“Nato il quattro luglio”: a cosa può portare lo spirito nazionalistico?

Gli anni ’60 hanno sempre suscitato in me un grande interesse per le tendenze musicali, per le lotte ai diritti umani, per i cortei, per l’aria di libertà che sembrava respirarsi. Ho sempre visto quel periodo come un momento in cui le coscienze dei giovani si sono risvegliate all’unisono e hanno cercato di farsi spazio in una società che per lungo tempo non li aveva ascoltati. Furono anni controversi le cui vestigia sono ancora presenti, ma vorrei porre l’attenzione su un evento che senz’altro ha segnato un punto cruciale della storia contemporanea: la guerra in Vietnam (1955-1975). Per farlo vorrei partire dall’analisi di un film di Oliver Stone che credo racchiuda appieno quello che fu lo spirito di quegli anni.

Nato il quattro luglio, film del 1989, fa parte di una serie di tre pellicole che Stone diresse cercando di focalizzarsi ogni volta su un punto di vista diverso: prima quello degli americani e poi dei vietnamiti. Nella pellicola sopracitata è evidente sin dalle prime scene come lo sguardo sia posto sugli americani, sul loro forte spirito nazionalistico e su come la guerra sia presentata ai giovani. Il piccolo protagonista assiste nella prima inquadratura alla parata del 4 luglio con una bandierina e un elmetto, lo si vede giocare con dei piccoli fucili quasi ad essere un segno premonitore di quello che sarà il suo futuro. Successivamente lo si vede diventare un giovane forte e atletico che dopo aver ascoltato una conferenza di un Marines decide di arruolarsi per la guerra in Vietnam “per difendere e preservare il grande spirito americano”. 

Ma la guerra è sempre dissolutrice, distrugge i sogni giovanili di gloria e di riscatto e ben presto ci si ritrova a chiedersi se quello in cui si è creduto abbia senso dinanzi alla rovina e alla distruzione che essa ha portato. Non è più una guerra per lo Stato ma diventa una lotta per la sopravvivenza e ci si rende conto che il popolo “maligno” che si era andato a combattere è semplicemente un popolo come un altro, dilaniato e spaventato dalla guerra. Tornato in patria il protagonista è cambiato nel corpo e nell’animo, così come tutti coloro che vi parteciparono: spesso si legge che chi andò in Vietnam tornò cambiato nel corpo e nella mente, e così fu.

La guerra in Vietnam per i giovani americani era un’occasione di servire il paese come avevano fatto i padri, i nonni, solo pochi decenni prima. Eppure l’esperienza avrebbe dovuto insegnare quanto la guerra fosse deleteria, si sarebbe dovuto ricordare il numero di vittime, le famiglie distrutte, la fame, ma negli anni ’60 vinse su tutto nuovamente lo spirito nazionalista e il forte motivo economico. Si manifestò contro questo nuovo flagello e vi furono molti cortei pacifisti, ma solo quando tutto finì ci si rese conto che una nuova generazione di americani era andata distrutta.

La guerra in Vietnam ha dato conferma di come la storia non abbia ancora un’accezione critica, sembra non insegnare e soprattutto sembra che gli ideali nazionalisti abbiano ancora la meglio sui cittadini. L’idea di forza, potere e sopraffazione acceca l’uomo a tal punto da non fargli più avere una visione volta al futuro e alle conseguenze delle proprie azioni, ma riduce il suo sguardo al mero presente. Combattere quella guerra – come tutte le guerre del resto – volle dire abbandonare la propria giovinezza e innocenza e diventare improvvisamente adulti con consapevolezze nuove che avrebbero per sempre cambiato le loro vite. Uccidere, distruggere e annullare ogni tipo di morale vuol dire far morire parte di sé stessi.

Canzoni, film, cortei, documentari animarono il mondo degli anni ’60 e le strade dell’America, se è vero che la storia non aveva sortito alcun effetto sino a quel momento sembra che la guerra in Vietnam abbia suscitato il più grande movimento di giovani mai visto, i quali avevano preso consapevolezza di ciò che volevano essere e del mondo che volevano vivere. Fu un movimento planetario, una presa di coscienza collettiva. Le immagini di quegli anni ancora oggi destano meraviglia ed emanano voglia di pace e libertà. Questo spirito è rimasto in parte nella nostra cultura e ancora oggi per noi deve essere un monito, un esempio.

Credo che ciò che gli anni ’60 ci hanno insegnato sia che non bisogna mai assopirci e lasciarci guidare ciecamente da alcuna idea o ideale che ci viene impartito in nome di uno Stato, bisogna essere vigili per cambiare il nostro mondo o anche la nostra piccola realtà. Essere coraggiosi e consapevoli vuol dire prendere atto di ciò che è stato e avere uno sguardo lungo su ciò che vogliamo sarà. Non permettiamo più che il sonno della ragione generi mostri, ma siamo attenti a renderla sempre vigile e critica.

 

Francesca Peluso

 

[Immagine tratta dal film]

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Addio all’America

George Floyd è morto in mondovisione per mano di due agenti della polizia di Minneapolis, Minnesota, USA.
Difficile affermare il contrario davanti all’evidenza delle immagini, difficile, o meglio, inutile strumentalizzare l’accaduto: i vari ma, i vari però, i vari bisognerebbe vedere com’è andata nel complesso, si infrangono nel baratro di una società che ha palesemente fallito.

L’America, da quando è stata scoperta, ha sempre cavalcato l’onda dell’aura magica che le abbiamo attribuito, continuamente edulcorata grazie – o a causa – della situazione precaria, belligerante, confusa degli Stati al di qua dell’Atlantico. Il mito di una Terra Promessa, in cui i sogni avrebbero potuto prendere forme decisamente materiali, ha spinto milioni di uomini a una migrazione che non ha mai conosciuto una vera e propria interruzione.
Per molti di questi uomini ha davvero rappresentato un punto di svolta non indifferente, soprattutto dal lato economico; “far fortuna in America” è stato il motto che ha animato intere generazioni, ha ispirato musiche, canzoni, ballate, poesie, testi teatrali e letterari.
Dietro il ridente panorama di progresso e civiltà che segnava il non plus ultra della società occidentale, si annidava tuttavia il germe silenzioso che avrebbe poi generato le grandi contraddizioni dalle quali dobbiamo prendere definitivamente distanza.

Gli Stati Uniti sono stati fondati da inglesi, olandesi, svedesi, tedeschi, italiani, irlandesi, spagnoli e, con la tratta degli schiavi, africani. Per cercare di costruire un’identità comune a questo mosaico di popoli, la classe dirigente americana ha sempre fatto leva sul simbolismo: la bandiera, l’inno nazionale, la celebrazione delle ricorrenze patriottiche, la mitizzazione di alcune figure chiave come George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, senza dimenticare icone più popolari come l’hot-dog, il baseball e migliaia di altri stereotipi che hanno contribuito ad alimentare la great America.
Un percorso che se in origine partiva dall’Europa e dagli europei, all’inizio della Guerra Fredda, anche grazie al bipolarismo mondiale, prendeva la direzione opposta; una sorta di reflusso magico.

Eppure solo nel 1964, con la Civil Rights Act, veniva formalmente abolita la segregazione razziale e l’anno successivo aumentavano gli aventi diritto al voto. Sempre nel Paese dalle origini multietniche si è sviluppato il Ku Klux Klan, gruppo terroristico dedito all’esaltazione della razza bianca, tuttora presente e in attività.
Negli Stati Uniti è presente il Partito Nazista Americano – i “Nazisti dell’Illinois” citati nel film The Blues Brothers – un po’ in contrasto con l’esaltazione commemorativa dei veterani e dei caduti di tutte le guerre, compresa ovviamente quella vinta proprio contro i veri nazisti.
Negli USA persiste la ghettizzazione, autonoma o figlia dell’abitudine, del “perché è sempre (?) stato così”, e pur essendo una fonte di contrasto sociale che spesso sfocia in atti vandalici fino a veri e propri atti criminali, non è mai stato preso un provvedimento efficace per migliorare la coesistenza tra i popoli; probabilmente la frattura generatasi in un periodo remoto della storia americana, risulta ad oggi apparentemente insanabile.

Negli Stati Uniti sono presenti scienziati che hanno portato l’Uomo sulla Luna, e persone che sparano agli uragani convinte di poterli fermare; presidenti riconosciuti dai più come figure di riferimento, e altri presidenti che consigliano di combattere le malattie grazie all’iniezione di disinfettante; altri presidenti premiati con il Nobel per la Pace e altri ancora che sganciano l’atomica e parenti dell’atomica sulle popolazioni inermi.
Persone che protestano per l’ennesimo omicidio insensato e altre che “per protesta” assaltano negozi, abbattono statue di Cristoforo Colombo, inseguono un politicamente corretto che ne distorce ridicolmente i presupposti quando si mette sotto accusa un film di fine anni ’30 considerato improvvisamente razzista. Manca bel un rogo di libri alla Savonarola all’appello ma attendiamo fiduciosi.
Quello americano è un fallimento bello e buono, che si ripercuote nelle società volutamente subalterne con l’emulazione degli atti sopra elencati. Ciclicamente avviene una sorta di caccia alle streghe, al razzista, al sessista, al maschilista, al misogino, all’abortista, al divorzista, all’ultra-cattolico ecc. senza tuttavia provare a risolvere il problema a monte, cambiando cioè mentalità, è da essa infatti che derivano le azioni.

Una delle prime fondamentali azioni che noi, appartenenti alla società europea, potremmo fare è proprio quella di dire addio alla società americana che, all’alba del secondo ventennio del XXI secolo e alla luce delle evidenti contraddizioni inspiegabilmente irrisolte, non ha più ragione di presentarsi come modello da perseguire.
Prendere atto del crollo del mito americano significherebbe voltare coraggiosamente pagina.

 

Alessandro Basso

 

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Un anno di Trump tra Twitter e fake news: verità e post-verità

Il 20 gennaio scorso si è celebrato il primo anniversario dell’insediamento di Donald J. Trump come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. I bilanci di questo primo e assurdo anno di amministrazione di The Donald si sprecano e si sprecheranno. Tra analisi sulla politica interna ed estera, Russiagate e immigrazione, sono molti i punti che meritano attenzione. I successi sono stati pochi: la nomina di un giudice della Corte Suprema e la riforma fiscale, mentre le sconfitte vanno dalla fallita abolizione dell’Obamacare alla perdita di un seggio sicuro al senato fino allo shutdown del governo. Quello che più ha stupito di Trump presidente, in questi dodici mesi, è stato però l’atteggiamento che ha quasi sempre tenuto nel dibattito politico e nei suoi rapporti con la stampa. Laddove si pensava che la comunicazione di Trump istrionica, esagerata e infarcita di bugie in campagna elettorale, potesse avere una svolta istituzionale una volta diventato presidente, si è stati ben presto smentiti dall’interessato.

Se torniamo con la memoria al giorno dell’insediamento ci potremmo ricordare che tutto cominciò con una colossale bugia. Trump e la sua amministrazione dissero che la cerimonia era stata un successo, una delle più seguite di tutti i tempi. Le foto del prato semideserto a confronto con quelle dell’insediamento di Obama smentirono quella affermazione, sebbene Trump e i suoi continuassero a proporre un altro tipo di verità.

La realtà alternativa o post verità è stata una costante prima nella campagna elettorale e poi nella presidenza Trump. Bugie dette non solo per promettere cose irrealizzabili o infuocare gli animi della base, ma per creare una narrazione del “noi” contro “voi” che ha polarizzato l’opinione pubblica e ha garantito a The Donald il sostegno di quelli che l’hanno votato. Dire la verità non è più un asset così vantaggioso, meglio costruirsene una.

Trump da quando si è candidato ha rotto costantemente le regole della dialettica tra uomini politici. Lo ha fatto un po’ consciamente e un po’ di puro istinto, quello per la battuta pesante, per la risposta arrogante e per il contrattacco come forma di difesa. Nessun presidente ha mai preso così sul personale le critiche al proprio operato o all’operato della propria amministrazione. E l’opinione pubblica americana non è stata tenera con nessun presidente, escluso forse il primo Obama.

Il presidente ha bollato ogni critica a sé e ai suoi collaboratori come fake, falsa, e ha iniziato a chiamare tutti i media critici fake news media, dalla Cnn a New York Times e Washington Post, meno il conservatore Fox News ritenuto invece affidabile. Trump ha accusato questi giornali e canali televisivi non solo di essere faziosi e schierati con i democratici, ma di inventarsi notizie con il proposito di screditarlo. Il tutto l’ha riassunto con la frase, più volte pronunciata: “You are fake news!”, riferita ai media sgraditi.

Un altro punto della presidenza Trump da sottolineare è il massiccio e sregolato uso di Twitter. Trump nel suo primo anno ha scritto 2595 tweet dal suo account personale e solo 2 da quello ufficiale @POTUS. Su Twitter Trump ha dettato l’agenda politica, ha criticato e insultato i democratici come i repubblicani non allineati e ha cercato di gettare discredito sulla stampa americana come sull’inchiesta che lo coinvolge. Il presidente è parso più volte preso da un raptus incontrollato che lo ha portato ha twittare più volte in pochi minuti, magari dopo essere venuto a conoscenza di qualcosa a lui sgradito dalla televisione.

Ha scritto ciclicamente che Hillary Clinton è corrotta e meriterebbe la galera, ha retwittato video falsi e islamofobi e un altro in cui, fuori da un ring di wrestling, mette al tappeto un uomo, che ha però il logo della Cnn sulla testa. Solo per citare alcune delle sue uscite social più famose.

L’impulsività e la litigiosità di Trump sui social, quando cioè è lasciato solo e libero di esprimersi, contrasta con i discorsi che fa invece leggendo dal gobbo. I secondi, come l’ultimo sullo stato dell’Unione, risultano molto più normali. Alla luce anche di questo, oltre che della sua e della dieta, hanno fatto dubitare a molti della salute e della stabilità mentale del presidente. Per fugare questi dubbi Trump si è fatto visitare recentemente e il suo medico ha fatto sapere che il presidente è in forma.

Esclusa per il momento l’ipotesi che il presidente degli Stati uniti d’America non sia totalmente sano di mente, resta il fatto che agendo come ha fatto nell’ultimo anno Trump ha cambiato il dibattito pubblico americano. Attaccando per non essere attaccato, insultando per primo o in risposta ad altrui offesa di certo non è riuscito a essere il presidente di tutti anzi. Forse Trump è sia la causa che l’effetto dell’odio e dell’intolleranza che vediamo riversata quotidianamente nella rete.

Di certo un presidente così, con questo modo di comunicare non si era mai visto. E anche i sondaggi che mostrano la politica Usa sempre più polarizzata tra destra e sinistra fotografano probabilmente sia la causa che l’effetto di un dibattito non sano. Sarà Trump un prodotto di questi tempi, chi lo sa. Forse non starà cambiando l’America, ma di sicuro il modo in cui si vive la politica.

Tommaso Meo

 

Letture consigliate per approfondire:
NY Daily News, Trump is a madman
Il Post, Il primo anno di Donald Trump da presidente, in cifre

 

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Charlie Gard: il bambino morto in nome della legge

La storia di Charlie Gard, purtroppo, la conosciamo tutti; il bambino di dieci mesi affetto da una malattia genetica rarissima, sindrome da deplezione del Dna mitocondriale per la quale al momento non esistono cure. L’unica prospettiva sembra essere una cura sperimentale da effettuare negli Stati Uniti. Nel marzo scorso, però, Charlie viene colpito da un’encefalopatia, facendo così mancare le condizioni scientifiche per rendre efficace la cura. Gli Stati Uniti si rendono comunque disponibili a tentare la cura in via sperimentale senza assicurare alcun successo. Tuttavia, il Great Ormond Street Hospital di Londra e l’Alta Corte inglese negano la possibilità di trasferire Charlie e dichiarano la necessità di sospendere tutti trattamenti in corso, convinti dell’inutilità della cura sperimentale richiesta dai genitori; ciò poiché è stata invece corretta la diagnosi medica che riscontra l’impossibilità per Charlie di salvarsi da un progressivo e inarrestabile aggravarsi della patologia di cui è affetto.

Nel mese di giugno i genitori del bimbo fanno l’ultimo disperato tentativo: si rivolgono alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sostenendo che la sentenza inglese viola la libertà di cura e che rende Charlie prigioniero dell’ospedale in cui è ricoverato. La Corte europea dispone per l’ospedale di Londra l’obbligo di continuare a curare il bambino fino a nuova delibera. Il 28 giugno, il nuovo verdetto: la Corte di Strasburgo ritiene di non avere alcuna autorità per prendere decisioni su un tema del genere, rimandando alla decisione della Corte suprema inglese e quindi imponendo di sospendere i trattamenti.

Di fatto, i giudici inglesi prima, e la Corte europea dei diritti dell’uomo poi, decidono di staccare il supporto vitale in nome del presunto “miglior interesse” del paziente e contro la volontà dei suoi genitori.

Perché deve essere un giudice a scegliere cosa è nel miglior interesse di Charlie? In nome di quale principio un ordinamento può opporsi alla volontà dei genitori, legali rappresentanti, sancendo così la morte del bambino?

La risoluzione dei giudici inglesi si fonda sulle disposizioni del diritto nazionale relativamente all’accanimento terapeutico, che decreta l’obbligo da parte dei medici di interrompere le cure qualora l’eccezionalità dei mezzi impiegati non sia funzionale allo scopo medico-terapeutico. È possibile definire come accanimento terapeutico la ventilazione artificiale, comunemente considerata un “supporto vitale”? E, soprattutto: come è possibile, in questo caso, accertare la volontà del paziente di rinunciare a tale trattamento? Nella vicenda di Charlie, infatti, non si tratta di un adulto consenziente o avente  precedentemente espresso una qualche volontà di interrompere trattamenti terapeutici o di supporto vitale in ragione ad una scelta autodeterminata. Al contrario, siamo di fronte all’imposizione, desunta dalla legge e sancita dai giudici, di sospendere la vita del paziente contro la volontà dei suoi legali rappresentanti, ovvero i genitori.

Eppure decidere o, perlomeno, indicare ciò che è meglio per Charlie non spetterebbe ai genitori? Secondo la legge, sebbene ai genitori competa la responsabilità genitoriale, il controllo prioritario è affidato al giudice che sarebbe l’unico in grado di esprimere un giudizio realmente oggettivo nel migliore interesse del bambino, ovvero quello di vivere una vita che possa essere definita degna. Riassumendo: non potendo Charlie esprimere la sua volontà, il giudice non considera, o meglio, trascura totalmente anche quella dei suoi genitori: cioè, il desiderio di tenerlo in vita. Il tutto in nome di un interesse a morire tratto da astratte regole giuridiche e da evidenze scientifiche desunte statisticamente.

Nell’epoca dell’autodeterminazione e dell’esaltazione dei diritti individuali, gli ordinamenti giuridici finiscono per dichiarare attraverso una sentenza, peraltro autocontraddicendosi, la massima restrizione della libertà altrui in nome del parametro delle “indicibili sofferenze”, in realtà impossibili da verificare oggettivamente, imponendo così criteri giuridici astratti, attraverso i quali accertare se una vita possa essere o meno degna di essere vissuta, a cominciare da un principio standard e assoluto di felicità e dignità.

Svincolati dai loro fondamenti ontologici, principi come quello della dignità umana e della liberà rischiano di diventare contenitori vuoti che la legge, o peggio un giudice, riempie per realizzare la propria idea di giustizia. Ai coniugi Gard viene sostanzialmente richiesto di “staccare la spina” e sacrificare Charlie per affermare il principio dell’infallibilità della Legge. Ed è nel nome della legge, quindi, che Charlie Gard muore il 28 luglio 2017.

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Sul detto comune “Forse non tutti i musulmani sono terroristi…”

L’aveva capito Immanuel Kant quando, nel 1793, pubblicò il saggio Sul detto comune “Questo può valere in teoria, ma non vale per la pratica”: i proverbi, i modi di dire, i “detti comuni” appunto, sono più di semplici espressioni idiomatiche e di costume, sono vere e proprie cartine al tornasole del sentire comune, della mentalità collettiva. Possono quindi creare una specifica forma mentis e le basi di un sistema di pensiero, quando non ne siano già indicatori.

È questo il caso, oggi, di un detto che sentiamo fin troppo spesso, attribuito a Oriana Fallaci e diffusosi in maniera endemica dai bar ai social network ai talk show: “Forse non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, un brillante sunto di teologia, analisi sociopolitica e psicologia che non lascia troppi dubbi in quanto a letture della crescente instabilità che affligge ormai ogni parte del mondo. Peccato che, come sottolineò lo stesso Kant, spesso questi detti siano pure idiozie glorificate da una facile retorica. L’attentato a Londra del 19 giugno e quello a Parigi del 29 giugno dovrebbero già essere valide confutazioni del detto preso in esame, ma lasciando da parte gli attacchi ad opera di singoli, prendiamo in considerazione invece alcuni gruppi terroristici organizzati non islamici.

In Israele, un numero crescente di nuovi coloni, ebrei sionisti, ha compiuto decine di attentati ai danni della popolazione civile palestinese (il più delle volte: nel 2015, l’attentatore scambiò un ragazzo ebreo per un arabo e lo uccise con un coltello), omicidi tesi a rivendicare la totale sovranità ebraica della Terra Santa.

In Birmania, l’etnia rohingya, di religione islamica, è sistematicamente vittima di attentati ad opera di gruppi paramilitari che si dichiarano seguaci del buddhismo theravāda, che agiscono su base nazionalista e razzista. Il tutto, peraltro, avviene con il complice silenzio del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ora alla guida del Paese.

Nella Repubblica Centrafricana, le milizie cristiane degli anti-balaka compiono stragi coordinate e brutali ai danni della popolazione musulmana (lo stesso termine “anti-balaka” rimanda ad una contrapposizione religiosa, e può essere tradotto con “anti-musulmano”), con attacchi mirati ai civili.

In India, estremisti indù afferenti al partito del Primo Ministro Narendra Modi, il BJP, organizzano repressioni violente nei confronti delle minoranze non induiste del Paese, arrivando a imporre in alcune regioni (anche popolose e rilevanti come lo stato del Gujarat) una legge ispirata ai precetti indù, una vera e propria “shari’a induista” che punisce con l’ergastolo chi uccide una mucca.

Esisterebbero molti altri esempi anche al di fuori dell’ambito religioso e confessionale, come i movimenti del suprematismo bianco negli Stati Uniti o i rinati movimenti anarchici in Italia. Come accennato, il numero aumenta al momento in cui si aggiungono al novero anche i “lupi solitari” come Darren Osborne, Anders Breivik o perfino il nostrano Gianluca Casseri.

Espressioni come “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani” sono, a proprio modo, consolanti: ci portano a pensare che esiste una singola ideologia, religione o dottrina (o comune ridotte in numero e chiaramente identificabili) che è all’origine del male e della violenza, e che una volta eliminata questa, si potrà finalmente vivere tranquillamente, in pace, in armonia. L’alternativa sarebbe angosciante: riconoscere che la violenza ha sempre accompagnato la storia umana, e che individui, popoli e gruppi hanno utilizzato ogni tipo di religione o ideologia per darle una giustificazione ed una legittimazione. Certo, questo presupporrebbe anche un impegno personale e quotidiano nell’eradicazione della violenza, a partire dall’ambito individuale e educativo: fortuna che biasimare l’islam e qualunque altro capro espiatorio lo seguirà sollevi tutti da ogni responsabilità personale.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta dalla campagna pubblicitaria Anche le parole possono uccidere realizzata da Armando Testa]

 

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Europa ed Italia a confronto con le pratiche assicurative nell’era dei test genetici

La possibilità di accertare, mediante test genetici, la presenza di una predisposizione individuale a contrarre determinate patologie e più in generale la possibilità di conoscere il profilo genetico di un individuo per trarre indicazioni sul suo futuro stato di salute hanno sollevato alcune questioni di natura etica anche in ambito assicurativo. Ci si chiede se i progressi nelle conoscenze genetiche possano incidere sul sistema assicurativo, se sia lecito utilizzare test genetici per una più equa ponderazione del rischio individuale e per una più adeguata riformulazione dei calcoli attuariali sull’aspettativa di vita.

Il sistema assicurativo è favorevole a tenere sotto controllo le informazioni riguardanti la situazione genetica dei singoli nell’ambito della modulazione dei premi, allo scopo di realizzare mercati più conformi alle situazioni di rischio. Le discriminazioni che potrebbero essere messe in pratica nella sottoscrizione di un contratto potrebbero estendersi all’esclusione dalla copertura assicurativa di intere fasce di popolazione portatrici di un corredo genetico ad alto rischio1.

Il problema dell’impiego dei test genetici in ambito assicurativo è stato avvertito negli Stati Uniti prima che altrove in quanto il sistema sanitario vigente in tale Paese è basato sul sistema delle assicurazioni private, ovvero sulla stipula consensuale da parte dei privati di una varietà di polizze con compagnie assicuratrici che forniscono una copertura assicurativa per le spese mediche che derivino da infortuni o malattie2.

A livello europeo la Risoluzione del 16 marzo 1989 del Parlamento Europeo sui problemi etici e giuridici della manipolazione genetica «in merito all’analisi genomica nel campo delle assicurazioni: 19. stabilisce che le assicurazioni non hanno alcun diritto di chiedere, prima o dopo la stipulazione di un contratto assicurativo, l’esecuzione di analisi genetiche, né la comunicazione dei risultati relativi ad analisi genetiche già effettuate e che le analisi genetiche non devono diventare una condizione preliminare nella stipulazione di un contratto assicurativo; 20. ritiene che gli assicuratori non possano pretendere di essere informati sui dati genetici a conoscenza dell’assicurato;  in merito all’analisi genomica nei procedimenti penali: 21. chiede che le analisi genetiche possano essere richieste nei procedimenti penali solo in via eccezionale e – esclusivamente su decisione del giudice – in settori specificamente delimitati; in tale contesto si può ricorrere solo a quelle parti di un’analisi genomica che siano importanti nella fattispecie e non consentano di trarre conclusioni sulle informazioni genetiche nel loro insieme».

Sotto l’aspetto legislativo lo scenario europeo si presenta alquanto eterogeneo, alcuni Paesi hanno emanato leggi ad hoc adottando disposizioni specifiche e vietando agli assicuratori sia di richiedere ai clienti di sottoporsi ad indagini genetiche prima della stipula del contratto, sia l’esito di test genetici già effettuati3; altri Stati non hanno messo in atto alcun intervento legislativo continuando ad applicare, anche nell’ambito delle informazioni genetiche, la disciplina sulla protezione dei dati sensibili. In questo caso, la mancanza di una normativa specifica viene in parte compensata dalla presenza Codici etici e deontologici o Linee Guida nazionali ed internazionali volte ad orientare la condotta dell’operatore che si accinge ad eseguire indagini genetiche richieste da enti di diversa natura (datori di lavori, compagnie assicurative, ecc…).

Per quanto riguarda l’Italia, già da qualche tempo è stato sviluppata una particolare disciplina di protezione legale diretta a preservare fortemente la riservatezza delle informazioni genetiche4.

L’autorizzazione generale del Garante per la protezione dei dati personali n. 2/1999 relativa al trattamento dei dati sensibili da parte di banche, assicurazioni, ecc… non permette il trattamento di dati genetici da parte di soggetti che esercitano attività assicurative; la tutela delle informazioni genetiche è parte dei diritti fondamentali della persona e il sistema pubblico non può utilizzarle per limitare la libertà e l’uguaglianza.

Sempre sul versante assicurativo, il Codice Civile italiano al capo XX riconosce alle imprese assicuratrici la possibilità di disporre delle sole informazioni sullo stato di salute attuale del contraente, il quale è tenuto a fornire al riguardo le notizie di cui è a conoscenza, con esclusione delle informazioni genetiche di carattere predittivo5. Quindi, in Italia la richiesta da parte delle compagnie di assicurazione di accedere ad alcuni dati sensibili, riguardanti il patrimonio genetico della persona hanno incontrato una ferma resistenza; a tale proposito si può ricordare anche l’art. 46 del vigente Codice di Deontologia Medica, in base al quale: «il medico non deve eseguire test genetici o predittivi a fini assicurativi od occupazionali se non a seguito di espressa e consapevole manifestazione di volontà da parte del cittadino interessato che è l’unico destinatario dell’informazione».

Alla luce di tali disomogeneità di condotta dei vari Stati europei, il 26 ottobre scorso il Consiglio d’Europa ha approvato, sotto forma di raccomandazione, un testo volto a proibire alle compagnie di assicurazione di utilizzare e richiedere test genetici per determinare premi o indennizzi assicurativi.

Il testo, pur non essendo vincolante per gli Stati, potrebbe risultare utile nel caso di ricorsi alla Corte europea dei diritti umani da parte di singoli cittadini o associazioni. Creare una casta inferiore di persone sfavorite geneticamente sarebbe inaccettabile è quindi fondamentale salvaguardare i diritti degli assicurati e garantire un corretto utilizzo dei dati inerenti la loro salute.

Silvia Pennisi

NOTE:
1. COHEN L. (1999), The Human Genome Project and the Economics of Insurance: How Increased Knowledge May Decrease Human Welfare, and What Not To Do About It,  “Annual Review of Law and Ethics”, vol. 7,  pp. 219-238.
2. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA (1999), Orientamenti bioetici per i test genetici. Sintesi e Raccomandazioni, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, pp.,104-109.
3. I paesi coinvolti sono: Austria, Belgio, Francia, Danimarca e Lussemburgo.
4. Si veda D.lgs 196/2003, Capo V – Dati genetici – Art. 90 (Trattamento dei dati genetici e donatori di midollo osseo).
5. Si vedano art. 1897 relativo alla Dimunuzione del rischio e art. 1898 che si occupa dell’Aggravamento del rischio.

[Immagine tratta da assicuriamocibene.it]

Il buio oltre la siepe: un grido limpido contro il razzismo

I temi più importanti e delicati spesso non hanno bisogno di essere raccontati in modo retorico e pomposo, con frasi altisonanti ma possono essere trasmessi a chi legge, o a chi guarda, con grande semplicità, in modo spontaneo e quasi naturale ma non per questo meno forte.
È ciò che accade guardando “Il buio oltre la siepe”, trasposizione cinematografica del 1962 dell’omonimo, famosissimo romanzo di Harper Lee (nella versione originale il titolo è To Kill a Mockingbird).

La storia si svolge in Alabama, nel profondo sud degli Stati Uniti qualche anno dopo la Grande Depressione. In una piccola cittadina immaginaria vivono Jem e Scout, fratello e sorella orfani di madre rimasti soli con il padre, Atticus Finch, un avvocato; interpretato meravigliosamente da Gregory Peck, è un uomo dai limpidi e saldi principi morali, un padre affettuoso.
Nella calda estate in cui la vicenda prende forma, i due bambini amano giocare in giardino, fantasticando sul loro misterioso vicino di casa, un ragazzo di nome Boo Radley, che vive recluso e che suscita nei due piccoli protagonisti un misto di paura e irrefrenabile curiosità.
La tranquilla vita del paese viene sconvolta da una grave vicenda; Tom Robinson, giovane uomo di colore, viene accusato di violenza nei confronti di una ragazza bianca. Sarà proprio Atticus Finch a prenderne le difese, tra i timori e la disapprovazione di molti e il sostegno di pochi. Memorabile la scena dell’arringa finale in tribunale, in cui Gregory Peck non si limita ad interpretare un ruolo; la sua recitazione è una lezione di cinema totale e che lascia senza parole, semplicemente un’opera d’arte.

La naturalezza disarmante con cui questo film parla di razzismo e diversità è senza tempo, è tanto valida oggi quanto lo era allora, in un’America in cui la segregazione era ancora forte, radicata, quando essere nero significava essere diverso nel modo peggiore, cioè criminale, sovversivo, pericoloso. Era questo il pensiero di tanti bianchi, di tante persone che sulla base di una presunta e insignificante superiorità, costringevano chi era all’apparenza diverso, a vivere in modo indegno.
Non c’è retorica in questo film, chi lo guarda viene naturalmente portato a viverlo con gli occhi della piccola Scout, che con la sua spontanea schiettezza spiazza di continuo lo spettatore; la sua è una voce pura, un modo di guardare le cose che non si può non amare, innocente e spensierato.

Il buio e l’ignoto che ricorrono in tutto il film e che idealmente separano la siepe e la casa dei Radley dal resto del mondo, rappresentano la paura che genera il pregiudizio; attraverso l’avventura di Scout e Jem si scopre e si capisce insieme a loro che ciò che non si conosce, ciò che c’è al di là della siepe, non è scuro o terribile, ma umano, rassicurante; è solo un pezzo di vita non ancora esplorato, che aspetta di essere conosciuto e capito. È un messaggio che viene trasmesso con grande forza, uno spirito che aleggia su tutta la storia, che combatte per far valere il suo ideale giusto, che alla fine arriva a trionfare, senza squilli di trombe, ma con un tocco delicato, come la mano di Atticus che si posa dolcemente sulla testa di Scout.
Dopo tanti anni fà sicuramente riflettere il fatto che questo film sia ancora così attuale. Continua ad essere una voce forte contro le discriminazioni e una lezione sulla diversità, intesa come un’occasione per scoprire, per arricchirsi di tutto ciò che per paura ignoriamo.

Con una visione semplice e innocente ci viene data la possibilità di gettare lo sguardo oltre la siepe, di illuminare il buio che ancora ci circonda perché non vogliamo affrontarlo, preferendo invece restare fermi, con la mente chiusa. Il buio oltre la siepe è un elogio della tolleranza, dell’umiltà, di una vita semplice fatta di piccole cose, è un film che commuove e che lascia negli occhi di chi guarda il ricordo di ogni personaggio, di ogni singola inquadratura. Un grido limpido contro l’ottusità e l’ignoranza che sarebbe un peccato lasciare inascoltato.

Lorenzo Gardellin

Secondo emendamento o il prezzo della libertà

Ogni volta che i media riportano la notizia di una strage da arma da fuoco in America molti di noi sono presi da un sano stupore e da un’altrettanta sana indignazione verso qualcosa che non capiamo e che pensiamo molto lontano da noi. Tutte le volte che un ragazzotto preme il grilletto sfogando così le sue perverse pulsioni, vuoi razziali, religiose o semplicemente frutto della sua follia, la prima cosa che ci chiediamo è come sia potuto accadere che un’arma finisse in così cattive mani. E ciclicamente anche gli osservatori europei condannano la politica americana sulle armi che non fa niente per prevenire tragedie del genere. In USA altrettanto sull’onda emozionale del momento si fanno grandi proclami, ma in sostanza non cambia niente.

Contro l’attuale legislazione sulle armi si è espresso anche Barack Obama dopo l’ultima strage di inizio Ottobre all’Umpqua Community College in Oregon, nove morti e una decina di feriti.

Ma nello specifico che cosa si intende quando si parla di possesso di un’ arma negli USA? E da dove proviene questa cultura delle armi così radicata in America e perché è tanto difficile che qualcosa cambi a livello legale?
A mente fredda si può tentare di capire qualcosa di più in materia e sfatare anche qualche falso mito.

Che gli USA abbiano un problema con le armi è certo. Ecco alcune statistiche per capirci meglio:

Negli Stati Uniti ci sono 300 milioni di armi da fuoco su 315 milioni di abitanti (al secondo posto l’India con 43 milioni su 1 miliardo e 200 milioni di persone). Circa una famiglia su tre possiede un’arma.

Gli USA hanno solo il 4,4% della popolazione mondiale e quasi il 50% del totale delle armi detenute da civili al mondo.

Nel 2013 si sono registrati 11.203 omicidi e 21.175 suicidi causati da armi da fuoco, senza contare i decessi per armi usate dalla polizia. Più di qualsiasi altro paese civilizzato.

Dal caso della sparatoria alla Sandy Hook High School (2012) ci sono state oltre 986 fucilazioni di massa (mass shooting) negli Stati Uniti, ovvero episodi con almeno quattro morti. Per ora nel 2105 la percentuale è di quasi una al giorno.

Dal 2001 al 2011 i morti causati da armi da fuoco sono stati 130.000, mentre il terrorismo ha fatto 3.00 vittime, delle quali 2689 solo l’11 Settembre 2001.

Il possesso di armi da fuoco negli stati uniti è regolamentato dalla legislazione di ogni stato e da quella federale con un complesso sistema di norme, ma quasi tutti consentono di possedere una pistola e di portarla in pubblico nascosta.
Per quanto riguarda la vendita non è proprio vero il luogo comune secondo il quale si entra in un supermercato e se ne esce con un fucile (per le munizioni però in certi casi funziona così), ma comunque è assodato che negli Stati Uniti ci sia più possibilità e facilità di acquistare armi da fuoco che in ogni altro paese avanzato. Per comprare un’arma da un rivenditore autorizzato basta non essere un pregiudicato e dichiarare di non avere malattie mentali. Mentre un mercato ancora più incontrollato è costituito dalla vendita diretta tra privati o dalle più di 4.000 fiere annuali del settore.
E un dato abbastanza scioccante è che l’85% delle stragi commesse negli ultimi trent’anni è stato fatto con armi comprate regolarmente dal killer, non da altri, ma da chi ha effettivamente premuto il grilletto.
Sembrerà ovvio ma è comprovato statisticamente che leggi più lassiste sul possesso di armi ne aumentano la circolazione e fanno crescere il numero di omicidi.

Per quanto riguarda la questione della cultura delle armi si sente spesso citare il secondo emendamento come principio cardine che lascia libero ogni cittadino di possedere un’arma da fuoco e ciò è vero, ma questo emendamento è stato oggetto di diverse diatribe sull’interpretazione e ci si è appellati ad esso solo negli ultimi decenni, come vedremo. Il secondo emendamento in questione risale al Bill of Rights (carta dei diritti che comprende i primi nove emendamenti) del 1791 e recita:

Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una milizia regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto.

Molti americani verso la fine del ‘700, soprattutto nelle zone rurali possedevano un fucile, per difesa contro gli attacchi di indiani o di banditi. Questo emendamento di fatto regolava una situazione già consolidata da una parte e dall’altra, con l’istituzione di una milizia centrale e federalista e per paura di troppo centralismo, avvallava il possesso di armi di privati cittadini e la creazione di eserciti locali, là dove il governo federale faticava ad arrivare. Le milizie locali che si vengono a creare sono le antenate delle criticate guardie nazionali che ogni stato americano possiede tutt’oggi.

Storicamente queste ventisette parole (27!) sono figlie del contesto già prima accennato, della fine della guerra d’indipendenza contro la madrepatria inglese e della confederazione dei tredici stati e poi della conquista del west da parte dei pionieri, ma culturalmente si sono rivelate oggi esprimere loro malgrado il concetto di liberismo, che caratterizza gli Stati Uniti dalla loro nascita; un Paese di breve storia che ha fatto dell’individualismo e della libertà personale principi imprescindibili e nuovi elementi di un’epica moderna. La conquista e la difesa, anche individuale del territorio, sono elementi sempre presenti nell’epos americano e nella cultura pop; non è un caso che nei fumetti di Walt Disney Paperon De’ Paperoni e Nonna Papera fossero rappresentati icasticamente difendere i loro possedimenti a suon di fucile.

È sulla base di quell’ emendamento che, in particolare dalla metà dagli anni ‘70 del secolo scorso, ha portato avanti la sua battaglia ideologica la più famosa e potente lobby del mondo: la National Rifle Association (NRA), l’associazione dei produttori di armi da fuoco.
Ronald Reagan fu il primo presidente a essere eletto con il sostegno della NRA ed è sotto il suo mandato che si “riscoprì” il valore del secondo emendamento come principio per il possesso individuale di armi. Partendo da questa riscoperta venne votato il Firearms Owners Protection Act.
In tempi più recenti la corte costituzionale segnò altri punti per la causa dei produttori sancendo, con una sentenza del 2008, che il regolamento sul controllo delle armi del District of Columbia era incostituzionale e che quindi «il Secondo emendamento protegge il diritto individuale del possesso di un’arma da fuoco, non connesso al servizio in una milizia». Due anni dopo un’altra sentenza ha esteso l’interpretazione ai 50 stati americani, obbligandoli ad adeguarsi. Il diritto di possedere un’arma è quindi, per adesso, inviolabile.

Appare chiaro che il problema con le armi degli USA sia prima che di ordine pubblico un problema culturale se si confrontano gli Stati Uniti con altri Paesi.
Uno Stato pieno di armi come la Svizzera, mutatis mutandis, ha un tasso molto più basso di omicidi degli USA e ciò vale lo stesso per i vicini canadesi; ricordandoci sempre che i paesi con più armi hanno un numero di casi di omicidio maggiore di quelli con un arsenale minore. Michael Moore nel suo bellissimo documentario Bowling for Columbine (2002) incalzando Charlton Heston, allora presidente della NRA, gli chiede il motivo secondo lui di questa differenza tra gli Stati Uniti e gli alri paesi. Heston, non senza qualche diffficoltà, afferma che l’america ha una storia insanguinata. Moore quindi gli fa notare come le storie di quasi tutti i paesi siano macchiate di sangue, ma quello a cui forse poco consciamente l’attore di Ben Hur si riferiva era la cultura Americana derivata dalla sua particolare storia di conquista e indipendenza. L’idea del Grande Paese America da difendere ad ogni costo, ognuno per sé se serve. Insita nel patrimonio Americano vi è non a caso l’idea di popolo eletto, portatore del bene e della libertà. E allora come si potrebbe privare delle libertà individuali i propri cittadini?

Dei recenti sondaggi mostrano come la maggioranza della popolazione sia ancora favorevole al possesso di armi, ma al contempo più del 50% degli americani sarebbe favorevole a qualche norma di tipo restrittivo (non troppo rigida ovviamente). Legislativamente il processo è ora difficile dato il senato in mano ai Repubblicani e anche nella prossima tornata elettorale sono pochi i candidati fortemente contrari alla armi. Ammesso e non concesso che sul piano delle leggi qualcosa possa cambiare, in futuro non è dato sapere se cambierà la cultura Americana e il bisogno di sicurezza dei suoi abitanti. Unico dato confortante è che il numero degli omicidi e delle armi possedute è comunque leggermente in calo negli ultimi anni.

Però, in conclusione, è lecito domandarsi quanti altri innocenti dovranno essere sacrificati sull’altare del dio delle armi per continuare a tenere alzata la bandiera della libertà.

Tommaso Meo

Le opinioni sono personali.

Grant Wood (Anamosa, 13 febbraio 1891 – Iowa City, 12 febbraio 1942)

Tutti conoscono Grant Wood per il suo dipinto American Gothic (1930), diventato quasi un’icona del ventesimo secolo. L’enorme fortuna di quest’opera ha però purtroppo messo in ombra la figura stessa di questo grande artista al di fuori degli Stati Uniti d’America. Read more