L’informazione ai tempi dei social e Google: guerra tra vecchi e nuovi idoli

«Non perdi mai di vista il tuo cellulare. La tua tuta da jogging è dotata di una tasca speciale per il cellulare, e non lasceresti mai quella tasca vuota così come non andresti mai a correre senza le tue scarpette. Di fatto, senza cellulare non andresti da nessuna parte» 1.
C’è un sapore amaro, anche se quanto mai veritiero, nelle parole che Zygmut Bauman scrive in Amore liquido, dove, tra i temi trattati, c’è anche un’ampia riflessione sui nostri “nuovi idoli”: internet, social e cellulari.
Divinità che hanno portato nelle nostre vite la prossimità virtuale, universalmente e permanentemente disponibile grazie alla rete elettronica2 e connessioni umane al contempo più frequenti e più superficiali, più intense e più brevi per potersi condensare in legami3.

Non solo, internet e social network hanno determinato un taglio netto con il nostro tradizionale modo di informarsi e sapere che cosa accade nel mondo: chi di noi legge ancora i giornali? O magari anche più di un giornale, per cercare di avere punti di vista diversi della stessa notizia, in modo da maturare un’opinione personale su quanto letto?
È sempre più raro che qualcuno legga dalla prima all’ultima pagina un giornale: la mattina, appena ci svegliamo, la prima cosa che cerchiamo è il cellulare, che non perdiamo mai d’occhio (come dice Bauman) e che è la nostra prima fonte di informazione. Quindi cominciamo a scorrere Facebook, poi andiamo su Google, poi sui quotidiani online, con il risultato di avere un’informazione sempre più frammentata, incompleta e direi anche filtrata sulla base di ciò che ci piace o non ci piace.

Sì perché il famoso algoritmo di Facebook funziona proprio così: ci mostra i contenuti che ci piacciono e ci interessano. Come fa a sapere quali sono? Semplice: a cosa servono secondo voi like, faccine e cuoricini?
Ma questa è davvero informazione? E soprattutto è informazione democratica?
Di recente è stato proprio un giornalista, Nicola Zamperini, a trattare questo argomento in un recente articolo dal titolo Pubblicità online e la fine della preghiera dell’uomo moderno.
Nel suo pezzo, Zamperini pone l’accento sul fatto che Facebook e Google rappresentano di fatto, oggi, la concorrenza alla stampa.
Ma con una differenza di fondo: a Google e Facebook non interessa la notizia, il giornalismo e meno che mai i giornalisti. Importa solo il contenuto. E il contenuto può essere una notizia, un video, una foto, una storia, una bufala, una leggenda.

«Accendiamo il talismano -smartphone per rivolgere la nostra preghiera quotidiana agli oracoli tecnologici: interroghiamo il motore di ricerca e ci rivolgiamo ai social network. E a nulla vale dire che lì dentro abitano anche le notizie. Sono notizie affogate, annaspano senza ossigeno, mescolate a molto altro»4.

E non è solo il valore della notizia a decadere, ma anche tutto il contesto in cui la carta stampata, la radio o la tv inseriscono una notizia.
Un contesto dove, come scrive Zamperini, vive uno sguardo su un paese e sul mondo e il lettore trova notizie e articoli spalleggiati da altri contenuti che ampliano l’opinione di un fatto, permettono di approfondire e rifllettere.

«Le notizie, nel social network e in qualunque aggregatore, si riducono a testi senza alcun legame con il contesto, con la sostanza delle cose, senza alcuna connessione con altro che non sia un articolo correlato pubblicitario»5.

Il contenuto dei social network non è una notizia: il contenuto informa come può informare una particella elementare che vagola in attesa di un’attenzione libera da altre costrizioni, e dunque vagola in attesa di un essere umano che, tra un gattino e un imprecazione contro i migranti, vi dedichi il tempo minimo e indispensabile a coglierne il significato base.6

Non molte settimane fa infine, Zuckerberg ha dichiarato in un post di voler approntare grossi cambiamenti al social network su cui ormai sono iscritti oltre 2 miliardi di persone.
In particolare sei sono i pilastri di cui il CEO ha parlato per la suona nuova “visione”: le interazioni private, il criptaggio, la riduzione dei tempi di permanenza dei contenuti, la sicurezza, l’interoperabilità, l’archivio sicuro dei dati.
Per dirla in parole povere sembra si stia andando nella direzione in cui Facebook, da un social network dove la gente può inviare informazioni a un ampio gruppo di persone, diventerà uno spazio dove comunicare con gruppi più ristretti e vedere il proprio contenuto sparire dopo un breve periodo di tempo.
Fantastico, no? Più privacy, più sicurezza, potremo pensare… Sicuramente, ma anche meno democrazia e senso critico mi viene da dire!
Perché se è vero che il social network sta diventando ormai il nostro unico parametro di verità, e il futuro che ci attende non va nell’ottica di una pluralità, ma in quella di gruppi ristretti, allora come potremo davvero sapere se le informazioni che leggiamo sono vere e autentiche?

Siamo entrati in guerra: una guerra tra vecchi e nuovi dei, un po’ come in American Gods, la serie tv dove le antiche dività guidate da Odino si scontrano con le nuove: una di queste è proprio il Ragazzo Tecnologico.
Non è necessario, a mio parere, che vinca una parte e muoia l’altra. Le due potrebbero convivere: perché abbiamo sempre una sorta di ansia di cancellare quanto del passato è stato cosa buona e giusta?
Cerchiamo invece di diventare semplicemente più consapevoli che esistono entrambe le vie: il giornalismo e le notizie, i contenuti e la rete.
L’industria culturale nel suo complesso e i giornali stessi combattano e dedichino tempo per la loro sopravvivenza: noi, dal canto nostro, dedichiamo tempo alla comprensione di quanto leggiamo in rete, cercando di sfogliare il giornale ogni tanto, magari confrontandolo con quanto letto sul web e traendo le nostre conclusioni.

 

Martina Notari

 

NOTE:
1. Z. Bauman, Amore liquido, edizione Laterza 2019, p.82
2. Ivi, p.85
3. Ivi, p.87
4. A questo link potete leggere l’articolo di Nicola Zamperini.
5. Ibidem
6. Ibidem

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Riflessioni circa scrittura ed architettura: del senso, dello spazio

Victor Hugo era molto appassionato di architettura tanto che definiva quest’arte “regina”; era più di tutto attratto dalle città medievali poiché ne percepiva l’unità, la forza interna, l’ “organicità” medievale, che era ai suoi occhi un ideale perduto.
C’è un intero capitolo in Notre Dame de Paris, “Paris à vol d’oiseau”, che esprime perfettamente l’intuizione di questo attento scrittore: «Non era soltanto una bella città; era una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medio Evo, una cronaca di pietra».
Nel capitolo “Ceci tuera Cela”, Victor Hugo andò ancora oltre, sviluppando una vera e propria filosofia dell’architettura.
Le poche pagine in cui paragona l’architettura ad un linguaggio, oltre ad essere illuminanti circa la funzione storica dell’architettura medievale, costituiscono un prezioso monito.
Victor Hugo ha scritto il saggio più illuminante che sia mai stato scritto sull’architettura.

«Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio». Le enigmatiche parole dell’arcidiacono, nella loro lucida perentorietà, hanno forse bisogno di essere interpretate. Sicuramente esprimono nel contesto del romanzo il pensiero di un prete, il terrore del sacerdote dinnanzi alla tecnica, alla stampa.
Ma c’è una lettura più profonda che comprende l’osservazione del cambiamento in atto che a noi interessa particolarmente: Victor Hugo aveva capito che l’architettura era un linguaggio e aveva intuito che non si sarebbe più scritto nello stesso modo e con gli stessi mezzi.
La stampa, la nuova arte, stava per detronizzare l’altra, la più antica: l’architettura.
Da un libro di pietra, l’uomo si sarebbe affidato ad un libro di carta per tramandare la sua sapienza ed esperienza.
Dall’origine delle cose fino al secolo XV dell’era cristiana, l’architettura era infatti il gran libro dell’umanità, la principale espressione dell’uomo nei suoi diversi stadi di sviluppo.
I primi monumenti furono massi di pietra, non tagliati, anzi come disse espressamente Mosè, “che il ferro non aveva toccati”.
L’architettura cominciò così a compitare il suo alfabeto, partendo dai rudimenti della sua scrittura: i massi, la pietra alzata dai Celti.
Più tardi si fecero parole, combinando sillabe di granito.
Il dolmen e il cromlech celtici, il tumulo etrusco e il galgal ebraico, sono parole.
I tumuli invece, sono nomi propri.
E poi si fecero interi libri, le tradizioni avevano elaborato dei simboli sotto i quali la nuda pietra andava scomparendo, rivestendosi invece di significato.
Allora l’architettura si sviluppò a pari passo col pensiero umano, fissando tutto quell’universo simbolico fluttuante in forma eterna, visibile e palpabile.

L’idea madre: il verbo, era nella loro forma. Il tempio di Salomone non era la rilegatura del libro santo, era il libro santo stesso.
E così fu fino a Gutemberg, l’architettura rimane la principale scrittura.
Di questa scrittura si possono distinguere due forme storiche: l’architettura di casta, teocratica; e l’architettura “del popolo”, paradossalmente più ricca, e meno consacrata.
Tra le due vi è la differenza che intercorre tra una lingua sacra, rara, dotta e precisamente codificata, dove nessuna parola deve cadere a vuoto e nessuna ricolatura è concessa poiché ha il potere di legare e sciogliere, di fare atto ciò che nomina e dice; è una lingua volgare, quotidiana, funzionale in continua evoluzione e contaminazione con gli eventi.
Nel secolo XV tutto cambia, il pensiero umano scopre un mezzo più duraturo e più facile: le lettere di Gutemberg.
L’invenzione della stampa è la rivoluzione madre: è il modo di esprimersi dell’umanità che si rinnova completamente, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne riveste un’altra.
Da qui in poi, l’architettura si atrofizza e si denuda; inizia quella meravigliosa decadenza che noi chiamiamo Rinascimento.
A volte le albe e i tramonti si assomigliano.
Con il tramonto dell’architettura, infatti, le altre arti hanno più spazio e iniziano il processo di emancipazione da questa che era sempre stata l’arte tiranna che a sé tutte sottometteva.
L’isolamento ingigantisce ogni cosa: la scultura si fa statuaria, l’iconografia pittura, il canone musica.

Ritornando a Parigi, e al xv secolo bisogna ribadire che era non tanto una bella città, quanto una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medioevo, una vera cronaca di pietra.
Ma quale Parigi l’ha mano a mano sostituita?
La Parigi di oggi è difficile da descrivere e definire, non ha più una fisionomia generale, appare invece come una collezione di elementi eterogenei.
La capitale si estende solo per il numero di case.
Questo ci riconduce ad un altro fondamentale cambio di guardia: il secolo XVIII.
Il Settecento ha ridefinito cosa fosse la città, e l’ha tramutata di sistema di reti e rapporti, ad un agglomerato di cose ed edifici.
Dalla città delle persone e degli scambi, alla città delle strutture.

Laura Ghirlandetti

Laura Ghirlandetti, 1983.
Filosofa on the road con base a Milano, teatrante, e cittadina mediamente attiva.
Ha due blog ed un canale You Tube.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Cogliere le informazioni sulla salute: sappiamo come leggere un articolo di giornale?

Gli articoli relativi alla salute spopolano in giornali, riviste, blog ecc., proponendoci informazioni molto varie relativamente alla scoperta di nuove malattie, di recentissimi approcci terapeutici o focalizzandosi sulle proprietà salutari di qualche alimento. Queste fonti informative sono essenziali per tutti noi, poiché riescono a donarci strumenti e consigli tramite i quali possiamo contribuire a preservare la nostra salute o correre ai ripari, se essa viene compromessa da qualche malattia. Nonostante ciò, tutti noi abbiamo avuto modo di sperimentare quanto queste forme divulgative siano molto difficili da interpretare: per fare un breve esempio, spesso si legge su alcune riviste quanto faccia bene mangiare la cioccolata, ma il mese successivo potremo imbatterci in un articolo pubblicato probabilmente nella medesima testata che sostiene esattamente il contrario. Tale situazione si avvera in virtù del fatto che gli articoli in questione richiamano studi condotti in qualche università, senza mai scendere troppo nel dettaglio di chi ha condotto veramente quegli studi, su chi li ha finanziati e, quasi sempre, senza fornire alcun dato reale che possa in qualche modo giustificare “scientificamente” il contenuto stesso dell’articolo. A tutto questo bisogna anche aggiungere che frequentemente si avvera pure la situazione contraria, ovvero gli articoli divulgativi vengono redatti con terminologie troppo “auliche” per essere interpretabili da chi non possiede alcuna base scientifica o specifica della materia di cui si tratta.

A questo proposito due studiosi italiani, Paolo Legrenzi e Carlo Umilità, all’interno di un notevole libro dal titolo Neuro-Mania mettono in luce come alcune forme patologiche vengano presentate in giornali divulgativi, quotidiani e settimanali non d’interesse medico, corredate da informazioni neuroscientifiche che ne accentuano i risultati. In particolare i due mostrano come i dati indicati a supporto delle patologie siano in molti casi parziali e mal scritti, ovvero la specificità e la complessità degli stessi è talmente elevata che potrebbe essere compresa solo da uno strettissimo numero di addetti ai lavori. Per confermare la loro tesi riportano alcuni studi che hanno messo in mostra la qualità delle credenze delle persone relativamente alle neuroscienze; in particolare essi si soffermano su uno studio eseguito dall’università di Yale [1] tendente ad accertare se un’eventuale predilezione per le spiegazioni neuroscientifiche affondi o meno le proprie radici nei modi di rappresentazione del mondo da parte del grande pubblico. Lo studio ha rivelato che una spiegazione, se corredata da indicazioni “neuro”, anche se generiche, ha più appeal nei lettori rispetto ad una tesi non supportata da tali dati. Inoltre, ha messo in luce come nessuno, tranne gli esperti del settore, riesca a cogliere la differenza tra dati corretti e sbagliati, poiché il solo presupposto che la tesi sia giustificata e supportata da dati “neuro” è sufficiente per riporre fiducia in tale tesi. Ciò comporta che la propaganda sui risultati ottenuti della prospettiva “neuro” è riuscita a persuadere gli animi del grande pubblico sulla validità oggettiva delle tesi espresse. A questo proposito Legrenzi e Umiltà asseriscono: «bisogna essere davvero esperti per non farsi ingannare. Per tutti gli altri, e cioè la grande maggioranza delle persone, l’aggiunta dell’informazione neuro, di per sé corretta, fa la differenza. La differenza che corre tra una spiegazione credibile e una ritenuta sbagliata. In altre parole, la spiegazione sbagliata diventa credibile grazie all’arricchimento neuro che ha, per così dire, un potere salvifico. Le persone tendono a fraintendere il senso di tale arricchimento, che trasforma in spiegazione soddisfacente quella che, in sua, non lo è. In altre parole l’informazione neuro è un valore aggiunto che rende credibile qualcosa di fasullo» [2].

Tale situazione viene ribadita dagli studi di Jörg Blech, giornalista e divulgatore scientifico-medico per Der Spiegel, il quale sostiene che gli articoli che si trovano in molte riviste non specializzate spesso vengono scritti da giornalisti che, seppur molto bravi nel fare il loro lavoro, non se ne intendono di medicina. A questo proposito scrive: «molte delle notizie diramate della stampa sono riprese dai giornalisti in maniera assolutamente acritica. Possibili terapie vengono di colpo strombazzate come se fossero rimedi sensazionali, ma nella maggior parte dei casi dopo un po’ di tempo non si ha più notizia di esse. La tendenza all’esagerazione è una malattia professionale di molti giornalisti che si occupano di medicina: spesso, per far sembrare importanti e significativi i loro servizi, essi gonfiano i dati sulla diffusione di certe malattie e il pericolo che queste possono costituire» [3]. Su questo tema sono stati scritti innumerevoli articoli e Blech sceglie di giustificare la sua affermazione facendo riferimento allo studio condotto dall’Harvard Medical School pubblicato nel giugno del 2000 [4], nel quale venivano esaminati 207 articoli riguardanti tre farmaci, pubblicati nel Wall Street Journal, nel New York Times, nel Washington Post, in altri 33 giornali e apparsi sulle principali televisioni nazionali. I risultati furono molto chiari: nel 40% degli articoli mancavano dati e cifre sull’asserita efficacia dei farmaci, inoltre nei rari articoli che riportavano qualche cifra si parlava solo dei dati sull’utilità relativa dei farmaci. Nella quasi totalità degli articoli non si parlava né degli effetti collaterali né si riportavano gli esiti di altri studi; in più, quando l’articolo era scritto da un esperto della materia non si riportava mai se esso avesse qualche rapporto o legame finanziario con i produttori di farmaci.

Il piccolo spunto di questo articolo mira a porre una domanda banalissima: siamo sicuri di saper leggere un articolo medico riportato in un giornale? Riusciamo, cioè, a selezionare gli aspetti principali di tali articolo e ponderare l’idea che ci faremo leggendo lo stesso, cogliendo quando si tratta di un messaggio rilevante e quando invece non lo è?

Tale ragionamento risulta banale solo all’apparenza, poiché tutti noi leggiamo una marea di notizie e scegliamo quelle che ci convincono maggiormente; tuttavia, quando si tratta di salute è necessario farsi qualche domanda in più prima di sposare una particolare tesi riportata in uno dei nostri giornali preferiti, in particolare è necessario capire esattamente da quale fonte proviene l’informazione, quali dati esistono a supporto e chi ha prodotto (e con quali interessi) gli stessi, e soprattutto se tali articoli sono scritti in modo da essere oggettivamente compresi anche da chi non si trova tutti i giorni a lavorare o leggere di queste particolari forme patologiche.

In conclusione è possibile affermare che comunicare la salute è di certo un’attività difficilissima, ma allo stesso tempo recepire le informazioni sulla salute e saperle soppesare con buon senso è forse uno dei maggiori sforzi che ognuno di noi, tutti i giorni, è chiamato a compiere.

Francesco Codato

NOTE
1. Cfr S. Birch, P. Bloom, The curse of knowledge in reasoning about false beliefs, in “Psychological Science” n. 5, 2007;
2. P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuro-mania, Il Mulino, Bologna 2009, p. 71;
3. J. Blech, Gli inventori delle malattie, Lindau, Torino 2006, p. 59;
4. Ibidem, pp. 59-60.

Lo schermo del quotidiano: quando il cinema racconta il giornalismo

Provate ad immaginare che il giornalismo ed il cinema siano come due conoscenti di vecchia data. Non si può dire che siano grandi amici, diciamo che si conoscono e di frequente si vedono, anche se ognuno teme e non si fida mai fino in fondo dell’altro. Non possono andare avanti se non sono strettamente connessi, ma appena possono colgono l’occasione per screditarsi a vicenda, cercando di mettere l’amico-nemico in cattiva luce. Uso questa metafora per semplificarvi un rapporto che è in realtà molto più complesso di così e che dagli Anni 40 del secolo scorso, va avanti con risultati tanto affascinanti quanto altalenanti.
Tutto ebbe inizio quando Howard Hawks girò nel 1940 “La signora del Venerdì” con l’insuperabile Cary Grant. Una commedia frizzante in cui emerge il ruolo della stampa che si muove nel sotterfugio e nella meschinità grazie al memorabile ruolo di Rosalind Russell qui nelle vesti di una giornalista brillante e divorziata dal marito che per sua sfortuna però è anche l’editore capo del giornale in cui lavora. Intenzionato a fare di tutto pur di farle perdere il posto di lavoro e a impedire la nascita di un suo nuovo amore, Cary Grant darà vita a una serie di memorabili situazioni. La critica alla stampa si rivolge qui alla bassezza morale degli editori che preferiscono anteporre le loro vicende sentimentali alla vera caccia alla notizia. E’ solo nel 1941 però che il giornalismo entra nella vera storia del cinema grazie ad Orson Welles e al suo “Quarto potere”, considerato da molti come il miglior film del Novecento. Protagonista assoluto è il magnate della stampa Charles Kane, un uomo che “è un’autorità quando si tratta di far pensare la gente nel modo in cui lui ha deciso”. Una storia in realtà di grande solitudine, che racconta come il potere smisurato che i mezzi d’informazione possono offrire, sia in realtà un’arma a doppio taglio capace di logorare ogni uomo. Il cinema si è poi divertito a screditare nel corso degli anni la figura del giornalista, quasi a volersi vendicare delle molte critiche che la stampa ha sempre scritto nei confronti della Settima Arte. Un esempio su tutti è il film del 1992 “Occhio indiscreto”,con un ottimo Joe Pesci nel ruolo di fotoreporter invischiato nei malaffari della vita newyorchese. Un personaggio meschino che pur di arrivare per primo sul luogo della notizia di cronaca nera sarebbe disposto a compiere i crimini peggiori. E non è l’unico caso: film come “Prima pagina”, o “Sbatti il mostro in prima pagina” sono solo alcuni degli esempi che ribadiscono quanto detto finora.
Se però pensiamo al cinema che racconta il giornalismo, a molti di voi verrà in mente un titolo su tutti. Mi riferisco ovviamente a “Tutti gli uomini del presidente” di Alan J. Pakula, la pellicola che ripercorre le vicende che hanno portato alle dimissioni del presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, vincitrice nel 1976 di ben 4 premi Oscar. Il suo merito fu quello di raccontare con coraggio e diretta semplicità uno dei fatti più importanti della storia americana nel Novecento. Senza prendersi alcun merito, ma riconoscendo il giusto e grandissimo valore dei giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein, interpretati magistralmente da Robert Redford e Dustin Hoffman. Più che un film, un vero e proprio reportage cinematografico su un pezzo di storia del giornalismo. Quello vero, questa volta. Quello che anche Umberto Eco racconta nel suo ultimo libro. Quello infine che ama indagare sulla Storia per metterne a nudo i fatti e arrivare alla verità più pura da raccontare al pubblico. Citando lo slogan della rivista Life: “Vedere il mondo, attraversare i pericoli, guardare oltre i muri, avvicinarsi, trovarsi l’un l’altro e sentirsi”. Questo dovrebbe sempre essere lo scopo del giornalismo.
Alvise Wollner
[immagini tratte da Google Immagini]