Una divagazione sulla morte

«Tutto scorre», diceva Eraclito. Le cose entrano ed escono in continuazione dal dominio dell’esistenza. Nascita e morte sono gli estremi tra i quali tutta la vita si svolge, si srotola, si dispiega nelle sue infinite forme e tonalità. Ogni cosa è una cristallizzazione momentanea di questo movimento che, senza inizio né fine, continua eternamente a fare ciò che gli è proprio: muoversi.

Tra questo pulviscolo di cristalli vi siamo anche noi, che pur facendo sempre parte dell’enorme flusso che è la vita universale, ci costruiamo i nostri piccoli, personali movimenti, che entrano in contatto gli uni con gli altri: spesso si allontanano, a volte si sfiorano, talora si toccano e, quando siamo fortunati, si intersecano. Poi, uno alla volta, questi movimenti si interrompono bruscamente, lasciando spazio ad altri centri che disegneranno nuovi percorsi.

Benché la morte sia ciò che vi è di più naturale a questo mondo, ci scuote profondamente quando ci tocca da vicino. La scomparsa di una persona cara costituisce un dolore difficile da sopportare: sentiamo la privazione, la negatività della mancanza. Questo sentimento è soffocante perché non c’è nulla che possiamo fare: siamo completamente impotenti di fronte alla situazione, ed è come se avessimo perso, assieme alla persona scomparsa, una parte di noi. Sembra quasi che per quanto possiamo costruire e stringere legami, tutto sia comunque destinato a scomparire. Ma al tempo stesso la vita è per sua natura relazione: inseriti in un contesto, ci rapportiamo a esso e a coloro che lo abitano; ci rapportiamo agli altri in vari modi, e a questo non ci si può sottrarre. In questo senso, come possiamo affrontare la scomparsa nel nulla di ciò che costituisce l’essenza stessa delle nostre vite?

Non vogliamo qui discutere se la vita dopo la morte continui in una qualche forma oppure se la morte sia una scomparsa definitiva. Ciò non cambia il fatto che quando l’affrontiamo qui, in questo mondo, la sentiamo come separazione. E poiché noi abitiamo questo mondo, è di essa che vogliamo parlare.

Quando viene a mancare qualcuno è come se venissimo privati di una parte di noi. Questo sentimento è qualcosa di più rispetto ad una permanente variazione nelle nostre abitudini, nel senso che mentre prima lo vedevamo sempre, ora non più. Un pezzo della nostra vita ci viene tolto perché la nostra esistenza è una continua relazione a ciò che ci circonda. Tuttavia vi è relazione soltanto tra entità dinamiche: nella misura in cui è l’entrare in contatto di due poli, essa va a cambiare la natura di entrambi. Conoscenze, amicizie, amori, tutto ciò va a modificare il nostro modo di stare al mondo: le nostre coscienze variano nella risonanza con le altre e si arricchiscono in un processo di continua crescita che conferisce nuove colorazioni alle nostre quotidianità. Le vere relazioni ricreano continuamente lo spirito.

Tutto ciò rimane anche una volta che una delle controparti viene a mancare. Certo, è evidente che in questi casi la relazione subisce un troncamento; tuttavia il tempo – per fortuna probabilmente – non è reversibile, e durante tutto il percorso che abbiamo affrontato insieme a qualcuno, comprese le impasses relazionali, ci siamo evoluti: esso ha modificato il nostro spirito, che si è arricchito di nuove sfumature prodotte proprio dal contatto con l’altro.

Nella sua opera Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Bergson mostra come il tempo sia spesso pensato come una serie di momenti giustapposti come in fila, separati l’uno dall’altro e per questo isolabili e pensabili indipendentemente tra loro, la cui successione sarebbe ugualmente percorribile in avanti o all’indietro. La separazione e la giustapposizione sono però proprietà che appartengono allo spazio: ciò a cui pensiamo non è quindi la durata, bensì la sua rappresentazione spaziale. Gli stati di coscienza, mostra Bergson, si compenetrano l’un l’altro in quanto si svolgono nel tempo: non è possibile isolarli se non contravvenendo alla natura di questo. Ogni stato di coscienza riflette la personalità intera dell’individuo, perché egli è il risultato di tutte le esperienze che l’hanno formato e modificato fino a farlo diventare quello che è oggi.

Insomma, il nostro modo di stare al mondo cambia perché la nostra vicinanza con l’altro ci cambia.

Quando diciamo che qualcuno continua a vivere in noi, questa ci sembra una banale frase fatta, detta per consolarci, perché non ne cogliamo il senso; in realtà questa sentenza potrebbe racchiudere un messaggio filosofico molto profondo, a condizione di saper vivere a pieno la relazione, così da lasciarci arricchire ed arricchire a nostra volta gli altri, venendo a costruire delle profonde e fertili reti intersoggettive.

 

Pietro Bogo

[Immagine tratta da Unsplash]

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Il nuovo spirito di Hegel e la grandezza del negativo

Georg Wilhelm Friedrich Hegel è stato uno dei più grandi filosofi che la storia del pensiero ricordi. Facendosi largo ad ampie bracciate fra altri giganti dei suoi tempi – come Kant, Fichte e Schelling – è riuscito a costruire un sistema teoretico estremamente articolato e complesso, ma con la facciata inscalfibile di un monolita. Sebbene potesse sembrare che altre proposte filosofiche, come quelle di Schopenhauer, Kierkegaard e Marx, in aperta rottura con quella hegeliana, avessero minato le basi del pensiero del maestro di Stoccarda – facendolo cadere in disgrazia per decenni e che tale stato di sfortuna fosse destinato a perdurare con il rifiuto dei grandi sistemi da parte del postmoderno novecentesco – in realtà, nonostante tutto, Hegel non è mai stato superato.

Per questo motivo, allora, perché non tentarne una breve sintesi, che possa magari servire da nuovo strumento per leggere la contemporaneità, interpretare il nostro momento storico universale, declinato nel particolare quotidiano di ciascuno?
Quale occasione migliore per svecchiare la lettura di questo pilastro del pensiero occidentale e riprenderne gli spunti teoretici più affini al nostro momento dello Spirito?

Slavoj Žižek (uno dei più famosi interpreti viventi di Hegel) spiega che nessun pensatore, dopo Hegel, è stato veramente post-hegeliano, quanto, piuttosto, anti-hegeliano. Così, in questo tentativo di negazione del pensiero di Hegel, si pongono le basi non solo per il post-hegelismo, ma anche per una riproposizione del parere filosofico del maestro. Hegel, allora, risulta essere non più un fossile di un’era arcaica del pensiero.Piuttosto, un intellettuale attualissimo e pronto nel fornire utili strumenti per interpretare la realtà a chi riesca a ri-leggerlo senza la difficoltà di dover abbandonare le classiche esposizioni manualistiche.

Ebbene sì, il vero Hegel non è quello del banale sistema triadico, nel quale tesi e antitesi, risolvendosi nella sintesi, permettono un passaggio relativamente semplice e indolore dal negativo al positivo; piuttosto è il filosofo del superamento del principio di non contraddizione, dell’Aufhebung nel quale gli opposti non solo sono conviventi e compatibili, ma la loro compresenza rappresenta addirittura la condizione di determinabilità degli enti e costituisce intimamente tutto ciò che esiste nella realtà: ogni cosa materiale, evento storico, processo mentale ha in sé delle determinazioni e quelle a esse opposte e, proprio tale caratteristica, è ciò che permette di definire e circoscrivere cose, eventi e processi in un modo piuttosto che in un altro.

La dialettica, quindi, non è più solo la legge del pensiero, ma diventa anche quella dell’essere e il negativo, lungi dall’essere la macchia nera nel processo di realizzazione dello Spirito, diventa il punto di partenza, nonché di forza di un’Idea che ha come cifra originaria la ferita, ma che porta avanti un percorso infinito di automedicazione.

In questa prospettiva, l’Assoluto, essendo internamente contraddittorio, vive in un continuo stato di conflitto, che si manifesta nelle declinazioni concrete e particolari del mondo degli enti e, quindi, nella storia. È allora possibile operare una revisione interessante anche del processo storico concreto, nel quale la contingenza precede sempre, quasi paradossalmente, la necessità: se è vero il primato del negativo, la necessità non è un qualcosa di positivo che sussume le cose contingenti, ma il rovescio negativo di queste; è ciò che nasce sempre retroattivamente e a seguito di determinazioni storiche: la caduta dell’Impero Romano, per esempio, potrebbe essere vista come un avvenimento inevitabile, date le cause retrostanti; nella prospettiva hegeliana, invece, il crollo dell’Impero appare necessario solo perché è effettivamente avvenuto e, guardando indietro e non potendo immaginare altri scenari, viene classificato come ineluttabile.

A questo punto, anche il momento precedentemente definito di “sintesi” è opportuno che prenda un altro nome: vista la centralità della negazione, il terzo traguardo dello spirito sarà la negazione della negazione, definizione che ribadisce quanto ciò che può sembrare un ostacolo nel percorso della storia dell’Intelletto, sia, invece una condizione positiva di possibilità. Nel medesimo lume interpretativo, infine, può essere inserito anche il concetto hegeliano di ripetizione: ciò che sembra riproporsi non è un semplice ritorno dell’uguale, ma un ripresentarsi di situazioni con caratteri così radicalmente nuovi da non poter non interferire con lo svolgersi degli eventi.

Il pensiero di Hegel, comunque, al di là di ogni tentativo di semplificazione, resta di complessità e profondità uniche e impressionanti; tuttavia potrebbe fornire utili spunti per perlustrare anche il fondale dei nostri eventi quotidiani, individuando nelle nostre singole esistenze concrete barlumi particolari della luce universale dello Spirito, come ferita che si automedica: già partire dalla rinnovata centralità riconosciuta alla contraddizione, accettare la negatività – o, addirittura, renderla una conquista – ci permette di inquadrare il male del mondo e delle nostre vite in una prospettiva più ampia, come il dorso di una medaglia che ha bisogno del suo retro per completarsi e determinarsi.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

[Photo credit Nenad Milosevic via Unsplash]

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Ritrovare il senso del mistero e recuperare la categoria del sacro

Non molti anni fa Giorgio Gaber cantava che «l’uomo non ha più il gusto del mistero»1, individuando nello smarrimento del senso del mistero e del sacro una cifra precipua del nostro tempo.

Osservando accuratamente molte manifestazioni umane, del mondo occidentale in particolare, si rileva come esse siano caratterizzate da superficialità e banalità che si palesano in un conformismo omologante e in un consumismo spersonalizzante. Una vera e propria mutazione antropologica, per servirci di una risoluta e profetica definizione pasoliniana2. Esseri umani che perdono la propria essenza di persone, abdicando al pensiero autonomo, alla riflessione, all’incontro autentico con tutto ciò che è altro da sé, in particolare l’altro uomo, il rapporto con il mondo della vita e con tutto quanto questo incontro può generare nell’interiorità del singolo.

Una delle peculiarità umane che, da diverso tempo a questa parte, stanno venendo meno è certamente il senso del mistero. Quella dimensione che si lega a tutto quanto non è spiegabile razionalmente, a ciò che “sfugge” ad ogni comprensione, a quanto emerge dal senso del limite. La condizione umana è quella di colui che non s’accontenta della propria connotazione finita ma è predisposto ad avvertire un senso di spaesamento, tremendo e al contempo affascinante, di fronte all’esistenza e a ciò che la trascende, a ciò che le è totalmente altro.

L’essenza della soggettività umana è predisposta ad avvertire il senso del mistero, che scaturisce proprio dalla continua relazione con l’indecifrabile complessità del mondo della vita e che conduce a percepire la dimensione infinitamente eccedente del senso della totalità. Quel senso che pur sfuggendo continua ad attrarre l’interiorità dell’uomo, poiché, come spiega il teologo e filosofo Rudolf Otto nell’opera Il sacro (Das Heilige, 1917), l’uomo oltre alle categorie della razionalità possiede pure la categoria del sacro, il cui dato originale è il numinoso, il razionalmente indeducibile, l’incomprensibile, l’indicibile, quanto è sovrabbondante rispetto alle proprie capacità intellettive. L’essere umano avverte, attraverso la categoria del sacro, la dimensione ineffabile, il mistero dell’esistenza, il suo carattere esorbitante rispetto alle categorie della ragione, mute dinanzi al mistero della Vita, al senso del limite, al senso ultimo. In proposito, così si esprimeva nel proprio testamento spirituale il filosofo Norberto Bobbio: «come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo e le varie religioni interpretano in vari modi»3.

La categoria del sacro permette di assaporare il mistero dell’esistenza, nel suo carattere terribile e affascinante al contempo. Il mistero, ciò che evade la prigione del concetto, è alcunché di sconosciuto, non manifesto, totalmente altro. L’essere umano è attratto esteriormente e attraversato interiormente dal mistero inesprimibile, tutt’al più avvicinabile con la parola poetica o l’esperienza mistica. In questo senso, come non ricordare l’esempio edificante, gli scritti e l’esperienza mistica della giovane ebrea olandese Etty Hillesum4, testimone di come il senso del mistero innalza l’uomo interiormente oltre la propria finitezza, lo attrae verso ciò che è altro, che sfugge, che è in-finito, avvicinabile solo asintoticamente, ma verso il quale l’uomo non è comunque propenso a rinunciare, perché tale attrazione, tale fascinazione che fa vibrare e suonare le fragili corde del suo spirito, è connaturata alla sua essenza.

Da qui, le religioni: tentativi per eccellenza, più o meno mirabili, di dare risposta al sacro. Invero, il senso del mistero e la categoria del sacro che ad esso si addice, appartengono alla complessa profondità di ogni spirito umano, teso per essenza a percepire, attraverso l’esperienza della vita, l’indicibile. Il sacro precede e può dunque fondare ogni religione, che solo su di esso può edificarsi. Diversamente, in assenza del sacro, di questo imprescindibile dato originale, il tempio, ogni tempio, di qualsivoglia religione, rimane una scatola vuota, il cui obiettivo non può coerentemente dirsi quello di dare risposta al numinoso e di configurarsi dunque come orizzonte di senso. È così comprensibile l’asserzione di Rudolf Otto quando scrive: «Ciò di cui parliamo – il sacro – […] costituisce l’intima essenza di ogni religione, senza la quale la religione non sarebbe»5.

Il sacro si configura dunque come una categoria a priori, non oltre quelle della ragione, ma in un certo modo al loro fianco. L’essere umano possiede entrambi questi a-priori per stare al mondo, l’utilizzo di uno solo dei due ne stralcia la sua essenza, ne elimina la complessa e straordinaria struttura interiore e le possibilità esteriori. L’una sostiene l’altra. Così come è importante educare la facoltà di pensare e ragionare criticamente6, altresì l’a-priori del sacro necessita oggi, con rinnovata urgenza, di essere riscoperto. Ma per riemergere, la categoria del sacro ha bisogno di essere risvegliata alla coscienza del singolo, ricondotta al centro dell’esperienza soggettiva e questo si può fare solo se si recupera il senso del mistero. Quest’ultimo abbisogna del silenzio, della riflessione, del raccoglimento interiore, lontani dal rumore delirante della quotidianità ipermoderna. Un frastuono contrassegnato da parole vuote, superficiali, che bombardano la nostra vita in una bulimia inarrestabile d’informazione. Invero, è solo dal silenzio e dalla contemplazione consapevole del reale che può ri-emergere nell’uomo la capacità di trascendere l’immanenza omologante nella quale è immerso, verso un’apertura e una consapevolezza del mistero che avvolge la vita. Anche questo qualifica un’esistenza umana completa: senza il senso del mistero, del sacro, l’uomo perde una dimensione centrale dalla propria essenza, verso una tragica mutazione antropologica. Diversamente, recuperando questa dimensione è possibile sperare in un nuovo umanesimo, una visione del mondo che abbia l’uomo al centro della vita. Un uomo nuovo che, evitando di adagiarsi al ristretto orizzonte del già dato, riconosca di poter oltrepassare la propria datità in favore di un contatto nutriente con il mistero dell’esistenza e della sua sacralità, sola fucina di slanci relazionali, artistici, intellettuali e spirituali.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr. G. Gaber, E pensare che c’era il pensiero, GIOM, 1994.
2. Cfr. P. P. Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano 2009.
3. Vedi: http://www.repubblica.it/2004/a/sezioni/spettacoli_e_cultura/bobbio/volont/volont.html
4. Cfr., E. Hillesum, Diario, tr. it. Di C. Passanti , T. Montone e A. Vigliani, Adelphi, Milano, 20133.
5. R. Otto, Il sacro, tr. it di E. Bonaiuti, SE, Milano 2009, p. 21.
6. Su questi temi mi permetto di rimandare ad un mio precedente articolo sulla centralità dell’educazione al pensiero critico e autonomo: http://www.lachiavedisophia.com/blog/educhiamoci-a-pensare/

[Photo credits Lenka Sluneckova via Unsplash.com]

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Il mondo infestato: sull’esistenza dei fantasmi

Il fantasma è un segreto. Segreto celato, segreto di sangue, segreto inconfessato, segreto di rimorso, segreto d’oltretomba. Una questione irrisolta che continua a infestare il mondo, in attesa che qualche riflessione la sblocchi per renderla libera. Il fantasma è agitato e per questo ulula. È spaventato dall’incredulità dei vivi e per questo si nasconde. Ma insieme conosce il suo potere perché proviene da quelle dimensioni che i vivi temono di più. Il segreto che incarna si riferisce anche a questo, alla conoscenza che ha dell’Erebo, il regno dello Spirito; e poiché lo manifesta, costringe chi testimonia a elaborare una realtà cui non sapeva di appartenere.

Tuttavia, credo che parlare di fantasma in sé sia sbagliato, perché è difficile che un fantasma si manifesti senza un osservatore che ne permetta la sorgenza. Il fantasma è più un’esperienza, nel senso che si genera in un incontro tra due volontà: l’una concreta e agentiva, l’altra ambigua e immateriale. Nell’intreccio di due mondi consanguinei, si aprono le soglie che permettono uno scambio di immagini e aspettative. Da una parte vi è il polo del visitatore, che mosso dall’interesse di un incontro col fantasma cerca di mettersi nelle condizioni ideali per suscitarlo, e così si addentra in case abbandonate, predilige le ore notturne, invoca quei nomi che dovrebbero provocare l’apparizione; e vi è poi il polo del visitato, che invece non vuole farsi scoprire in senso stretto, ma si manifesta gradualmente, attingendo dall’ambiente in cui avviene l’incontro. Non sono ruoli fissi, perché un visitatore può venire visitato dal fantasma senza che si sposti di casa, o senza che si addentri direttamente in luoghi infestati. Ciò che conta è il fatto che il fantasma deve essere il tormento di qualcuno, o non potrà mai apparire. In questo senso il visitatore e il visitato fanno parte di una medesima volontà: quella dello Spirito.

Questo ci porta a dire che il fantasma è una ricomposizione. Cioè un’immagine corale, astratta da una serie di oggetti che testimoniano un passato e scatenano i ricordi. Poniamo caso di esserci addentrati in una casa infestata e che troviamo una foto su un comodino: è la foto della famiglia che un tempo abitava lì? O è la foto di una famiglia di parenti o di amici? Una risposta permette di comprendere qualcosa circa gli affetti e le priorità degli ex-abitanti, e già qualcosa può emergere sussurrando. Guardiamo poi le espressioni delle persone ritratte: perché lui ha uno sguardo tanto serio? Perché lei sembra assente e intristita? Perché la figlia osserva oltre la cellulosa con inquietante fissità? L’essenza che permea questi oggetti, per quanto confusa ci possa apparire, rievoca le voci del passato, ovattate dal tempo trascorso, dalla nostra ignoranza, dal loro oggettivo silenzio, dalla soggezione che incute nei vivi il rapporto coi morti. Il visitato (cioè il fantasma) si presenta attraverso ciò che gli oggetti suggeriscono a chi si pone nelle condizioni di ascoltarli. E quei suggerimenti sono la storia, il racconto e il sogno di una persona che un tempo abitava il nostro stesso mondo – che ha partecipato cioè dello Spirito. Questo è il fantasma: la reliquia di una persona, l’impressione che ha lasciato nel mondo umano, e per questo è riconoscibile. Ma ancora di più, è l’impressione che ha lasciato uno spirito in generale, giacché lo spirito si scopre come traccia. Il fantasma è l’intelligenza versata negli oggetti del mondo che emerge non appena qualcuno si pone in ascolto.   

Il segreto, una volta scoperto, tenterà di difendersi, perché in quanto segreto vorrà mantenersi tale. Come un sogno che per rimanere sogno non si fa realizzare. E il segreto si difende riemergendo prepotente, perché afflitto dalle ingiurie del tempo e dalla sua stessa segretezza. Mentre ci addentriamo nella casa e scorriamo il mobilio e le stanze, quel segreto acquista sempre più potere e intensità, generando i vapori spettrali, le visioni, le sensazioni agghiaccianti, la paura di essere tanto osservati da un’entità intangibile quanto odiati dalla stessa, sino a quando o scoppia, rivelandoci la presenza di uno spettro iracondo e minaccioso che noi non riusciamo ad affrontare, o si risolve in un momento di fortissima catarsi in cui lo spettro, per quanto ostile, ottiene finalmente la sua redenzione.

Sorrido riflettendo su quanto dico, perché immagino il provocatore di turno che bonariamente mi invita ad affrontare per una notte una casa infestata, dato che posso argomentare contro l’esistenza degli spettri in maniera tanto ragionevole. Ma appunto sorrido, perché mi rifiuterei di farlo quantomeno da solo, e farei così la figura del vigliacco, perché in realtà, a conti fatti, non ho dimostrato l’inesistenza degli spettri, ma ne ho invece dichiarato l’esistenza. I fantasmi esistono e a pensarci bene infestano l’interezza del nostro mondo. Fantasma non è semplicemente emersione del passato, ma è carica spirituale, emotiva e umana compressa all’interno di un oggetto. Le nostre città sono colme di spirito, le abitazioni, gli oggetti, le stesse parole che sentiamo sono cariche di spettri, di sussurri che annunciano mondi più ampi e irriducibili. Basta interrogare la maglietta che si indossa e subito emergono i volti contraffatti di chi l’ha cucita.

Fantasma è dunque eidolon (είδολον), immagine, simulacro nel senso greco del termine; è la traccia grazie alla quale scopriamo il passaggio dello Spirito e la sua continua presenza. Il mondo umano è un mondo infestato; la mente è mente estesa. La Storia stessa è un immenso fantasma perché è l’immagine pervasiva e polifonica dello Spirito che si argomenta. I libri evocano fantasmi; il telegiornale vomita fantasmi; l’immaginazione dà loro un volto. Lo Spirito insomma, che figlia fantasmi dovunque posa mani e sguardo, è qualcosa che è immanente al mondo, al mondo come artefatto della narrazione umana e delle sue conquiste, e in nessun modo può esistere al di fuori dei confini che questo ha per sé istituito. I fantasmi sono prodotti dello Spirito e per questo rimarranno qui con noi per sempre, fino a quando lo Spirito non cesserà di sapersi.

 

Leonardo Albano

 

[Photo credit Erik Müller su unsplash.com]

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Potrei ma non voglio. A colloquio con il nostro demone socratico

Eravamo quelli della meritocrazia, quelli che volevano che le cose fossero giuste e uguali, uguali per tutti; che tutti avessero gli stessi diritti degli altri, le stesse opportunità. Le abbiamo ottenute. L’istruzione è diventata accessibile a (quasi) tutti; con internet possiamo scoprire tutto quello che ci incuriosisce e le possibilità che sentiamo di maneggiare iniziano a diventare infinite. Infinite, questa non è detto sia una buona cosa, non è un aggettivo che si addice sempre all’essere umano. Sono caratteristiche di Dio, o dell’universo, o dell’immaginazione. Ma mai di qualcosa che si sia concretizzato tra le nostre mani. Nei meccanismi di uno smartphone, nelle effettive possibilità che abbiamo a portata di mano.

Uno dei drammi che l’umanità era abituata a vivere era quello della mancanza delle possibilità, che era certamente legata alla mancanza di soldi, o quantomeno al fatto di avere opportunità direttamente proporzionali al proprio reddito. Oggi la situazione è cambiata: non dico che ogni tipo di possibilità sia nelle mani di tutti, ma poco ci manca. Se desideriamo intraprendere una strada, il modo di realizzarla è accessibile alla maggior parte delle persone. E le strade sono tante, le possibilità pressoché infinite.

Non ci si chiede più quindi quale scuola ci potrà maggiormente garantire un lavoro, ora possiamo permetterci di scegliere, di far venire a galla il nostro gusto, il nostro talento e i desideri più reconditi di realizzazione personale.
Si pone però il problema centrale della confusione dei nostri giorni: sappiamo riconoscere queste tre cose? I nostri gusti, i talenti che abbiamo e i nostri desideri? Dagli incontri che svolgo nelle scuole, con genitori, con ragazzi iscritti da anni o che stanno per iscriversi all’università, mi viene da dire di no. No, dopo le medie è spesso troppo presto. Dopo le superiori anche. Dopo l’università non ne parliamo: con la testa sulle nuvole della teoria senza saper come declinare le nostre conoscenze. Ma anche dopo anni e anni di lavoro quando vogliamo reinventare la nostra carriera non sappiamo dove andare. Eppure è tutto a nostra disposizione, abbiamo possibili orizzonti infiniti davanti a noi, davanti allo schermo di un computer o del telefono.

Internet ci costringe a fare i conti con tutto quello che non stiamo facendo e che vediamo in real time che gli altri stanno realizzando. Studio, serate con gli amici, corsi di aggiornamento, risultati e celebrazioni. Tutti gli aspetti positivi che vengono pompati sui social e che ci fanno rendere conto che noi siamo dall’altra parte dello schermo a guardare, senza poter buttare in risposta qualcosa di simile.

E vorremmo essere al posto di ognuno di questi, fare le loro cose, le loro carriere, le loro esperienze e ci chiediamo da dove cominciare. Tutto questo perché non ci conosciamo abbastanza. Perché non siamo partiti dal “conosci te stesso” del tempio di Apollo a Delfi.

Non ci resta che metterci offline e dedicarci all’interiorità, agli input interni, alla nostra voce interiore che ci può indicare una strada senza vederla già segnata. Possiamo fare appello al daimon (demone) di cui parlava Socrate: una sorta di divinità privata e interiore. L’angioletto sulla spalla che si contrappone alle scelte sbagliate di una persona. Non indicava infatti la strada da seguire, ma dissuadeva dal compiere certe scelte.

Guido Calogero lo descrive così: «Si tratta di una voce della coscienza alquanto strana, poiché il demone distoglie ma non invita, si limita cioè a proibire di fare qualcosa, ma non stimola a determinate azioni»1.

Oggi il daimon – o qualsiasi altra voce interiore – l’abbiamo sostituita perlopiù con la voce di nostra madre che ci dice cosa è giusto per noi, senza neanche dissuaderci dalle scelte sbagliate, perché le sue sono sempre giuste. Non siamo più abituati ad ascoltarci, ma a cedere alle pressioni esterne e alle aspettative degli altri. Il daimon socratico invece ci spinge a discutere con noi stessi. Ad argomentare quando sentiamo venire a galla un desiderio, a domandarci perché e in che modo possiamo realizzare qualcosa.

Il demone ci spinge a scegliere senza essere trainati dalle possibilità (infinite) che abbiamo davanti, ma facendo i conti con il nostro passato e le nostre abilità, ci costringe a scegliere dopo averci dissuaso da decisioni sbagliate. Scegliere, nella prospettiva platonica, significa infatti prendere possesso criticamente del proprio passato per migliorare il presente.

Il demone ci spinge a realizzare la nostra eudaimonìa, ovvero il nostro “spirito buono” (letteralmente), cioè posseduto da buon demone, da quel demone che ci permette di realizzare la felicità che sgomita per farci creare un percorso su misura. Sulla misura di chi siamo e non delle opportunità che altrimenti passeremmo la vita a osservare e invidiare da dietro uno schermo.

 

Giacomo Dall’Ava

 

NOTE
1. G. Calogero, Erasmo, Socrate e il Nuovo Testamento, Accademia Naz. dei Lincei, 1972

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Twin Peaks: David Lynch e il concetto di “mana”, tra magia e illusione

Una grande tenda rossa, un pavimento a zig zag con motivi bianchi e neri che sembrano rincorrersi all’infinito, una lampada con accanto due grandi poltrone di pelle. Se ci si imbatte anche solo per sbaglio nel nano danzante o nella signora ceppo di Twin Peaks, le reazioni possono essere due: cambiare canale (e successivamente chiamare l’amico che ci ha consigliato di guardare una serie tv ambientata negli anni ’80 e che sembra pura follia) oppure entrare e sederci anche noi in quella sala d’attesa abbastanza inquietante.

Eh sì, perché il regista di Mulloland Drive e Velluto Blu o lo si ama o lo si detesta profondamente. Non sembrano esserci vie di mezzo, o perlomeno, fino ad ora, non ho incontrato nessuno che possa restargli completamente indifferente.  

Semafori lampeggianti, fasci di luce tremolante, cani che abbaiano, suoni che sembrano provenire da un’altra dimensione e personaggi che non hanno più nulla di umano. Il linguaggio visivo di Lynch è ricorrente, ma lungi dall’essere una semplice scelta stilista ed estetica, potrebbe trovare anche una spiegazione di tipo filosofico.

«Stare seduti davanti al fuoco è ipnotico. Magico. Provo le stesse sensazioni con l’elettricità. Il fumo. Le luci tremolanti»1. Nell’opera di Lynch ci sono veri e propri elementi magici. Prendiamo l’elettricità, per esempio, qui sembra essere una forza oscura dotata di vita propria, quasi una manifestazione di qualcosa che nulla ha a che fare con l’elettricità che noi tutti conosciamo grazie alla fisica. Anche il fuoco è un elemento centrale della serie tv che, come ha notato Roberto Manzocco,  quando appare, indica che si stanno per scatenare emozioni molto intense.  

Questa prospettiva sembra ricollegarsi a una mentalità pre-scientifica, primitiva. Per spiegarla si può fare riferimento al concetto di mana, una forza capace di permeare tutto, non solo gli oggetti viventi, ma anche quelli inanimati.

Fu il missionario ed etnologo inglese Codringtone a diffondere questo concetto, esponendolo per la prima volta nella sua opera The Melanesians del 1891. Un’espressione difficile da definire, su cui antropologi e sociologi si sono confrontati a lungo per diverso tempo. Una definizione molto efficace sembra essere quella di Durkheim, storico delle religioni, secondo cui il mana sarebbe: «la materia prima con la quale sono costruiti gli esseri d’ogni tipo che le religioni d’ogni tempo hanno sacralizzato e adorato»2.

Molti studiosi sostengono che sia proprio il mana ad essere all’origine della religione, dal momento che, rappresentando il sacro per eccellenza, esso si identifica con una forza religiosa collettiva e anonima che è contemporaneamente immanente e trascendente alla realtà.

Per capire questo aspetto, è necessario fare un ulteriore passaggio. In tempi recenti, è stato il filosofo francese Georges Gusdorf a sottolineare come la mentalità primitiva sia essenzialmente monista. In tal senso, per i popoli primitivi non esistono un mondo naturale (governato da leggi fisiche) e un mondo soprannaturale (governato da leggi divine), ma c’è un’unica realtà, che vive e pensa. Che posto assume l’uomo all’interno di essa? Dimentichiamoci la contrapposizione tra soggetto e oggetto, frutto anch’essa di una separazione tramandata da Platone a Cartesio nella storia del pensiero occidentale. Per l’uomo primitivo, l’essere umano è parte integrante di questa realtà, è fuso con essa, la vive e la sperimenta con il corpo e con lo spirito, quotidianamente.

Il mana appare quindi come un approccio fondamentale della visione del mondo degli uomini primitivi, una caratteristica che essi attribuivano a tutto ciò che li circondava: dall’albero alla roccia, anche ciò che è inanimato, infatti, è dotato di questa «capacità di avere intenzioni»3.

Ecco che allora si capisce meglio perché il “mana”, secondo alcuni studiosi, sarebbe all’origine della religione: «[…] se il mana viene attribuito agli oggetti in sé, allora da ciò sorgerà l’idea che tale forza possa essere manipolata, il che porterà poi alla nascita della magia; se invece si riterrà che il mana non appartenga all’oggetto in sé, ma a uno spirito che lo controlla, allora da ciò nascerà la necessità di blandire quest’ultimo, e da questa esigenza si svilupperà successivamente la religione»4.

L’immaginario creato da David Lynch fa riferimento proprio a questa mentalità di tipo primitivo e magico, a una concezione della realtà monista.

Nella cittadina di Twin Peaks, infatti, materia e spirito si fondono, perdendo i propri confini. Ecco allora perchè nulla è come sembra, tutto nasconde una realtà che va al di là di ciò che si vede. É lo spirito, però, a prendere il sopravvento. Insomma, qualcosa mi dice che in Lynch, quel che a noi sembra un sogno è la vera realtà, di cui quella materiale appare come una mera manifestazione illusoria.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. D. Lynch, In acque profonde – Meditazione e Creatività, Mondadori, Milano.
2. Durkheim, Les formes elementaires de la vie religieuse, p. 284
3. R. Manzocco,  Twink Peaks. David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici, p. 26.
4. Ibidem

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“Comizi d’amore” di Pasolini: il conformismo è ancora tra noi?

Sono i primi anni ‘60 quando a Pier Paolo Pasolini, intento a cercare per l’Italia interpreti per il suo film Il Vangelo secondo Matteo, viene un’idea: intervistare gente d’ogni età, sesso ed estrazione sociale per sapere cosa ne pensa di sessualità, matrimonio, divorzio, prostituzione, ruolo della donna e – persino – omosessualità. Nasce così Comizi d’amore, documentario uscito nel ‘65. In esso troviamo anche interventi di celebri amici di Pasolini: lo scrittore Alberto Moravia e Cesare Musatti, considerato il padre della psicanalisi italiana, i quali dialogano con il cineasta friulano esternando i loro punti di vista.

L’audace perspicacia e il costruttivo anticonformismo emergono da ogni domanda posta da Pasolini, che si pone con eleganza e garbo, pur volendo indagare «nel più sincero proposito di capire e riferire fedelmente». All’inizio egli ragiona sul senso della sua inchiesta, e ciò equivale a una dichiarazione d’intenti: il reportage va fatto, afferma Moravia, poiché è cinema-verità che per la prima volta tratta in Italia un tabù, il sesso.

L’idea di girare questo documentario è accolta per lo più male dagli intervistati: di sesso si parla già troppo, dicono. Sconcerta, ad esempio, la carica aggressiva di un padre di famiglia interpellato su un treno: l’uomo, sulla difensiva, afferma di tenersi lontano dall’immoralità; a suo dire i problemi sessuali vanno visti solo nell’ottica della riproduzione e dell’esaltazione di famiglia e specie. Egli non accetta di parlare di figli omosessuali nemmeno per ipotesi: scappa dall’argomento perché prova repulsione.

Non c’è apertura nemmeno in una balera milanese: degli “invertiti” non si sa nulla né se ne vuole sapere. L’unica cosa certa è che nessuno desidera averli come figli: l’omosessualità è considerata innaturale. Pasolini domanda: «Non vorreste conoscere l’argomento per capirlo?», ma le risposte sono quasi sempre negative. Chi risponde affermativamente crede che l’omosessualità possa essere curata e/o prevenuta.

Non a caso Pasolini intitola questa parte del suo film-verità «Schifo o pietà?»: la compassione sembra essere l’unico altro sentimento possibile nei confronti di chi è attratto da persone dello stesso sesso.

L’accettazione giunge dalla saggezza ungarettiana: il poeta, interrogato sulla normalità e l’anormalità sessuale, afferma serafico che tutti gli uomini sono, in realtà, anormali, fin dal primo momento: «l’atto di civiltà, che è un atto di prepotenza umana sulla natura» è, di fatto, «un atto contro natura». Ogni uomo, continua, è diverso nel corpo e nello spirito, di conseguenza tutti «in un certo senso, sono in contrasto con la natura».

Normalità e anormalità sono uno yin e uno yang irreversibilmente contaminati e destinati a fondersi cancellando ogni linea di demarcazione.

Dalle interviste emerge che “non sta bene” mostrarsi disinibiti, informati sul sesso, tolleranti. “Sta bene”, invece, indossare una maschera di decoro e nascondere i fenomeni scomodi, come la prostituzione. Pasolini ne discute poiché dal ‘58 era entrata in vigore la legge Merlin che l’aveva messa al bando chiudendo le case di tolleranza; ma la gente – e le prostitute stesse – preferisce che le case chiuse esistano: dietro le loro mura il mestiere più vecchio del mondo può continuare a essere esercitato «in maniera onesta» e omertosa.

Qual è invece l’opinione degli italiani in merito al divorzio1?

Molti, soprattutto donne, si dicono favorevoli. Ma c’è chi, come un padre con il figlioletto in braccio, spiega con arroganza che «il matrimonio è un fatto sociale, le istituzioni non devono cambiare e la famiglia è sacra: forma il cittadino e va difesa; senza il nucleo familiare che tipo di moralità si avrà?».

Dello stesso avviso è un’aggressiva signora anziana, convinta che il matrimonio sia la legge di Dio, che va rispettata a maggior ragione in Italia, “casa” del Cattolicesimo. Nelle spiagge calabresi viene addirittura detto che gli episodi di violenza fra coniugi sono preferibili, perché «divorziando l’uomo resta cornuto». La società è – specie al Sud ma non solo – fortemente retrograda: si pensa che l’onore della donna “angelicata”, sempre e comunque inferiore all’uomo, vada ipocritamente difeso.

Pasolini si rende conto che «se c’è un valore in questa nostra inchiesta, esso è un valore negativo, di demistificazione. L’Italia del benessere materiale viene drammaticamente contraddetta nello spirito da questi italiani reali», che nuotano nel più bieco perbenismo qualunquista. Secondo Musatti vestiamo i panni conformistici per proteggerci dall’oscuro antro che racchiude le nostre pulsioni più primordiali e più vere.

Oggi, dopo più di cinquant’anni, parlare di sesso è più facile, ma resta «estremamente faticoso» come rileva Pasolini. C’è ancora tanto silenzio intervallato da episodi di violenta intolleranza, tanta ignoranza pigra e testarda. Servirebbero coraggio e genuinità, che Pasolini ritrova solo nei giovani, «la vera sorpresa dell’inchiesta»: le loro idee sono limpide e (ancora) non filtrate da educazione genitoriale-sociale o morale cattolico-borghese.

Comizi d’amore è sorprendentemente attuale, poiché ha un intento conoscitivo e una straordinaria forza veridica. Guardandolo, ci si accorge con amarezza che i nostri tempi non sono poi così progressisti: pensiamo al Family Day, alla demonizzazione della teoria gender, all’antidiluviana convinzione che un bambino necessiti a ogni costo di un uomo e di una donna per essere cresciuto in maniera sana.

L’essere umano è un oceano vasto e sfaccettato, ha le idee più disparate, per i motivi più disparati. Per questo dovrebbe esserci dialogo e comprensione dell’altrui punto di vista e stile di vita: così si sconfigge l’oscurantismo e l’odio.

Per dirla con Musatti: «quando una credenza viene accettata passivamente, è lì che nasce il conformismo» – testardo, aggressivo, irragionevole.

A fine documentario compaiono due giovani sposi, Tonino e Graziella, pregni d’una «grazia che non vuole sapere»; ma la loro candida ignoranza è invece colpevole. L’augurio che Pasolini rivolge loro è: «al vostro amore si aggiunga anche la coscienza del vostro amore».

 

Francesca Plesnizer

 

NOTE:
1. Il divorzio sarebbe stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano con la legge Fortuna-Baslini nel ‘70.

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Appunti sul concetto hegeliano di libertà

Kierkegaard detestava Hegel, lo considerava «una parentesi chiusa all’interno di Schelling». Come tutti i nemici, tuttavia, Kierkegaard e Hegel hanno qualche affinità (non si può detestare chi non c’assomiglia almeno un po’). La più evidente, è che i due sembrano concordare sul fatto che la libertà non pertiene alla costituzione terrena dell’uomo, ma all’ambito spirituale della sua essenza. Scrive Hegel:

«L’essenza dello spirito è, quindi, formalmente, la libertà, la negatività assoluta nel concetto come identica con sé»1.

Cerchiamo di ricostruire i passaggi del ragionamento: la libertà è un negativo assoluto, ovvero il nulla. Definiamo tale nulla:

«Il puro essere è la pura astrazione, e, per conseguenza, è l’assolutamente negativo, il quale, preso anche immediatamente, è il niente. […] Reciprocamente, il niente […] è il medesimo che l’essere»2.

Da cui consegue che essere e nulla sono lo stesso, e dire libertà significa dire (il) nulla; naturalmente, la petizione d’identità tra essere e nulla non basta alla riflessione che, per sua natura, si mette alla ricerca di determinazioni precise per cui l’essere e nulla si dinguano. Ma non approfondiremo la questione: torniamo alla problematica della libertà.

Hegel, all’altezza delle Aggiunte al §87 dell’Enciclopedia, ci propone un’interessante annotazione sul sensum libertatis. Leggiamo:

«La più alta forma del niente-per-sé sarebbe la libertà; ma questa è la negatività in quanto si approfondisce in se stessa nella massima intensità ed è insieme essa stessa, anzi, assoluta affermazione»3.

Ora, che significa che il nulla “per-sé” è la libertà? Che vi è un nulla-in-sé e un nulla-in-sé-e-per-sé distinti dalla libertà. Dato che ogni determinazione è dialettica, e si svolge in tre momenti (auto)esplicativi, occorre studiare il concetto di nulla in questo suo movimento.

Partiamo, dall’in-sé del nulla, e torniamo indietro per affermare di nuovo che esso è:

«Puro nulla. È semplice simiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione di contenuto, indistinzione. Esso è l’assenza di determinazione, lo stesso che il puro essere»4.

ovvero lo stesso inconsapevolmente dell’essere, in quanto il nulla non si è ancora rapportato all’altro-da-sé, che a dire il vero è lo stesso di sé, perché non è ancora uscito da sé.

Nel suo per-sé, il nulla si mostra, dunque, nella figura della libertà. Resterebbe da chiedersi di qual forma di libertà parliamo. Analizziamo la questione. In questo momento antitetico, il nulla penetra in sé stesso, reclama la propria “positiva significanza”, proclama la propria autonomia –  un’autonomia che la riflessione (e non la ragione) gl’accorda: esso si crede altro-dall’-essere e in questo senso, dunque, è libertà, nel senso cioè di “volontà di autoaffermazione”.

Nel suo in-sé-e-per-sé, il nulla è:

 «La verità comune tanto dell’essere quanto del niente è l’unità di entrambi, ovvero è il divenire»5.

Il divenire, in altre parole, è (teleo)logicamente unità di necessità e libertà, e lo possiamo chiamare storia e vita-del-mondo; ora, il fatto che la libertà si leghi a mondo e tempo, sarà un dato che ci tornerà utile più tardi.

Sinora ci siamo mossi nel campo della Scienza della Logica e lì, la libertà risiede in quanto astratta: la logica tuttavia, lo sappiamo, si evolve e l’Idea, che inizialmente è addormentata in sé, fuoriesce in Filosofia della natura. Nella natura, la libertà muore del tutto:

«La natura non mostra, nella sua esistenza, libertà alcuna, ma solamente necessità e accidentalità»6.

È interessante notare che, in Hegel, la libertà nasce come negativo, progredisce come negativonegato, e giunge al positivo dialetticamente. Cosa ci sia di particolare è evidente: di solito, la quidditas iniziale d’una dialettica è un positivo, negato, indi riaffermato. Nel caso della libertà questo processo, pur non mutando nelle tappe, assume ben altre forme a causa 1) della negatività di partenza, 2) della negazione particolare antitetica e 3) della sintesi come sussunzione di “negazione della negazione del negativo”: non nuova-negazione, bensì positiva-posizione, libertà-in-quanto-bene-vivente.

S’è visto che Hegel definiva l’essenza dello spirito con il termine libertà: conseguentemente, la branca più adatta allo studio della libertà-in-sé-e-per-sé, è la filosofia dello spirito. Hegel afferma:

«L’elemento spirituale è terreno del diritto, e suo punto di partenza è la volontà libera, così che la libertà costituisce la sua sostanza»7.

La libertà-in-sé-e-per-sé quale oggetto precipuo del diritto è sintesi di libertà-astratta (negativa) e di necessità-naturale: la libertà-in-sé-e-per-sé è bene vivente proprio in quanto «forma infinita, e non solo libertà-in-sé, bensì parimenti libertà per sé – verace idea»8.

A livello di filosofia dello spirito, e precisamente spirito oggettivo, la libertà ha fatto i conti con sé, ha compreso che la necessità non è suo contrario, ma la stessa cosa di sé medesima: è sé allo stesso modo in cui il nulla, nel divenire, comprende di esser lo stesso dell’essere.

La libertà autentica sussume su di sé le negatività della necessità e della libertà astratta, rendendole vive ed effettive e reali. In questo senso, il luogo ove la libertà astratta (individuale) e la necessità (naturale) s’incontrano, inverandosi reciprocamente, è lo Stato, il quale è:

«La realizzazione della libertà, […] secondo la sua divinità»9.

Nello Stato:

«La libertà perviene al suo supremo diritto di fronte agli individui, [comprendendo anche] il supremo dovere di questi di essere membri dello stato»10.

Essere liberi, dunque, significa inserirsi in una comunità plurale, questo almeno secondo il maestro di Stoccarda; questa opinione, tuttavia, trova Kierkegaard (e colui che scrive) in disaccordo. La comunità serve (per) la verace libertà, ma non rende veracemente liberi. Ognuno di noi si veda chiamato a sciogliere questo paradosso come meglio crede (ecco. Questa è libertà).

David Casagrande

NOTE:
1. G. W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, Milano-Bari, Laterza –  Biblioteca Universale Laterza, p. 374.
2. Ivi, pp. 102 e 104.
3. Ivi, p. 103.
4. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, tomo I, traduzione di C. Cesa, Milano-Bari, Laterza –  Biblioteca Universale Laterza, 1974 (201110), p. 70.
5. G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ed. cit., p. 104.
6. Ivi, pp. 247 e 248.
7. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio. Con le aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Milano-Bari, Laterza – Biblioteca Universale Laterza, 1999 (20106), p. 27.
8. Ivi, p. 38.
9. Ivi, p. 201.
10. Ivi, p. 216.

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Il tenebroso mondo gnostico

Può capitare a tutti a volte di sentirsi ingabbiati, incarcerati, imprigionati in questo mondo e di vedere i nostri desideri calpestati dai suoi abitatori, e di percepire pertanto la realtà che ci circonda come un’entità ostile, estranea, incomprensibile e profondamente maligna. Ma solo gli gnostici hanno saputo fare di questo angosciante sentimento una filosofia sistematica. Secondo questi pensatori, infatti, in questo mondo «tutto è pieno di tenebre… / Tutto è pieno di prigioni; / non c’è via d’uscita, / E si infliggono colpi a tutti coloro che vi giungono» (questo canto e quelli che lo seguiranno sono riportati nel bel libro di H.C. Puech intitolato Sulle tracce della Gnosi).

Per gnosticismo si intende un movimento spirituale e filosofico, le cui radici sono molto probabilmente da ricercare nell’era precristiana, diviso in varie sette e correnti diverse e particolarmente attivo tra il I e il IV sec. d.C. (ma protrattosi, secondo Puech, almeno fino al VII secolo d.C. e in certi casi perfino oltre – i Manichei, ad esempio, sopravvissero fino al XIV secolo, ma si pensi anche ai Mandei, che sono una comunità religiosa tutt’ora esistente), che si propone di far pervenire alla salvezza i suoi seguaci non tanto mediante atti di fede, quanto piuttosto attraverso la conoscenza di come veramente stanno le cose, anche qualora gli scenari dischiusi dalla contemplazione della “verità” siano sconcertanti o terribili da sopportare (gnosis in greco significa per l’appunto “conoscenza”). Tra i maestri gnostici di particolare spicco troviamo Basilide, Valentino, Marcione. Il Cristianesimo nascente combatté ferocemente e con successo questa “eresia” dalle origine sincretistiche, che proclamava di possedere un sapere mistico segreto che, pur essendo stato indicato da Cristo ad alcuni suoi discepoli, sarebbe stato colpevolmente ignorato dalla Chiesa.

Gli gnostici considerano l’uomo come un’anima divina precipitata in quella prigione che è costituita dal corpo (già Platone diceva che il “corpo”, in greco soma, è per l’anima una “tomba”, in greco sema). «Venuto dalla luce e dagli dèi, eccomi in esilio e separato da loro», recita una loro poesia; «Sono un dio e nato dagli dèi, / Brillante, scintillante, luminoso, / Radioso, profumato e bello, / Ma ora costretto a soffrire. / Mi hanno afferrato diavoli senza numero, / Orrendi, e mi hanno tolto la forza. / La mia anima ha perso conoscenza. / Mi hanno morso, tagliato a pezzi, divorato. / […] Contro di me urlano e si lanciano, mi tormentano e mi assalgono…», continua il canto in un crescendo di disperazione.

Del tutto logico, quindi, che gli gnostici, vedendosi incapaci di salvarsi con le proprie mani dal dolore che da ogni lato li assedia e li tormenta, rivolgano a Dio un’accorata richiesta di aiuto: «Possa tu liberarmi da questo profondo nulla, / Dal tenebroso abisso [di questo mondo] […] che altro non è se non tortura, ferite fino alla morte, / E dove né soccorritore né [vero] amico si trovano! Mai, assolutamente mai, [quaggiù] si trova la salvezza; […] / [Non sapendo che cosa fare per salvarmi,] piango su me stesso». Come si può vedere, tristezza, ansia, paura, depressione e un lacerante desiderio di trovare infine una protezione e un riparo sicuro dalle insidie della vita sono le principali tonalità emotive che emergono dai componimenti gnostici.

Sennonché, per gli gnostici, il dio creatore di questo mondo non può salvare. Egli, infatti, proprio come tutti gli dèi celesti minori – che gli gnostici definiscono “Arconti”, cioè “Signori” (dal greco archontes, “governatori” o “comandanti supremi”) – è profondamente malvagio, e non ha alcuna intenzione di tendere la propria mano all’uomo per trarlo fuori dall’incubo in cui è rinchiuso. I versi dell’inno Ad Arimane di Leopardi, pur essendo stati composti per altri scopi e peraltro lasciati incompiuti, possono offrire un perfetto ritratto del giudizio negativo e senza possibilità di appello che è formulato da questa corrente spirituale nei confronti del sommo Autore del­l’uni­ver­so. Qualunque sapiente gnostico avrebbe infatti potuto pronunciare, nel rivolgersi a tale entità minacciosa e malevola, le seguenti parole redatte dal poeta recanatese: «Re delle cose, / autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza, eterno / dator de’ mali e reggitor del moto/ […] Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. [Ma] pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […]. / Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte […]. Non posso, non posso più della vita».

Non è quindi a tale dio che si levano le strazianti preghiere di salvezza formulate dagli gnostici. Esse si rivolgono piuttosto al Dio nascosto e non-creatore che risiede beato “oltre i mondi e oltre i cieli”. Possiamo allora immaginare così il mondo come è visto dagli gnostici: una serie di sfere concentriche, ognuna delle quali (pianeta, stella o cielo che sia) è una sorta di perverso labirinto esistenziale governato da dèi oscuri e colmo di trabocchetti, trappole e vicoli ciechi, nonché infestato da pericoli, nemici e bestie feroci che non vedono l’ora di “fare la pelle” al malcapitato che abbia la sfortuna di imbattersi in essi.

«L’universo materiale» – scrive Hans Jonas nel suo studio intitolato Il principio gnostico – «ossia il dominio degli Arconti, assume [generalmente] la forma di una vasta prigione la cui cella più interna e sotterranea è la terra […]. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci concentrici». I sistemi gnostici più elaborati arrivano a contare fino a 365 di questi “cieli-guscio”, in ognuno dei quali regna «un’attiva forza demoniaca» che non intende solo opprimere, tiranneggiare e ostacolare le anime dei vivi, ma anche quelle dei morti: «come guardiano della sua sfera, ogni arconte sbarra il passaggio alle anime che tentano la risalita dopo la morte, per evitare la loro fuga dal mondo e il loro ritorno a Dio», puntualizza infatti Jonas.

Al di là di tutti questi orrori, abbiamo detto, sta però la salvezza: oltre i numerosi cerchi cosmici esiste infatti il “Regno della Luce”, abitato da un Dio eterno che è tutto bontà, amore e luminosità. È il “Padre Celeste” annunciato da Gesù. Gli gnostici, quindi, si schierano con il Dio protettivo e misericordioso descritto nel Nuovo Testamento, che ha in Cristo il suo araldo, ma contro quello che essi considerano il Dio collerico e vendicativo del Vecchio Testamento, che avrebbe invece in Mosè il suo testimone (almeno se si segue l’antica tradizione interpretativa – ormai eclissata, ma ovviamente ancora viva al tempo degli gnostici – per cui sarebbe proprio quest’ultimo personaggio l’estensore del “Pentateuco”, l’insieme dei primi cinque libri dell’An­ti­co Testamento).

Pur essendo inconoscibile e misterioso, il buon Dio talvolta si fa sentire: la sua voce conturbante, che riesce a sovrastare per imponenza e autorità quella del folle e malvagio demiurgo di questo mondo, in certe particolari occasioni si rende infatti udibile ad alcuni eletti. Essa parla direttamente ai loro cuori (che in tal modo – dice Clemente Alessandrino negli Stromata – vengono trasformati da «dimora di demoni» a luoghi «beatificati», «santificati» e «risplendenti di luce») per “risvegliarli” e concedere loro particolari rivelazioni, indicazioni e suggerimenti che saranno utili agli iniziati per raggiungere la salvezza tanto agognata.

Si tratta allora, per gli gnostici, di trovare il modo, mediante l’elaborazione del loro sapere esoterico, di oltrepassare tutte le sfere celesti e di uscire così definitivamente dai bui e infernali corridoi del labirinto del­l’esi­sten­za terrena, per andare finalmente incontro a quel perfetto Dio Padre che ha il suo principale messaggero in Gesù, o di sperare che Egli per primo, commosso dai nostri patimenti e dalle nostre invocazioni, e a sua volta desideroso di ripristinare l’Unità perduta, decida di farsi avanti verso di noi, abbattendo le barriere che ci separano da Lui e quindi dalla somma beatitudine.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
Hans Jonas, Il principio gnostico, a cura di C. Bonaldi, Morcelliana, Brescia 2011
Henri-Charles Puech, Sulle tracce della Gnosi, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 2006

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Le metafore del corpo e dello spirito

<p>Il Vincolo di Cupido - Metafore del corpo e dello spirito</p>

Ogni uomo è utopia per sé stesso e per l’Altro; ogni uomo è sintesi di prese di coscienza del mondo e degli altri uomini che lo circondano. Uomini come cumuli di bisogni e desideri di trascendenza, come cumuli di dispiacere e di nuove volontà e desideri e bisogni sempre nuovi e sempre più sfuggenti. Un bel giorno, l’uomo sembrò così sia l’animale infelice che quello esaltato; un essere incorniciato tra l’irrimediabilità della morte e la consapevolezza di una vita in continua metamorfosi, all’inseguimento di un qualcosa che non si fa prendere. In continua fuga dal proprio essere, vincolato e legato alle sue affezioni nonostante queste sono per natura sfumate nella tonalità dei suoi pensieri e delle sue pratiche. Un uomo principalmente corpo del caos dell’universo e della natura, entro limiti e funzionalità; un caos impegnato a disporsi chiaramente a sé stesso e al mondo e agli altri seppure in continua fuga ed in continua evanescenza. L’uomo è un po’ come te caro mare e come il vento che ti orienta e muove la tua superficie con tutte le apparenze e le cose che ti ornano; muove a sua volta le cose che stanno nel tuo profondo e quello di noi uomini che ti stiamo a guardare attraverso lo specchio della conoscenza. Ma questo tuo muovere le cose, non è solo atomi, concetti e scienza; di più ancora muove le profondità degli uomini ed essi sono i significati altri che ti pervadono lo spirito. Quelli che non ci sono dati ma di cui siamo ugualmente padri. Più ancora, quindi, muove gli uomini e li porta a te mio mare! Sopra tutto è quell’esser nostro su per questi venti, nel piacere turbolento del non sapere e del perdersi; più ancora è il riflesso dell’intelletto, ossia il pensiero, la sua ombra, che si anela su se stessa e pensa al piacere anche per mezzo di attese e di scientifico dispiacere; come uccelli contro tempesta, senza parti e senza scienza ma con tanta volontà. Io stesso, scrivendo, anelo adesso il corpo a ciò che indichiamo come spirito; così il mio corpo come il mare, come il foglio sul quale Ti scrivo; è il corpo, il mio homme de lettres, e lo spirito, il vento, mi sussurra la solita annosa domanda: “Tu sei come me e sei persino me. Sei una Voce della natura, corpo dell’Universo e anche tu con una moltitudine di possibilità, ma chi tra noi due è anche metafora dell’altro?”

Salvatore Musumarra