Una citazione per voi: Spinoza e Dio

 

DEUS SIVE NATURA

 

Quest’affermazione di Baruch Spinoza – filosofo olandese del XVII secolo – è ripresa dall’Etica, il suo testo fondamentale contenuto all’interno del volume Opera posthuma pubblicata nel 1677 pochi mesi dopo la morte dell’autore. Spinoza è uno dei pensatori fondamentali della modernità, che ha condizionato enormemente gli sviluppi futuri della filosofia, tanto che qualsiasi filosofo a lui successivo non ha potuto non confrontarsi con la sua dottrina.

Carattere peculiare di Spinoza è un assoluto determinismo, che verrà definito anche determinismo logico, poiché egli ritiene che è solamente la nostra ignoranza della catena causale che porta a un determinato evento a permetterci di parlare di “libero arbitrio” o di “finalismo”. Nonostante questa ferrea causalità, nell’Etica, Spinoza ritiene comunque di riuscire a dimostrare la non-schiavitù dell’uomo.

La sua metafisica si snoda intorno al concetto fondamentale di sostanza: «Per sostanza intendo ciò che è in sé e che per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba formare». Data questa definizione, per Spinoza è allora inevitabile che esista un unica sostanza, Dio, che consta di infiniti attributi. Di questi attributi l’uomo conosce solamente pensiero ed estensione e tutti gli enti finiti esistenti non sono che modi, ovvero modificazioni di questa unica, eterna e infinita sostanza e dei suoi attributi. Si comprende immediatamente come il Dio di Spinoza sia assolutamente diverso da quello della tradizione ebraica e cristiana: in prima battuta sottolineiamo come non possieda i caratteri qualitativi classici (bontà, misericordia ecc). Anche questa diversità ha causato il suo allontanamento dalla comunità ebraica e accuse di eresia che non abbandonarono la sua figura se non dopo molto tempo. Il suo sistema, infatti, veniva accusato di panteismo, e la sua celebre citazione «Deus sive natura» ricalca quest’etichetta: essa, infatti, significa «Dio, quindi, natura»; «Dio, ovvero, natura». Un Dio, dunque, non antropomorfo; bensì un’unica sostanza infinita ed eterna nel cosmo, di cui noi non siamo altro che sue modificazioni.

Potrebbe sembrare una visione “fredda” della nostra vita ma tuffandosi nell’Etica si può scoprire come il sistema di Spinoza liberi l’uomo dalla sua condizione di mortalità e da legami granitici con le idee di “bene” e “male” (non per nulla Nietzsche sarà catturato dal filosofo olandese). Questo fa conseguire un’enorme carica di responsabilità da parte delle comunità e degli individui, infatti la produzione spinoziana non si limiterà a trattati metafisici ma anche polititi e teologici, promuovendo – semplificando – la laicità dello stato e la costituzione democratica.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

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Perché la tua opinione non è mai “solo la mia opinione”

Immaginate di essere a cena fuori con un’amica. Ad un certo punto della serata iniziate a parlare di omosessualità (tanto per fare un esempio), al che la vostra amica dice: “secondo me l’omosessualità è contronatura, però è solo la mia opinione”. Indipendentemente dalle proprie idee sull’argomento, affermazioni di questo genere offrono uno spunto di riflessione interessante: è davvero possibile che tale opinione sia “solo un’opinione”? In altre parole, è forse possibile che una credenza di questo tipo non abbia alcuna conseguenza? In questo articolo cercherò di dimostrare perché queste domande meritino una risposta negativa. Partendo da delle osservazioni presenti nel saggio The Ethics of Belief (1877) di W. K. Clifford (1845-1879), avanzerò l’idea che ogni opinione, dalla più triviale alla più controversa, ha un’influenza sulla persona che la esprime, su chi gli sta attorno e possibilmente su tutta la società.

Iniziamo dall’opinione in sé. Questa non è mai isolata, “sospesa nel vuoto”, al contrario, essa entra a far parte di quel sistema di credenze che dà forma alla nostra personalità, cioè diventa in qualche modo parte di noi. Seguendo l’esempio fatto da Clifford, credere in qualcosa senza alcuna evidenza non è un problema di per sé, quanto per il fatto che quell’opinione infondata diventa parte di noi, rendendoci creduli e più predisposti ad accettare altre opinioni simili. Allo stesso modo, possiamo prendere come esempio l’opinione “la donna deve essere femminile”. Lontana dall’essere un flatus vocis, essa si unisce alle altre credenze di colui che la esprime, influenzandone il modo di pensare. La persona che giunge a tale opinione potrebbe, ad esempio, diventare meno disposta ad accettare idee di stampo liberal femminista, o potrebbe diventare più incline a sostenere altre credenze di natura conservatrice.

In secondo luogo, le idee di un individuo influiscono ovviamente sulle sue azioni. Come spiega Clifford, una credenza non è realmente tale se non ha alcuna influenza sul comportamento di chi la ha. L’agire di coloro che sostengono, poniamo, che “le persone di colore residenti in Italia non sono italiane” sarà chiaramente diverso da coloro che credono il contrario, i due gruppi tenderanno ad esempio ad avere comportamenti diversi verso le persone di colore che incontreranno nella loro vita, o a votare partiti diversi. Similmente, la ragazza di cui si parlava in introduzione sarà probabilmente meno disposta a votare per un partito in favore delle unioni civili.

Quest’ultima osservazione ci porta alla terza e ultima tappa del nostro ragionamento: nessuna credenza è – con le parole di Clifford – una questione privata, nel senso che nessun essere umano vive isolato, perciò le nostre azioni hanno quasi sempre delle conseguenze su chi ci sta attorno e, più in generale, su tutta la società. Si pensi a una qualunque delle opinioni prese in considerazione in questo articolo. Esse hanno inevitabilmente delle conseguenze per la vita dei gruppi di esseri umani in questione (omosessuali, donne, persone di colore), conseguenze che possono essere dirette (se entriamo direttamente a contatto con queste persone) o indirette (per esempio attraverso il partito per cui votiamo). In conclusione, qualunque credenza, influenzando prima (1) la nostra personalità e poi (2) le nostre azioni, influenzerà – dal momento che viviamo in società – anche (3) la vita di altre persone, in meglio o in peggio.

Avere una qualunque opinione innesta inevitabilmente un circolo virtuoso o vizioso (a seconda dell’opinione in questione): noi siamo parte della società, e se è vero, come ho cercato di dimostrare, che ciò in cui crediamo ha sempre qualche effetto, per quanto piccolo, sulla società, ciò significa che ogni nostra opinione ha un effetto su di noi. Credere, per esempio, alle fake news ci porta ad essere delle persone credule e ad agire come tali; le nostre azioni tenderanno dunque a rendere la società – di cui noi sono parte – un po’ più credula (attraverso, ad esempio, la condivisione su Facebook di tali notizie), rendendo, in ultima istanza, noi stessi più creduli. Cosa dovremmo fare a riguardo? Dovremmo forse smettere di avere opinioni? Ciò sarebbe fisiologicamente impossibile. Come già sottolineava Spinoza all’inizio del capitolo XX del suo Trattato, impedire ad un essere umano di avere un’opinione e di esprimerla equivarrebbe ad impedirgli di respirare. A mio dire, l’obiettivo è quello di diventare più cauti nel modo in cui arriviamo a formarci delle credenze e nel modo in cui le esprimiamo, e per raggiungerlo è sufficiente riconoscere che una qualunque opinione, anche se banale, può avere delle conseguenze esplosive. Un’opinione non è mai “solo un’opinione”. Prenderne pienamente coscienza non può che renderci dei pensatori più accorti e, in definitiva, degli esseri umani migliori.

 

Alberto Cavallarin

 

Alberto Cavallarin è laureato in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia e studia attualmente nel Research Master in Philosophy all’Università di Utrecht.

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Il secondo libro dell’Etica di Spinoza: il parallelismo

Avendo già affrontato il primo libro1, continuiamo allora la nostra analisi dell’Etica di Spinoza concentrandoci sul secondo.

Questa parte dell’opera è dedicata dal filosofo all’analisi della mente, in particolare al rapporto tra questa e il corpo. Una delle principali tesi che emerge è il cosiddetto parallelismo o corrispondenza, la proposizione VII recita:

«L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose»2.

Cosa significa? Lo sforzo spinoziano è tutto incentrato sullo sviluppo degli acquisti derivanti dalla prima parte. In particolare, come gli attributi divini di estensione e pensiero testimoniavano, in modo diverso, la natura di Dio – ovvero l’unica ed infinita sostanza esistente, che del Dio della tradizione ha solamente il nome – allo stesso modo, corpo e mente potremmo dire che esprimano una stessa ed identica natura. Mente e corpo sono infatti «modi» dell’unica sostanza, ossia manifestazioni della sua natura; rispettivamente, la prima è modificazione finita dell’infinito attributo del pensiero e il secondo modo finito dell’infinito attributo dell’estensione.

Risulta dunque chiaro come possano esprimere lo stesso «ordine»: mente e corpo sono due modi di intendere ed esprimere la stessa cosa, da due punti di vista differenti ma equivalenti. I due attributi esprimono infatti la stessa essenza, ed è per questo che c’è corrispondenza: all’interno di ognuno vige la rigida causalità determinista. Attraverso una proporzione matematica potremmo dire che come la causa sta all’effetto (corpo), così la conoscenza della causa sta alla conoscenza dell’effetto (mente). Spinoza infatti intende la mente come «[…] l’idea di una cosa singola esistente in atto»3, e visto che «L’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione in atto, e niente altro»4, allora per il filosofo la mente è idea del corpo. Per comprenderla risulta quindi necessario indagare il corpo, infatti dopo la proposizione XIII prende avvio quello che viene comunemente etichettato come il “Trattatello di fisica e fisiologia”, nel quale Spinoza si dedica alla descrizione di tutto ciò che concerne il corpo umano: «A partire da qui comprendiamo non soltanto che la mente umana è unita al corpo, ma anche che cosa si debba intendere per unione di mente e corpo. Veramente nessuno la potrà intendere adeguatamente, ossia distintamente, senza prima conoscere adeguatamente la natura del nostro corpo»5.

Cosa comporta il parallelismo? Il grande debito è nei confronti di Cartesio, che ne L’uomo aveva mostrato le grandissime capacità del corpo umano, attraverso una fisiologia che dimostrava l’inutilità della mente.
La tesi fondamentale che Spinoza vuole negare è infatti quella di considerare le azioni corporee come un effetto di cause mentali. Un’intuizione, questa, che ancora oggi siamo forse naturalmente portanti a condividere. Penso infatti che sia sentore comune quello di ritenere la mente come il “direttore” dell’orchestra corporea: noi decidiamo attraverso la mente di compiere un’azione, ad esempio alzare il braccio, e questo di conseguenza si muove. Il parallelismo spinoziano rompe completamente questo schema: mente e corpo non si trovano in una relazione di causalità (dove la prima è causa del secondo), piuttosto esprimono una corrispondenza, ovvero entrambi testimoniano il nesso causale che governa l’esistenza di ogni singola cosa, in cui il contenuto della mente umana sono allora le idee degli eventi corporei.

Chi in precedenza non riusciva ad accettare che la mente non obbligasse il corpo, secondo Spinoza, non si era mai reso conto di quale fosse il reale potere del corpo, degradandolo a mero esecutore materiale di volontà mentali. Riconoscere invece la tesi spinoziana, significa di conseguenza accettare che anche le emozioni umane, oggetto della terza sezione dell’Etica, non siano altro che una parte inserita all’interno della causalità naturale che regna nel mondo. Non per nulla, all’inizio del libro successivo, Spinoza affermerà:

«Tratterò dunque della natura e delle forze dei moti dell’animo, e della potenza della mente sopra di essi, con lo stesso metodo impiegato nelle parti precedenti su Dio e sulla mente, e considererò le azione e le voglie umane come si se trattasse di linee, di figure piane, o di corpi»6.

Indagare la mente significa, ovviamente, anche interrogarsi sulla conoscenza e Spinoza, all’interno di questa sezione, propone la famosa teoria dei tre (o quattro) generi di conoscenza. Chiaro è il debito verso Platone e la celebre “teoria della linea della Repubblica7. Non abbiamo qui lo spazio per approfondirla né per dedicarci agli altri grandi temi di questa parte dell’Etica; rimando perciò all’opera e consiglio di nuovo l’ottima guida di Emanuela Scribano8.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. Lo trovate a questo link.
2. B. Spinoza, Etica, a cura di P. Cristofolini, Pisa, Edizioni ETS, 2014, p. 87.
3. Ivi, p. 93, eIIpXI.
4. Ivi, p. 95, eIIpXIII.
5. Ivi, pp. 95-97, eIIpXIIIc.
6. Ivi, pp. 151-153, eIIIpr.
7. Cfr. Platone, Repubblica, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 2010, pp. 721-729, 509d-511e.
8. E. Scribano, Guida alla lettura dell’ETICA di Spinoza, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008.

[Photo credit Alina Grubnyak via Unsplash]

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Il primo libro dell’Etica di Spinoza: «Deus sive natura»

Ridurre l’Etica a qualche riga è un tentativo impossibile, dunque abbiamo deciso di concentraci sul primo dei cinque libri che la compongono – il De deo – rendendoci comunque conto del persistere della difficoltà. 

Pubblicata postuma nel 1677, senza nome dell’autore e senza luogo di edizione, all’interno della raccolta Opera posthuma, l’Etica rappresenta il compimento del lavoro filosofico spinoziano.
Le reazioni che seguirono a questa pubblicazione furono d’orrore: la sua dottrina venne considerata «empia» e «pericolosa», il suo autore fu additato come un «ateo» e un «nemico della religione»1. Cosa causò una reazione così accesa? La risposta è da ricercarsi senza ombra di dubbio nell’immagine che Spinoza diede della divinità. Il Dio dell’Etica, infatti, si distanzia enormemente da quello della tradizione giudaico-cristiana, e, se letto superficialmente, questo testo può condurre ad una visione panteista, materialista o animista dell’Universo. In realtà, la questione è molto più profonda.

Innanzitutto è da sottolineare come la lingua – il latino – non abbia aiutato Spinoza nella stesura delle proprie idee, estranee a quel linguaggio, e di come l’utilizzo di concetti cartesiani, unito a quello di espressioni non del tutto “felici”, abbiano costituito fin dal principio motivi di difficoltà d’interpretazione.
Il filosofo olandese ci guida attraverso un linguaggio geometrico: definizioni, assiomi, proposizioni, dimostrazioni, lemmi e scolii si seguono e concatenano dando vita a una struttura molto complessa e articolata.

La parte De deo è dedicata alla metafisica e allo studio ontologico. Per Spinoza, sostanza è «ciò che è in sé e per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba formare»2 e per attributo intende «ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costitutivo della sua essenza»3. La convinzione del pensatore è che Dio sia l’unica e infinita sostanza esistente, formata da infiniti attributi – dei quali l’uomo può conoscerne solamente due: estensione e pensiero – e che tutto ciò che la filosofia precedente aveva interpretato come enti non siano altro che modi di quest’unica sostanza infinita.
Molto si è dibattuto sul termine “modo”4, e su cosa Spinoza volesse intendere con esso, ma non è questo il luogo per entrare nel merito della questione. Per ora basti sottolineare come questa nuova concezione degli essenti abbia messo completamente in discussione le precedenti credenze. Successivamente al primo periodo di oscurantismo, infatti, l’opera ed il filosofo olandese vennero riscoperti ed ebbero luogo interpretazioni e nuove teorie molto feconde, come ad esempio la rilettura herderiana in chiave vitalistica dell’Etica5.

Molto curiosa è la teoria della libertà spinozista: «Sarà detta libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura e che da sé sola si determina ad agire»6. Visto che «per causa di sé» Spinoza intende «ciò la cui essenza implica l’esistenza» e che solo in riferimento all’unica sostanza si può parlare di esistenza connaturata («L’esistenza di Dio e la sua essenza sono un’unica e identica cosa»7), ne conseguirà necessariamente che solo Dio è libero. Libertà, comunque, molto diversa da quella del senso comune dato che si tratta di una “libera necessità”. Lo afferma nella lettera 58 a Schuller e lo esplicita anche nell’Etica: «Le cose non si sono potute produrre da Dio in altro modo, né con altro ordine, da come sono state prodotte»8.

Uno dei temi più dibattuti del primo libro è la tesi secondo la quale all’essenza di Dio appartiene l’estensione, questione affrontata nell’ampio scolio alla quindicesima proposizione. L’estensione è l’essenza della materia e la tradizione era concorde nell’affermare che Dio non potesse essere esteso – come Spinoza stesso ci mostra in questo luogo – perché altrimenti diverrebbe formato da parti, e dunque non infinito, o perché non sarebbe perfetto, in quanto gli apparterrebbe la sostanza materiale divisibile. Per Spinoza, invece, «la sostanza, e quindi l’attributo che la esprime, ossia l’estensione, non è composta di parti ma è unica e indivisibile»9. Causa della scorretta interpretazione da parte dell’uomo è per Spinoza l’utilizzo dell’immaginazione invece che dell’intelletto, dato che la prima non è capace di raggiungere la conoscenza dell’infinito. Ma la tesi spinoziana è anche più radicale: «[…] anche nel caso in cui si supponga che la sostanza estesa sia divisibile, non si vedono ragioni perché essa debba dirsi indegna della natura divina “purché si conceda che è eterna e infinita”. È così compiuto il passo decisivo per arrivare alla conclusione più impegnativa della metafisica spinoziana: Dio coincide con la natura; Dio è causa immanente e non trascendente del mondo»10: deus sive natura.

Concludiamo qui questo breve commento a una delle opere più straordinarie della filosofia occidentale. L’attualità del suo autore è manifestata a più riprese da studiosi di vari ambiti scientifici che vedono in Spinoza un contemporaneo con cui potersi rapportare11. Quest’opera è certamente non di immediata comprensione e può scoraggiare, ad una prima lettura, il metodo geometrico da Spinoza utilizzato. Ma facendosi aiutare da una buona guida (come quella di Emanuela Scribano riportata in nota) siamo convinti che anche il lettore meno avvezzo a questi temi possa scoprire un nuovo mondo, sconfinato e attraente, con cui entrare in contatto.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. Cfr. V. Morfino, Genealogia di un pregiudizio, Hildesheim, Georg Olms Verlag, 2016.

2. B. Spinoza, Etica, P. Cristofolini (a cura di), Pisa, EDIZIONI ETS, 2014, p. 27, def. III.
3. Ibidem, def. IV.
4. Per esempio cfr. V. Morfino, op. cit. e G. Mori, Bayle philosophe, Paris, Honoré Champion Éditeur, 1999.
5. Cfr. J. G. Herder, Dio. Dialoghi sulla filosofia di Spinoza, trad. it. di I. P. Bianchi, Milano, FrancoAngeli Edizioni, 1992.
6. B. Spinoza, op. cit., p. 27.
7. Ivi, p. 53, prop. XX.
8. Ivi, p. 65, prop. XXXIII.
9. E. Scribano, Guida alla lettura dell’ETICA di Spinoza, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008, p. 28.
10. Ivi, p. 31.
11. Cfr. ad esempio A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Milano, Adelphi edizioni, 2004.

[Immagine tratta da Wikipedia]

 

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Astratto e concreto: splendore e miseria di due aggettivi

Noi siamo come abituati a pensare che le regioni del concreto e quelle dell’astratto non si tocchino; che a parlare astrattamente si dimentichi la realtà, mentre a farlo concretamente si abbia – sulla realtà – presa più efficace, sicura, muscolosa. Così, si finisce per pronunciare la parola astratto quasi con una smorfia sul viso, guardinghi, e di chi parla per astrazioni ci si fida dopo attenta valutazione.

Noi dunque, noi frequentatori della filosofia, saremmo anche frequentatori delle eteree lande dei cumulonembi, delle nubi dell’astrattezza, preoccupati, impauriti dalla realtà del concreto. E, per estensione, la stessa storia della filosofia avrebbe visto passare avanti a sé filosofi troppo astratti, albergatori del cielo della verità, e filosofi più vicini al concreto, ben provvisti di robusto senso del reale. Hegel da una parte, Marx dall’altra.

Ciò che vorremmo è dissolvere la contesa – e con essa il problema, ovvero tentare di mostrare come concreto e astratto siano uno, come in realtà siano lo stesso. E lo faremo così, retrocedendo rispetto ai termini della disputa per guardare all’etimo della parola filosofia. Ora, filosofia è nome greco, ed è la composizione − la felice composizione − di altri due nomi greci: sophia e philia. Cominciamo con il primo.

Philia, solitamente è tradotto con amore. Ebbene, philia non indica esattamente l’amore, e ciò lo testimonia il vastissimo ventaglio lessicale con il quale la lingua greca ricopre la semantica dell’amore, di cui il sostantivo eros è solo l’esempio più noto. Philia denota piuttosto l’affinità, la cura, la vicinanza d’animo – non l’amicizia, qualcosa di più profondo, di più sottile. Philoi sono i compagni di Achille, l’Achille irato dell’Iliade che solo ai compagni concedeva di entrare nella sua tenda; Platone, nella Repubblica, chiama philoe le cagnette, e lo sono per le attenzioni e le cure e i riguardi che prestano ai loro cuccioli. Non amore, neanche amicizia, come detto – affinità, piuttosto, cura: questo è philia.

Sophia, invece, è il sapere. Sophos, il sapiente, è tale perché detiene il sophos, il sapere – appunto. Ma in sophia risuona il sostantivo phos: luce. Dunque, il sapere che è sophia non è la certezza che le cose siano così e non colà, che marzo è primavera e dicembre inverno; sophia è il sapere che illumina – è il sapere della luce, che, come diceva Vico, «in tal densa notte di tenebre» «apparisce» e «non tramonta». 

Ritorniamo ora al sostantivo composto, filosofia, e raffiniamone l’analisi: filosofia non è l’amore per il sapere; filosofia è l’affinità con un sapere, il sapere che illumina; è l’affinità che nasce e matura e vive nel prendersi cura del sapere, che lega indissolubilmente l’uno all’altro, sapere e cura del sapere, al costo di gioie e patimenti – come la cagna con i suoi cuccioli. 

Il nesso che lega la filosofia alla luce è inscindibile, è connaturato alla peculiarità del sapere che rende la filosofia tale: il sapere che illumina. E sciolto l’etimo del sostantivo filosofia, si capisce anche perché un poeta, e filosofo, come Dante nell’ultima Cantica della Commedia invochi Apollo, dio della luce, e non le Muse. Dante abbisogna della luce di Apollo, così che la sua memoria possa restare forte e trattenere la stampa impressale dalla conoscenza più alta, la visione di Dio.

Proseguiamo. Foucault ha mostrato che il termine “conversione” nasce al di fuori del contesto religioso entro il quale tendiamo oggi a relegarlo. È Platone ad impiegarlo nel suo Alcibiade I, e poi con lui le scuole ellenistiche, quelle alessandrine, e giù giù fino al cristianesimo medievale. In Platone “conversione” è l’atto del cambiamento radicale, è il dorso della mano che si volge in palmo, è la curva del tornante che ripiega nella montagna e lascia dietro sé, invisibile, la coda della strada. “Conversione” è il salto da uno stato ad un altro, l’irrevocabilità di un gesto che si assume totalmente. Il convertito alla causa del veganesimo, ad esempio, assume su di sé il sapere che ora patrocina: ora egli difende una visione delle cose che prima non era la sua.

Lo stesso vale per il convertito alla causa della filosofia, e cioè a quel sapere che delle cause va in cerca. Il filosofo è un convertito. Facciamo un esempio.

Nel Gorgia, Platone fa dire al suo Socrate che ognuno è tale e quale al sapere che apprende. Cosa dicono le parole di Socrate? Dicono che il sapere converte. Cioè dicono che, banalmente, l’ingegnere pensa da ingegnere: calcolando; il commerciante da commerciante: cercando profitto; il sofista da sofista: gonfiandosi di paroloni e formule vacue senza proferire alcuna verità. Come pensa il filosofo?

Filosofo è chi già abita la teoria. E perciò è già immerso nella prassi, e in particolare quella prassi che cerca lo sfondo di senso che ci circonda. Il suo vivere è convertito a partire dalla teoria che lo illumina. Non è un caso che Spinoza abbia intitolato il suo libro di metafisica, Etica. È nell’ethos, nell’abito, nel comportamento che l’astratto getta la sua ombra, e lì risiede legato in intima unione col concreto. 

Un’ultima nota: Spinoza sapeva bene che quest’unione è difficile da vedere, ed altrettanto difficile da incarnare. Ma non desisteva. Lui che nasconde dietro a quel sorriso grandioso la protezione migliore al dolore, alla vita: la pace interiore, riflesso del collidere di teoria e prassi. Questo apice si chiama virtù, strada tanto ardua quanto felice è la meta, poiché «tutte le cose sublimi sono tanto difficili quanto rare».

 

Giovanni Fava

Giovanni Fava, 1996. Studente di Filosofia a Trento. Amo libri e passeggiate in montagna.

 

[Photo Credit: Johannes Plenio via Unsplash.com]

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Sei libero?

«Sì… non so. Forse…» Una triade che ben descrive le emozioni umane a riguardo. Una cosa però è da notare: dubbiosi, certo, ma di esserlo, non di non esserlo.

Non si può negare che, almeno istintivamente, ci crediamo liberi. Un esempio lampante per dimostrarlo è il sentimento della colpa: perché lo proviamo? Si tratta di un movimento interiore che può assumere infinite forme ed essere caratterizzato da altrettante sfaccettature; ma che individua una qualità comune al genere umano. Ci si sente in colpa perché ci si rende conto che si sarebbe potuto agire diversamente, quindi evitando quell’offesa, quel danno, magari quell’involontaria azione che ora fa star male noi o qualcun altro. Dunque perché ci si crede liberi: la colpa nasce dalla convinzione di esserlo, altrimenti perché mai si dovrebbe provare questa emozione? Se le mie azioni − o almeno i loro risultati − fossero già determinati, non avrebbe alcun senso provare rimorso. Paradossalmente, saremmo forse più felici in catene.

La libertà, invece, impone una presa di responsabilità e coscienza, o almeno questo è quello che anche il cristianesimo ci ha insegnato. Se sei libero, allora la tua volontà è collocata all’interno di un’oscillazione tra alternative, dunque va giustificata la scelta per l’una o l’altra. Ecco perché se compi azioni “giuste” sei ricompensato con il paradiso o, viceversa, punito con l’inferno: avevi la possibilità di scegliere e hai agito in modo giusto o sbagliato. C’è quindi un’implicazione da notare a riguardo: nella visione predominante, il libero arbitrio si colora di connotati morali. Fa sorridere pensare che l’uomo sia punibile per le sue libere scelte “sbagliate” mentre Dio possa tranquillamente stare a guardare milioni di Ebrei uccisi, stuprati, trucidati, mutilati, torturati e vivisezionati. «Eccoti i principi morali, Adamo. Attenzione però: ogni più piccolo sgarro può condurti all’inferno. Te li voglio donare. A me hanno proprio rotto i cogli**i»1.

Lasciando le contese teologiche ai teologi, si potrebbe riflettere e collocare la morale non all’interno dell’alternativa ma al livello superiore. Cioè: non esistono scelte giuste o sbagliate, perché sono libero; ciò che è corretto è che io abbia compiuto una scelta, dato che ho la capacità di farlo. A questo punto però entriamo in un circolo: se sono libero di scegliere, allora significa che lo sono anche di non scegliere. Ovvero, le alternative non si hanno più nel compiere una determinata azione piuttosto che un’altra (che divengono a questo punto indifferenti) ma tra decidere o non decidere. Non diventa, però, anche quest’ultima una decisione? E dunque, perché dovrebbe essere moralmente giusto scegliere piuttosto che non farlo?

Una possibile interpretazione del problema potrebbe essere di rendere trasparente la tonalità morale della libertà; considerando quest’ultima, quindi, a livello logico. Non abbiamo qui lo spazio per approfondire adeguatamente la questione, basti per ora tenere in considerazione l’esistenza di questa alternativa: la libertà è possibile se consideriamo la realtà contingente. In questo modo si può garantire il libero arbitrio, proprio come l’oscillazione tra alternative in-differenti nei confronti dell’esistenza (ovviamente stiamo masticando il linguaggio ontologico, dunque dedicandoci ad una libertà “superiore” a quella umana ma che inevitabilmente si riflette nella nostra condizione).

Ritorniamo alla colpa, utile strumento − a mio parere − per sciogliere la questione, concentrandoci su un esempio che ad una prima occhiata potrebbe sembrarne totalmente slegato. Nel momento in cui lancio una moneta non posso sapere quale faccia “vincerà”, ci sono il 50% di probabilità sia per l’una che per l’altra, giusto? Nì. In realtà, se conoscessi tutte le variabili in gioco (inclinazione della mano, direzione e velocità del vento, gravità specifica ecc.), il risultato non sarebbe indeterminabile ma l’esatto opposto: assolutamente necessario. Dunque − ecco la colpa − se conoscessi la catena causale che ha portato ad un determinato evento saprei con certezza che esso non è stato casuale (ovvero: frutto di un libero arbitrio umano, per esempio). Spinoza aveva messo brillantemente in luce la questione:

«Se infatti, per esempio, una pietra cade da un tetto sulla testa di qualcuno e lo uccide, a questo modo dimostreranno [i sostenitori della finalità naturale] che la pietra era caduta per uccidere l’uomo. Poiché se non fosse caduta, con la volontà di Dio, a quel fine, come sono potute concorrere tante circostanze […] con la caduta? Si potrà forse rispondere che ciò è accaduto perché soffiava il vento, e perché quell’uomo passava per di là. Ma, insisteranno, perché il vento soffiava allora? e perché proprio allora passava di là quell’uomo? Se di nuovo si risponderà che il vento si è sollevato allora perché il giorno prima […] il mare aveva incominciato ad agitarsi, e che quell’uomo era stato invitato da un amico, insisteranno ancora, dato che non c’è un termine alle domande: ma perché il mare si era agitato? e perché quell’uomo era stato invitato proprio allora? e avanti di questo passo non smetteranno di chiedere le cause delle cause, fino ad andarsi a riparare nella volontà di Dio, ossia nel rifugio dell’ignoranza»2.

Ricondurre la catena causale ad una volontà (libera) sarebbe dunque il risultato dell’ignoranza (o incapacità?) umana di riconoscere la realtà come determinata.

Eppure ci sentiamo liberi. Questo non significa necessariamente che lo siamo, come abbiamo visto: teniamo almeno aperta la domanda. Chiediamoci però: siamo liberi o semplicemente ci piace sentirci tali?

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. Genesi, 66, v. 6. Scherzo, non esiste.
2. B. Spinoza, Etica, P. Cristofolini (a cura di),  Pisa, Edizioni ETS, 2010, p. 75 (corsivo mio).

[immagine tratta da Google immagini]

 

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Intervista a Emanuela Scribano: uno sguardo su Dio e il Mondo, sulla religione e sulla contemporaneità

Una grigia giornata fa da sfondo al mio viaggio in treno verso Venezia. È mezzogiorno e mezzo e siamo agli inizi di aprile ma la primavera sta ancora facendo fatica a sbocciare. Come metto piede fuori dalla carrozza, improvvisamente il sole squarcia le nuvole, regalando a questa incredibile città la luce che merita. È un segno: sarà una chiacchierata illuminante, e così è stato.

Emanuela Scribano è attualmente Professore Ordinario all’università Ca’ Foscari, insegna Storia della Filosofia Moderna alla Triennale e Storia della Filosofia alla Magistrale. Prima di venire a Venezia la sua carriera ha inizio a Firenze. Si laurea nel 1972, è Ricercatore fino all’1981 ed Assistente fino all’87 sempre in quella sede. Successivamente diventa Professore Ordinario di Filosofia della Religione all’Università di Venezia finché nel ‘96 inizia ad insegnare all’Università di Siena per un anno Storia della Filosofia Moderna e poi Storia della Filosofia fino al 2011, anno in cui torna a Ca’ Foscari.

Dopo una breve attesa fuori dal suo studio vengo accolto all’interno, con l’offerta di mettermi a mio agio. La ricerca principale della Professoressa Scribano riguarda la Filosofia Moderna, in particolare il pensiero inglese (Natura umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Milano, Feltrinelli 1980), il pensiero metafisico moderno (Da Descartes a Spinoza. Percorsi sulla teologia razionale del Seicento, Milano, Franco Angeli 1988) e la storia dell’argomento ontologico (L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Roma-Bari, Laterza 1994). Inoltre si è concentrata sulla connessione tra pensiero moderno e medievale (Angeli e beati. Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza, Roma-Bari, Laterza 2006). Ha scritto due companium: Guida alla lettura delle “Meditazioni metafisiche” di Descartes, Roma-Bari, Laterza 1997 e Guida alla lettura dell’ ”Etica” di Spinoza, Roma-Bari, Laterza 2008. Attualmente si interessa delle connessioni tra scienza e metafisica nella prima Filosofia Moderna (Macchine con la mente. Fisiologia e metafisica tra Cartesio e Spinoza, Roma, Carocci 2015).

Oltre a questa intervista mi trovo nel suo studio per parlare della mia tesi di laurea: ho deciso che sarà lei il mio Relatore. Questa decisione nasce dalla grande ammirazione che ho provato durante le esposizioni delle lezioni nel corso dei suoi Insegnamenti, dalla grande disponibilità a dialogare con gli studenti e dalla grande esperienza e conoscenza che la Professoressa dimostra con ogni sua parola, oltre che da un mio gusto personale per gli argomenti di cui lei è esperta.
Spero di essere stato in grado di far risaltare queste sue qualità con le mie domande e con la rielaborazione delle sue risposte.

 

Professoressa, uno dei suoi principali interessi − che abbiamo indagato anche durante le lezioni di Storia di Filosofia Moderna di quest’anno − è il rapporto tra Dio e il Mondo. Come introdurrebbe questa tematica, così pregnante per qualsivoglia teoria fisica dell’Universo, ad una persona non del mestiere?

A chi mi chiedesse come mai esista un collegamento filosofico tra Dio e il Mondo, direi che esiste una via scientifica nella risposta alla domanda che mi ha posto: quella della spiegazione ultima dell’ordine dell’Universo e delle leggi di natura.

Credo che esista una domanda che sorga spontanea a chiunque osservi la natura, e la domanda può essere anche molto semplice: perché il mondo ha questo aspetto e non un altro? O ad un livello più raffinato: perché le leggi di natura sono stabili? Ciò significa che esiste un interrogativo spontaneo nell’uomo che introduce alla dimensione metafisica.
Se pensiamo ad uno scienziato come Einstein, ci ricordiamo tutti la sua celebre affermazione di credere nel Dio di Spinoza: molti l’hanno presa come un’ammissione di ateismo sotterranea; io non credo. Piuttosto penso che esprima questo bisogno di metafisica di cui stiamo parlando. Non solo da parte della scienza per il suo ruolo che potremmo dire fondazionale dell’osservazione, ma anche da parte dello spettatore ingenuo.
Inoltre, la domanda sul rapporto tra Dio e Natura, e la risposta a questa domanda, è stata in genere l’antidoto al nemico peggiore della scienza: il caso.

 

Uno degli ambiti a cui lei si è dedicata è il collegamento tra Cartesio e Spinoza. Alla luce dell’introduzione fornita alla domanda precedente, come collocare questi due pensatori?

L’inserimento è efficace e quasi si impone, perché entrambi hanno cercato di dare una risposta forte alla domanda sulla validità delle leggi di natura. Per entrambi, con ragioni molto diverse, il nostro Mondo è l’unico Mondo possibile. E la garanzia di questo si trova nel fondamento delle leggi di natura, radicate, per entrambi, in un’entità necessaria: Dio, la cui esistenza e la cui natura non potrebbero essere diverse da quello che sono.
Questa necessità dell’esistenza e della natura di Dio, trascina nella necessità anche il Mondo e quindi assicura la stabilità alle leggi di natura. Se vogliamo, quella di Cartesio e di Spinoza (in questo solidali) è una delle risposte più forti contro un’interpretazione degli eventi come casuali, dopo quella che aveva fornito Aristotele con il suo finalismo.
La fondazione su Dio è di certo la fondazione più forte della stabilità delle leggi di natura che il nostro pensiero scientifico abbia conosciuto.

 

La principale problematica sociale (e non solo) con cui Spinoza ha avuto a che fare al suo tempo − e che qualsiasi commentatore di Spinoza prima o poi deve affrontare − è l’accusa che gli è stata rivolta di ateismo. Può sintetizzarci la questione?

Prima di tutto mi fermerei sulla parola “ateo”, che è una parola negativa e quindi dipendente, semanticamente dipendente: è una mancanza di qualcosa, una mancanza di Dio. Quindi prima di tutto bisogna avere una nozione precisa di quello che si intende per Dio quando si parla di ateismo. Certamente, in questa accezione parassitaria e negativa della parola “ateo”, non c’è dubbio che Spinoza sia ateo rispetto all’immagine giudaico-cristiana di un Dio libero, creatore, provvidente, dotato di attributi morali.
La cosa misteriosa è che Spinoza accusava gli altri di ateismo: come spiegare questa reciprocità dell’accusa?
Il fatto è che l’ateismo di Spinoza è davvero peculiare e nasce come conseguenza di una riflessione sulla cultura teologica giudaico-cristiana. Ovverosia: se si prende sul serio quello che questa teologia ha sempre asserito su Dio (soprattutto se si prende sul serio il fatto che sia infinito), allora tutto ciò che questa teologia ha detto su Dio (libero, creatore, distinto dal Mondo, che compie miracoli, che sospende le leggi di natura ecc.) non è sostenibile.
La peculiarità di Spinoza è l’aver elaborato un ateismo teologico, che si presenta come la conseguenza coerente di quello che tutti i teologi hanno affermato, a livello di principi, e negato poi per le conseguenze stridenti con quei principi.

Nei nostri tempi, credo che questo tipo di ateismo non esista. La nostra difficoltà è quella di collocare l’ateismo di Spinoza nella sua cornice teologica. Mi piace citare un bel libro di uno studioso italiano, G. Cantelli, dedicato a Bayle, Teologia e ateismo: niente di meglio per classificare e qualificare l’ateismo del Seicento, e Spinoza in particolare.
La nostra curiosità di storici della filosofia è questa peculiarità di un ateismo fondato sulla teologia, cioè la pretesa di Spinoza di essere stato l’unico interprete coerente degli stessi principi di coloro che lo accusavano di ateismo. Un paradosso molto attraente storicamente.

 

Quando si tratta di questi argomenti, tra le parole chiave figurano sicuramente Teismo, Deismo e Ateismo. Ce le può spiegare?

Innanzitutto, la distinzione tra teismo e deismo risale a Kant, ed è stata una necessità storico-culturale che l’ha motivata, perché soprattutto in ambito inglese era esploso il fenomeno del deismo, cioè un tipo, se vogliamo, di religione naturale che non riconosceva a Dio attributi classici come l’intervento nel mondo, la provvidenza e i miracoli. Per cui la parola deismo, nella quale la parola Dio è implicata nella radice, è sembrata a Kant equivoca, perché rischiava di avallare come buoni interpreti della teologia autori che in realtà l’avevano naturalizzata profondamente. Ecco quindi che la proposta di Kant è un neologismo: accanto a deismo parliamo di teismo. E quando parliamo di teismo parliamo invece di un Dio provvidente, intelligente, che progetta il mondo, che interviene nel mondo, che è trascendente rispetto al mondo. Non quell’ente primo che era diventato il rappresentante della metafisica del deismo, che rischiava di essere buono sia per i credenti che per i non credenti.

Per quanto riguarda l’ateismo, invece, credo che ci siamo intesi precedentemente. Forse posso aggiungere che l’ateismo è da sempre una parola militante, agressiva, specialmente nell’età moderna, associata all’idea di immoralità. Quindi l’appellativo ateo non è neutro, almeno non lo è stato. Questa associazione tra ateismo e immoralità è andata modificandosi direi sopratutto a partire dall’impulso fortissimo che ha dato Kant (anticipato da Bayle), svincolando la morale dalla credenza in un Dio. E, paradosso dei paradossi, la figura che ha consentito di esemplificare al meglio la liberazione della morale dalla presenza di Dio è stata proprio quella di Spinoza.
Quindi Spinoza, nato come ateo di sistema con una connotazione altamente negativa, viene, prima da Bayle ma dopo ancora in modo ancora più radicale da Kant, presentato come esempio di persona la cui morale è libera e indipendente dalla credenza in un Dio. Questo contribuisce a liberare l’ateismo da questa valenza negativa, quindi è come se aver definito ateo Spinoza sia stato un boomerang e abbia segnato una reazione che ha svincolato l’ateismo dallo scomodo abbraccio con l’immoralità.
Oggi, però, direi che il termine “ateo” ha mantenuto una valenza militante, sia pure ribaltata (ad esempio esiste il giornale dell’ateismo). Quindi ha una valenza rivendicativa: ora sono gli atei a voler essere chiamati atei contro la religione. Per questo preferisco, e credo che sia il termine forse più giusto, l’aggettivo “laico” per designare qualcuno che non si muove in un’ottica teologica, né per approvarla né per negarla ma che è estraneo alla problematica. Questa credo che sia una novità semantica dei nostri tempi che a me piace molto e che per certi aspetti credo sarebbe piaciuta anche a molti filosofi che hanno subito l’appellativo di “ateo”.

 

Nei tempi contemporanei, fecondi di grandi scoperte scientifiche e tecnologiche, si può pensare ad uno scontro ancora presente tra una concezione di Dio (anche se solamente deista) e nessuna concezione di Dio?

Sicuramente la scienza continua a conoscere questa ambivalenza. Tra quella che possiamo dire una richiesta di una fondazione metafisica forte e invece quella di una proposta che interpreti i risultati scientifici come ipotesi utili e che agevolino la ricerca scientifica senza chiedere una garanzia, un suggello metafisico. Certo, stiamo sempre parlando del “Dio della fisica”, quindi di quel Dio infondo naturalizzato in cui gli attributi morali non vengono considerati (o considerati poco interessanti), che alla fine è stato utilizzato credo senza infingimenti anche da personaggi che non avevano per nulla la spiritualità di Spinoza ma erano veri materialisti. Sto pensando ad un Hobbes che, con tutto il suo materialismo addirittura attribuito a Dio, ha sostenuto che un primo principio nella scienza è ciò a cui lo scienziato mira: ad una causa prima materiale. Questa ricerca interna alla scienza, sicuramente continua se pensiamo però a quel Dio naturalizzato di cui stiamo parlando dall’inizio di questa intervista. Perché finora, paradossalmente, del Dio che porta la gente in Chiesa non abbiamo parlato mai.

 

Si è fatta un’idea del perché le religioni, oggi, facciano così fatica a dialogare e si siano estremizzate?

Io credo che non sia un fatto recente. Che a noi sembra recente semplicemente perché tra le grandi guerre di religione e l’attuale conflitto − che sicuramente è anche una guerra di religione − c’è stato un lungo periodo di tregua.
Penso che dobbiamo partire prima di tutto da un punto che dò per scontato, insieme al grande antropologo René Girard: la religione non genera di per sé violenza, la violenza è un fatto intrinseco alla natura umana; ma certamente la religione è un fattore catalizzatore della violenza straordinario, per tutta una serie di fattori. Prima di tutto per l’intrinseca pretesa di verità, imprescindibile per una religione (non avrebbe senso credere in qualcosa che non si crede vera). Esiste quindi un impegno veritativo nella religione che nemmeno la scienza pretende. Questa richiesta di verità porta in sé un germe di intolleranza, quindi credo che si debba serenamente prendere atto che la religione è intrinsecamente un catalizzatore di qualcosa che non crea, la violenza umana, ma che sicuramente enfatizza. Ma se ci ricordiamo le analisi dei filosofi che hanno vissuto tra le violenze delle guerre di religione, essi sostenevano che la religione è tollerante solo quando è in minoranza e vediamo come questo senso della pericolosità della religione, visti i tempi, fosse fortissimo.
Credo che un altro elemento di forte esaltazione del potenziale pericoloso della religione sia il monoteismo. Storicamente sono le religioni monoteiste, che ovviamente enfatizzano la pretesa veritativa, che sono più violente delle religioni politeiste.
Se questi due elementi che ho sottolineato hanno qualche plausibilità, io credo che la domanda sia perché abbiamo beneficiato di un lungo periodo di pace religiosa piuttosto del perché ora ci ritroviamo con questo problema. Penso che siamo debitori di una vasta laicizzazione della nostra cultura: non c’è dubbio che l’Europa, ed in parte gli Stati Uniti, si sia ampiamente laicizzata oltre ad aver posto limiti politici molto stretti all’invadenza delle religioni. Questo vale soprattutto per i Paesi di religione Cattolica.

Per i Paesi di religione Protestante il fenomeno è più interessante ancora: oltre alla laicizzazione, la Riforma si è polverizzata in tante piccole Chiese con tanti piccoli nomi, e questo fin da subito: come se l’esser stati degli eretici avessero reso difficile l’utilizzo della categoria dell’eresia. Non che non sia stata utilizzata nemmeno in campo protestante, ma sicuramente la persecuzione dell’eretico non ha avuto paragoni rispetto a quello che è successo nel Cattolicesimo. A mio parere, questo pulviscolo di Chiese generato dal mondo Protestante (basta guardare gli Stati Uniti per rendersene conto) ha riprodotto un fenomeno politeista all’interno di una religione monoteista: la convivenza di punti di vista diversi ma non conflittuali.
Questo è stato un potente fattore di disinnesco della violenza, infatti la guerra di religione ora viene riportata attraverso religioni che non sono passate attraverso questo processo, né di laicizzazione né di polverizzazione interna delle credenze, ma che ripresentano il potenziale violento della religione (nel senso detto prima di innesco della miccia che la natura umana porta in sé).
Naturalmente sto semplificando il discorso in modo assoluto, ma credo che siano due elementi importanti da non sottovalutare.

 

La nostra rivista ha come obiettivo principale quello di portare la filosofia nel quotidiano. In quale misura, secondo lei, la filosofia potrebbe essere utile per la vita contemporanea?

Naturalmente questa sarà anche deformazione professionale, ma credo che interrogarsi sui presupposti delle nostre credenze sia un esercizio utilissimo anche per la convivenza pacifica. Per rispondere ho deciso di proporre quindi un esempio per chi non usa la filosofia o pensa che sia molto distaccata dalla quotidianità.

Il mondo moderno ci ha portato all’improvviso in contatto con la diversità, quindi con correnti migratorie che ci fanno sperimentare la vicinanza con persone che hanno usi e costumi completamente diversi dai nostri. Le reazioni a questo fenomeno sono state differenti: dall’intolleranza all’accoglienza, lo sappiamo. Cosa c’è dietro? Possiamo razionalizzare i nostri atteggiamenti o di accoglienza o di rifiuto, che vadano al di là di una risposta emotiva, di pietà umana o di repulsa altrettanto umana? Io credo di sì. Se vogliamo cercare di inquadrare la nostra reazione, chiediamoci se ci sentiamo vicini alla filosofia della rivoluzione francese, cioè dei diritti umani che hanno pensato l’umanità come genere umano (per cui un individuo è un uomo non distinguibile se non numericamente dall’altro e quindi latore di tutti i diritti che la sua appartenenza al genere umano comporta). Ci sentiamo di sposare questa filosofia giuridica, della storia, dell’antropologia e quindi della legislazione che sorpassa gli stati e tende a presentarsi come tendenzialmente cosmopolita, oppure noi pensiamo che non esista il genere umano? Che esistano invece solo i gruppi umani, le società umane , cioè che ciò che fa la mia persona ed il mio valore non sia di essere un uomo ma di essere, ad esempio, italiano in questo tipo di società, di avere questo tipo cultura, questo tipo di costumi? La conseguenza di questo pensiero è che la persona che non partecipa in nulla del mio ambiente culturale non mi assomiglia in nulla e quindi non mi sento di appartenere ad uno spazio comune a queste persone. Ci sono stati dei teorici − diciamo anche molto antipatici − di questo tipo di approccio, ma il fatto che siano stati antipatici non toglie che avessero degli argomenti, cioè non toglie che ognuno di noi abbia un senso di appartenenza che è molto più circoscritto rispetto a quello del genere umano.

Ecco, chiederci noi cosa sceglieremmo, come sosteremmo una delle due posizioni o come cercheremmo di far convivere eventualmente queste due visioni così estreme − genere umano o gruppi sociali −, io credo che sia un esercizio utilissimo, perché ci fa superare il livello puramente empatico o puramente antipatico della nostra reazione e ci impegna a chiederci: ma infondo noi cosa vorremmo? Un mondo dominato dall’appartenenza a gruppi sociali o un mondo dominato da quello che si chiama genere umano? E se scegliamo per l’una o per l’altra delle due opzioni le nostre azioni non sono le stesse.
Quindi acquistiamo lucidità e capacità di capire le argomentazioni che stanno dalla parte di chi invece oppone genericamente un rifiuto rispetto all’accoglienza o respingimento e ci consente di parlarci. Magari per andarcene via con la stessa posizione ma intanto abbiamo capito che non sono solo posizioni emotive. Devono impegnarci, possono impegnarci, ad un’attività di giustificazione che ci aiuta poi a farla valere su un piano che non sia quello puramente momentaneo della piccola reazione individuale.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

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Quando un computer ha confutato la dimostrazione dell’esistenza di Dio

<p>3D illustration. Artificial neuron in concept of artificial intelligence. Wall-shaped binary codes make transmission lines of pulses and/or information in an analogy to a microchip.</p>

La storia del pensiero filosofico dell’ultimo millennio può essere raccontata attraverso l’approccio dei diversi filosofi al celebre argomento ontologico. Da Anselmo fino ai giorni nostri passando per Spinoza, Leibniz, Kant e Gödel, grandi menti si sono date battaglia intorno alla sua validità.
L’argomento, tanto semplice quanto geniale, si compone di due premesse e di una conclusione.

  1. Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore (in perfezione);
  2. Ciò che esiste è maggiore (in perfezione) rispetto a ciò che non esiste;
  3. Di conseguenza Dio esiste necessariamente.

La fascinazione esercitata da questo argomento è dovuta al fatto che a differenza delle prove a posteriori come quelle di Aristotele e San Tommaso, e a differenza degli argomenti su base probabilistica come quella di Pascal, essa è deduttiva, ossia se corretta dimostra una volta per tutte in modo decisivo l’esistenza di Dio. Sarebbe così risolto l’enigma che più di tutti si è affacciato alla coscienza umana.

Nel dibattito contemporaneo senza dubbio la formulazione che ha riscosso maggior successo è dovuta a Kurt Gödel (1970), meglio noto per i due famosissimi e spesso male interpretati teoremi di incompletezza. La formulazione gödeliana ha il vantaggio di tradurre l’argomentazione in termini formali, ottenendo così maggior rigore ed eleganza ed evitando espressioni vaghe presenti nella versione originale che ne inficiavano l’esito.  

Un’altra storia – molto più recente – è invece quella degli automi capaci di computare, cioè di eseguire calcoli matematici o deduzioni logiche. Dall’ideale di Turing alla macchina di Von Neumann fino ai nostri computer, la semplice manipolazione di simboli ha permesso di trasformare in mille modi, alcuni più evidenti di altri, il nostro modo di vivere. La filosofia come qualsiasi altra dimensione della vita contemporanea non rimane esente dal confronto con le nuove tecnologie. Da un lato la filosofia fa ciò che le è proprio: riflette sui limiti di applicazione, sul buon uso, sulle implicazioni etiche; dall’altro se ne serve, come di utili strumenti che servono ad arrivare là dove la capacità umana di calcolo si scontra coi suoi limiti e ben oltre.

Queste due storie apparentemente così estranee si incrociano proprio a questo punto: qualcuno infatti ha pensato di utilizzare un calcolatore programmato allo scopo di verificare la coerenza della dimostrazione logica dell’esistenza di Dio da parte di Gödel. Talvolta infatti alcuni assiomi – le fondamenta sui cui si basano le dimostrazioni – si scoprono inconsistenti: ciò avviene quando derivano teoremi tra loro contraddittori.

Solo così nel 2013 un calcolatore ha derivato due teoremi contraddittori a partire da un assioma su cui si regge l’argomento gödeliano. Ciò lontano dall’essere la prova definitiva dell’inconcludenza dell’argomento ontologico, aperto sempre ad esser riformulato in modo da evitare contraddizioni, ci annuncia – in modo abbastanza appariscente – l’importanza che possono avere le nuove tecnologie di questo tipo applicate alla filosofia.

Questi strumenti, come protesi del pensiero nella sua forma meccanica e formale, possono essere d’aiuto nello svelare alcuni errori che l’uomo, anche il più esperto, può lasciarsi sfuggire. Tuttavia sarà di nuovo compito dell’uomo interpretare i risultati che ci fornisce il calcolatore, capirne il perché ed eventualmente trovare una soluzione se ciò è possibile.

 

Francesco Fanti Rovetta

NOTE:
Per i dettagli tecnici della scoperta cliccate qui.

 

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Sfumature di amicizia: uno sguardo all’Etica Nicomachea di Aristotele

Chi non desidera, su questa terra, avere degli amici? Essi sono i nostri “alleati” nella grande avventura della vita, e stare in loro compagnia ci consente di trovare la forza di “andare avanti” nonostante i numerosi problemi che sempre ci assillano. Ma le amicizie sono proprio tutte uguali? O, detto altrimenti: esiste un solo tipo di amicizia o ci sono molti modi diversi di essere “amici”?

Per trovare risposta a queste domande possiamo provare a rivolgerci a un testo molto antico (è stato composto addirittura nel IV sec. a.C., quindi più di duemila e trecento anni fa!), ma che è senza alcun dubbio perfettamente capace di essere ancora attuale, ricco com’è di osservazioni estremamente interessanti e profonde: stiamo parlando dell’Etica Nicomachea di Aristotele. Tale scritto è diviso in dieci “libri” (termine con il quale nell’antichità si indicava ciò che noi oggi chiameremmo in realtà “capitoli”), e i “libri” che vanno dall’VIII al IX sono per l’appunto dedicati alla trattazione dell’argomento di cui in questa occasione intendiamo occuparci: le diverse sfumature dell’amicizia.

Aristotele incomincia la sua indagine sull’amicizia ricordando che essa «è un aspetto estremamente necessario della nostra vita, dato che nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni». Non va infatti dimenticato che l’uomo, dopotutto, è pur sempre un essere sociale. Dopo aver tratteggiato alcuni vantaggi dell’amicizia, Aristotele afferma che le radici di tale tipo di rapporto affettivo si trovano in natura, e infatti sono osservabili in tutte le specie animali viventi. Ma anche l’uomo è un animale, e infatti, nel proprio profondo «ciascun essere umano sente vicino a sé, e quindi amico, ogni [altro] essere umano». La volontà di allacciare un rapporto positivo con le persone che di volta in volta incontriamo fa quindi parte del nostro “DNA”, anche se è vero che purtroppo non sempre tale desiderio viene corrisposto e riesce quindi a realizzarsi pienamente. Solo «quando la benevolenza è contraccambiata, diviene amicizia».

Aristotele arriva poi a porsi l’interrogativo che più ci interessa: «vi è una sola specie d’amicizia o più d’una»? Secondo il “maestro di coloro che sanno” (così Aristotele è chiamato da Dante) vi sono ben tre tipi di amicizia, la cui differenza reciproca è principalmente determinata dal motivo per il quale si diventa amici di un’altra persona.

In primo luogo, dice Aristotele, si può diventare amici di qualcuno al solo scopo di ricavarne qualcosa di utile per noi stessi, ossia al fine di averne un proprio tornaconto personale. In questo caso, osserva il filosofo greco, non siamo in presenza di un rapporto di amicizia vero e proprio, perché ciò a cui veramente “puntiamo” non è tanto la persona della quale stiamo diventando amici, ma ciò che riteniamo di poter ottenere “sfruttandola”.

Poniamo ad esempio che un certo ragazzo che conosco, Marco, abbia una bellissima motocicletta che io con i miei pochi risparmi non potrei mai permettermi di comprare. In tal caso, potrei decidere di diventare amico di Marco per cercare poi in un secondo tempo di convincerlo a prestarmi ogni tanto la sua “due ruote”. Marco a sua volta potrebbe decidere di diventare mio amico e di darmi in prestito la moto per qualche ora al mese se in cambio convincessi i miei genitori a dargli la possibilità di usare la loro casa al mare per un paio di settimane durante l’estate.

Anche se io e Marco ci consideriamo amici a tutti gli effetti e spendiamo del tempo insieme, resta il fatto che ciò che veramente vogliamo non è il bene dell’altro, ma avere in prestito la motocicletta o la casa al mare. Si pensi inoltre a che cosa accadrebbe se Marco per un qualunque motivo si rifiutasse di prestarmi la moto: evidentemente, presto o tardi io cesserei di frequentarlo, perché il mio interesse per lui era subordinato e finalizzato all’uso della sua motocicletta. Lo stesso farebbe Marco nei miei confronti se i miei genitori gli negassero la possibilità di usare la casa al mare. «Quelli che sono amici per [amore del proprio] utile sciolgono l’amicizia insieme al venir meno dell’utile: non erano amici l’uno dell’altro, ma del profitto», ossia di ciò che potevano ricavare dal loro legame, ammonisce Aristotele.

Si noti che il bene che io voglio raggiungere attraverso Marco non deve essere per forza un “oggetto” come la motocicletta, ma può anche essere qualcosa di più “immateriale”, come il piacere o il mio personale benessere. Siamo al secondo gradino dell’amicizia, che però esprime ancora un legame non perfettamente autentico e duraturo. Ci troviamo in questo secondo caso se ad esempio l’unico motivo che mi ha portato a diventare amico di Marco è il fatto che mi è simpatico, racconta bene le barzellette e mi fa ridere. Anche questo legame d’amicizia è alla fin fine effimero, perché il giorno che Marco cesserà di farmi divertire con le sue battute smetterò anche di vederlo, diradando sempre più le mie occasioni d’incontro con lui.

Ecco perché, secondo Aristotele, questi primi due tipi di amicizia (che potremmo anche definire “amicizie per interesse”) non sono destinate a durare: se a interessarci non è la persona che il nostro amico è nel suo complesso, ma è soltanto qualcosa che questa persona è, o ha, o può farci ottenere, non appena quella persona cesserà di avere, o di essere, o di poterci far ottenere quel certo qualcosa, l’amicizia inevitabilmente si scioglierà. Un segno, questo, che in fin dei conti il nostro non era un legame vero e profondo.

Salendo di un gradino ancora, troviamo infine il rapporto amichevole che si forma tra persone che praticano una stessa virtù. In questo caso, l’amicizia contribuisce al perfezionamento morale di entrambi i “contraenti”, e quindi non è semplicemente finalizzata all’ottenimento immediato di qualcosa di utile o di piacevole, né è “sbilanciata” in favore di uno solo dei due poli della coppia. Gli amici appartenenti a questa terza tipologia si spronano infatti a vicenda a fare sempre del proprio meglio in un certo campo (o anche in molti), e quindi traggono entrambi un positivo profitto “spirituale” dallo stare assieme. Inoltre, a differenza dei primi due esemplari di amici, gli amici di quest’ultimo tipo «desiderano allo stesso modo l’uno il bene dell’altro, e sono buoni di per sé». Ognuno dei due è poi utile all’altro nel perseguimento di un obiettivo comune: la realizzazione del “Bene” (ma, volendo rimanere all’interno del vocabolario aristotelico, dovremmo forse piuttosto parlare del raggiungimento del “giusto mezzo” o di un “perfetto equilibrio”) nel proprio modo di pensare, di agire, di comportarsi.

Dato poi che, a differenza delle passioni e degli interessi momentanei, «la virtù è cosa stabile» (quantomeno una volta che la si sia acquisita), ne si può concludere che «tale amicizia permane salda», almeno finché entrambi gli amici continuano a perseguire una comune virtù e quindi la via del Bene. «L’af­fet­to e l’amicizia che si trovano in tali persone sono al massimo grado, e i migliori», annota Aristotele. «Bello è fare il bene senza mirare al contraccambio», egli continua, ed è proprio questo che accade nel terzo tipo di amicizia. Certo, rileva il filosofo, «è ragionevole che tali amicizie siano rare: uomini di tal sorta non sono frequenti, e in più tale amicizia ha bisogno di tempo e di consuetudine». La rarità di tale tipo di legame si spiega anche con il fatto che «tutti, o quasi, desiderano compiere belle azioni, ma poi, [alla prova dei fatti,] scelgono ciò che è loro utile [o piacevole]».

Come si può vedere, i tre modelli di amicizia che Aristotele ci propone non sono “equivalenti”: il secondo modello relazionale ha maggior valore del primo, e il terzo tipo di amicizia è molto più prezioso dei primi due. L’implicito consiglio che questo antico filosofo greco ci vuole fornire è allora di evitare di limitarci soltanto a desiderare di aumentare il numero dei nostri amici, e di puntare piuttosto a incrementare la qualità della relazione che intendiamo sviluppare con loro. È infatti facile mettere in piedi una gran quantità di amicizie scadenti, ma esse non sono poi effettivamente in grado di cambiare in meglio la nostra vita e quella del­l’a­mi­co e di “lasciare il segno” nella nostra anima.

«Il desiderio d’amicizia», e dunque di riconoscimento intersoggettivo, – puntualizza Aristotele – «è rapido a nascere, [ma] la [vera] amicizia no». Essa richiede tempo, risorse, pazienza, comprensione, ascolto e tanta volontà di impegnarsi per davvero nel perseguimento delle virtù e nella comune ricerca delle “cose belle” della vita. D’al­tron­de, come dice Spinoza al termine della sua Etica, «tutte le cose più splendide sono tanto difficili [da ottenere], quanto rare», ma – aggiungiamo noi seguendo Aristotele – sono forse anche le uniche per cui valga veramente la pena di lottare.

 

Gianluca Venturini

 

NOTE:
A questo link de Il Post potrete leggere il testo in greco e la traduzione in italiano del brano tratto dall’Etica Nicomachea scelto come seconda prova di greco per i licei classici per la maturità 2018.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Ottobre in Filosofia!

Dopo il mese di Settembre ricco di Festival culturali e filosofici, anche Ottobre sembra non essere da meno. Siamo ritornati a pieno regime alle nostre attività e così anche per gli eventi. La diversità di eventi per questo mese diventa specchio della diversità culturale e professionale che ci appartiene come italiani.

Per voi lettori una selezione ‘diversa’ di eventi per questo mese.

eshop-intro-imgVENETO | Festival della Statistica 7-8-9 Ottbre – Treviso

Per portare all’attenzione del grande pubblico la conoscenza e il valore delle scienze statistiche e demografiche nasce per la prima volta in Italia StatisticAll – il Festival della Statistica e della Demografia. Tre giorni per raccontare la statistica e la demografia in modo innovativo e coinvolgente.

“La statistica è un linguaggio che noi, anche inconsapevolmente, usiamo sin da bambini: il nostro pensiero si sviluppa e cresce grazie alla classificazione degli eventi, che ci aiuta a prendere decisioni e a gestire le incertezze.

Ma anche alla cassa del supermercato quando esibiamo la carta fedeltà, quando cerchiamo qualcosa su internet, al bancone della farmacia mentre ci viene consigliata la cura migliore … dietro tutto questo c’è un algoritmo statistico o uno studio demografico. Per questo la statistica e la demografia sono ormai diventate parte integrante della società ma spesso non viene percepito nel profondo l’apporto fondamentale di queste metodologie al nostro progresso, come alla nostra vita quotidiana. Diffondere la cultura e la passione per queste discipline è quindi divulgare un modo ragionato di guardare al reale, che può aiutare a capire i meccanismi sempre più complessi, ma molto affascinanti, della nostra società, valutando in modo critico le informazioni che ogni giorno ci vengono proposte.”

Programma completo: qui

Senza titolo-1-01VENETO | Carta carbone Festival 13-16 Ottobre – Treviso

CartaCarbone festival letterario nasce dall’amore di Nina Vola per il racconto. D’invenzione ma anche autobiografico. “Autobiografia e dintorni” è infatti il tema del festival. Leggere e scrivere di sé porta lontano, in mondi sconosciuti e fantastici che riposano sotto la cenere dell’oblio aspettando il soffio d’ossigeno che li riaccenda. Da parole quotidiane possono nascere capolavori.

CartaCarbone festival letterario vuole portare a Treviso libri in abbondanza, tuffarsi negli eventi letterari, vedere gente ubriaca di parole, ascoltare gli scrittori affermati, accompagnarli nelle piazze tra la gente, dar voce agli emergenti, ospitarli e mangiare allo stesso tavolo.

Programma completo: qui

Copertina facebook workshop_Ca Foscari_LaChiavediSophia-02VENETO | Workshop Editoria e Filosofia 2.0 19-20-21 ottobre –  Venezia

“Workshop Editoria e Filosofia 2.0. Il testo – la rete – l’evento”

Ore 9.30-17.30, presso Aula Valent al 4° Piano di Malcanton Marcorà,  Venezia

In collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia workshop gratuito di tre giorni rivolto a tutti gli studenti. Il workshop suddiviso in tre moduli: scrivere, comunicare e organizzare intende ripercorrere il processo di creazione di un contenuto editoriale, gli elementi e le strategie di comunicazione necessarie a promuovere un contenuto e infine come nasce e si costruisce un evento culturale.

Per info e iscrizioni: info@lachiavedisophia.com
Max 20 iscritti cafoscarini
Max 10 iscritti di altri Atenei

medicina-e-shoa-ELABORATION1LOMBARDIA | Convegno – 6 ottobre – Università degli Studi di Milano

Responsabilità della scienza e etica della cura: la lezione della Shoah e le nuove frontiere della bioetica” presso la Sala di Rappresentanza del Rettorato, Università degli Studi di Milano, Via Festa del Perdono 7.

Il Convegno è organizzato in occasione dell’apertura della mostra “Medicina e Shoah”, che ripercorre la storia della medicina nazista a partire dalle origini dell’eugenetica sino alle politiche razziali e di sterminio del III Reich. La mostra, realizzata dall’Università di Roma “La Sapienza” in collaborazione con l’Unione Comunità ebraiche italiane (UCEI) e con la cura scientifica di Silvia Marinozzi, viene ospitata nella sua tappa milanese dall’Università Statale, dove sarà visitabile dal 6 ottobre al 2 novembre nell’ Atrio dell’Aula Magna, in via Festa del Perdono 7 (ore 9-18, ingresso libero).

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Programma mostra: qui

13891973_729094777230305_6275604234829403062_n LOMBARDIA | Milano Golosa 15-16-17 ottobre – Palazzo del Ghiaccio

Se pensate che l’enogastronomia non appartenga al grande universo della cultura, vi state sbagliando! Milano Golosa è l’esempio di come la Cucina e le sue materie prime appartengano alle nostre radici culturali, e di come si possa fare cultura cucinando, mangiando, scoprendo ciò che si cela dietro al piatto. In questa quinta edizione si andrà alla ricerca dell’origine di ciò che vi si trova dentro i nostri piatti.  Perchè, sempre più in cucina, si ricerca l’integrità della materia prima, un’idea di purezza da preservare. Una tre giorni di incontri, laboratori, ricette per un racconto gastronomico che mette al centro il concetto di purezza in cucina e l’importanza della qualità degli ingredienti.  Cucinare è un po’ come fare Filosofia, interrogarsi, indagare, riflettere e quindi scoprire e meravigliarsi della grande varietà che ci appartiene come essere umani ma sopratutto, in cucina. come italiani.

Programma completo: qui

La stagione è appena iniziata, mettiamoci alla prova!

Valeria Genova