Kandinskij e lo spirituale nell’arte

Vi siete mai chiesti come mai la musica e l’arte astratta a volte ci affascinano di più, ad esempio, di un ritratto o di un dipinto che raffigura un paesaggio? Se la risposta a questa domanda è affermativa, potreste trovare molto interessante e intellettualmente stimolante il saggio Lo spirituale nell’arte (1910) del pittore e teorico del Novecento Kandinskij.

Secondo Kandinskij, infatti, l’arte deve rispondere ad una necessità interiore, ovvero essere intimamente necessaria. In questo senso, in pittura, piuttosto che servirsi di forme materiali per rappresentare fisicamente la natura, bisognerebbe considerare la forma e il colore come energie interiori, energie psichiche che trascendono il mondo materiale e parlano all’interiorità, ovvero allo “spirituale”.

Questa considerazione spiega anche perché Kandinskij cerchi di trovare un parallelismo tra musica e pittura, e porti avanti l’ambizioso progetto di ideare una teoria dell’armonia in pittura analogamente a quella che è la teoria dell’armonia in musica. La musica, a differenza della pittura rappresentativa, non si serve infatti di forme esteriori che rappresentano la realtà, ma esclusivamente di forme interiori, sue proprie, che esprimono il sentimento dell’artista in maniera astratta. In questo senso si può capire perché per Kandinskij la musica sia molto più vicina allo spirituale di quanto non lo fosse la pittura nel 1910, quando il saggio è stato scritto.

Tuttavia, il nostro pittore è molto ottimista relativamente al destino della pittura, in quanto ritiene che, ispirandosi alla musica e ai mezzi che essa usa, sarà destinata a diventare sempre più astratta, svincolandosi così dalla rappresentazione della realtà, e trovando unicamente nelle forme e nei colori usati in maniera pura l’espressione dei sentimenti e dello spirito dell’artista. Mi pare innegabile che il genere umano, in ogni sua individuazione spazio-temporale, stia attraversando un’epoca di grande crisi, che si configura come declinata su due fronti, quello spirituale e quello materiale.

Relativamente al primo, la religione ha perso le capacità di dare una risposta alle angosce dell’uomo moderno, complice anche una preparazione sacerdotale spesso ottusa e dogmatica; inoltre, l’arte e la filosofia paiono arroccate su posizioni sempre più istituzionali, al punto che si è persa la loro considerazione pratica e quotidiana.

Relativamente al secondo, l’attuale crisi legata al Covid-19 sta mettendo in evidenza tutti i limiti della sfera politica e scientifica, che traballa nell’incertezza di fronte ad un nemico oscuro e terribile che sta rovinando la vita di molte persone. Per evitare fraintendimenti, va detto che molto è già stato fatto dalla scienza e della politica relativamente alla cura e alla gestione di questo coronavirus. Tuttavia, la recente diffusione e proliferazione della variante delta in Gran Bretagna sta dimostrando che il Covid-19 può avere ancora effetti sconosciuti e imprevedibili.

Nonostante la criticità delle situazioni summenzionate, io penso che l’invito di Kandinskij a guardare nell’interiorità come sede della “necessità interiore” e dello “spirituale” sia quanto mai attuale. Chi apprezza l’arte o si dedica ad essa potrà trovare nella sua arte un valido elemento sostitutivo o integratore della religione professata. Inoltre, anche se non è più possibile assistere ad un concerto, visitare un museo o andare al cinema, l’arte non cessa di parlare all’interiorità libera e priva di dogmi e pregiudizi dell’artista, proprio perché, come Kandinskij ci ricorda, la vera sede dell’umano è lo spirituale e non il materiale. Inoltre i disagi psicologici che questa pandemia sta creando in ogni fascia di età possono forse trovare un’utile catarsi nella dimensione artistica, capace di portare o riportare senso e significato in situazioni esistenziali davvero drammatiche.

Chi non ama l’arte, può trovare comunque utile la rivalutazione della propria interiorità e spiritualità, che ovviamente può declinarsi in qualsiasi forma, anche non artistica. In questo senso, in un’epoca sempre più segnata da un egoistico consumismo sfrenato, si può rivalutare il misticismo religioso o l’impegno politico e sociale basato non sulla ricerca del potere, bensì su profonde convinzioni etiche e sull’autentico desiderio di fare qualcosa di utile per gli altri.

In sintesi, ritengo che Kandinsky e la sua arte abbiano ancora molto da dirci anche oggi, e che abbiano segnato una vera e propria pietra miliare nella storia dell’arte e del pensiero.

 

Francesco Breda

 

Dai 10 ai 22 anni ho studiato al Conservatorio di musica, dove mi sono diplomato in pianoforte con 10 e lode e ho conseguito brillantemente il Compimento medio di Composizione. Ho quindi studiato privatamente direzione d’orchestra per tre anni e mi sono laureato triennale in Filosofia con 110 e lode. Sono risultato finalista in un’edizione del concorso internazionale di composizione musicale “Maurice Ravel” e ho ottenuto una menzione speciale. Recentemente ho conseguito la più alta e prestigiosa certificazione rilasciata dall’università di Cambridge per la conoscenza della lingua inglese, ovvero il C2 Proficiency. Con l’editore Danilo Zanetti in Montebelluna ho pubblicato un libretto di mie personali riflessioni sulla musica e la filosofia, intitolato “De musica et philosophia”. Con il medesimo editore un altro mio libretto è al momento in fase di pubblicazione.

 

[Immagine copertina licenza Creative Commons]

Di pensier in pensier, di monte in monte

Ho avuto occasione, durante i primi del giorno del nuovo anno, di parlare con alcuni conoscenti che hanno passato il loro Natale “in montagna”.

Mi sono sempre chiesto: «Come mai sono il mare e la montagna, le maggiori mete di turismo?».

Una risposta mi è venuta dalle Ville Palladiane, costruite per i nobili veneziani che, nel periodo autunnale, si trasferivano dalla Laguna all’entroterra – esattamente il contrario di quanto, per la maggior parte, avviene oggi. Studiandolo, ho compreso che il turismo era ed è, come ogni mercato di beni o servizi, influenzato dalla platea di chi lo pratica.

Quindi, come ai tempi del Palladio il turista era il nobile lagunare che, quando poteva, cercava di allontanarsi da un paesaggio a lui familiare, così oggi, essendo riferibile alla borghesia e la middle class urbana, è ovvio che chi può permettersi di fare una vacanza, sceglierà di andare lontano dall’ambiente cittadino, eleggendo luoghi diversi.

E tuttavia, il mare mi pare, a livello sociologico, una meta più recente rispetto a quella, per esempio, della collina (tipologia di turismo praticata dalle classi abbienti dal Medioevo in qua – si veda dov’era ubicata la villa dei giovani del Decameron): daterei questo interesse per il mare al XVIII secolo, con i Grand Tours diretti in Italia.

Ma più antico di tutti, è il viaggio in direzione della montagna. E badare che ho detto “viaggio”, non “turismo”. Ma è una sottigliezza di cui non ci occuperemo qui.

La montagna è il più antico luogo di ritiro personale dalle pesantezze della vita quotidiana, e per ragioni non meramente ambientali, ma sinanche filosofiche, antropologiche e spirituali.

In molte delle civiltà che si sono susseguite durante l’atipico scorrere del tempo detto storia, il monte è stato considerato uno spazio privilegiato per l’autorivelazione del proprio Io, e per il rapporto diretto con la Divinità: pensiamo, per esempio, al folklore greco antico.

Qualora, poi, volessimo avvicinarci alla cultura che più permea la nostra, cioè quella giudaico-cristiana, noteremo che, anche in essa, il monte sembra rivestire il ruolo di medium tra Sacro e mondano. La Bibbia è ricca di riferimenti ad alture, montagne e rilievi: sono, queste, le località che Iddio predilige per dare manifestazione di Sé.

Ognuna delle varie epifanie bibliche deve essere, naturalmente, letta alla luce del provvidenziale disegno della Rivelazione; compiendo una riflessione di carattere teologico, si può ricordare che la Salvezza dell’uomo, e la sua Alleanza con il Signore, procede attraverso tre passaggi fondamentali: la fase della legge (Mosé), quella della profezia (che potremmo riassumere con Elia) e quella, finale, dell’amore (Cristo). Ebbene, non si sbaglierà nell’asserire che ciascuno di questi tre momenti della Redenzione hanno simbolico culmine in luoghi elevati. La vicenda di Mosè, per esempio, è tutta racchiusa nel contatto con Dio su due montagne, la vocazione sull’Oreb1. e la consegna del Decalogo sul Sinai2; e ancora Elia, principale tra i profeti, ha un’esperienza teofanica sul Carmelo3; Gesù Cristo, a sua volta, inizia la predicazione con il “discorso della montagna”4, si manifesta, trasfigurato, come unione di legge e profezia su un’alta montagna5, muore sul Gòlgota6, ascende da un monte7.

Data questa evidente preferenza teofanica per monti e alture, non stupisce che, nel corso della storia della spiritualità cristiana, le zone alte siano state il punto di ritrovo di coloro che, tra tutti i credenti, più hanno cercato di inverare il messaggio cristiano: i monaci.

L’isolamento dalle vicende mondane, la prossimità altimetrica alla Divinità, il tutto accompagnato da una solida tradizione biblica: sono queste le caratteristiche fondamentali che fanno dei monti non solo un mero rilievo morfologico, ma un vero e proprio luogo dell’anima.

Ma questa passione per le montagne non è solo occidentale. Anzi, laddove era più forte il senso del Sacro, più netto e centrale sarà il ruolo che i simboli assumono nella definizione progressiva della mentalità singola, della costituzione dell’ordine sociale e, eventualmente, dell’ordinamento statale.

Non può stupire, dunque, che il mondo bizantino abbondasse di Sante Montagne, la più importante delle quali è il Monte Athos, in Calcidica, centro monastico “ultimo erede dell’Impero” ancor oggi attivo; d’altronde, se l’Impero Bizantino era, tra tutte, la Nazione eletta a glorificare Iddio per mezzo del suo Vangelo, come possono, in tale provvidenziale entità, mancare luoghi simbolicamente adatti a rapportarsi quanto più strettamente possibile al Signore? A Bisanzio, in un certo senso, dovevano esserci Sante Montagne.

E non citerò la Spiritualità Tibetana o le tradizioni sherpa, che vedono nelle montagne di Himalaya e Karakorum dei veri e propri tabernacoli.

In conclusione, non intendiamo qui affermare che ogni viaggio o vacanza in montagna dovrebbe essere considerata (non siamo Thomas Mann!) un’occasione di autoanalisi, né tantomeno d’una ierofania. E tuttavia, questo sì lo diciamo, il monte, di per sua essenza, invita alla riflessione più di quanto non facciano luoghi più “bassi”: forse perché la montagna è più solitaria, forse perché la pervade un silenzio maggiore, e il silenzio obbliga a pensare, forse perché s’è più vicini a Dio.

Insomma, la montagna è più filosofica del mare, e ti obbliga a filosofare di più.

Ed è forse per questo (perché la filosofia non è mai, come tutte le necessità, piacevole o rilassante) che la maggior parte delle persone preferisce il mare.

Forse per questo io preferisco le terme.

 

David Casagrande

 

NOTE:
1. Esodo 3, 1-6.
2. Esodo 19, 2-3.
3. Primo libro dei re 19, 8-13.
4. Matteo 5.
5. Marco 9, 2-8.
6. Marco 15, 22.
7. Matteo 28, 16.

Il mondo è bello perché è vario

“Chi sa non parla”, diceva Lao-Tzu, e per molto tempo sono stato propenso a credere fermamente in questa asserzione. Ma come ogni altra cosa le idee sono mobili e le convinzioni sempre opinabili, giacché è difficile incontrare nel mondo terreno un essere dalla mente stolida e onnisciente. Il sapere – o almeno l’autostima che questo malleabile sistema psichico-emotivo suscita in chi crede di possederlo – si configura nel continuo e instancabile movimento delle sinapsi e della volontà, la quale orienta l’interesse della persona verso questa o quell’altra direzione a seconda delle necessità di una data coordinata spazio-temporale. In questo senso il sapere non è mai definitivo, sia perché noi per primi siamo esseri limitati da un’architettura fisiologica e culturale che rende numerabile la qualità dei nostri pensieri, sia perché una congettura non è mai separabile dall’interferenza strumentale e precritica del soggetto considerante, al punto che capita ogni tanto che qualcuno capisca solo quel che vuole capire.

Considerato ciò, diventa difficile, se non ipocrita, dogmatizzare il sapere come una competenza astratta, completa e sempre giusta, cui ci si può comodamente appellare dopo qualche anno di studio; esso è invece sempre diveniente e irrequieto, sempre curioso di scovare altre domande da porre e di scoprirne le possibili risposte, dal momento che una sola è spesso insufficiente. Ne deriva che l’essere umano, in quanto animale razionale capace di astrazione e pensiero associativo che creano almeno delle parvenze di sapere, è un essere in fieri, sempre spossato dall’incompletezza, per il quale fermarsi a venerare un unico idolo equivale in un certo senso alla morte storica e produttiva, alla stanchezza morale. L’essere umano si significa continuando a camminare, a intervenire, a indicare il proprio male per porvi rimedio, e sebbene si pensi che la saggezza più ammirabile si riscontri, ad esempio, nel raccoglimento pacifico di un tempio tibetano, in realtà la sola interiorizzazione rischia di compromettere radicalmente la propria prassi significante del mondo, quella prassi che cioè evoca sempre formule inedite per esercitare un dominio operante e partecipe della nostra civiltà.

Occorre precisare che la succitata frase di Lao-Tzu è da inserirsi nel suo particolare contesto, in quanto il silenzio del saggio è per il filosofo dovuto all’inesprimibile e parossistica dialettica di vuoto tutto e pieno nulla che da sola orchestra l’intero universo. In questo senso l’assoluto metafisico diventa solo materia di astrazione, di opinione, di filosofema insignificante, in quanto ogni tentativo di nominarlo cadrà nel fallimento. E non si può che dargli ragione su questo proposito, se non fosse per il fatto che ciò non debba comportare meccanicamente l’abbandono di qualsiasi speculazione. Lao-Tzu disse anche che “Chi non sa parla”, e pure questa è una grande verità, sebbene, lungi da quel che si può credere, è svuotata di qualsiasi carica accusatoria. Nessuno di noi sa, e tutti quanti noi parliamo per comunicare il nostro punto di vista e la nostra esperienza al fine non solo di cercare di organizzare la nostra persona, ma anche di esternarla agli altri e di accogliere in noi le altrui personalità. Se poi interpretiamo la massima nel senso di un consiglio spassionato a coloro che credono di sapere, allora questa si tinge di peccato e svogliatezza, poiché trasforma l’intelligenza in un esclusivismo auto-erotico. L’intelligenza non è premessa della propria elitarietà, bensì responsabilità continua e vacillante che deve soccorrere i naufraghi ispirando i rematori con le migliori direttive. In questo senso, il silenzio del saggio, di colui che sa e che può aiutare, diventa colpa e illusa emulazione di un egoismo divino che di per sé non esiste. Come le particelle atomiche che non sono osservabili se non durante l’interazione tra loro, così anche noi esseri umani nel nostro isolamento restiamo latenti e inconoscibili.

Si può affermare che la Via innominabile di cui parlava Lao-Tzu sia l’eternità; dunque cercare di spiegare l’eternità è cosa impossibile. In effetti non possiamo giungere a una definizione esauriente di questa poiché, di fatto, essa comprende qualsiasi tipo di spiegazione, e quindi nessuna. L’eternità diventa così una specie di noumeno kantiano mancato. Il punto è che l’eternità è l’ambizione atemporale dell’essere umano, il suo amore senza tempo, tanto platonico quanto concretamente stimolante. L’essere umano è volontà trascendentale di eternarsi, qualunque sia l’idea che un individuo si faccia di eternità, e l’impossibilità di raggiungere questo stato è ciò che gli permette di generare interi mondi culturali. L’eternità in questo senso è un cenno continuo, un tentativo tormentato di nominare l’armonia di ogni cosa, e l’afflato speranzoso che vuole solo riscattare le sue colpe, ma che invece non approda mai, definitivamente, da qualche parte. È come la caccia alla balena bianca che ci logora la vita e che può portare un individuo al suicidio qualora non fosse capace di restare coi piedi per terra.

Il cenno è la nostra realtà e la nostra condizione, e l’eternità, l’assoluto e la Via, quelle fantasmagorie fatte di sogno che in virtù di ciò non si realizzeranno mai. Ma in questa dicotomia sta anche quel che permette lo sviluppo ribelle della vita, che invece di deprimersi continua a interagire con la propria terrenità e spiritualità per imparare a conoscersi e accettarsi. Così insistendo si emancipa dalla pigrizia dei morti e debella così il rischio sgomentante di anticiparsi una insensata fine del mondo, quella fine cioè che se da una parte è morte assurda e priva di ragione che sprona seducente a negare la propria prassi domandante, dall’altra è l’apocalisse radiosa di un saggio imperturbabile che nel suo piatto e cosmico silenzio guarda la gente annegare e le stelle collidere.

 

Leonardo Albano

 

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The Sound of Silence

Potrà sembrare strano parlare di silenzio alla fine della stagione più rumorosa e festaiola dell’anno, in un’epoca in cui, specie in una grande città, l’unica occasione possibile in cui riposare un po’ le orecchie è un blackout che metta a tacere condizionatori, televisori, elettrodomestici e tutto ciò che da decenni ormai compone un (quasi) inevitabile e costante rumore di fondo.

Il silenzio, però, non rappresenta solo un momento di pace per orecchie stressate e abusate, né deve essere visto come un vuoto imbarazzante (o addirittura spaventoso) da riempire a tutti i costi. Al contrario, in un’era di dispersione dell’identità personale, di avatar e di discrepanza tra profili pubblici e sé privati, il silenzio rimane tra le ultime possibilità che ci rimangono per gettare uno sguardo nella parte più profonda di noi stessi e secondo le maggiori tradizioni religiose, perfino per entrare in contatto con Dio.

Affascinante in questo senso è la narrazione biblica della storia di Elia, profeta di rilevanza centrale per ebraismo, cristianesimo e islam. Nel Primo libro dei Re, un Elia in fuga attende l’arrivo di Dio che gli ha dato appuntamento sull’Oreb, ma sta a lui discernere la Sua presenza. L’autore del libro racconta dell’arrivo di una tempesta di vento, di un terremoto, di un incendio e commenta ogni volta: «Ma Dio non era nel vento/nel terremoto/nel fuoco» (1Re 19,11-12). Dove il profeta riconosce la presenza di Dio è nel ‘mormorio di un vento leggero’, una presenza discreta e gentile, lontana dalle manifestazioni di potere precedenti, inudibile se non nel completo silenzio.

“Dio è umile”, diceva un sacerdote, “parla solo quando tutti gli altri tacciono”. Non è un caso, quindi, che nell’ebraismo la preghiera più importante della liturgia cominci col comando Shemà!, “Ascolta!” (Dt 6,4), o che la sura, L’aderenza, comandi Iqraa!, “Leggi!” (Corano 96,1), entrambe azioni che richiedono silenzio, apertura a quanto viene suggerito dall’esterno, sforzo di comprensione. Non è possibile, pare, riuscire a raggiungere una dimensione di vera spiritualità a meno di non mettere a tacere ogni voce, interiore o esteriore, che possa distogliere la nostra attenzione dalla ricerca di Assoluto, elemento che ricorre anche negli insegnamenti attribuiti al Buddha Siddhārta Gautama: “Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l’Universo”.

Rimane l’ingombrante interrogativo, però, del perché dovremmo approcciarci al silenzio per recuperare una dimensione di spiritualità che, oggi, si sta ripresentando prepotentemente e violentemente sulla scena mondiale. Tra terroristi che indicono “guerre sante” in umano appalto dell’ira di Dio, politici occidentali che rispondono rimanendo sul pezzo e invocando nuove crociate, leader religiosi che usano il proprio potere per obiettivi fin troppo mondani e fanatici di qualunque culto pronti a uccidere seguendo una sorta di moderno ‘luddismo morale’, abbiamo bisogno di tutto, sembra, tranne che di ‘più Dio’ o ‘più spiritualità’ sul panorama globale.

Forse, però, è proprio per questo che creare silenzio, rientrare in sé e riscoprire una comunicazione con l’io più profondo e con l’Altro è oggi più che mai necessario. In un mondo pieno di gente impegnata a parlare (a gridare) di Dio, ritrovare il modo di parlare con Dio sarebbe tutto sommato una piacevole e insperata novità.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine: Silent Music (Suspension), di Kara Smith, 2014]

 

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Il tenebroso mondo gnostico

Può capitare a tutti a volte di sentirsi ingabbiati, incarcerati, imprigionati in questo mondo e di vedere i nostri desideri calpestati dai suoi abitatori, e di percepire pertanto la realtà che ci circonda come un’entità ostile, estranea, incomprensibile e profondamente maligna. Ma solo gli gnostici hanno saputo fare di questo angosciante sentimento una filosofia sistematica. Secondo questi pensatori, infatti, in questo mondo «tutto è pieno di tenebre… / Tutto è pieno di prigioni; / non c’è via d’uscita, / E si infliggono colpi a tutti coloro che vi giungono» (questo canto e quelli che lo seguiranno sono riportati nel bel libro di H.C. Puech intitolato Sulle tracce della Gnosi).

Per gnosticismo si intende un movimento spirituale e filosofico, le cui radici sono molto probabilmente da ricercare nell’era precristiana, diviso in varie sette e correnti diverse e particolarmente attivo tra il I e il IV sec. d.C. (ma protrattosi, secondo Puech, almeno fino al VII secolo d.C. e in certi casi perfino oltre – i Manichei, ad esempio, sopravvissero fino al XIV secolo, ma si pensi anche ai Mandei, che sono una comunità religiosa tutt’ora esistente), che si propone di far pervenire alla salvezza i suoi seguaci non tanto mediante atti di fede, quanto piuttosto attraverso la conoscenza di come veramente stanno le cose, anche qualora gli scenari dischiusi dalla contemplazione della “verità” siano sconcertanti o terribili da sopportare (gnosis in greco significa per l’appunto “conoscenza”). Tra i maestri gnostici di particolare spicco troviamo Basilide, Valentino, Marcione. Il Cristianesimo nascente combatté ferocemente e con successo questa “eresia” dalle origine sincretistiche, che proclamava di possedere un sapere mistico segreto che, pur essendo stato indicato da Cristo ad alcuni suoi discepoli, sarebbe stato colpevolmente ignorato dalla Chiesa.

Gli gnostici considerano l’uomo come un’anima divina precipitata in quella prigione che è costituita dal corpo (già Platone diceva che il “corpo”, in greco soma, è per l’anima una “tomba”, in greco sema). «Venuto dalla luce e dagli dèi, eccomi in esilio e separato da loro», recita una loro poesia; «Sono un dio e nato dagli dèi, / Brillante, scintillante, luminoso, / Radioso, profumato e bello, / Ma ora costretto a soffrire. / Mi hanno afferrato diavoli senza numero, / Orrendi, e mi hanno tolto la forza. / La mia anima ha perso conoscenza. / Mi hanno morso, tagliato a pezzi, divorato. / […] Contro di me urlano e si lanciano, mi tormentano e mi assalgono…», continua il canto in un crescendo di disperazione.

Del tutto logico, quindi, che gli gnostici, vedendosi incapaci di salvarsi con le proprie mani dal dolore che da ogni lato li assedia e li tormenta, rivolgano a Dio un’accorata richiesta di aiuto: «Possa tu liberarmi da questo profondo nulla, / Dal tenebroso abisso [di questo mondo] […] che altro non è se non tortura, ferite fino alla morte, / E dove né soccorritore né [vero] amico si trovano! Mai, assolutamente mai, [quaggiù] si trova la salvezza; […] / [Non sapendo che cosa fare per salvarmi,] piango su me stesso». Come si può vedere, tristezza, ansia, paura, depressione e un lacerante desiderio di trovare infine una protezione e un riparo sicuro dalle insidie della vita sono le principali tonalità emotive che emergono dai componimenti gnostici.

Sennonché, per gli gnostici, il dio creatore di questo mondo non può salvare. Egli, infatti, proprio come tutti gli dèi celesti minori – che gli gnostici definiscono “Arconti”, cioè “Signori” (dal greco archontes, “governatori” o “comandanti supremi”) – è profondamente malvagio, e non ha alcuna intenzione di tendere la propria mano all’uomo per trarlo fuori dall’incubo in cui è rinchiuso. I versi dell’inno Ad Arimane di Leopardi, pur essendo stati composti per altri scopi e peraltro lasciati incompiuti, possono offrire un perfetto ritratto del giudizio negativo e senza possibilità di appello che è formulato da questa corrente spirituale nei confronti del sommo Autore del­l’uni­ver­so. Qualunque sapiente gnostico avrebbe infatti potuto pronunciare, nel rivolgersi a tale entità minacciosa e malevola, le seguenti parole redatte dal poeta recanatese: «Re delle cose, / autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza, eterno / dator de’ mali e reggitor del moto/ […] Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. [Ma] pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […]. / Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte […]. Non posso, non posso più della vita».

Non è quindi a tale dio che si levano le strazianti preghiere di salvezza formulate dagli gnostici. Esse si rivolgono piuttosto al Dio nascosto e non-creatore che risiede beato “oltre i mondi e oltre i cieli”. Possiamo allora immaginare così il mondo come è visto dagli gnostici: una serie di sfere concentriche, ognuna delle quali (pianeta, stella o cielo che sia) è una sorta di perverso labirinto esistenziale governato da dèi oscuri e colmo di trabocchetti, trappole e vicoli ciechi, nonché infestato da pericoli, nemici e bestie feroci che non vedono l’ora di “fare la pelle” al malcapitato che abbia la sfortuna di imbattersi in essi.

«L’universo materiale» – scrive Hans Jonas nel suo studio intitolato Il principio gnostico – «ossia il dominio degli Arconti, assume [generalmente] la forma di una vasta prigione la cui cella più interna e sotterranea è la terra […]. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci concentrici». I sistemi gnostici più elaborati arrivano a contare fino a 365 di questi “cieli-guscio”, in ognuno dei quali regna «un’attiva forza demoniaca» che non intende solo opprimere, tiranneggiare e ostacolare le anime dei vivi, ma anche quelle dei morti: «come guardiano della sua sfera, ogni arconte sbarra il passaggio alle anime che tentano la risalita dopo la morte, per evitare la loro fuga dal mondo e il loro ritorno a Dio», puntualizza infatti Jonas.

Al di là di tutti questi orrori, abbiamo detto, sta però la salvezza: oltre i numerosi cerchi cosmici esiste infatti il “Regno della Luce”, abitato da un Dio eterno che è tutto bontà, amore e luminosità. È il “Padre Celeste” annunciato da Gesù. Gli gnostici, quindi, si schierano con il Dio protettivo e misericordioso descritto nel Nuovo Testamento, che ha in Cristo il suo araldo, ma contro quello che essi considerano il Dio collerico e vendicativo del Vecchio Testamento, che avrebbe invece in Mosè il suo testimone (almeno se si segue l’antica tradizione interpretativa – ormai eclissata, ma ovviamente ancora viva al tempo degli gnostici – per cui sarebbe proprio quest’ultimo personaggio l’estensore del “Pentateuco”, l’insieme dei primi cinque libri dell’An­ti­co Testamento).

Pur essendo inconoscibile e misterioso, il buon Dio talvolta si fa sentire: la sua voce conturbante, che riesce a sovrastare per imponenza e autorità quella del folle e malvagio demiurgo di questo mondo, in certe particolari occasioni si rende infatti udibile ad alcuni eletti. Essa parla direttamente ai loro cuori (che in tal modo – dice Clemente Alessandrino negli Stromata – vengono trasformati da «dimora di demoni» a luoghi «beatificati», «santificati» e «risplendenti di luce») per “risvegliarli” e concedere loro particolari rivelazioni, indicazioni e suggerimenti che saranno utili agli iniziati per raggiungere la salvezza tanto agognata.

Si tratta allora, per gli gnostici, di trovare il modo, mediante l’elaborazione del loro sapere esoterico, di oltrepassare tutte le sfere celesti e di uscire così definitivamente dai bui e infernali corridoi del labirinto del­l’esi­sten­za terrena, per andare finalmente incontro a quel perfetto Dio Padre che ha il suo principale messaggero in Gesù, o di sperare che Egli per primo, commosso dai nostri patimenti e dalle nostre invocazioni, e a sua volta desideroso di ripristinare l’Unità perduta, decida di farsi avanti verso di noi, abbattendo le barriere che ci separano da Lui e quindi dalla somma beatitudine.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
Hans Jonas, Il principio gnostico, a cura di C. Bonaldi, Morcelliana, Brescia 2011
Henri-Charles Puech, Sulle tracce della Gnosi, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 2006

[Immagine tratta da Google Immagini]

Lo spirito del potere

Da diversi mesi, ormai, il mondo osserva con interesse l’instabile situazione politica sudcoreana, in seguito all’impeachment che lo scorso dicembre ha costretto la Presidente eletta Park Geun-hye a lasciare la carica. Lo scandalo che ha portato alla fine il governo di quella che era considerata la donna più potente d’Oriente ha avuto origine nei rapporti poco chiari tra Park e la sua amica e consigliera, Choi Soon-sil, che avrebbe manovrato la Presidente fin dagli inizi della sua carriera politica, nel 2011. Ciò che è interessante nella serie di indagini che hanno coinvolto le due donne è che Choi non è affatto una figura politica, né una personalità economicamente rilevante, quanto piuttosto una guida spirituale. Choi Soon-sil era entrata nel palazzo presidenziale assieme al padre, l’ex monaco buddista Choi Tae-min, nel 1974, portando conforto al presidente-dittatore Park Chung-hee dopo l’omicidio della moglie Yuk Young-soo; Tae-min era il capo e fondatore della Chiesa della Vita Eterna (una setta che sposa elementi del buddismo Seon e del cattolicesimo) e a quanto pare ottenne di diventare il mentore e l’amico personale del Presidente dopo aver rivelato proprio a Geun-hye di aver ricevuto la visita in sogno della madre defunta, che gli aveva chiesto di vegliare su di lei. Da quel momento, i Park entrarono nella Chiesa della Vita Eterna, e i Choi ebbero modo di manipolare prima il padre, poi la figlia, ottenendo favori di varia natura e dirigendo da dietro le quinte la democrazia sudcoreana.

Il rapporto tra Park e Choi non è certo una novità, storicamente parlando: è accaduto spesso che, anche dietro a leader considerati forti e autoritari, si nascondesse più o meno in piena luce un’eminenza grigia che si appellava a un diverso tipo di autorità. Grazie soprattutto alla versione romanzata di Alexandre Dumas, per esempio, la figura del Cardinale Armand-Jean du Plessis de Richelieu è diventata in questo senso esemplare, un capo-ministro in grado di manipolare con estrema facilità la volontà della reggente Maria de’ Medici e perfino di re Luigi XIII. Ugualmente leggendaria è diventata la figura del monaco ortodosso Grigorij Efimovič Rasputin, mistico che pare controllasse le decisioni dello zar Nicola II Romanov. Si potrebbe tornare fino ai tempi della Roma imperiale, e ancora prima fino ai poemi omerici, e sempre si troverebbero sacerdoti, maghi, indovini e profeti a consigliare e dirigere i passi di re e imperatori: quale autorità potrebbe far presa sugli uomini e sulle donne più potenti del mondo, se non una che si proclama radicalmente altra rispetto al mondo stesso? Chi se non i (sedicenti) portavoce di un potere altro, divino, potrebbero ottenere l’obbedienza di chi, in terra, non riconosce poteri a sé pari?

Il rischio che un rapporto di questo tipo comporta è autoevidente, specie nel caso di uno Stato democratico come la Corea del Sud, in cui il capo legittimamente eletto dalla popolazione ha delegato la sovranità affidatale. Non si tratta, qui, di ribadire il principio della laicità dello Stato: il problema risiede nell’intimo della coscienza personale dei governanti, non in una struttura teocratica che non è mai stata riproposta. Nemmeno si tratta, però, di voler scindere in maniera schizofrenica la spiritualità o religiosità di un governante dal suo agire politico, processo peraltro impossibile nella misura in cui un credo interiorizzato è parte imprescindibile della persona. Il punto critico emerge piuttosto quando un potere teoricamente religioso si confonde con uno fin troppo umano, strumentalizzando fede e timore di figure che, carica o non carica, rimangono umane, e che si rivelano più che malleabili facendo pressione sui punti giusti.

Come chiosava Woody Allen, «Non ho niente contro Dio, sono i suoi fanclub che mi preoccupano»: le religioni, per loro stessa natura, hanno l’innata potenzialità di liberare le coscienze attingendo ad una logica altra da quella mondana, ma di contro possiedono un enorme potere di asservimento delle stesse facendo uso della medesima logica, capace di piegare anche la volontà dei cosiddetti signori del mondo. D’altronde, non esiste potere di cui non se ne possa trovare uno superiore, ed è sulla corretta distribuzione e applicazione di questi che è necessario vigilare.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

Mawlid al-Nabi, Natale e Hannukkah: buone feste!

Quest’anno, una volta tanto, sono arrivate le feste senza che partisse la solita, noiosa polemica sui presepi a scuola, sulle feste comandate, sugli uffici pubblici chiusi. Una volta tanto, insomma, ci sono cose più importanti di cui discutere, e tra crisi di governo nostrane e attentati internazionali parrebbe proprio così.

Anche nella crisi, soprattutto nella crisi, il periodo delle festività invernali rappresenta però un’occasione unica e necessaria di rientrare in sé, di riscoprire la dimensione del sacer, di coltivare relazioni, di dedicare almeno per qualche giorno tempo ed energia ad una spiritualità che non sia quella del dio dell’efficienza, del guadagno e del consumo. Un’occasione anche, e pare paradossale in un momento di forte divisione e di muri resi ancora più alti da quanto accaduto a Berlino e Zurigo, di riscoprire unità e comunione con chi vive forme diverse di spiritualità, appartiene ad altre religioni, professa altri credo. Il mese di dicembre, infatti, raccoglie alcune tra le feste più sacre di un gran numero di religioni differenti, in primo luogo delle tre abramitiche.

Per la religione ebraica, dal 25 al 31 dicembre si festeggeranno i giorni dell’Hannukkah, la Festa delle Luci. La festività, pur se non tra le più importanti del calendario rabbinico, ricorda un momento di forte unità culturale e nazionale per il popolo d’Israele, la vittoria della rivolta guidata da Mattatia contro i Seleucidi, che avevano conquistato Gerusalemme ed avevano proibito il culto ebraico. In origine le luci cui si riferisce la festa erano quelle del nuovo altare consacrato nel Tempio a memoria della vittoria, un segno tangibile della reistituzione del culto rabbinico, ma con gli anni il simbolismo ha prevalso, si festeggia la vittoria della luce sulle tenebre accendendo candele, si coltivano le relazioni familiari, si fa festa con balli e canti tradizionali.

Per la maggior parte dei cristiani (gli ortodossi festeggeranno a gennaio), il 25 dicembre è ovviamente Natale, commemorazione del mistero centrale del cristianesimo, la nascita di Gesù a Betlemme che segna il momento in cui Dio si fa Uomo, l’infinito scende nel finito, l’eterno entra nel tempo. Sorvolando sul fatto che con ogni probabilità Cristo è nato in tutt’altro periodo dell’anno, il Natale è sempre stato un’occasione di riunione e di incontro, nelle comunità e nelle famiglie. Non troppo recentemente, la seconda festa più importante del cristianesimo dopo la Pasqua si è ridotta ad un lucrativo business fatto di luci e regali, il trionfo del consumismo che campeggia dove invece si ricorda la semplicità e l’umiltà di un Dio che si fa povero, senzatetto e profugo: un paradosso che è necessario superare per riscoprire il senso vero della festa.

Lo scorso 12 dicembre, infine, moltissimi musulmani hanno festeggiato il Mawlid al-Nabi, la memoria della nascita del Profeta Muhammad. Non per tutto l’islam il Mawlid al-Nabi, o i Mawlid in generale (ogni ricorrenza della nascita di grandi personalità, di solito santi), è considerato una festività, dato che per alcune scuole di pensiero come la salafita festeggiare una creatura, sia pure il Profeta, sarebbe una mancanza di rispetto verso il Creatore; la tradizione popolare ha però perlopiù avuto la meglio sui divieti teologici, e il Mawlid è occasione di grandi celebrazioni in molte parti del mondo, un segno di gratitudine verso l’uomo che seguendo la volontà di Dio ha unificato la Umma (la comunità dei credenti) e ha indicato la via per il Paradiso.

Tutte e tre le religioni abramitiche, nel celebrare la propria identità, durante le festività di dicembre richiamano all’unione, all’incontro, alla riscoperta non solo e non tanto di tradizioni, quanto di relazioni e momenti di comunione. Anche e soprattutto alla luce dei recenti fatti di cronaca, sarebbe opportuno ascoltarle, meglio se lontani dal delirio consumistico e fagocitante della logica dell’Occidente capitalistico.

Buone feste a tutti, quindi. Ma proprio a tutti.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine tratta da The Friday Times]

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Essere e Nulla

<p>Disegno Musumarra Prattismo La Chiave di Sophia</p>

Ciò che in prima istanza si pone davanti agli occhi è l’essere? Ciò che si fa percepire al nostro tatto, al nostro gusto e olfatto è l’essere? Cos’è quello che propriamente, a volte segretamente, cerchiamo se non l’essere del nostro interlocutore? Ma l’essere è o non è ciò che appare? Ne è una parte ben definita, intera, oppure è in una misura pari ad una numerazione periodica o semplicemente frazionata, qua e là, tra le mille cose che la nostra specie ha portato a compimento?

L’apparenza è già essere? Se sì, perché certe volte non basta? E se l’essere fosse un Nulla? Se non esistesse nessun essere e l’inconscia consapevolezza dell’uomo sull’inconsistenza, l’incoerenza, il mistero di questo ente-fantasma, fosse essa stessa la scintilla del Deus che imperiosamente personifica tutte le idee e le ipotesi immagazzinate, ponendosi come Spirito, Musa o Ispirazione nell’essere umano? Cos’è la spiritualità umana? Se questa nostra idea dell’Essere, se ogni suo particolare e genesi e struttura e corporeità fosse totalmente dispiegata nel nostro subconscio e che, psicologicamente, si manifestasse come desiderio, come pulsione, come momento organicamente propizio, e successivamente come pratica nel nostro Agire/Pratica nel/del reale? Proprio perché è un apparente Nulla incoscientemente svelato – ma non raggiungibile -, noi lo desideriamo, lo cerchiamo, lo vogliamo: si fa oggetto di desiderio perché apparentemente si cela, non è corporeo; questo sorta di cosa non la possiamo indicare ivi giudicare secondo gusto: è Essere, un imperioso e condizionante Sono fatto così. Allora questo è un Essere che è già svelato, seppure nel nostro puro apparire e fa gioco-forza sul Nulla sul quale poggia. Ma questo nulla è già Nulla, e l’essere che ne viene è Microcosmo, palliativo, dell’Universo che ci circonda; che poggia, sicuro, nel suo nulla come Socrate nel non sapere. Un Nulla che sostiene e protegge ciò che appare da tutto ciò che l’individuo dispiega come vero e dimostrabile e ancora come verità intelligibile e come chiave e ponte per l’al di là della personale apparenza: perché egli è nulla e chi vuole conoscerlo deve farsi esso stesso volontà del suo stesso Nulla; per conoscere l’Altro bisogna annullarsi e farsi Essere del nostro interlocutore, coglierne l’essenza e le variegate contraddizioni che si levano dal suo centro, dal suo Ego.

Ma cosa si eleva nello specifico? Tanti Oggetti, che, come cani feroci, aggrediscono le apparenze della nostra soggettività, sciogliendole dal velo della contraddizione, del dubbio e dell’ignoranza ricacciando le risposte alle nostre domande verso l’essere, verso un più saldo è così e così che, sebbene potenzialmente falso o temporaneo o celato o costruito, è certamente più stabile e plasmabile di un magnifico e cosciente, aperto, nulla: un essere che attraverso gli ideali e le dottrine e le scienze si pone una spanna al di là della sua apparenza, della sua soggettività ivi in piena contraddizione. Quest’ultima non può sciogliersi semplicemente in ciò che appare ma va cercata più in profondità; l’apparenza, e tutte le sue contraddizioni, è inaccettabile quindi si cerca l’essere tra le pieghe dell’apparenza, sostanzialmente perché la semplice equazione essere-apparire non basta; perché troppo semplice, troppo facile, troppo immediata. Morale, scienza, religione, società, giustizia, legge, libertà, amore, questi rinforzano la base, il nulla, dell’essere e mordono tutti i particolari che scintillano sulla nostra pelle, limano ogni nostro comportamento, e vogliosi, appaiono e si danno ai sensi del nostro interlocutore.

Tutto ciò che abbiamo oggettivizzato dà una via di fuga dall’apparenza, da ciò che è evidente ai sensi e al nostro corpo – da ciò che è evidente persino a noi stessi che ci scrutiamo e ci specchiamo negli occhi del nostro interlocutore o tra le mura della nostra intimità -; sono rifiuti eleganti e colti all’apparenza che viene fuori dalla corporeità, dalla soggettività, ed al contempo i distintivi delle nostre capacità comunicative e del nostro ruolo all’interno della società. Ma il nostro apparire non viene spazzato via in toto; la nostra soggettività non viene demolita, ma limata, oggettivizzata. Le apparenze si rafforzano di Oggetti, cacciando le contraddizioni della soggettività – ivi anche l’unicità della nostra sintesi io-altro-mondo – verso il nulla e profondo Essere: qui, in gabbia, la nostra soggettività, trema e scuote i nostri archetipi; la società non vuole soggetti, ma oggetti e in quanto tale non rimane altro che gettarsi fuori nelle arti, nella musica, in amore, in guerra o nell’idealismo e nella trascendenza. Ma l’essere quindi che fa? Protegge e dà all’apparenza una via di fuga, un nuovo inizio, un nuovo via? Magari oggettivizzandola, rendendola più Sociale? Di certo protegge le nostre performance sociali qualora queste vengano smascherate: l’essere è una superficie che fornisce archetipi e stereotipi sempre nuovi ma che trovano fondamento su tutto ciò che il reale ha fornito e fornisce ogni giorno. L’essere così è un retroscena di ciò che appare, è una finzione, un nulla di comodo dentro il quale rifugiarsi quando tutto ciò che trasuda dalla nostra superficie entra in contraddizione con sé stessa ed in tensione con l’atmosfera circostante. L’essere ciò che si è è ciò che pretendiamo quando siamo innamorati; un Nulla in pieno svolgimento.

Salvatore Musumarra

[Immagine tratta da Google Immagini]