanto senza spiegazioni la liberano. Vega è certamente consapevole che la sua è un’emancipazione temporanea. Per questo ora esprime la sua libertà sfavillando più di prima. Passano pochi istanti, infatti, e un altro ammasso nebuloso la cela completamente. Questa volta la reclusione sarà più lunga. Provo stupore e tristezza. Mi si gonfiano gli occhi e mi si stringe lo stomaco. È proprio in questo istante che mi sovvengono i versi di Pessoa:

Ho pena delle stelle
Che brillano da tanto tempo,
da tanto tempo…
Ho pena delle stelle 4.

Decido di voltarmi alla ricerca di porti più stabili e sereni. Rivolgo il mio sguardo leggermente più in basso e ai miei occhi appare, con tutta la sua fragile e maestosa eleganza, la costellazione del Cigno. È molto grande e ben visibile. Nessun carceriere all’orizzonte. Per questo il Cigno può volare libero nell’aere, con la magnificenza della sua apertura alare. Lo contemplo a lungo ed egli sembra dirigersi verso di me. Provo un senso di pace e gioia, il mio respiro si fa via via più regolare. Le mie quotidiane preoccupazioni si ridimensionano e assumono tinte meno angoscianti. Ora sì. Ora colgo con profonda chiarezza il significato delle parole che Pavel Florenskij, scrisse ai figli nel suo testamento spirituale.

«È da tanto che voglio scrivere: osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all’aria aperta e intrattenetevi da soli col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete» 5.

Con l’animo rasserenato dall’incomparabile delicatezza estetica del volo del Cigno, scelgo di cambiare nuovamente orizzonte e dirigo i miei occhi verso est. Eccola, sua maestà Cassiopea. Mi piace chiamarla la costellazione regina, per la sua forma che ricorda la corona di un’antica regnante. È luminosissima, come i brillanti incastonati nelle corone. Cassiopea è una sovrana insolita rispetto a quelle che abbiamo conosciuto nel corso della storia. Essa ha una presenza imponente, ma discreta. E’ luminosa senza essere accecante, perché sa stare al proprio posto, lasciando così ad ogni altra stella e costellazione la possibilità d’essere e brillare senza sentirsi inferiore. Osservando questa regina senza sudditi e piena di amici, comprendo l’essenza della parola “cosmo”, che in greco significa ordine, armonia, parità, rispetto. Già nel VI sec. a. C. Pitagora sosteneva che l’armonia interiore e quella relazionale degli uomini deve rispettare e imitare il supremo equilibrio del cosmo. Tuttavia, se ripongo lo sguardo e il pensiero sulla terra e i suoi abitanti, fatico a scorgere un tale equilibrio. Piuttosto che la parola cosmo, di cui parlavano i primi filosofi, mi sembra di vedere il caos, la voragine, l’abisso di cui parlava Esiodo nella Teogonia.

La profonda contraddizione che intercorre fra l’armonia del cielo e il tragico disordine degli uomini in terra, è protagonista di una delle aperture più intense e struggenti della storia della letteratura. L’inizio delle Notti bianche di Dostoevskij:

«Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che possono esistere solo quando siamo giovani, caro lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso, che a guardarlo veniva da chiedersi: è mai possibile che vi sia sotto questo cielo gente collerica e capricciosa? Anche questa domanda è da giovani, caro lettore, proprio da giovani, ma che Dio la faccia sorgere più spesso nell’anima tua!»6.

Lasciamo che l’incanto fecondi il nostro animo e attivi le nostre menti. Come Dante uscendo, finalmente, dall’Inferno, spalanchiamo una finestra sul cielo e con lui esclamiamo: «tanto ch’i’ vidi de le cose belle che porta l’ ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a rimirar le stelle»7.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1994, p. 197.
2. Ivi, p. 198.
3. Aristotele, Metafisica, tr. it. di G. Reale, Bompiani, Milano, 201412, p. 11.
4. F. Pessoa, Poesie di Fernando Pessoa, a cura di A. Tabucchi e M. J. De Lancastre, Adelphi, Milano 2013, p. 157.
5. P. Florenskij, Non dimenticatemi, tr, it di G. Guaita e L. Charitonov, Mondadori, Milano, 20113.
6. F. Dostoevskij, Notti bianche, tr. it di G. Gigante, Einaudi, Torino, 20142, p. 3.
7. D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di A. Marchi, Paravia, Milano, 2005, p. 328.

[Immagini tratte da Google Immagini]

X Agosto

<p>X Agosto - Rivisitazione moderna di Pascoli</p>

Aperta e priva del risentimento emotivo scaturito dalla gelosia, questa rivisitazione del X Agosto di Giovanni Pascoli, trasvaluta la concezione decadente dell’universo, dei suoi mille firmamenti e della Terra. Alla luce della scoperta di nuovi pianeti simili alla Terra, alla ricezione di prove sempre più solide della possibilità dell’uomo di esplorare, in prima persona, l’universo, questo componimento decanta la speranza di un superamento della dicotomia tra bene e male quindi di un nuovo “sentirsi esistere” consapevole dell’esistenza naturale di bene e male sulla Terra come su ogni altro pianeta simile o difforme. Al di là del “perché il male?” e al di là del “perché il bene?”; dell’inquietudine della casualità della vita e della grandezza dell’universo in confronto alla Terra: per amore, l’uomo si getterà alla conquista della sua volta celeste e di volta in volta supererà ogni suo Bene ed ogni suo Male. Questo X Agosto è un componimento moderno e positivo, contrapposto alla negatività ed al pessimismo di Pascoli nei confronti dell’uomo, della natura e della Terra.

X Agosto

Scintillano nel cielo,
vengono ad essenza attraverso i riflessi.
Non accecano e appagano
vista, cuori, speranze;
per i poeti sono muse e tormenti.
Queste sono le mille stelle dei firmamenti.

In ognuno vi è un sole,
e cinto di luce non conosce né bene né male:
dispensa ad ogni cosa scura e profonda
una calura iraconda.
Alle stelle dona un riflesso,
alle lune le proprie veci,
ad ogni pianeta un’alba ed un tramonto.
Tutti i soli sono senza riguardi.

Così tutti i firmamenti hanno tante stelle, tante lune, tanti pianeti,
tanti nuovi giorni che nascono e muoiono;
che luccicano di luce propria e riflessa.

Così tutte le cose scure e tutte le notti s’illuminano di desiderio.

Salvatore Musumarra

Fonte immagine: NASAMoon Over Andromeda Credit & Copyright: Adam Block and Tim Puckett

Le stelle cadenti dell’amore

Improvviso, inaspettato, rapido,
troppo simile al lampo che finisce
prima che si dica “lampeggia”. Buona notte, mio amore!
Questo germoglio d’amore che si apre al mite vento dell’estate,
sarà uno splendido fiore quando ci rivedremo ancora.

William Shakespeare, Romeo e Giulietta

 “Ed è arrivata l’alba. Cala il silenzio e i cuori si fanno un po’ più pesanti. L’ultima notte l’hanno voluta passare così: loro due, una bottiglia di vino e una coperta. Lì, nella spiaggia dove tutto è cominciato. Una notte passata a parlare, a baciarsi e a fare l’amore. Una notte passata a farsi promesse, mano nella mano. Una notte passata a guardare le stelle, sentendosi i custodi dei segreti dell’amore. Una notte di velata malinconia dal sapore agrodolce. Una notte passata abbracciati, guardandosi negli occhi, senza bisogno di dire nulla. Una notte viva di emozioni. Una di quelle che si ricordano per sempre, una di quelle che si custodiscono gelosamente nella memoria e ci parlano di un’estate speciale. Ma è arrivata l’alba e quella notte è finita. Ed è arrivata l’alba a portarsi via l’estate. Un ultimo sguardo, un ultimo bacio. Lungo, caldo, appassionato. Se l’erano promessi: niente parole. Per non rovinare niente, per non dire qualcosa di sbagliato, per non cadere nel banale. E così fanno. È arrivata l’alba e, in silenzio, se ne vanno, ognuno seguendo la strada della propria vita.”

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