Speranza: il nuovo saggio di Giuseppe Goisis

Non sono moltissime, poco più di un centinaio, le pagine che compongono l’ultima fatica che il filosofo veneziano Giuseppe Goisis ha voluto dedicare al tema della speranza (Edizioni Messaggero, 2020). Un saggio equilibrato e sentito nella sua rigorosa argomentazione, quasi l’esito di una riflessione che attraversa la vita e l’opera del docente che per decenni ha tenuto la cattedra di filosofia politica presso l’università Cà Foscari di Venezia.

Una ricognizione intellettuale ma al contempo umana, svolta con uno sguardo attento alle dinamiche emergenti del tempo presente. Un saggio nel quale l’autore danza con equilibrio e lucidità fra l’interrogazione filosofica e la ricerca spirituale sul tema. Il lavoro di Goisis muove dal presupposto del messaggio cristiano, senza cadere in alcun tipo di costrizione religiosa che soffochi il proseguire della lettura anche per il lettore che non si riconosca pienamente nella rivelazione. Le parole che orientano il messaggio cristiano si pongono come fondamento per una meditazione che ne evidenzia i caratteri più profondi e spesso trascurati, come accade per l’esegesi che l’autore s’impegna a fare del Padre Nostro, soffermandosi in particolare sulla quarta invocazione – relativa al pane quotidiano – nella sua insopprimibile tensione umana verso il futuro.

La riflessione di Goisis, pur muovendo da una analisi dell’origine interiore della speranza, non rimane radicata ad essa in maniera esclusiva ma la concepisce come una vera e propria virtù etica e politica. La speranza infatti, pur originando dalla sorgente interiore, non si riduce a questione privata ma si riverbera verso l’esterno, predispone all’azione, alla realizzazione di progetti concreti. Pensandoci bene, in ambito famigliare, professionale e politico poche iniziative e decisioni verrebbero prese senza il suo supporto. Ecco perché essa non è mai esclusivamente riducibile alla dimensione del singolo, ma si concreta nella dimensione dell’agire pubblico. L’argomentazione diviene così, sin dal principio, una riflessione che pur partendo dall’individuo al contempo lo trascende. La speranza, anche e soprattutto quale perno del credo cristiano, viene così valorizzata nella sua dimensione etica e politica. Quel “dacci oggi il Nostro pane quotidiano”, ci interroga Goisis, non è forse riferito ad una dimensione che abbraccia ogni individuo, ogni comunità, in un grido che è richiesta, per esempio, di giustizia?

Nel corso del saggio l’autore si confronta con i detrattori della speranza, ascoltandone e cogliendone le ragioni come occasioni per un’argomentazione più solida. Consapevole delle possibili obiezioni, la visione della speranza che propone muove altresì dall’esigenza di non lasciarla cadere in un vacuo ricettacolo di illusioni individuali. La speranza alla quale ci invita ad educarci è ciò che anima l’agire umano verso il bene. Un sentimento da coltivare e da distinguere dai falsi abbagli e dall’ottimismo tanto propagandato quanto effimero. La speranza riesce a dischiudere il futuro ed è per Goisis strettamente collegata con il regno delle possibilità e con l’opportunità di non aderire passivamente al già dato.

L’autore ha colto l’importanza di educarsi alla speranza in un tempo come il nostro che sembra in difetto di prospettive. Le difficoltà economiche e sociali penalizzano soprattutto le generazioni più giovani costringendole ad una sorta di sterile “presentismo” senza visioni future. In un siffatto orizzonte l’autore coglie l’urgenza di ritrovare una motivazione personale e sociale: «nel nostro mondo, la speranza è l’anima residua di un mondo senz’anima e può diventare principio di critica e di resistenza in un orizzonte troppo rassegnato, procedente ormai lungo le linee di una specie di automatismo comportamentale»1.

La speranza viene dunque a configurarsi nell’analisi di Goisis come capacità di intravedere possibilità anche laddove queste sembrano totalmente svanite. Di fatto, sostiene l’autore sulla scia di Walter Benjamin: «soltanto per chi non ha più speranza ci è data la speranza». Coltivare questa dimensione consente di intravedere possibilità di cambiamento, opportunità di riscatto e trasformazione, anche e soprattutto nella contemporaneità di un’umanità sottoposta a sfide drammatiche. Affinché un tale orizzonte non divenga un muro invalicabile è quanto mai necessario coltivare la speranza che per l’autore non è inganno ma dimensione ragionevole da trasmettere come preziosa eredità anche alle nuove generazioni.

La speranza è lì a dirci che la storia non è finita, che l’orizzonte non è fatalisticamente determinato, che altre vie sono pensabili e percorribili. In questa direzione la speranza assume valore anche per il lettore laico che può riconoscerne l’imprescindibilità per chi ancora aspira a costruire un mondo più giusto, in un orizzonte di cooperazione che trascenda la privatezza dell’interesse egoistico in favore del bene dell’intero consorzio umano. L’intento di Goisis è per questo proprio quello di rifarsi ad un concetto di speranza come proiezione nel futuro, come esigenza umana di un possibile che trascenda la realtà attuale. La speranza si fa così occasione per riaprire orizzonti di possibilità anche là dove la storia sembra aver già segnato il destino degli uomini e di intere comunità.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. G. Goisis, Speranza, Edizioni Messaggero, Padova, 2020, p. 98.

[Immagine tratta da unsplash.com]

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A lezione di globalizzazione da un presepista napoletano

Le strade del centro di Napoli riservano sempre un tesoro tutto da scoprire di voci, odori, sapori, ma soprattutto di incontri, un ambiente unico in cui il caos apparentemente anarchico che si osserva guardando la città dall’alto svela il suo ordine intrinseco, il suo flow, e lo apre a chi si avventura tra i suoi dedali e le sue piazze ritagliate tra i palazzi proiettati vertiginosamente in verticale.

È stato proprio muovendomi tra queste strade che mi è capitato di avviare uno dei dialoghi più gustosi e memorabili delle mie vacanze, affacciandomi alla finestra di una cantina che dava sulla strada per ammirare il lavoro di un artigiano, intento a lavorare su un presepe che avrebbe finito con ogni probabilità giusto in tempo per il prossimo Natale. Affatto disturbato dall’improvviso pubblico, il presepista (“per hobby”, ci ha tenuto a sottolineare, “non lo faccio per mestiere”) ha esposto volentieri il proprio lavoro, mostrandomi giganteschi presepi montati su cardini che ruotano a 360 gradi, personaggi finemente intagliati, e soprattutto la sua ultima opera, del quale era pronto solo lo scheletro della struttura portante, modellato sulla Tour Eiffel, e la “capannuccia”, una barchetta rovesciata su un fianco, simile a quelle che affollano da anni il Mediterraneo colme fino allo stremo di disperati in cerca di un nuovo inizio, con scritto sulla fiancata “Io sono la Speranza”.

“Questa è un’opera contro la globalizzazione”, mi dice, e nella descrizione che segue appare chiaro come si tratti in realtà di un’opera contro l’attuale modello di globalizzazione, più che contro il principio in sé. Indicando la base della Tour Eiffel, vi posiziona la barchetta, che andrà a fare da riparo alla Sacra Famiglia, nella sua versione non solo esule ma anche naufraga; attorno, dice, metterà “figure di politici da tutta Europa”, ognuno riconoscibile come solo le figure del presepe napoletano sanno essere. Al piano superiore, bandiere da ogni parte del mondo, mentre sulla cima della torre, il globo terrestre, “probabilmente in mano a Nostro Signore, che se non rimescola Lui gli animi, non ci si capisce proprio…”

Con tutta la semplicità del mondo, con immediatezza e chiarezza, il falegname indica le storture di un sistema di globalizzazione guasto, probabilmente in partenza, focalizzando l’attenzione sulle sue conseguenze più tragiche, riassunte in una barchetta rovesciata di fronte ai potenti del mondo; in quel “rimescolare gli animi”, poi, sta tutta la saggezza di chi sa che sentirsi parte di un tutto deve venire prima dei trattati commerciali, degli accordi doganieri, delle revisioni dei confini, accordi sacrosanti ma distanti da una sensibilità comune lasciata sola davanti a un cambiamento epocale, senza gli strumenti per coglierlo né i necessari elementi di contatto umano che avrebbero davvero potuto rendere il mondo “uno”.

In quel presepe in fieri, c’è tutto quel che è sbagliato nella globalizzazione, e tutto quel che c’è di giusto nel mondialismo: a una Theresa May che dichiarava che «se credi di essere un cittadino del mondo, sei un cittadino del nulla»1, l’artigiano risponde con un mondo piccolo, in bilico su una torre, riunito attorno alla stessa scena, come tante volte durante quest’anno ci è capitato di vedere, con eventi che riguardano sempre di più il pianeta in quanto tale; dall’altro lato, a chi rimarca ottimisticamente che “siamo tutti sulla stessa barca”, la nuova capannuccia ricorda che siamo tutti sullo stesso mare, ma non necessariamente sulla stessa barca, e che si può navigare su uno yacht sicuro e lussuoso o su una barchetta sgangherata e destinata spesso e volentieri al naufragio.

Si è fatto tanto parlare, scrivere e dibattere sulla più o meno teorica “identità globalizzata”, quella della “generazione Erasmus”, quella dei social network, delle chat e dei forum intercontinentali, dei soft power e delle contaminazioni culturali, ma nel concreto si stenta a sentirsi parte di un unico mondo, ancora tutti immersi nel “piccolo” del nostro paese e degli immediati dintorni. L’entusiasmo e l’ospitalità dell’artigiano, però, erano tali che, se il nostro dialogo fosse andato avanti anche solo qualche altro minuto, mi avrebbe probabilmente invitato a cena per continuare lo scambio. Chissà, forse bastano questi piccoli momenti di amicizia spontanea e di smisurata accoglienza per “rimescolare un po’ gli animi” in modo che, persino nel naufragio, le nostre barche possano comunque chiamarsi Speranza.

 

Giacomo Mininni

 

NOTE:
1.Se ne parla in questo articolo.

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“Perché il papà ha ucciso la mamma?”

“Perché il papà ha ucciso la mamma?”
Può essere solo questa domanda a scandire ogni singola giornata dei figli sopravvissuti alla morte delle loro mamme, uccise dai loro padri.

Questa società sarà anche stata protagonista della liberazione sessuale, del riconoscimento (almeno formale) di pari diritti, dell’avanzata del femminismo, ma i femminicidi, frutto di ideologie non troppo remote, non ancora sradicate, quelle antiche idee di onore legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile, sono ancora presenti. Nel femminicidio riaffiora ancora l’archetipo dell’ordine patriarcale violato.

Dei figli che restano si parla e si scrive poco. Se da un lato c’è l’intento di tutelarli, essendo nella maggior parte dei casi ancora minorenni al momento dell’assassinio della madre, dall’altro, nei confronti di questi orfani sussiste una negligenza colpevole, palesemente dimostrata dal fatto che i primi studi sul dramma vissuto da questi bambini e sulle conseguenti ripercussioni emotive risalgono a meno di una decina di anni fa.

È infatti nell’anno 2011 che, la psicologa e criminologa Anna Costanza Baldry avvia il progetto europeo Switch Off del Dipartimento di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli con il supporto dell’associazione nazionale D.i.RE (Donne in rete contro la violenza) e in collaborazione con le Università di Cipro e della Lituania, ponendo al centro dei suoi studi concernenti il femminicidio le vittime collaterali, ovvero i bambini sopravvissuti che hanno perso entrambi i genitori: la mamma vittima di femminicidio e il padre, autore dell’omicidio, rinchiuso in carcere o spesso morto suicida.

Nel 2016, le prime Linee guida di intervento per quelli che vengono definiti “orfani speciali”1: un sussidio a disposizione dei servizi sociali, dei magistrati, degli insegnanti, delle forze dell’ordine il cui obiettivo è utilizzare un protocollo di azione omogeneo e tempestivo perché queste vittime secondarie necessitano di sostegno concreto e cura. Diritti imprescindibili che le istituzioni non possono continuare ad eludere.

Questi bambini, che sono costretti a vagare da un’istituzione all’altra, nella maggior parte dei casi e nel tentativo di preservarne la continuità affettiva, vengono affidati ai parenti più stretti che faticano a far fronte alle innumerevoli esigenze psicologiche e materiali.

Gli “orfani speciali” si trovano a dover avanzare nella strada della vita nonostante il carico sconvolgente di un legame familiare che ha dato loro vita e morte, protagonisti di un’atrocità indescrivibile a parole, privati di quella base vitale e certa su cui fondare la propria forza psichica ed il proprio equilibrio. È innegabile l’obbligo dello Stato e di quella stessa società che si definisce civile provvedere a questi orfani, vittime non solo di un padre violento ma anche di Istituzioni che, in molti casi, non hanno saputo proteggere le loro madri che avevano già subito violenza e avevano più volte denunciato i loro partner o ex partner.

In Italia, da poco più di un anno, è in vigore la legge n. 4 dell’11 gennaio 2018 che, modificando il codice civile, il codice penale e di procedura penale e prevedendo altre singole disposizioni, introduce strumenti di tutela legale ed economica dei figli (di qualunque genere di unione, coniugale o equiparata), minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, rimasti orfani di un genitore a causa di un crimine commesso dall’altro genitore. Ma, come spesso accade nel nostro paese, la normativa approvata manca di adeguati fondi economici.

Questi “orfani speciali”, figli del ventunesimo secolo, sono nati in una società che si definisce inclusiva, liberale, emancipata e civile ma che sopporta che i bambini siano spettatori involontari di crimini efferati, violenza inaudita. Questi bambini in realtà non sono altro che figli di una società liquida in cui, per dirla con le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman, è protagonista «la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza».

A nulla serve introdurre nelle scuole un’educazione finalizzata al riequilibrio di genere se il legislatore non interviene in maniera urgente e decisa con leggi severe che sanciscano la gravità assoluta e la certezza della pena di un crimine che offende la nostra coscienza civile, riportandoci ad una barbarie già vissuta nel passato e ridestando un problema che credevamo di aver superato ma che in realtà l’umanità non ha ancora elaborato.

La donna, ancora e troppo spesso è considerata di “seconda classe”… poi, si arriva ai femminicidi e a non essere in grado di tutelare chi per tutta la vita, inevitabilmente, porterà le conseguenze del terrore, del sangue e del silenzio di quando quel maledetto giorno, in quell’istante tutto è finito.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE:
1. Il documento relativo alle “Linee guida di intervento per gli special orphans” è consultabile nel sito dedicato: www.switch-off.eu.

[Photo credits Tam Wai su unsplash.com]

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La notte eterna di Noa: per una società della cura e del non abbandono

Noa aveva solo diciassette anni quando prese la decisione definitiva di morire, come aveva riportato nel suo ultimo post del suo profilo Instagram.

Per Noa quell’esistenza non rappresentava nemmeno più una mera sopravvivenza. La vita le era diventata tanto pesante da non poter più trovare la forza, da sola, di sostenere quel macigno che, anno dopo anno, la stava schiacciando. “Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Queste le parole che quasi tutti i quotidiani hanno riportato e che si fanno portavoce della lacerazione interiore, della profonda sofferenza che Noa si portava dentro e con cui non riusciva più a vivere.

“Respiro ma non vivo”. Un respiro dopo l’altro, nel suo processo naturale di inspirazione e espirazione. Solo ossigeno che riempie i polmoni. Un’esistenza delimitata dal suo mero decorso biologistico. Un decorso che è proseguito fino al momento in cui Noa annunciò la decisione definitiva di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi ed idratarsi. Per porre fine a quell’atto respiratorio che costituiva ormai l’unico elemento che la teneva in vita. 

Aggredita a soli undici anni e successivamente violentata a quattordici, non riusciva a sopportare tutto quel dolore che, ancora bambina, aveva travolto il suo corpo e la sua identità all’improvviso. “Mi sento ancora sporca”, diceva. Impossibile mettere un punto e ricominciare da capo. Prima la depressione. Poi l’anoressia, quel mostro che l’aveva costretta a vivere con un sondino nasogastrico durante ogni singolo giorno del suo ultimo anno di vita. Continue ricadute. Un tentativo di suicidio. Così come continui i tentativi di rivolgersi a delle strutture in grado di seguirla e di aiutarla a convivere con quell’incubo che da anni ormai non le permetteva di vivere un’adolescenza normale, fatta della spensieratezza dei ragazzi della sua età.

Molteplici le richieste di aiuto, sia da parte di Noa che da parte dei genitori. Troppe poche, forse, le risposte da parte di un entourage capace di convincerla che la vita poteva prendere una direzione diversa, che non sarebbe mai stata abbandonata, che ci sarebbe sempre stato qualcuno lì ad accarezzarla, a farle capire che era una ragazza unica, insostituibile, che la sua vita aveva una valore. Che dietro a quei respiri c’era un senso profondo. 

Da sola Noa non sarebbe mai potuta uscire da quella notte senza fine che è la vita quando viene attraversata da un dolore che frantuma in mille pezzi. Non è possibile vedere il bello in completa autonomia quando il cielo si tinge prima di grigio perla, poi fumo, tortora, ardesia, antracite; e, in fondo, quando lo sguardo si copre di grigio antracite non ha già perso quella capacità di distinguere e di discernere un punto di luce dal resto? Quando il cielo diventa come il cemento, non ha già perso tutte le sfumature del grigio? Il cielo non è forse nero?
Nessun orizzonte di luce. Nessuna sfumatura. Solo nero intenso. 

Dall’oscurità più profonda non ci si può salvare da soli, certo. Per questo abbiamo bisogno dell’altro per sopravvivere, l’altro lì a ricordarci che il nero può sbiadire, sfumare, tornare ad essere grigio, e poi bianco, e celeste. Il cielo di Noa era immerso nell’oscurità e in quello stesso cielo nero l’hanno lasciata addormentarsi.  

Dopo la morte di Noa, i giornali italiani hanno inveito contro eutanasia e suicidio assistito, focalizzando l’attenzione su una questione che con Noa c’entrava ben poco. Non solo la richiesta della ragazza di far ricorso all’eutanasia era stata rifiutata dalla clinica cui lei e i suoi genitori si erano rivolti qualche anno fa; ma un tale dibattito decentrerebbe lo sguardo pubblico dall’unica cosa che Noa voleva urlare al mondo: l’inspiegabile vuoto di senso della propria vita, l’abbandono che provava e la sostanziale incapacità – sociale e sanitaria- di aiutarla efficacemente in percorso di cura continuativo ed adeguato. Non un percorso di “guarigione”, dunque; la depressione non è come un’influenza, non c’è niente da guarire, nessuna funzione da “ripristinare”. Una ferita come quella di Noa aveva però bisogno della presenza di una cura. Un “io ci sono, tu sei qui con me?”. 

Non è forse questa la più intensa e bella pratica di cura? Una presenza insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a  cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze; il coraggio di intravedere l’azzurro del cielo attraverso le molteplici sfumature del grigio. 

La madre della ragazza comunicò inoltre la complessità di entrare in cliniche psichiatriche specializzate, le liste d’attesa infinite, l’assenza di strutture per i disturbi alimentari. La figlia passava costantemente da un ospedale all’altro, più volte indotta al coma al fine di poterla nutrire artificialmente con una sonda. 

Noa si è spenta piano piano. Forse, attraversata da un profondo senso di abbandono. 

L’hanno “lasciata andare”, senza prendersi cura di lei. Una resa sociale, confermata dalla resa personale di chi non ce la fa più e, nella disperazione, non vede altra soluzione proprio perché nessun altro riesce a farle scorgere alternative possibili, colori diversi dal nero. 

Quando in realtà, anche se talvolta è difficile ammetterlo, è solo chi resta a poter dare un senso all’esistenza di chi, quella vita, la vuole lasciare. 

 

Sara Roggi

 

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Cieca fede: la sua bellezza e la sua sfida

Quella vecchietta cieca, che incontrai

la notte che me spersi in mezzo ar bosco,

me disse: – Se la strada nun la sai,

te ciaccompagno io, ché la conosco.

Se ciai la forza de venimme appresso,

de tanto in tanto te darò ‘na voce,

fino là in fonno, dove c’è un cipresso,

fino là in cima, dove c’è la Croce… –

Io risposi: – Sarà… ma trovo strano

che me possa guidà chi nun ce vede… –

La cieca allora me pijò la mano

e sospirò: – Cammina! – Era la Fede.

 

Le parole de La guida di Trilussa sono tra le più belle mai scritte per rendere chiaro un concetto che il più delle volte sfugge ad ogni classificazione. Difficile, effettivamente, inquadrare cosa sia la fede. Un sentimento? Non renderebbe giustizia ai momenti di buio, quegli attimi, a volte anni secondo mistici del calibro di Giovanni della Croce o Teresa d’Avila, in cui non c’è alcun sentire, quell’abisso ontologico definito da Kierkegaard “il silenzio di Dio”. Un’aderenza più o meno consuetudinaria ad un sistema di norme etiche, liturgie e credenze mitiche? Anche qui si verrebbe a perdere un aspetto fondamentale dell’esperienza fideistica, che trascende qualsiasi abitudinarietà o routine, lo slancio passionale sì, ma non solo, che in ogni religione crea santi, asceti e martiri. Una consapevole scelta di vita, quindi, una sorta di scuola filosofica? Pure in questo caso la categorizzazione non copre che un infinitesimo della complessità dell’esperienza, che attraverso il linguaggio poetico Trilussa riassume in uno splendido “Cammina!”: un salto nel buio, per dirla ancora una volta con Kierkegaard, che coinvolge il proprio intero essere, rivolto e proteso verso un Infinito che ha un nome e che per nome chiama, un desiderio radicato nell’essenza del cuore dell’uomo che, se accolto, si rivela come struggente nostalgia.

Entrando nella cattedrale gotica di Notre Dame, a Chartres, le guglie e le vetrate attirano magneticamente lo sguardo verso l’alto, ma è abbassandolo sul pavimento della navata centrale che si scorge un’altra allegoria della fede, anche questa espressa in un linguaggio altro da quello parlato, e forse per questo infinitamente più efficace. Ricoprendo un’area pari a quella del rosone centrale, da cui riceve luce, si dipana circolarmente per più di duecento metri un labirinto, impresso nel pavimento come se fosse tatuato sulla terra stessa. Il labirinto è particolare: non presenta bivi né deviazioni, è un cammino tortuoso e pieno di curve, sì, ma unico e senza possibilità di errore, che conduce fino al centro, e poi da lì riconduce fuori. Se con gli occhi della mente provassimo a trasformarne i contorni in mura, alte abbastanza da non poter vedere oltre, il labirinto diventerebbe un percorso virtualmente sicuro, a meno che le continue curve, la sensazione di disorientamento derivante dalla sensazione di girare in tondo e i dubbi di chi lo percorre non facciano perdere coraggio e non convincano il pellegrino a tornare sui propri passi, alla ricerca di una strada più dritta e sicura, o addirittura convinto di aver intrapreso un sentiero senza uscita né destinazione.

Questa è la fede, la sua bellezza e la sua sfida: un cammino concentrico, che conduce al centro (di sé, dell’essere, del cosmo), e che richiede “solo” la determinazione, la fedeltà e la fiducia di chi lo intraprende, un sentiero su cui è possibile perdersi soltanto nello scoramento e nella stanchezza, nella tentazione di fermarsi o tornare indietro. Secondo l’autore della Lettera agli Ebrei, la fede è «certezza delle cose che si sperano, prova di quelle che non si vedono» (Eb. 11,1): fede e speranza sono intrinsecamente legate, e si sostengono l’una l’altra.

Neanche la speranza, però, basta a spiegare cosa sia davvero la fede. Per capirlo, pare si possa solo lasciarsi prendere per mano dalla “vecchietta cieca”, abbandonarsi alla sua guida, e camminare. Fino al centro del labirinto.

Giacomo Mininni

[immagine tratta da Google Immagini]

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Una parola per voi: passato. Gennaio 2019

«Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.»

da Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald.

Gennaio, primo mese dell’anno, simboleggia sempre un nuovo inizio. Tuttavia, ogni nuovo inizio porta inevitabilmente con sé un bilancio, ossia uno sguardo a ciò che c’è stato prima, un volgersi indietro, verso il passato.

“Passato” è la parola per voi scelta per questo gennaio 2019, tratta dalla frase che chiude il romanzo Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, pubblicato nel 1925. A parlare è Nick Carraway, narratore e amico di Jay Gatsby, il facoltoso innamorato che fa di tutto per riavere la sua Daisy. La battuta conclusiva di quest’opera letteraria evoca la speranza e la naturale spinta in avanti, verso l’avvenire, che caratterizza l’essere umano. Al contempo però, mette in luce anche una sua caratteristica del tutto opposta: l’uomo tende a tornare indietro, facendosi trasportare da una corrente contraria. “Risospinti senza posa nel passato”, scriveva Fitzgerald: non possiamo impedirci di ripensare a chi siamo stati, a quello che abbiamo fatto. I ricordi non ci abbandonano mai – sia che siano lieti, sia che siano infausti. Cosa saremmo, in fondo, senza il nostro passato? E come potremmo costruire il nostro futuro o alimentare i nostri progetti, senza la memoria di ciò che siamo stati?

Ecco per voi una selezioni di libri, film, canzoni e opere d’arte che riflettono sull’importanza del volgere lo sguardo al passato – specie prima di compiere un salto in avanti.

 

UN LIBRO

la-chiave-di-sophia-il-cimitero-di-pianoforti-peixotoIl cimitero dei pianoforti  – José Luis Peixoto

“Saudade”, direbbero i portoghesi. Un padre muore. Può così ripercorrere la sua vita, fatta, come tutte le esistenze, di gioie e dolori, rischiarata dalla passione e dall’amore, funestata dall’alcol. Un figlio, Francisco Lázaro, maratoneta portoghese, fa lo stesso. Mentre corre la maratona alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, ricordi e pensieri sul presente si intrecciano in un flusso di coscienza che si arresterà al trentesimo chilometro. Due persone si raccontano. Entrambe morte. Entrambe fortemente legate ai vivi.

 

UN LIBRO JUNIOR

caccia-alla-tigre-dai-denti-a-sciabola-chiave-di-sophiaCaccia alla tigre dai denti a sciabola – Pieter Van Oudheusden, Benjamin Leroy 

“Vieni, andiamo indietro nel tempo. Andiamo fino a un tempo di molto tempo fa e ancora prima”. Inizia così questo bellissimo album illustrato che, come avrete capito, vi porterà al tempo degli uomini preistorici. Se voi foste uno di loro vorreste di sicuro andare a caccia della temuta tigre dai denti a sciabola come vorrebbe fare Olun, il piccolo protagonista del racconto. Riuscirà a trovarla? Divertitevi a scoprire tutti i particolari delle illustrazioni di questa storia, adatta ai bambini dai 4 ai 6 anni all’incirca.

 

UN FILM

la-chiave-di-sophia-lettere-di-uno-sconosciutoLettere di uno sconosciuto  Zhang Yimou

Ci vuole tempo, per un paese, per guarire dalla propria storia, e la Cina di oggi ancora tenta di venire a patti con gli effetti a lungo termine del maoismo e della Rivoluzione Culturale. Zhang Yimou racconta queste ferite attraverso la storia di Feng Wanyu, che lo stesso giorno, ogni mese, va alla stazione attendendo il ritorno del marito, un intellettuale che il regime ha arrestato e deportato anni prima. Al ritorno dell’uomo, però, Feng, ormai malata, non è in grado di riconoscerlo. Starà al marito, Lu, calarsi da estraneo nel mondo della moglie, prigioniera del proprio passato, e rivivere con lei anni di umiliazioni, tradimenti e solitudine, ma anche di speranza e di tenacissimo amore.

 

UNA CANZONE

la-chiave-di-sophia-incontro-radici-gucciniIncontro – Francesco Guccini

Appartenente all’album Radici (1972), Incontro narra di un rendez-vous tra Guccini e una sua amica, professoressa di ginnastica, trasferitasi prima in America poi a Berlino, la quale fece ritorno in Italia dopo il suicidio del suo compagno durante le festività natalizie. Con una scrittura cinematografica, per immagini veloci (E correndo mi incontrò lungo le scale; il sole che calava già rosseggiava la città; auto ferme ci guardavano in silenzio; carte e vento volan via nella stazione..), Incontro è un’occasione di bilancio, tra rievocazioni nostalgiche e constatazione dei cambiamenti avvenuti (quasi nulla mi sembrò cambiato in lei; eran belli i nostri tempi; ti ho scritto è un anno, mi han detto che eri ancor via).  Un brano “color nostalgia” sospeso tra la nebbia modenese e il vagone di un treno, avvolto come miele dalla tristezza e dalla bellezza della verità (Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno).

 

UN’OPERA D’ARTE

la-chiave-di-sophia-giosue-mostra-a-mose-il-vitello-doro-ludovico-carracciGiosuè mostra a Mosè il vitello d’oro  Ludovico Carracci, 1610 circa

La tentazione di guardare al proprio passato è sempre forte, specialmente nei momenti di cambiamento, durante i quali la nostra forza di volontà tesa verso un futuro incerto può per un attimo vacillare, lasciando che la nostra debolezza faccia appello a una sorta di istinto di sopravvivenza che riconduce a ciò che risulta già noto e accomodante. Questa antitesi tra passato da lasciarsi alle spalle, pieno di errori ma anche di certezze, e futuro denso di imprevisti e sacrifici si dispiega in modo evidente nell’episodio biblico dell’adorazione del vitello d’oro, ben raffigurato nel dipinto di Ludovico Carracci conservato nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Durante il viaggio verso la terra promessa, il popolo ebraico approfitta della breve assenza di Mosè, recatosi sul Sinai per ricevere i comandamenti, per creare un idolo pagano, il vitello d’oro. Quest’ultimo viene elevato a divinità con conseguente abbandono dell’unico Dio in grado di liberare dalla schiavitù. Ciò scatena l’ira di Mosè, che al suo ritorno dal Sinai, vedendo il suo popolo caduto nel grave errore di ritornare per inerzia al proprio passato, scaglia a terra le tavole della legge distruggendole.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Federica Bonisiol, Giacomo Mininni, Rossella Farnese, Luca Sperandio

 

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Indignamoci

Il tempo ipermoderno è caratterizzato da una psicoapatia diffusa che si traduce in un’indifferenza generalizzata. Questo atteggiamento conduce ad adagiarsi sul vigente, con un particolare senso di abulia che induce ad accettare passivamente lo status quo, poiché si è persa la speranza nel cambiamento e nel miglioramento delle condizioni culturali e sociali attuali. In questo senso, proprio nel tempo presente è decisivo recuperare una sana indignazione che conduca a una risposta proattiva e propositiva differente rispetto ad alcune cristallizzazioni negative della realtà.

Certamente, le ragioni che oggi possono indurre l’indignazione sembrano meno distinte di un tempo, questo a causa di quel velo di superficialità che oscura gli occhi degli uomini, sempre meno interessati a scorgere le contraddizioni del proprio tempo, rendendosi così fattivi promotori delle incongruenze stesse. La crisi della società contemporanea basata sul dominio dei mercati finanziari, sull’ideologia politica e sul consumo di massa portato all’estremo, germoglia e fiorisce proprio nella superficialità e nell’indifferenza che anestetizzano le menti e le coscienze. Rileviamo come proprio questa sia una patologia dilagante: il deserto delle coscienze attive e del pensiero critico razionale. L’adagiarsi indifferente su quanto ci è di fatto imposto è il peggiore degli atteggiamenti, è il naufragio della speranza nella possibilità di incidere sul destino individuale e collettivo e sull’opportunità di costruire un mondo più giusto, più equo, più libero e responsabile. Lasciandoci sopraffare dall’indifferenza, «comportandoci in questo modo – scrive Stèphan Hessel –, perdiamo una delle componenti essenziali dell’umano. Una delle sue qualità indispensabili: la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue»1.

Indignarsi significa dunque uscire dalle paludi dell’indifferenza, recuperando uno sguardo accorto e critico sulla realtà, invero «spetta a noi, tutti insieme, vigilare perché la nostra società sia una società di cui andare fieri»2. In un tempo così rapido e complesso è necessario un sforzo personale per evadere dall’indifferenza, reagire al vigente e, se necessario, resistere per i valori nei quali si crede e che, troppo spesso, vengono sepolti sotto l’onta del progresso, gestito dai pochi, che impoverisce gli orizzonti esistenziali e aumenta il divario economico e sociale con i molti. A questo si unisce l’assenza di rispetto per i diritti universali e inalienabili dell’uomo e la noncuranza verso la casa comune, il pianeta, e le condizioni critiche nelle quali versa a causa di uno sfruttamento egoistico e miope, perpetrato sotto gli occhi indifferenti di buona parte di noi. Ecco dunque come l’indifferenza sia la patologia, mentre l’indignazione la possibile cura: l’appello alle coscienze, il ritorno del pensiero e il passaggio all’azione, necessari a scuotere quanto è dato per scontato e ad attivare il cambiamento.

Ritornare ad indignarsi significa recuperare una nuova consapevolezza di se stessi e del mondo che ci circonda, nonché la capacità di agire scelte, per quanto possibile, differenti rispetto alle imposizioni di un sistema che ci vuole omologare, come automi monodimensionali, bandendo anzitutto un autentico sviluppo culturale, educativo e interiore, troppo pericoloso per un mercato che ci preferisce assuefatti consumatori. Indignarsi significa prendere posizione nei confronti dei mass media che disprezzano e scartano la fragilità ed esaltano la potenza, vuota di quei contenuti decisivi per affrontare l’esistenza vera, molto diversa da quella costruita ad arte dai rotocalchi cartacei o digitali. Indignarsi significa non accettare passivamente l’economia darwiniana del più forte che percepisce l’altro come mezzo per raggiungere i propri scopi, o nel peggiore dei casi cerca di annullarlo in quanto ostacolo al proprio cammino. Indignarsi significa non adagiarsi al mito performativo contemporaneo, dove ogni espressione umana è rapportata alla competizione sfrenata, che machiavellicamente giustifica qualsiasi mezzo pur di raggiungere l’ideale immaginario, del più forte, del più ricco e del più affermato, che la società dell’immagine impone. Indignarsi dunque di fronte ad una realtà che, lungi dall’aver incrementato il progresso culturale, valoriale e civile, lo disprezza catapultandoci ad una condizione naturale di hobbesiana memoria, dove l’uomo è lupo per l’altro uomo. Dove domina l’Io a discapito del Noi. Dove il delirio mondano è conseguenza della guerra di tutti contro tutti, per raggiungere il potere e trionfare a qualunque costo. Dove viene promosso l’essere istintuale e non la persona razionale e spirituale, capace di trascendere la datità, l’immediatezza per realizzare valori e significati profondamente umani.

Indignarsi richiede il coraggio (termine che dal latino richiama un’azione del cuore) di strappare, di dire di no, di emanciparsi dal vigente, di sfuggire al totalitarismo (voglio ciò che vogliono gli altri) e al conformismo (faccio ciò che fanno gli altri). L’indignazione attiva richiama l’azione, quella che dal pensiero si trasforma in coraggio della verità, in proposta concreta, quella che tuttavia rigetta l’agire violento che finisce per far precipitare ogni positiva intuizione, nella spirale del male, senza speranza, preferendovi un confronto rispettoso e democratico nello spazio comunicativo. In questo senso, in accordo con Stéphan Hessel, come non ricordare l’esempio e le esperienze di indignazione proattiva di martiri civili del novecento, quali Martin Luther King, Nelson Mandela. Costoro, indignandosi attivamente e con la speranza nel cambiamento e nel miglioramento, hanno rotto l’incantesimo di un’indifferenza cronica e di un’assenza di responsabilità personale e collettiva che altrimenti ci induce ad affermare con rassegnazione: “in fondo, io che cosa posso fare?”.

Non possiamo chiudere passivamente gli occhi di fronte alle contraddizioni laceranti del tempo presente, è necessario che torniamo, con lucida convinzione, ad indignarci, perché è questa la vera forza per il cambiamento e il miglioramento della realtà: «guardatevi attorno – esorta Hessel – e troverete gli argomenti che giustificano la vostra indignazione»3.

 

Alessandro Tonon

NOTE:
1. S. Hessel, Indignatevi!, tr. ti. di M. Balmelli, add editore, Torino, 2011, p. 15
2. Ivi, p. 6
3. Ivi, p. 19

[Photo Credits: Randy Fath on Unsplash.com]

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Fede e speranza: Abramo e l’eroe tragico di Kierkegaard

Osservando i libri della mia piccola biblioteca universitaria mi è caduto l’occhio in particolare su di un titolo: Timore e Tremore di Kierkegaard. Un libro in cui si può percepire la rivoluzione filosofica ed esistenziale e in particolare la paradigmatica relazione del vero credente con l’Assoluto. Protagonista è la figura biblica di Abramo che, in modo non scontato, viene confrontata ad altri modelli di rilievo: la Madonna, Agamennone, Jefte e Bruto.

Abramo è spesso indicato come il Padre della Fede e viene paragonato in primo luogo a Maria perché ciò che più li accomuna è il modo di presentarsi presso Dio. Infatti, nella Genesi, Abramo risponde alla chiamata di Dio dicendo: «Eccomi» (Gen 22,1) e Maria, allo stesso modo, dice: «Ecco, io sono l’ancella del Signore» (Lc 1,38). I due, in questo modo, si mostrano quindi umili di fronte a Dio e simili nella Fede. Non solo questo li avvicina ma anche il grande miracolo che hanno vissuto e allo stesso tempo l’angoscia, la sofferenza e il paradosso con cui l’hanno sperimentato: Maria accogliendo il messaggio portato dall’angelo del Signore e mettendo al mondo il Figlio di Dio e Abramo con Isacco e il suo sacrificio chiestogli da Dio. Come Maria non può far comprendere il messaggio affidatole dal Signore, allo stesso modo Abramo: non possono essere compresi dal resto del mondo perché in intimo rapporto con l’Assoluto. Essi non possono parlare e mediare tali parole per non cadere fuori dal rapporto personale con Dio e dunque devono mantenere il silenzio. Il silenzio è quindi l’espressione della relazione privata con la divinità.

Abramo si contraddistingue poi anche da Agamennone del ciclo omerico, da Jefte, soggetto biblico, e da Bruto, soggetto storico.

Agamennone, personaggio mitologico che compare nell’Iliade di Omero, viene ripreso da Kierkegaard in merito al sacrificio della figlia primogenita Ifigenia. In quanto re di Micene, per ospiciarsi la dea Artemide e far partire la flotta verso Troia, Agamennone deve sacrificare la figlia sull’altare. Si racconta che durante la cerimonia, mentre il sacerdote immergeva già il coltello nel petto di Ifigenia, l’altare venne circondato da una densa nebbia, e, quando questa si ritirò, invece del corpo insanguinato della giovinetta, si trovò sull’altare il corpo di una cerbiatta. Artemide aveva avuto pietà dell’intrepida ragazza e l’aveva sostituita con l’animale, portando via Ifigenia viva in Tauride, dove il re del luogo, Toante, la fece sacerdotessa della dea che l’aveva salvata.

Jefte è un personaggio biblico noto per aver fatto a Dio un voto senza riserve e che coinvolse la stessa sua unica figlia. È nel libro biblico di Giudici, dell’Antico Testamento, che vengono narrati gli avvenimenti inerenti a questo voto. Prima di intraprendere la guerra con i pagani Ammoniti, Jefte pronunciò a Dio questo voto: “Se darai nelle mie mani i figli d’Ammon, quando io ritornerò vincitore, chiunque per primo uscirà da casa mia per venirmi incontro, sarà del Signore e lo offrirò in olocausto” (Giudici 11,30-31).

Jefte combatté e vinse. Al suo ritorno a Mizpa la prima della sua casa che gli si fece incontro, danzando con un tamburello per festeggiare il padre e la sua vittoria, fu la sua unica figlia; le Sacre Scritture non citano il suo nome. Appena Jefte la vide, preso dalla disperazione, si lacerò le vesti. La fanciulla, turbata dal gesto, chiese al padre quale mai fosse il motivo di tanto turbamento. Il padre le parlò quindi del voto fatto a Dio, in tutta risposta ella gli rispose di adempiere quello che aveva promesso, ma di permetterle di trascorrere due mesi sulle montagne per piangere la sua verginità con le sue compagne. Trascorso il tempo la fanciulla fece ritorno a casa e si sottopose volontariamente al voto fatto dal padre.

Il console della Repubblica romana, Lucio Giunio Bruto (545 a.C.- 509 a.C.) venuto a sapere della congiura contro Roma dei suoi figli, li fece decapitare in sua presenza per alto tradimento.

Tali personaggi hanno in comune una cosa con Abramo: tutti seguono il rapporto padre-figlio/a/i. Agamennone, Jefte e Bruto sono eroi tragici e si contraddistinguono da Abramo per come hanno vissuto la loro vicenda: l’eroe tragico vive nella sfera dell’etica, essa stessa è il suo scopo ultimo e riduce l’espressione rapporto etico padre-figlio all’etica suprema nell’idea di Moralità. Non si può uscire dall’etica, neppure può essere sospesa perché tutto rientra in essa. Vi è una forte tensione tra desiderio e dovere: l’eroe tragico rinuncia al suo desiderio per compiere il suo dovere e trarre vantaggio dal generale, così poi da trovarne riposo. L’eroe tragico rinuncia con affanno, sofferenza e angoscia sacrificando se stesso per il generale.

Ciò che dimostrano non avere però gli eroi tragici è la Fede, la passione suprema. Se infatti “l’eroe tragico è grande per la virtù morale,  Abramo è grande per la virtù puramente personale”. Lui compie ciò che Dio gli chiede nel suo nome, poiché Dio esige da lui una prova di fede e Abramo esprime la sua umiltà eseguendo il dovere di Dio, l’espressione della sua volontà.

Ciò riscontra che Abramo e il cavaliere della fede siano in perenne tensione, poichè c’è a possibilità di pentirsi e far ritorno al generale. In questo diventa presupposto che ciò che si sacrifica non sono solo i loro desideri, ma anche i loro stessi doveri, in cui l’etica è sospesa. Abramo è il Singolo in rapporto assoluto con l’Assoluto, in continua tensione di fede e sacrifica il generale per diventare singolo.

La fede è quindi il paradosso che permette al Singolo di essere più alto del generale, in modo che sia consentito il movimento della fede stessa; il Singolo, dopo essere stato nel generale, si isola dall’etica mondana e dalla moralità umana, ottendo il suo telos superiore fuori di essa. Ma se nel generale la mediazione è concessa dalla parola, Abramo non può parlare e sta in silenzio. Il silenzio è espressione del rapporto con il divino, poichè è impossibile comprenderlo se non si ha la stessa fede di Abramo. La fede è la passione suprema che permette, nel caso di Abramo, di credere in virtù dell’assurdo, in virtù del principio che per Dio è tutto possibile, che Dio stesso non voglia questo sacricio da lui o che gli ridarà un nuovo Isacco, perchè Dio è Amore, è solo Amore con per Platone nella Repubblica. 

Abramo dunque non compie un singolo movimento verso Dio, ma due: il movimento dell’infinita rassegnazione e il movimento della Fede.

Abramo compie il primo movimento correlato al secondo. L’infinita rassegnazione è il prendere le distanze dal mondo, dal generale, rassegnadosi  all’esteriorità, trovando rifugio nell’interiorità. Nell’interiorità, il Cavaliere dell’Infinita Rassegnazione prende coscienza di avere un’anima, un’energia originaria: scopre la libertà di autodeterminarsi e per questo si riconosce come Io libertà.

In questo autodeterminarsi, l’Io si sceglie concretamente, scopre di avere una sua storia, che è essa anche in relazione con altri Io. L’Io relazionato si scopre ulteriormente in continuità con la Storia che lo ha preceduto e lo seguirà. Si scopre parte di un’unica storia e prende coscienza con coraggio di essere un Io prodotto, condizionato, perdendo la libertà astrattamente conquistata.

Questi due stadi di coscienza permettono che l’Io assuma su di sé la Storia e si penta. L’Io ha quindi compiuto una sintesi tra possibilità e necessità, si riconosce come libertà in situazione, che non è quella assoluta del Creatore. Il pentimento perciò non è che un processo a ritroso per ripercorrere tutta la storia, per tornare al sé originario pensato da Dio. Il Sé è libertà; il sé ideale è il sé che lavora su se stesso per realizzare in se stesso il proprio sé ideale. Tale movimento di infinita rassegnazione ha un aspetto aristocratico, si deve compiere in solitudine e chi lo compie trova se stesso nell’Io nel suo eterno valore con il distacco del mondo. Il Cavaliere dell’infinita rassegnazione basta a se stesso, si accontenta della quiete del mondo ideale e vive a prescindere da ogni altro, perché trova una ricchezza in sé che lo automantiene.

Abramo però non si rassegna al mondo interiore, perché ha fede e ritorna al mondo reale. Il movimento della fede è il tassello in più in cui il Singolo, preso coscienza di sé nel suo eterno valore, si rapporta in modo assoluto con l’Assoluto. Al Cavaliere della fede non basta la quiete, ma vuole essere felice qui e ora e ritorna nel finito senza svalutarlo. Il mondo è di Dio infatti e Dio lo ha benedetto. Questo suo movimento non è visibile esteriormente, così come Abramo non lo manifesta disperandosi e piangendo. Abramo è sicuro che in virtù dell’assurdo, riotterrà Isacco e ciò comprendendo il paradosso di Fede, è avvenuto. In tal modo, in questo unico modo poiché è avvenuta una sospensione teleologica dell’etica, diversamente dall’eroe tragico legato alla moralità del reale, Abramo non è un omicida, nemmeno un eroe tragico, perché con la fede è un uomo che compie solo la volontà di Dio. Abramo non è perduto.

C’è fede, c’è speranza.

Al prossimo promemoria filosofico.

 

Azzurra Gianotto

 

[Photo Credits: Milada Vigerova, via Unsplash.com]

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Salviamo la soldatessa Speranza

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Durante alcune lezioni il professor Umberto Galimberti in antitesi alla figura cristiana della speranza era solito sbottare dicendo «La Speranza è l’ultima figura dell’impotenza cristiana».

Da vero giovane nietzschiano, studente di Filosofia seduto sui banchi di qualche aula di San Sebastiano esultavo per queste bordate tirate a fondo campo in delle uggiose giornate di autunno fatte di alta marea e piogge battenti.

Del resto non serve scomodare il professor Galimberti per dire quanto la “Speranza” come figura sia del tutto svalutata anche nella cultura popolare: famoso è per esempio il detto “Chi di speranza vive disperato muore”. È questa un’immagine abbastanza grottesca che rimanda a tutte le speranze umane che inevitabilmente deflagrano di fronte all’implosione di ogni senso data dalla morte come ben descritto da Heidegger e dagli Esistenzialisti francesi, l’idea in questo caso turpe che la speranza che ha attraversato i nostri corpi mentre aspettavamo Babbo Natale e i regali sotto l’albero, la Felicità, il Futuro, finiscano inevitabilmente nella liberazione del post mortem. La Speranza viene usata come immagine di un mondo che non appartiene a nessuno, un mondo senza litigi. Dove è viva la luce è anche viva l’oscurità, nello stesso luogo dove esultano i vincitori si disperano anche i vinti, il desiderio egoista di mantenere la pace genera la guerra. L’odio nasce per proteggere l’amore. Tutto questo sorgerebbe da un unico male, morbo, chiamatelo come vi pare anche noto come “Speranza”, l’idea di far saltare in aria il Soldato o la Soldatessa Speranza nasce dall’idea di creare un mondo di soli vincitori, un mondo di sola pace, un mondo di solo amore, cose che possono sembrare puramente utopiche, ma che vengono portate avanti da anni da studiosi illustri come il Professor Vero Tarca sui banchi di Filosofia Teoretica, un sogno perfetto per tutta l’Eternità.

È un bellissimo ragionamento, peccato che la speranza − anzi, dobbiamo chiamare col suo nome la nostra Soldatessa − non nasce nell’alveo della cultura cristiana. Diamole un nome, il suo nome è Elpìs. Nell’opera del poeta greco Esiodo Le opere e i giorni essa è tra i doni che erano custoditi nel vaso regalato a Pandora (letteralmente “tutti i doni”), donna creata da Efesto. Pandora aveva avuto l’ordine di non aprire mai il vaso, ma la curiosità fu più forte e la donna aprì il vaso facendo così uscire tutti i mali; soltanto Elpìs rimase dentro perché Pandora riuscì a richiudere il vaso. Solo un dono non riuscì ad uscire dal vaso: la speranza.

Nella mitologia romana l’equivalente di Elpìs è la Spes.

«Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,
dentro all’orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori
volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell’orcio
per volere di Zeus e gioco che aduna le nubi».

Esiodo non ha mai spiegato il motivo per il quale Elpìs è l’unico dono a rimanere all’interno del vaso di Pandora, ma è davvero interessante come sia proprio Elpìs a rimanere all’interno del vaso, come qualcosa che resta in qualche modo celato e nel contempo ancora inattuato, l’unica cosa che resta in possesso di Pandora che in questo caso simboleggia l’intera umanità.

Elpìs andrebbe recuperata perché in essa alberga l’ottimismo dell’umanità, il suo continuo tentativo di superare i propri limiti cercando di proiettare e tramandare la propria voce al di là dell’ovatta del tempo, provando a spezzare la dimensione entropica dell’universo gettandoci, anche laicamente, oltre il concetto di limite che come ben ci ricorda Heidegger è la morte, l’orizzonte della nostra esistenza.

La Speranza è un concetto che si tramanda ed è un dono che spezza l’illusione di vivere consegnandoci una vita più autentica nella convinzione che il domani sarà migliore dell’oggi, è il motore della Storia collettiva dell’umanità che se non se ne fa carico finisce per negare se stessa. Il Nichilismo ci consegna un mondo che in fondo è destinato al nulla, ci sottolinea che la morte finisce per essere l’implosione di ogni senso e pretende di sollevare il velo di illusioni che abbiamo costruito per continuare a vivere, ma dimentica che l’umanità è anche segnata dall’incedere del progresso, del tentativo di superare i propri limiti e che la vita spesso è un viaggio che possiamo accettare di percorrere sentendoci sconfitti ancora prima di partire o invece provando ad accettarne le difficoltà, le strade che si interrompono, gli ostacoli, ma anche vedendone la bellezza, la gioia e sostenendo che essa resta comunque un’opportunità sempre aperta al nostro miglioramento e alla nostra crescita individuale e come specie.

Come scrive Bloch:

«L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono».

Anche quando perdiamo la fiducia e la voglia di vivere, le difficoltà ci appaiono come insormontabili e il dolore troppo per continuare nel nostro cammino è importante sapere che dentro ognuno di noi come nello scrigno di Pandora la Soldatessa Speranza continua a combattere per noi, continua a sussurrarci che possiamo farcela, essa non può agire attivamente e sta a noi riscoprirla e in qualche modo “salvarla”, conservarla e quando è giunto il nostro tempo consegnarla a chi verrà dopo perché solo in questa condizione si cela il più intimo segreto per una vita più autentica e per la realizzazione di un mondo migliore.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il pendolo di Schopenhauer: l’attesa

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«La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia»1.

Arthur Schopenhauer ritiene che sia un pendolo a giostrare la nostra vita e l’attesa dell’oscillazione che ne scandisce il tempo è ciò che ci è concesso per sperare. Di questo tempo nel mezzo, dell’attesa che impregna ogni attimo parlerà questo promemoria filosofico.

Siamo indiscutibilmente proiettati verso il futuro. Siamo in perenne attesa che qualcosa accada per andare avanti e magari qualcosa possa migliorare.

Aspettiamo una svolta per l’Italia, una politica più trasparente e che si rivolga in primis sempre al bene dei suoi cittadini, ma intanto con il sarcasmo di Crozza ci consoliamo e ridiamo della sua corruzione. Ci crogioliamo nel tempo in attesa di una democrazia più vera e concreta, se mai sarà possibile.

C’è chi aspetta una casa dopo che il terremoto gli ha rubato la sua. Le macerie che sono rimaste non sono solo che briciole di quel tetto pieno di ricordi che era una volta. E il freddo e il gelo che non dà tregua in quelle zone non fa che peggiorare la situazione e sperare però che torni il prima possibile il sole o uno squarcio di primavera. Si attendono aiuti e volontari perché possa tornare un po’ di normalità dopo tante scosse che non hanno travolto solo la terra.

Si attende una proposta di lavoro, o almeno si cerca un posto. La disoccupazione è solo uno stato di passaggio dal non fare al fare che non dovrebbe farsi attendere troppo. Se sei giovane c’è chi dice che di tempo ce n’è sempre e bisogna fare esperienza per trovare un lavoro stabile, ma non si vive di sole esperienze se manca il sostegno economico dietro a queste. La voglia di imparare e l’impegno dovrebbero essere ripagate come giusto meritano e non essere sottopagate o peggio, sfruttate.

Se sei una mamma o un papà anche tu hai aspettato con pazienza per nove mesi qualcosa di meraviglioso, che poi è arrivato e ti ha sconvolto la vita. Meritava, non è vero?

L’importante è il viaggio e non la meta, qualcuno diceva, e aveva ragione: siamo bloccati nel tempo che passa, un attimo prima era ora, e qualche secondo dopo è passato. L’unico modo per sopravvivere a questo è lasciare che gli eventi ci attraversino, rimanendo però saldi e presenti per viverli.

In fondo è una vita che aspettiamo qualcosa e la risposta forse è molto semplice: speriamo sempre in un futuro che sia migliore.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1.Aforisma tratto dall’opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” 

[Immagine tratta dall’opera L’attesa di Baron Daniele (Google immagini)]