Si può comunque passeggiare

Una sera d’inverno mi addentro incespicando nel bosco, tutto imbacuccato nel parka e travolto da mille pensieri che si affollano. Avvolto nel gelido amnio e protetto dal silenzio secolare degli alberi, combatto ancora per sedare quegli assilli inconcludenti, le voci dei morti che rammentano quel che passa senza l’intervento dei vivi. Cercano risposta, pretendono soluzione, vogliono che mi riappacifichi con le loro nenie per poter finalmente riposare in pace. Mi avvio lungo un sentiero di fango rossiccio per ammansire i tormenti con la semplicità ristoratrice di una passeggiata.

Sono colpe di quel che siamo stati, rimproveri per quel che potremo essere, sono i mesti sussurri di una storia che non ci appartiene e impera coi suoi sproloqui sulla miseria del mondo umano. La responsabilità del passato germina sulle nostre schiene, le incurva sotto il peso dei suoi fiori e ci fa ciondolare come tartarughe afflitte e incupite che vorrebbero per una volta sollevare lo sguardo. Ci toglie il diritto di vivere l’eterno presente, di sputare sulla tomba del tempo e di danzare liberi come gli animali che siamo. La libertà biologica è in catene e ci vediamo costretti a scandire l’intero arco della nostra permanenza nel mondo in brevi scadenze dal ritmo tartassante, che uccidono e innervosiscono la nostra primigenia indifferenza verso lo scorrere inesorabile dei giorni. Non possiamo più disfarci della maledizione cronologica perché portiamo gli orologi ai polsi, perché i doveri devono riempire la nostra vita anche quando si tratta di accendersi una sigaretta pur di fare qualcosa, perché le ore vengono indicate sugli schermi lampeggianti dei cellulari, sulle insegne che campeggiano per le città, la radio, la televisione, ogni dispositivo di comunicazione ci rinfaccia il ticchettare delle lancette con insistenza; persino il campanile coi suoi rintocchi ci ricorda quanto sia veloce e ineffabile questo inarrestabile fiume di secondi, che dobbiamo sbrigarci a inseguirlo se non vogliamo perdere il percorso che traccia. Non possiamo più prescindere da quest’autorità perché nasciamo in un mondo dove essa è venerata, considerata alla stregua di una divinità ambigua e amorale, un mondo che non ricorda più come quell’autorità beffarda si è conquistata il suo trono pacchiano ed è totalmente incapace di proporre una qualche alternativa al suo dominio aprioristico. Quel brulicare chiassoso della società odierna è solo l’eco amplificata di un fragore scoppiato in un passato remoto e l’ovvietà del presente ne paga lo scotto.

Nella volta inizia a brillare Venere, col suo ardore giallognolo, e sotto la luna è possibile scorgere il flebilissimo bagliore di Marte. Gli alberi anneriti frusciano e dai cespugli fuoriesce zampettando un gatto randagio, che mi avvicina miagolando e con la coda rizzata. Mi passa accanto quasi con indifferenza e si corica nell’erba alle mie spalle, fingendo di non guardarmi coi suoi occhi sornioni. Sorridendogli proseguo il cammino e m’incanalo sotto un arco di rami intricati, quando il gatto all’improvviso mi affianca strusciandomi tra le gambe e mi accompagna fedelmente lungo l’intero sentiero. Come due banali creature viventi, ognuna filtrante il mondo coi suoi parametri, silenziose e recidive che perdono tempo insieme, passeggiamo vuotamente.

La passeggiata è l’emblema della perdita di tempo, la premessa indiscutibile di una riflessione fresca e brillante, intuitiva come il più semplice dei silenzi. La passeggiata è l’espressione del minimalismo attivo, della semplicità di un agire cosciente che interagisce costante con lo spettacolo dischiuso della vita. È sincera e puntiforme, capace di uccidere il tempo e condannarne la memoria alla dannazione perché arresta il dinamismo artificiale della nostra corsa disperata. Dove il tempo ancora esiste il passato è nostalgia pura, il futuro fa vacillare le gambe, il presente è un istante inafferrabile, il nunc una leggenda utopica. Dove il tempo permane l’umanità è oppressa e avvilita, è spronata con le fruste ad affrettarsi lungo i canali di una macchina gigantesca e colossale, che sbuffa e digrigna i suoi ingranaggi sognando solamente di poter accelerare la sua corsa senza senso. Dove il tempo esiste il cuore è dominato dalla speranza e anela quindi a quel momento imminente che può esser latore di benefici quanto di malanni, la mente è indecisa, traballa su un suolo terremotato. La speranza è fomentata dall’incertezza, è imparentata col dubbio, sorge dal terrore per il fallimento e la morte, vive solo là dove è risaputo che si potrebbe stare meglio, ma altrove, in quelle mitiche zone in cui il tempo non esiste e non ossessiona, i vivi e i morti convivono senza differenze e il mondo passeggia per dare respiro a un universo più sereno, lento, e raccolto, dimentico della speranza e dei sospiri da innamorati.

Cala la notte e il buio gelato striscia tra le fronde e gli arbusti. Nell’aria risuonano le risate crudeli delle anatre e le cadute acquatiche dei loro ultimi tuffi. Il gatto mi sorpassa e sembra volermi fare strada lungo il sentiero oscurato, come uno spirito boschivo in soccorso di un vagabondo sperduto. Arrivati all’uscita che introduce al mondo luminoso degli umani, il felino sparisce dentro una baracca polverosa sgattaiolando in una fessura della parete e come pago della sua azione ‘virgiliana’ si accomiata magico e muto tornando nella selva. Il ritmo monocorde è spezzato e la vita passeggiante si rintana nell’intimità oscura, trascinando con sé lo stupore sognante e lasciandoci nelle grinfie degli ululati angosciati dei morti. Avere il tempo di dimenticarci del tempo, questo ci renderebbe finalmente felici.

Leonardo Albano

Lettera alla sig.na Regine Olsen: anche i filosofi hanno un’anima

[Poche volte, nella vita, capitano fortune come questa. Questa lettera, da me trovata (chiusa in un cassetto di uno scrittoio, comprato per puro diletto in Nørregade, in quel di København) e tradotta dall’originale danese, è la minuta della famosa, e tragica, “Lettera del 1849” a Regine, da Kierkegaard spedita, ma alla quale non ricevette mai risposta.]

Allo stimatissimo signor X:
la lettera acclusa è mia per la Vs. compagna di vita.
Decidete Voi se consegnargliela o meno.
Io non cerco, in modo alcuno, di potarVela via: intendo solo narrarle ciò che fummo, perché lei si senta libera di ricordare il bene, e il male, di quello che fu la nostra storia.
Ho l’onore di professarmi Vostro devotissimo
S.A.K.

 
Mia Regine,

il cuore, è come una casa subacquea ove vi sono molte stanze: giù nel fondo, poi, vi sono camere piccole, ma accoglienti, dove si può stare tranquillamente seduti, mentre fuori il mare tempestoso; in alcune di esse possiamo udire in lontananza il rumore del mondo (non angosciosamente assordante, ma sempre più fievole e quieto… sai perché? Perché gli abitanti di queste stanze sono coloro che s’amano).
Ma da lungo tempo oramai, cara amica, non abiti più queste segrete magioni: io e te siamo separati, lontani nello spazio infinito del tempo, nella piccola circoscrizione dello spazio: non è poi così immensa Copenaghen!

Ti scrivo ora, perché finalmente voglio che ti sia chiaro perché la nostra storia è finita.
Da quando ti conobbi, ho sempre cercato di vivere artisticamente: volli farmi simile a te, cercando di ritrovare una sensibilità prontissima a cogliere ogni cosa fosse interessante nella tua vita: avevi il dono, cara amica, di saper presentare come arte (non la chiamerò poesia, perché tu con le parole non eri brava come con i suoni e con le immagini: eri erotica in ogni tuo gesto, come solo una ragazza della tua età può essere) qualsiasi cosa tu vivessi: era questo che mi aveva fatto innamorare di te, era questo che mi allontanava terribilmente da te.
La tua arte, amica mia era il ‘di più’ che solo tu potevi donarmi, perché tutta la tua esistenza (bisogna dirlo!) era impostata sul godimento artistico: e un po’ di quel piacere eri riuscita a passarlo a me… il punto è che io non potevo vivere così in eterno, perché io non sono così, e pur di piacere a te, violentavo me stesso. Dolce tortura, ma pur sempre tortura!
Da quando ti ho conosciuta, ho cercato per settimane, ovunque, la tua figura: sapevo che, attorno a te, girava un uomo di grande valore, e io di lui avevo paura perché egli ti era vicino, come uno spettro in una città morta: cosa avesse lui più di me, l’arguzia, l’aspetto… io non l’ho mai capito. Eppure, piccola Regine, ho avuto la fortuna di conquistarti, perché l’amore che io potevo offrirti (e lo sai) era perfetto e totale; il suo, era solo desiderio (anche tu lo desideravi? Immagino di sì, perché è difficile convivere col desiderio!) mentre la mia, era devozione.

Forse tu non eri pronta a cotanto sentimento? La storia parlerà per noi.

Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi?
Ma davvero poi il tuo corpo poteva così manifestamente mentire? E la tua mente, il luccichio dei tuoi occhi, erano davvero falsi come io ora credo?

Regine mia, non c’è proprio nessuna speranza, davvero nessuna? Il tuo amore non si ridesterà mai più? Io lo so che, nonostante tutto e tutti, tu mi hai amato, benché non sappia dire donde mi venga questa certezza.
Sono pronto ad aspettare a lungo; aspetterò, aspetterò fino a che non sarai sazia degli altri uomini, e quando il tuo amore per me risorgerà dalla tomba: allora, e solo allora, riuscirò ad amarti come sempre, e ti renderò grazie come un tempo, Regine, quando, poggiato al tuo seno, ascoltavo il dolce e regolare moto del tuo respiro, e ti ringraziavo per esser con me.
Non potrai essere così crudele e spietata verso di me in eterno, mia Regine: giungerà il giorno del tuo perdono o del tuo ravvedimento… non ricordo neppure chi dei due distrusse la nostra storia.
No Regine, chi abbia lasciato chi ora non conta.

Sei stata crudele con me, al pari di come io lo fu con te, è vero.
In realtà, tu non lo sai, io ho taciuto il mio dolore e le poche cattiverie dette su di te non hanno che la consistenza dell’aria: solo Dio sa cosa ho sofferto (e voglia il Signore che nemmeno ora io te le racconti)! Mia Regine io ti devo molto… e ora che non sei più mia, ti offro una seconda volta ciò che posso e oso e conviene che ti offra: me stesso.
Sì, ti dono questo cuore che già in passato fu tuo, e lo faccio per iscritto, per non stupirti e non sconvolgerti. Forse la mia personalità ha fatto su di te un’impressione troppo forte, in passato: ciò non deve accadere una seconda volta, e se tu dovessi accettare la mia mano tesa, dovrebbe essere per vero amore, non per impressione.
Mia Regine, prima di dirmi di no!, ti prego, rifletti seriamente (per amore di Dio nei cieli) se puoi, o meno, parlarne con me con serenità, e in tal caso se preferisci farlo per lettera o direttamente a voce. Se invece tu, dopo accurata riflessione, decidessi comunque di non darmi più alcuna risposta, se la tua risposta al mio amore fosse ‘no’, ricorda almeno – per amor del cielo – che per te, e solo per te, ho fatto, e rifarei mill’altre volte, questo passo.

In ogni caso resto,
quale sono stato dall’inizio fino a questo momento,
sinceramente il tuo devotissimo
S.A.K.

David Casagrande

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Intervista a Eugenio Borgna: tra psichiatria e filosofia

Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Fra le più recenti pubblicazioni ricordiamo: Parlarsi. La comunicazione perduta (Einaudi 2015), L’indicibile tenerezza (Feltrinelli 2016) e Responsabilità e speranza (Einaudi 2016).
Ho l’occasione di incontrare il professore successivamente al suo intervento al Festival di Pordenonelegge. Si concede alle mie domande e ai microfoni dei miei due gentili colleghi e amici. Ci accoglie con la cordialità e la pacatezza dei gesti che lo contraddistinguono in ogni sua manifestazione, sia essa scritta o orale e con la coerenza di chi cerca di vivere i valori dei quali si fa portatore. Al termine di ogni domanda si sincera di aver esaudito le mie richieste. Una delicatezza autentica, di un uomo di grande cultura e profondità spirituale, che nella propria esistenza ha scelto di condividere la sua straordinaria sensibilità e umanità per avvicinare le ferite dell’anima ed alleviarne le sofferenze, attraverso l’ascolto, la comprensione e l’empatia.

Professor Borgna, nel suo ultimo libro Responsabilità e speranza lei afferma che «conoscere se stessi e gli altri è il modo più intenso di essere responsabili. Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza». Può illustrarci quale rapporto intercorre tra responsabilità e speranza?

La speranza allarga la capacità che noi abbiamo di prevedere le azioni che esercitiamo sugli altri. Se la speranza non c’è in noi, vi è il rischio di esaurire il giudizio. Senza la speranza il futuro si chiude, si raggruma, si isterilisce. Finché la speranza vive in noi, come ha continuamente detto Leopardi, riusciamo a vivere. Senza speranza diventiamo delle monadi con porte e finestre chiuse, senza riuscire a intuire quello che c’è nell’animo delle persone. La speranza è memoria del futuro, è la premessa affinché si costruiscano relazioni umane autentiche fondate sulla corrispondenza, la concordanza e la pace; nonché la capacità di intuire, accettare e accogliere le nostre debolezze senza mai sottolineare e rimarcare quelle che sono le differenze negli altri.

Cerchiamo poi di cogliere il sorriso di un’anima anche quando le lacrime scendono senza fine. Ci sono lacrime che testimoniano un sorriso ancora più umano, ancora più creativo, ancora più capace soprattutto di oltrepassare le terrificanti barriere dell’odio, della violenza, del risentimento. La speranza va intesa come “nemica mortale” della violenza. Se si spera poi, si riescono a cogliere e intravedere scintille, apparentemente invisibili, che ci aiutano a dare un senso alla vita. Attraverso la speranza la nostra vita si fa più intensa, più capace di carità, di fede, più capace soprattutto di vivere e comprendere i dolori indicibili del sofferente. Senza speranza, potremmo anche essere giganti del pensiero, ma con i piedi di gesso.

Lo psichiatra Viktor Frankl sosteneva che l’uomo che non si proietta/progetta nel futuro facilmente smarrisce il senso della propria vita. Cosa ne pensa? E in che modo, secondo lei, la speranza ci apre al futuro?

Conosco molto bene i libri di Frankl. Credo che riescano a cogliere alcuni aspetti essenziali della vita dello spirito. Al contempo ritengo che lo psichiatra viennese sia però minato da quella che per me è stata la sua defaillance e cioè il pensiero di poter generalizzare situazioni, come quelle che lei mi ha descritto, che valgono solo in determinate circostanze e soprattutto con determinate personalità. Quindi, senza dubbio il pensiero di Frankl è un lume e una finestra aperta per uscire dai grovigli dell’egocentrismo e della solitudine. Tuttavia, eviterei di trasferire questa indicazione pratica e terapeutica in un sistema ideologico. Per cui, una tesi così secca come quella che lei mi ha espresso, non mi sembra sempre sostenibile. Riconosco comunque la qualità dei suoi scritti, tradotti anche dalla Morcelliana, che hanno senza dubbio un grande valore euristico.

In che misura la filosofia, e la fenomenologia in particolar modo, si sono integrate nella sua attività di medico psichiatra a diretto contatto con la sofferenza?

Come accade di frequente nella vita certe strade si aprono così, improvvisamente, senza che vengano direttamente cercate. Inizialmente io in clinica universitaria mi occupavo di neurologia, ma di casi di psichiatria ce n’erano pochissimi e venivano considerati come non degni di uno studio scientifico, come invece avrebbero dovuto essere tutti i casi di neurologia. Tuttavia, incontrando alcuni pazienti, ospiti in questa clinica famosissima, mi sono accorto che gli aspetti materiali, organici, cioè neurologici, mi interessavano relativamente, mentre mi interessava il risvolto interiore, cioè come quei pazienti vivevano i propri disturbi, le proprie malattie, i propri handicap, la propria disperazione. Da lì, quindi, ho seguito i pazienti che non avevano problemi neurologici specifici, ma che invece erano pazienti depressi e ansiosi. Quindi, non i grandi pazienti psicotici, cioè non schizofrenici, ma depressi, ansiosi, ossessivi. Ho capito che volevo seguire quella strada, altrimenti non avrei combinato niente, anche perché non ho grandi attitudini mediche pratiche, chirurgiche.

Inoltre, essendo uno dei pochissimi psichiatri italiani che conoscono il tedesco, ho potuto leggere, nel 1955, Allgemeine Psychopathologie, grande libro di Jaspers (scritto quando aveva appena trent’anni e che ancor oggi si studia), uscito nel 1913 in Germania e tradotto in Italia nel 1964. Jaspers a trent’anni si ammalava di tubercolosi e non potendo più fare lo psichiatra divenne filosofo. Uno dei grandi filosofi, che introdusse un nuovo parametro di conoscenza della psicologia sulla base delle idee fenomenologiche che erano state introdotte da Husserl prima e da Scheler dopo, per cui l’oggetto della psichiatria non sarebbe più stato il cervello, come oggetto neurologico, ma l’anima, cioè i sentimenti, le emozioni, i pensieri, i comportamenti che si possono riconoscere però soltanto se noi cerchiamo di metterci nei panni di chi soffre. Sembra la scoperta dell’uovo di Colombo, eppure questo concetto dell’einfuhlung, cioè dell’immedesimazione, ha davvero cambiato il mondo. Infatti, immergendoci e cercando di ricostruire la storia e le vicende della vita del paziente ci si è accorti di come avesse grande importanza nella cura anche il sentire come proprie queste sofferenze e il capire che non appartenevano ad un altro mondo, anche se espressione di esistenze lacerate e sofferenti; spesso dotate di qualità umane superiori a quelle che noi nella nostra umanità raggiungiamo.

Per esempio, Jaspers ha scritto un libro su Van Gogh, applicando per la prima volta anche nella storia dell’arte la categoria dell’immedesimazione per capire il motivo di questi particolari gialli del pittore olandese, questa sua schizofrenia, l’orecchio tagliato e l’esito del suicidio.

Il concetto stesso di speranza sembra oggi molto lontano dal vocabolario di adolescenti e giovani, che si confrontano con una società che spesso non crede in loro, se non a parole, e che è priva di ogni genere di certezze e stabili opportunità. Quale consiglio si sente di dare loro affinché non perdano la speranza nel futuro e in particolare in un futuro migliore?

Questo è un tasto molto delicato perché tendo, anche con i pazienti, a non dare consigli, tendo a non fare domande. Tendo, se ci riesco, a fare in modo che chi sta male, riesca a dire le cose che sente e se le sente, perché non sono un poliziotto come tanti psichiatri o psicologi che fanno domande in continuazione perdendo di vista il rapporto terapeutico e la relazione. Per cui, i consigli possono essere solo quelli che vengono dalla testimonianza, dall’esperienza, dagli studi e dai libri di alcuni importanti psichiatri o filosofi fra i quali Basaglia o Jaspers (pur nella complessità dei suoi scritti) o magari qualcuno dei miei libri relativi alla speranza.

Alessandro Tonon

[Immagine tratta da gazzettadimantova.gelocal.it]

Siamo noi il cambiamento

Oggi è un giorno come tanti altri, un giorno in cui, tramite vari canali di comunicazione, mi è giunta all’orecchio una notizia orribile e disarmante. Ormai al mattino ci svegliamo e subito ci raggiunge l’eco di un orrore perpetratosi in qualche parte del mondo prima ancora di sederci al tavolo della colazione.
Molte volte mi sono detta “Non parlare di queste cose”: ho l’impressione che se ne dica sempre troppo e che invece ci raccogliamo in rispettoso silenzio sempre meno. Però queste notizie ci smuovono completamente dentro, fanno nascere in noi ogni volta un turbinio di pensieri e ne soffriamo – ci toccano da vicino. L’indifferenza totale è impossibile, anche la loro stessa quantità, in realtà, ci cambia. E quindi io sento il bisogno di lanciare un qualche messaggio positivo in mezzo alla catastrofe.

Cominciamo dalla terribile e terribilmente ovvia verità: ogni giorno, in ogni minuto, da qualche parte del mondo è in corso una guerra, c’è un attacco terroristico, delle persone vengono orribilmente sfruttate, dei bambini vengono privati della loro innocenza, tonnellate di cibo oggetti e risorse vengono sprecate e distrutte, degli animali soffrono e soccombono sotto l’implacabile, sconvolgente noncuranza dell’uomo, il Portatore di Distruzione che non guarda in faccia nessuno.
Di fronte a tutto ciò, qualcuno si rifugia nella fede: Dio ci salverà, Allah provvederà, tutto ha una spiegazione nel disegno provvidenziale; altri invece la fede la perdono, e guardano piuttosto ai potenti non-divini, i grandi magnati, i politici, i quali però rispondono con infinite parole, infinitamente retoriche – e non è nemmeno colpa loro, perché come si può dire qualcosa di veramente utile oltre all’ovvio? L’unica risposta sarebbe l’azione: dovrebbero fare qualcosa, mettersi d’accordo, decidere che ormai davvero basta, che davvero siamo al limite, che davvero ci stiamo autodistruggendo. Sanno di dover fare ma non riescono a fare molto. E noi raccogliamo la nostra frustrazione. A chi rivolgersi, a questo punto?

Risposta: a noi stessi. Basta cercare scuse, basta guardare altrove. Pensiamo di non fare la differenza? Eppure il mondo è fatto di persone, perciò se ciascuno facesse quello che può, secondo la sua coscienza ed i suoi mezzi…
È un po’ come andare a votare: non è che siccome il mio voto è solo uno devo smettere di usarlo, pensando che non serva a niente. Certo, questa faccenda è un po’ più complicata rispetto al porre una croce su di un foglio: decidere di agire in prima persona per migliorare prima di tutto noi stessi e di conseguenza anche il mondo, comporta un po’ di fatica. Innanzitutto, bisogna informarsi: qui e oggi abbiamo a disposizione ogni mezzo di comunicazione e di informazione possibile e immaginabile, tutte le notizie e verità del mondo nel palmo di una mano, dunque è nostro dovere (se non altro morale) non sprecare questa gigantesca opportunità. In seconda battuta, si analizza la situazione: “Che cosa posso fare io nel mio piccolo?”. Trovata la prima risposta la si mette in pratica, sopportando una fatica mentale (devo farlo, devo pensare che è davvero utile farlo) e anche fisica (cambiare le proprie abitudini e stili di vita). Poi arriva la soddisfazione: non ho aspettato che il cambiamento piombasse dal cielo (o dalla politica), sono io il cambiamento. Sto facendo qualcosa di buono. E sei così contento che ricominci il processo: “Cos’altro posso fare io nel mio piccolo?”.

«Sii tu il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo»¹.

Non so se ciascuno di noi nasca con uno scopo preciso (è una delle cose che continuo a chiedermi), però penso che veniamo tutti al mondo per perseguire lo stesso obiettivo morale. «Ama il tuo prossimo come te stesso»², «Nessuno di voi è un credente fino a quando non desidera per il suo fratello quello che desidera per se stesso»³, «Quello che tu stesso non desideri, non farlo neppure agli altri uomini»: ce lo insegnano le religioni, nonché le istituzioni, ma anche il buonsenso. Solo che dobbiamo ampliare il raggio d’azione agli sconosciuti, agli animali, al mondo naturale, al pianeta intero. Ogni giorno. Nel nostro piccolo. Perché in questo caso, anche non fare è un’azione (non evitare lo spreco, non difendere un’offesa, voltarsi dall’altra parte…), e comporta delle conseguenze.

«If you want to make the world a better place, take a look at yourself and make that change».

Tutti noi – possiamo – fare – qualcosa. Mettiamocelo in testa. Basta scuse. Basta frustrazione. Seminiamo positività, comprensione, coraggio; seminiamo amore. Insegniamoci l’un l’altro a non odiarci, che è sbagliato farci del male vicendevolmente. Non smettiamo di aggrapparci alla nostra umanità. Non cerchiamo risposte altrove – le risposte sono dentro di noi.

«Ero intelligente e volevo cambiare il mondo, ora sono saggio e voglio cambiare me stesso».

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1. Frase attribuita al Mahatma Gandhi;
2. Cristianesimo ed ebraismo (Levitico 19,18);
3. Islam (Hadith 13);
4. Confucianesimo (Dialoghi 15,23). Potrebbe sorprendervi sapere quanti testi sacri e di quante religioni riportano lo stesso concetto con parole più o meno diverse;
5. Michael Jackson – Man in the mirror : sì, se ne parla anche nella musica pop!;
6. Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama.

 

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31 Dicembre: speranza, nostalgia o indifferenza?

Spesso durante l’anno si usa sempre l’acceleratore e difficilmente si pensa di rallentare men che meno di fermarsi. Anche solo un attimo, un istante per pensare a sé o agli altri con calma, anzi pensandoci davvero e non frettolosamente.

Poi d’improvviso arriva la fine dell’anno e, volenti o nolenti, ci si ritrova anche solo inconsciamente a fare un bilancio di ciò che è stato, pensando a ciò che sarà o potrà essere nel nuovo. Come se il passaggio dal 31 all’1 comportasse cambiamenti davvero significativi! Eppure noi siamo convinti di questo: ciò che è stato fino al 31 non sarà più dall’1 in poi. Tutto si trasformerà magicamente, in meglio o peggio non è dato sapere, quello che basta è essere convinti che un cambiamento ci sarà automaticamente.

È qualcosa che, se ci si fermasse un solo secondo a pensare, è fuori da ogni logica eppure appartiene all’essere umano da sempre. Forse è propria della sfera della speranza che ci guida e ci spinge ogni giorno dell’anno ma che noi sappiamo riconoscere solo il 31 Dicembre.

La speranza che qualcosa succeda, come se tutto quello che abbiamo fatto durante l’anno non fosse già quel ‘qualcosa’ che noi stessi abbiamo fatto succedere con sacrificio o facilità, con piacere o meno. Una speranza ingabbiata dalle reti che la società ci impone durante l’anno e che noi accettiamo inconsapevolmente o meno  perché assorti dai mille pensieri che abbiamo e che ci costruiamo.

Ecco che allora dobbiamo capire cosa davvero ci faccia stare bene, se l’annebbiamento mentale che ci portiamo dietro tutto l’anno con solo la sincerità con cui il 31 Dicembre si rivolge a noi, oppure il rallentare i nostri ritmi, privilegiando le pause, per pensare e riflettere su ciò che ci rende felici davvero, arrivando al 31 Dicembre solo per stappare una bottiglia, senza aspettarsi troppo o troppo poco dall’anno nuovo, ma consapevoli già di tutto quello che è stato, capaci di dire all’amico 31 ‘Sì, lo so già!’.

Sforzarsi di preferire la seconda opzione non è cosa naturale è facile da ottenere, ne sono consapevole, però il riuscirci dimostrerebbe il nostro voler vivere non nella speranza che ‘qualcosa’, non si sa cosa, accada ma nel presente per viverlo appieno, giorno dopo giorno e non solo il 31 Dicembre che altro non è se un giorno qualunque.

Il mio augurio per voi lettori è quello di trovare il vostro ritmo naturale che non sia dettato dagli altri ma che sia davvero solo vostro, affinché possiate arrivare al 31 Dicembre 2016 consapevoli di tutto quello che è stato e capaci di prevedere con cognizione di causa quello che sarà il giorno dopo.

Valeria Genova

A te, amore sincero

“Per tutta l’adolescenza ho cercato quell’amore, quello che solo tu mi hai saputo dare,quello che solo tu potevi trasmettermi guardandomi correre verso di te.
Il profumo dei fiori del giardino ancora mi inebria, è come se fossi ancora li accanto a te, Come potessi vederti, ascoltarti, viverti.
Ci sono svariati tipi d’amore, noi due lo sappiamo forse meglio di chiunque altro, vero? L’amore bugiardo, l’amore malato, l’amore che si approfitta, perché il mondo di sentimenti snaturati, e sradicati dalla terra che ha dato loro la vita, pullula. Ciò che manca è la semplicità, la purezza di emozioni così grandi da far diventare qualcuno altro più importante di te.
Mi dicevano sempre che io ero la cosa che più hai amato nella tua vita, la consapevolezza di ciò, di essere amata da un uomo come te, mi ha sempre fatto credere di essere “giusta”, di non dovermi vergognare per l’essenza della mia anima. Nessuno, nemmeno tu però, mi ha spiegato come poter far a sopperire al vuoto che il tuo calore ha lasciato. Continuò a cercarti sai? Nello sguardo della gente, in un gesto gentile, in una parola confortante. Io cercò te. Tento di scovare in chi mi circonda ciò che emanava la tua anima. Perché in fondo ciò che mi manca di più è la quotidianità, la nostra. Le nostre chiamate, quelle notti passate nella cameretta a cercare chissà cosa nel cielo col binocolo…le passeggiate lungo la via di casa durante il Natale.

Sono tornata davanti quella casa, ma non era più la tua. Le tue scale, non c’erano più..i gradini sui quali sedevo mirando te nel giardino..non esistono più…non vi è più traccia del tuo giardino, del balcone dal quale mi guardavi…però entrando nella via, ho visto noi. Una piccola me, un grande te. La mia mano nella tua. Ho percepito la sicurezza, la protezione, il senso di serenità che solo tu sapevi darmi.
Sai chi mi ha fornito gli strumenti per lottare? Chi mi ha sempre resa consapevole della forza insita nel mio essere, nei miei pensieri, nelle mie azioni? Tu.
Lotterò sempre, perché so che gli uomini veri esistono, che l’amore vero esiste, senza riserve, paure o violenze. Io l’ho vissuto, ne vivo ancora oggi a distanza di anni dall’ultima volta che ho incrociato il tuo sguardo complice e fedele.
L’ho vissuto con te.
Tu sarai sempre il modello di uomo perfetto, che la mia mente e il mio cuore cercano ovunque. Perché, nonno, quando hai accanto una persona incredibile a dispiegare le meraviglie che il mondo ha in servo per te, non potrai mai accontentarti, non potrài mai acconsentire o scendere a compromessi.”
Questo spazio non serve solo e unicamente alla denuncia di eventi drammatici, serve soprattutto a dare la speranza a chi, purtroppo, l’ha persa. Il mondo in cui viviamo non sempre si dimostra gentile, non sempre rispecchia gli ideali che ognuno di noi crea nella sua mente.
John Lennon scrisse che quando si impara ad amare se stessi si potrà amare l’altro e farsi amare da quest’ultimo. La propria felicità non può dipendere dalla presenza di qualcuno, non si può e non si dovrebbe mai investire qualcuno della responsabilità che comporta la propria felicità.

L’amore, l’unione che ne deriva, non sono unici, non capitano per sbaglio, si costruiscono, su fondamenta forti e resistenti.
Crescere nell’amore fa comprendere e scoprire come questo si manifesti davvero, come la purezza di tale emozione non possa mai condurre alla sofferenza.
Per quanto sia faticoso, per quanto la solitudine possa travolgere e soffocare durante la notte, per quanto le lacrime possano scorrere fin al punto di non sentirle più scendere, non accontentatevi.
Prendete l’amore più grande che avete mai conosciuto, custoditelo, innalzatelo ad esempio.
Siate memori della felicità, ricostruitela.
Non accontentatevi, non siate voi le prime fautrici della vostra sofferenza.

IODICOBASTA.ETU?

Nicole Della Pietà

Speranza: Die hard

 

Non muore la speranza

 

Non muore la speranza

si scioglie solo

dentro un corpo

freddo…

 

Resta fissa

in un mondo caotico

confondendosi

nei vostri pensieri

e diventa aria

dove l’aria è polvere.

Con occhi di ghiaccio

velati da un vapore…

che si sgretolano al calar della sera.

 

Ma non muore la speranza,

colei che muore è lei,

piano…

serena…

dolce e leggera.

Macrina Barea Cerap

Sono arrivato a casa dopo una mostra, era andata abbastanza bene, bene. I rapporti umani erano stati troppi, io confuso, avevo esagerato in esuberanza. Mi dicevo: meglio così che fingere indifferenza, spremi la vita finché fa male. Senza qualche scusa si sta li a rimuginare per troppo tempo e il tempo non è mai troppo.

Stanco ma senza voglia di addormentarmi, mi sono infilato sotto le coperte, mi sono infilato le cuffiette alle orecchie come qualsiasi altro sedicenne (ho 22 anni), ho scelto la prima canzone e le altre si sono susseguite automaticamente (con qualche skip devo ammettere) ed hanno dipinto il mio stato di solitudine: “ora tarda, c’è bufera/ dormo solo con la tv accesa/ questa camera è spoglia come la mia anima/ spero la notte sia rapida/ e il cuore è un vecchio apparecchio in disuso/ siamo fantasmi in un guscio/ e mangio fissando il muro tanto/ mai a nessuno è importato un cazzo… ”

E così via…

In sostanza ho dormito male tutta la notte, passando da un incubo a un sogno meno agitato, con la sensazione di non riuscire più a venirne fuori, ma lo volevo, eccome se lo volevo, la speranza non era morta…. Chissà, magari sarei ancora lì. La speranza non muore ha ragione Macrina, si nasconde si scioglie ma non muore. Perché la speranza non è un’invenzione la speranza è di tutti, come il coraggio o il naso. La speranza è l’unico futuro che conosco. È resistere ed è una cosa INTIMA.

È mezzogiorno, mi alzo, è tutta la notte che voglio bere una spremuta (ma non avevo voglia di alzarmi) e quindi spremo subito 3 arance… buonissima! Sto bene, la speranza aveva ragione.

La propria croce la si porta da soli, e anche l’uomo che ama gli altri sa cos’è la solitudine, la diffidenza, l’orgoglio, il rancore. Ma io dico “Dominati, e gli altri ti sopporteranno” (E. Pound) lascia alla notte ciò cheti ha afflitto, non scaricare sugli altri ciò che non gli compete, non sentirti speciale perché soffri, ma pensa che anche il tuo professore, il tuo capo, lo sbirro, il giornalaio che non saluta alla mattina, tua madre, tua zia, non il gatto, non il cane, il tipo seduto al tavolino, hanno avuto notti insonni, hanno avuto voglia di mollare tutto, di buttarsi su qualcuno e scaricare una parte del peso che si portano dietro per diritto di nascita. e quindi? Quindi niente, sono solo considerazioni nella mia personale strada alla conoscenza. È un tentativo di fissare delle riflessioni, perché i sentimenti sono mutevoli, e da quelli spesso partono i nostri ragionamenti e non dalla somma ragione.

La solitudine non è come la speranza, non è una cosa che hai dalla nascita, ha le stesse caratteristiche della musica o del paesaggio, modifica il nostro sentire per lassi temporali brevi, e certo è un sentimento attanagliante, ma sapere che è volatile fa perdere forza alla sua presa.

E quindi? Quindi sta mattina c’è il sole, un po’ di casino in casa perché è domenica, ma sto bene, quindi non mi sposto.

Gianluca Cappellazzo

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Amare l’Amore

In un’epoca appiattita intorno al concetto di homo oeconomicus, in cui la dignità di quello che Aristotele aveva definito un “ animale politico” dipende strettamente ed in modo univoco dalla sua capacità di produrre beni materiali tangibili, la ricerca di un senso metafisicamente altro rispetto all’hic et nunc e tutto ciò che non è matematicamente quantificabile sembra perdere ogni valore.

L’amicizia, l’amore, la dignità si riducono a belle parole che stanno bene nei libri e nella mente dei sognatori. All’uomo pragmatico servono altri mezzi che gli permettano di raggiungere machiavellicamente il suo fine. Questo ritratto a tinte fosche, come tutti i ritratti, è certamente parziale, coglie un aspetto soltanto della realtà ( quella realtà che lo stesso Aristotele ci ricorda che “si dice in molti modi”), che tuttavia sta divenendo maggioritario nell’uomo del XXI secolo.

Orbene, come arginare una tale deriva ? Il migliore dei mondi possibili è davvero quello privo di ogni sentimento, in cui ogni rapporto che non porti ad una produttività materiale è da considerarsi obsoleto e, pertanto, da eliminare il prima possibile ?

Questa ideologia, in cui nessuno sembra riconoscersi, è , a ben vedere, la stessa sottesa a tutta una politica che considera la cultura, nel senso più ampio del suo termine, da quella umanistica a quella scientifica, come un peso, che grava economicamente sulle spalle del Paese e che, a conti fatti, non produce nulla di immediato e quantificabile. La cultura infatti richiede una spesa, che non è in grado di ricompensare economicamente a breve termine ed è quindi il primo spreco da tagliare. Questa la logica che ci ha governato negli ultimi anni. Nessuno ha però il coraggio di riconoscersi in una tale ottica, dicevo, ed è proprio questo il male maggiore: una malattia non diagnosticata, è una patologia che non confluirà mai nel letto della fisiologia.

Ma l’uomo comune che cosa può fare per combattere, nel suo piccolo, questa dilagante epidemia di un’economia autoreferenziale, che tende cioè a riportare tutto a sé come sommo valore e indicatore ?

Direi che innanzittutto dovrebbe ripartire da se stesso. E pensare che la sua dignità non dipenda dalla sua produttività ( perché, in fondo, è questo che pensiamo e che ci hanno insegnato a partire da una concezione competitiva della vita ), ma da qualcos’altro. C’è chi, come Kant, diceva che la dignità della persona dipende dalla sua razionalità. Una soluzione, per certi versi accettabile, ma per molti altri riduttiva: un folle non merita, in quanto folle, il riconoscimento di una dignità?

Io proverei ad azzardare una dignità basata sullo stesso concetto di uomo. L’uomo, in quanto uomo, ha la sua grande dignità, di cui nessuno strumento tecnico ed economico potrà mai privarlo.

Una delle grandi ricchezze immateriali che dovremmo riscoprire in noi è la capacità amare. E non amare per qualche fine, ma amare per amare in sé. Scrive Sant’Agostino nelle Confessioni :

“ Non amavo ancora, eppure amavo l’amore”.

Arrivare a questo grado risolleverebbe di molto le nostre sorti. Una volta riacquisita una piena consapevolezza del significato dell’amore, occorrerebbe riflettere sulla deriva che i rapporti interpersonali hanno preso negli ultimi anni. Ai rapporti “corti” del contatto interumano, si preferiscono quelli “lunghi” e “a distanza”, favoriti da uno sviluppo tecnologico che non riconosce altro fine oltre se stesso. Si ha la pretesa di arrivare ovunque, ma, come ci ricorda Seneca nelle sue epistole a Lucilio :

“ Non è in nessun luogo chi è dappertutto”.

A questa miopia si aggiungono altri mali, che contaminano quei pochi rapporti autentici che ci sono.

Uno di questi è la gelosia, tipica espressione inclusiva e spersonalizzante, che racchiude l’altro in angusti confini stabiliti dal proprio egoismo. Paradossalmente è spesso considerata un’espressione positiva dell’amore, che cela invece una visione riduttiva dell’altro e dello stesso rapporto affettivo, che si risolve in una reciprocità chiusa in sé e non aperta all’altro. L’uomo è vittima inconsapevole di modelli estrinseci che gli sono stati consegnati come veri. Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso, alla voce atopos, dopo aver ricordato che questa è la qualifica attribuita a Socrate dai suoi interlocutori, afferma:

“ La maggior parte delle ferite d’amore me le procura lo stereotipo: io sono costretto […] ad esser geloso […]. Ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato, e la gelosia, ad esempio, non ha più luogo d’essere in questo rapporto senza luogo […]”.

Bisogna, quindi, guadagnare nell’originalità del rapporto per liberarci dalle catene che ci stringono: una reciprocità gelosa è semplicemente una forma patologica di possesso dell’altro.

Si potrebbe pertanto ripartire da qui, ad esempio, da una più autentica considerazione di sé a partire dal rapporto con l’altro. Basterebbe riappropriarsi del proprio valore di uomini in quanto uomini per poter spodestare la logica economica dal suo trono.

E per fare ciò, si deve saper cambiare, si deve saper attuare quella “repentina rivoluzione del modo di pensare”, tante volte ricordata da Kant nella sua prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion Pura.

Riccardo Di Stefano

Sono uno studente iscritto alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Macerata. Ho conseguito la maturità classica nel 2013 con il massimo dei voti. Nel 2012 ho vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi Nazionali di Lingue e Civiltà Classiche bandite dal MIUR e nel 2013 il primo premio al Certame Internazionale Bruniano di Nola. I miei interessi principali sono la filosofia e la lettura. Amo divertirmi e la compagnia di persone buone.

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Un altro anno è passato..

Un altro anno è passato. Abbiamo appena concluso il 2014 e dato inizio al nuovo anno. Per tutti noi questo passaggio è simbolo di speranza per il futuro, speranza di sorridere, speranza di riuscire nei nostri progetti, di realizzare i nostri sogni.
Per la nostra rubrica la speranza è di maggior sensibilizzazione ma soprattutto di assistere nel 2015 a meno episodi di violenza sulle donne rispetto agli anni scorsi.

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Sperare è quasi sognare

La speranza sembra essere un elemento dominante nella nostra vita, ancora di più se pensiamo ai momenti deboli e difficili della nostra esistenza o alle situazioni incerte e instabili cui molto spesso siamo chiamati ad affrontare. In tempo di crisi e sconforto, la speranza sembra elevarsi all’unica roccaforte reale dalla quale ricavare sollievo e sicurezza.

La speranza connota e distingue l’uomo dagli altri esseri viventi, come altrettanto la ragione, la cultura, il linguaggio, l’arte ecc. Dal latino spes, la speranza è propriamente quel sentimento di attesa fiduciosa nei confronti del futuro; essa appartiene all’essere umano nelle sue radici più profonde poiché questi è un essere dinamico, in continuo movimento perché incompiuto, un essere teso sempre verso il futuro.

Da grandi ricercatori di sicurezze quali siamo, consideriamo la speranza quell’unico sentimento in grado di metterci al riparo dalle grandi incertezze che la vita ci sottopone, piccole e grandi che siano.

Tommaso nel definire la speranza la pone a confronto con un altro sentimento affine con il quale spesso facciamo confusione, il desiderare. Così come la speranza, anche il desiderio, per S. Tommaso, è quel movimento verso un oggetto o un qualcosa che ancora non possediamo; la speranza però si distingue dal desiderio sotto due aspetti: innanzitutto il desiderio può riguardare qualsiasi bene, mentre la speranza riguarda un bene arduo e difficile; secondo “il desiderio è rivolto a qualsiasi bene, indipendentemente dal fatto che sia possibile o impossibile; invece la spe­ranza è volta a un bene raggiungibile e im­plica una certa sicurezza di poterlo raggiun­gere

Per Ernst Bloch, scrittore e filosofo tedesco marxista, la speranza è intesa come desiderio, desiderio che non è, e non potrà mai essere, una virtù in senso trascendentale.

La speranza è una proprietà universalmente umana, basata sulla più universale proprietà umana, intendo dire il desiderio e, ad un livello superiore, la nostalgia

È propriamente quel desiderio di rendere presente il futuro, è quella possibilità di conferire una forma concreta a ciò che non è ancora e a ciò che sarà. La speranza è quella forza di voler definire la realtà in termini razionali quando, in verità, a caratterizzare la realtà è solamente il dubbio.

L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono 

Così come per Bloch, dobbiamo considerare la speranza una delle nostre più grandi risorse, ciò che ci sprona a vivere e affrontare positivamente ciò che il futuro riserva per noi e per le persone presenti nella nostra vita; attraverso la speranza riusciamo a guardare al domani con forza vitale e con fiducia.

La speranza è presente nella nostra quotidianità in molte forse diverse: a partire dai nostri sogni, nelle nostre aspirazioni e ambizioni, nelle aspettative che riponiamo ogni giorno, nella forza della nostra immaginazione. Sperare come sinonimo di credere, costruire, lottare.

La speranza è un sogno fatto da svegli.

Aristotele

Elena Casagrande

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