La filosofia come prassi al tempo della società dello spettacolo

Guy Debord, nel celeberrimo testo La società dello spettacolo (1967), afferma che nella modernità è fatalmente venuta meno la domanda riguardante i significati ultimi. La società postmoderna è caratterizzata infatti da una fondamentale spettacolarizzazione, la quale si determina dal punto di vista della possibilità di garantire ai suoi adepti il privilegio derivante dal raggiungimento di una condizione di emancipazione sociale che renderebbe meno gravoso il proprio rapporto con l’esistenza. Apparato burocratico capitalistico e società spettacolarizzata sono legati a doppio filo da un intento comune, rappresentando il primo il supporto finanziario e la seconda il cuore pulsante delle nuove modalità di assetto sociale.  

Per il pensatore parigino l’oppressione intrinseca al consumo dei prodotti erogati dall’apparato pubblico si instaura nella promessa di libertà e affermazione di sé rivolti all’uomo comune. Il soggetto è incentivato a fare propri i riferimenti dominanti all’interno del tempo storico, i quali in realtà rappresenterebbero soltanto l’illusione del superamento della sua condizione di anonimato e di svantaggio economico. È importante leggere Debord poiché il suo testo ci fa capire che non bisogna subire passivamente una modalità di esistenza che deve invece essere problematizzata e messa a confronto con il proprio stesso stare al mondo. Il filosofo e cineasta francese mette in opera un processo di sensibilizzazione nei confronti di una forma di oppressione storicamente inedita, che usa il linguaggio dell’intrattenimento per tenere legate le masse a una condizione di anonimato e impotenza connessa a una subordinazione economica in sé insuperabile. Il filosofo francese infatti afferma:

«L’ideologia è la base del pensiero di una società di classe, nel corso conflittuale della storia» (G. Debord, La società dello spettacolo, 2008).

L’analisi di Debord coglie un aspetto certamente decisivo del mondo contemporaneo, ma la riduzione delle espressione artistiche a prodotto del capitalismo svilisce il significato autentico delle nuove forme culturali. Lo spettacolo reca in sé implicitamente una domanda di senso, un invito a lasciare intatta la fiducia nei confronti di un originario ideale di redenzione. È necessario quindi che gli individui dialoghino con le nuove forme artistiche, superando quella che spesso è una considerazione stereotipata delle forme attraverso le quali l’offerta di intrattenimento si esplica. Bisogna sentirsi parte attiva del delinearsi delle nuove tecniche attraverso le quali lo spettacolo narra la condizione umana. Esso in definitiva rappresenta lo specchio in cui si riflette il mistero stesso dell’esistere. Non bisogna rimanere fermi alla considerazione secondo la quale lo spettacolo sia semplicemente divertimento fine a se stesso, ma considerare i suoi prodotti come riferimenti che descrivono il fondamento tragico proprio della condizione umana. In questo senso Debord afferma che «lo spettacolo è la carta geografica di questo nuovo mondo, carta che ricopre esattamente il suo territorio» (ivi).

L’arte riproducibile modifica lo statuto del reale, aprendo alla necessità di instaurare una comunità fondata su un pensiero che deve diventare critico. L’idea guida delle cosiddette pratiche filosofiche, in questo senso, è che l’adesione alla verità redima l’individuo attraverso una narrazione nuova del posto dell’uomo nel mondo. La filosofia si esplica dal punto di vista di un’istanza che consente di problematizzare il carattere progettuale dei nuovi prodotti artistici. Rifiutarsi di esercitare il pensiero inteso in senso critico nei confronti del presente e in relazione costante all’avvenire significherebbe favorire il perpetuarsi di quello che il filosofo Diego Fusaro ha definito, a più riprese, il pensiero unico dominante del nostro tempo. Debord ci invita a essere meno chiusi e sclerotizzati all’interno di un atteggiamento acritico e dogmatico nei confronti della nostra epoca, e ad assumerci la responsabilità di assumere un comportamento che in quanto tale dimostri il raggiungimento di un livello maggiore di consapevolezza. La condizione dello spettatore passivo deve cedere il passo alla possibilità di mettere in pratica gli insegnamenti che, direttamente o indirettamente, lo spettacolo in quanto tale veicola.

Risulterebbe facile ritenere questo discorso affetto da una costitutiva indeterminatezza: la filosofia può solo interpretare il mondo, ma certamente non cambiarlo, come invece auspicava il Marx dell’undicesima delle Tesi su Feuerbach. Il punto è che il filosofo per espletare la sua funzione deve rendere operativa una libertà di spirito attraverso la quale addivenire all’individuazione delle malattie che riguardano la società in cui vive e rispetto alle quali il senso comune rimane abitualmente legato a una fondamentale passività. La parola filosofia in questo senso farebbe sempre di più rima con follia ma, del resto, Nietzsche non ha affermato, nel Crepuscolo degli idoli, che quello che consideriamo mondo vero altro non è che fiaba?

 

Edoardo De Santis
Dopo la laurea Magistrale in Filosofia ha conseguito vari titoli afferenti le pratiche filosofiche. Ha pubblicato articoli su “Rivista EA”, “Phronein”, “Gazzetta Filosofica” e sulla “Rivista Italiana di Counseling Filosofico”. Ha partecipato come relatore al convegno “Eleatica” nel 2021 e al “Festival Internazionale di Filosofia” di Ischia e Napoli nel 2022 e nel 2023. È stato nominato Esperto del progetto nazionale “Inventio” dell’Associazione Filò (Università di Bologna), mirante a implementare laboratori di pensiero critico negli istituti tecnici e professionali italiani, partecipando alla fase di sperimentazione nelle scuole.

 

[Photo credit Anton Nazaretian via Unsplash]

 

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Lo spettacolo “Botanica” per cercare di capire le piante

Le piante sono necessarie alla vita dell’uomo.

È una cosa che sappiamo tutti, ma l’abbiamo mai capita? Ne abbiamo veramente preso coscienza mentre sentiamo con un orecchio che la foresta amazzonica viene distrutta giorno per giorno nel silenzio più totale?

Forse no.

Ecco perché il professor Stefano Mancuso, botanico di fama internazionale, ha capito che il messaggio, per penetrare a fondo, doveva essere comunicato in modo nuovo. I Deproducers, gruppo che unisce importanti personalità del panorama musicale italiano, hanno contribuito a progettare e costruire una forma che si sta dimostrando vincente e che si chiama “Botanica”. Gli interventi parlati del professore, appassionati e divertenti (perciò leggeri e piacevolissimi da ascoltare), si mescolano in modo del tutto convincente con la musica, realizzata da alcuni strumenti canonici (chitarra, basso, pianola ecc) con il supporto di sporadiche e studiate percussioni su tronchi di legno, una musica modulare che si ispira alle piante stesse; a fare da sfondo ci sono grafiche colorate e a tratti psichedeliche, video rallentati di piante in movimento (e chi l’ha detto che le piante stanno ferme?), mandala digitali di forme e colori.
Noi de La chiave di Sophia abbiamo avuto modo di assistere a questo spettacolo in occasione del festival Pordenonelegge lo scorso sabato 16 settembre 2017. Siamo entrati senza sapere bene cosa aspettarci e ne siamo usciti profondamente toccati ed entusiasti.

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La balenottera azzurra non è affatto l’essere più grande esistente (la Sequoia sempervirens lo è) e le tartarughe marine non sono affatto le più longeve (cosa sono del resto 200 anni contro i 4700 del Pinus longaeva?); le piante non sono esseri individuali ma sanno instaurare rapporti sociali, non sono affatto prive di sensi né prive di intelligenza. Siamo noi uomini gli stupidi quando continuiamo imperterriti a distruggere proprio gli esseri senza i quali la nostra vita è del tutto impossibile. Circa il 97,3% della biomassa del pianeta è vegetale e nel restante 2,7% animale l’uomo costituisce più o meno lo 0,02%, perciò verrebbe da chiederci: ma chi ce lo dà il diritto di distruggere il 99,98% del pianeta? Eppure, lo stiamo facendo. Per davvero. Distruggere le foreste in particolare è il vero e proprio unico crimine nei confronti dell’umanità perché eliminare le piante significa privare noi e le generazioni future della possibilità di continuare ad esistere.

Dobbiamo solo compiere quel piccolo sforzo che ci consente di capirle, queste piante; anche perché abbiamo anche molto da imparare da loro. Dico “piccolo” ma in realtà è enorme: il loro modo di fare e di pensare è talmente diverso dal nostro da non poterlo forse mai capire fino in fondo, questo perché il loro corpo è immensamente diverso da quello animale (per esempio distribuisce in tutta la superficie gli organi, mentre nel nostro sono concentrati in punti), e il fatto che possano vivere migliaia di anni contro i nostri 80 di media ci impedisce di comprendere cosa possa significare crescere in un così ampio lasso di tempo, stare al mondo e vivere con lentezza tutti i cambiamenti che i millenni portano con sé.

Però possiamo cominciare ad interessarcene. Possiamo almeno essere a conoscenza del fatto che non sono “solo piante”, infinitamente inferiori alla grandezza dell’uomo (in realtà è l’opposto, direi), e che hanno una loro dignità. Sì, dignità. Meritano di vivere, di essere considerate e rispettate. Se non altro per la nostra stessa sopravvivenza e salute, poiché oltre all’ossigeno basti anche pensare che 9 principi medicinali su 10 derivano dalle piante: considerando che secondo molte stime conosciamo meno della metà delle specie vegetali presenti sul pianeta, rischiamo ogni giorno di distruggere le cure mediche che stiamo affannosamente cercando da anni, forse decenni.

Ma non è soltanto questo, o almeno non dovrebbe esserlo. Dovremmo rispettare le piante perché esse hanno una dignità, hanno una complessità, hanno capacità relazionale: dovremmo rispettarle perché ogni forma di vita va rispettata, anche se non riusciamo del tutto a comprenderla, dovremmo insomma rispettarla solo perché esiste ed è viva; dovremmo rispettare le piante come rispettiamo gli anziani per la loro età e saggezza, perché esse sono altrettanto anziane (ma hanno prospettive di vita molto migliori delle nostre) oltre che altrettanto capaci e sagge.

 

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L’idea di Mancuso è che lo spettatore esca da “Botanica” con la consapevolezza di tutto questo. Non si può agire, del resto, senza prima essere consapevoli. Io ho riassunto qui soltanto pochi degli spunti offerti dallo spettacolo, ma se non potete vederlo con i vostri occhi vi potranno essere da supporto il libro e il cd che sono in vendita dal medesimo titolo “Botanica”. Questo è il primo passo d’azione. Il secondo è fare la propria parte quotidiana, guardando alle piante con occhi nuovi e con un cuore un po’ più aperto.

 

Giorgia Favero

 

Informazioni sullo spettacolo qui.
Presentazione video del progetto qui. Buona visione!

 

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La ribellione impossibile

Perché la mia generazione non si ribella? E – soprattutto – perché non si ribellerà mai? Non vorrei aggiungere fiumi di inchiostro multimediale a quello che altri hanno scritto su questo tema. Non vorrei farlo semplicemente perché molti di loro, se non tutti, non hanno la mia età.

Questo basterebbe a squalificare le loro analisi. Troppo distante il mondo in cui sono cresciuti per poter anche solo avvicinarsi al disastro antropologico ed economico degli ultimi 10-15 anni.

Bisogna vivere intensamente il tramonto per poter capire la notte che ci attende. Dipingere da posizioni di privilegio – spesso con toni moralistici – la crisi che ci ha investito, è un gioco letterario.

Riuscire a capire qualcosa della situazione attuale, per un giovane, è invece una missione politica chiara e definita. Per questo tutti i discorsi sullo scontro generazionale, sulla fine della moralità, sull’edonismo giovanile non hanno nessun senso se non prendono in considerazione la condizione di possibilità che ha permesso il loro avvento.

La risposta alle banalissime domande poste all’inizio, allora, diventa molto semplice. La mia generazione non si ribella e non si ribellerà mai al mondo proprio perché non è di questo mondo.

La “società dello spettacolo” – rubo l’espressione dal maestro Guy Debord – ha trionfato definitivamente. E noi tutti siamo stati traslati in una sorta di meta-mondo che con quello “materiale” non ha, apparentemente, nulla in comune.

I giovani vivono in una sorta di iperuranio telematico, elettronico, estetizzante all’ennesima potenza, che ha irrimediabilmente condizionato il loro di stare-al-mondo tradizionalmente inteso.

La società dello spettacolo di Debord presenta certo delle differenze sensibili, visto che cinquant’anni fa si poteva ben dire quale fosse il confine tra chi guarda e chi è guardato. Oggi tutto questo non è possibile, visto che quel limes è venuto meno, e la barriera tra osservato e osservatore è caduta miseramente.

Il gioco delle parti è diventato irreversibile, motivo per cui tutti possono guardare, essere-guardati e addirittura guardarsi dall’esterno.

La nostra è una società che si osserva nella sua interezza, e che ha perso qualsiasi movente per agire: quando è l’occhio (elettronico?) il perno di tutte le dinamiche sociali, è inevitabile il sorgere dell’abulia e dell’accidia che caratterizzano questa generazione.

Vedo e sono visto, quindi esisto, verrebbe da dire. E il comportamento dell’osservatore è – come da tradizione – quello di rimanere fermo ad analizzare nei dettagli la situazione.

Questo iperuranio estetico ha sicuramente radici materiali ed economiche, ma viverci comporta la netta eradicazione da qualsiasi impegno – politico e non solo – nel mondo. Ecco perché i giovani non si ribellano: le leggi del meta-mondo sono completamente diverse da quelle della realtà quotidiana di un tempo.

In questo senso si può parlare anche di un’alienazione radicale, visto che la vita delle radici viene completamente obliata, fin da subito. La protesica di cui ci siamo dotati per creare il mondo virtuale ha fatto sì che molti esponenti della vecchia generazione “perdessero” il treno della nuova modernità.

In molti casi si tratta di coloro che dovrebbero legiferare e amministrare governi e nazioni: il problema è proprio che appartenendo al mondo, e non al meta-mondo, la vecchia generazione si occupa, politicamente, solo del primo. L’iperuranio si è trasformato ben preso in una materia informe, anarchica e mimetica: sfido infatti chiunque a distinguere il mondo “vero” da quello “falso”. La sfida, come sempre, è vedere il doppio nell’unità.

Roberto Silvestrin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Quando l’arte si fa esperienza: la percezione come strumento d’indagine

Qualche giorno fa l’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte ha ospitato il collettivo [I] Experience, con la sua performance artistica a 360 gradi. Un progetto complesso e ben strutturato che consiste nell’ascolto attraverso cuffie in modalità binaurale di una sinfonia rock, eseguita live da quattro musicisti e una cantante. Nelle pause tra un brano e l’altro, immerso nel silenzio ovattato delle cuffie, lo spettatore ha la possibilità di seguire sul proprio smartphone o tablet un testo che scorre. La musica è inoltre accompagnata da una visual dai toni psichedelici ed evocativi.

Un’esperienza completa, che invita all’osservazione, all’ascolto e alla rielaborazione degli input narrativi offerti dalla storia che si svolge sullo schermo. Il ritmo della performance è quindi dettato dal respiro della protagonista del racconto: una ragazza con problemi di dipendenza, solitudine e paranoia.the-experience-2_tra_la-chiave-di-sophia

Lo spettacolo ci offre, dunque, uno sguardo sul fenomeno sociale dei giovani hikikomori, particolarmente grave in Giappone, che consiste nella progressiva alienazione volontaria dalla realtà e spesso si conclude con suicidi collettivi.

Emerge un’intenzione di indagine che definirei quasi scientifica e sociologica. Le modalità proprie della fruizione ci trasportano nella dimensione emozionale di un hikikomori: l’interiorità di cui la musica si fa espressione, non coincide infatti con gli input esterni.

Un concerto che dovrebbe essere vissuto collettivamente diventa così una sinfonia intima e privata. Ci troviamo a vivere un’esperienza in solitudine, anche se all’interno di uno spazio pubblico e seduti tra la moltitudine: al di fuori di noi c’è solo silenzio e persone riparate dalle cuffie.

Parole quindi che riflettono la musica, che a sua volta restituisce le emozioni del racconto, o almeno quelle che ognuno può elaborare secondo la sua personale lettura. La propria emotività si trasforma in uno scudo, un rifugio nel quale è dolce ripararsi e ad un certo punto conveniente.

Un circolo vizioso e ipnotico, uno stato che tra l’altro si riflette nelle proiezioni psichedeliche ed oniriche.the-experience-1_tra_la-chiave-di-sophia

L’esperienza artistica forse non può dare delle risposte certe, perché è soggettiva, ma d’altra parte aiuta ad elaborare domande. Chiedersi perché un ragazzo arrivi a diventare hikikomori non ci permette però di adottare la giusta prospettiva sul fenomeno. Le ragioni di questa patologia sono così profondamente radicate nel subconscio che risultano difficili da comprendere; inoltre questo tipo di sofferenza ha una natura totalmente personale ed è impossibile da condividere. Non a caso l’unica condivisione accettata dagli hikikomori è attraverso amicizie virtuali, scambi di parole mediate da una rigida tastiera e semmai addolcite con qualche emoticon.

Bisogna invece cambiare punto di vista e fermarsi a pensare come sia possibile percepire con i sensi strettamente canalizzati, o addirittura oscurati.

Credo sia questa la sfumatura più interessante sulla quale il progetto di [I] Experience ci porta a riflettere: d’altronde si tratta di partecipare ad un concerto ma ascoltando esclusivamente attraverso delle cuffie, che non permettono al suono esterno di entrare, e con lo sguardo concentrato su uno schermo, per cui le altre persone diventano invisibili.

La performance ci invita a sperimentare una sorta di isolamento percettivo, capace di creare universi fittizi, e, senza esprimere alcun giudizio, ad entrare in empatia con la protagonista. Per poi dimostrare, invece, che questa empatia per certi versi è illusoria, poiché ognuno è solo con se stesso. Emerge come il problema sia un’errata canalizzazione degli organi sensoriali: lo sguardo rivolto verso la propria interiorità resta così intrappolato in una paura da cui è difficile uscire e contro cui è impossibile opporsi.

Essenzialmente [I] Experience − che già nel logotipo del nome ci presenta una I (un io quindi) imprigionato tra parentesi − ci invita così a riappropriarci della nostra esperienza del mondo, di sentire al di fuori di noi, come reazione all’isolamento imposto durante il concerto.

Claudia Carbonari