Tra ruolo sociale e intima volontà: il personaggio di Anne Elliot in Persuasione (2007)

Tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen, il film Persuasione (2007), diretto da Adrian Shergold, narra la vicenda di Anne Elliot, giovane figlia di Sir Walter Elliot, baronetto di Bath che ha dilapidato tutte le sue proprietà godendo di una vita troppo dispendiosa. Anne, costretta a lasciare la sua casa, rincontra per una serie di coincidenze un suo vecchio fidanzato, il capitano Wentworth, con cui non è giunta a nozze a causa dell’intromissione della sua famiglia. Otto anni prima, infatti, Anne non ha potuto adempiere al proprio desiderio di sposarsi per amore, perché il padre e la madrina, Lady Russel, non approvavano i natali del giovane. Di fatto l’intera vicenda ruota attorno alla figura della protagonista che, incapace di farsi valere, si lascia sfuggire un’occasione unica per i propri sentimenti, che la condanna a otto anni di pene d’amore. Con il tempo, tuttavia, Anne imparerà ad ascoltare di più il proprio cuore, ad essere risoluta e decisa in quello in cui crede.

Da questo punto di vista Anne diventa un po’ l’emblema della donna che lotta per non essere sottomessa, che, con la maturità, impara a non attenersi alle regole della convenienza sociale ottocentesca, che svalutano il valore femminile. Dolce e buona nei modi, incapace di far soffrire chi le sta attorno, solo alla fine della rappresentazione riesce a rifuggire le convenzioni e le etichette che impongono certi atteggiamenti ad una ragazza di alto lignaggio. Anne diventa così l’eroina di tutte, di coloro che desiderano affermarsi a discapito di un ambiente che le vuole incasellate in certe attività e dedicate alla cura del “focolare”. Vittima lei stessa del mondo in cui è cresciuta, il suo personaggio ci fa riflettere a fondo sulla necessità di non uniformarsi alla strada già segnata, prevista da altri, di seguire la propria intima volontà, anche quando chi è attorno a noi ripete incessante gli schemi precostituiti da generazioni. Come afferma infatti Jane Austen nel suo romanzo:

«Anne, con la sua raffinata intelligenza e la sua dolcezza, virtù che avrebbero dovuto collocarla molto in alto nella stima di chiunque fosse dotato di giudizio, non era nessuno né per il padre né per la sorella. La sua parola non aveva alcun valore, le sue esigenze erano sempre considerate poco importanti; era soltanto Anne»1..

Il suo temperamento remissivo, così come la sua condizione di donna, la portano a non essere tenuta in considerazione, a discapito della sua intelligenza e del suo buon cuore. L’eccessiva buona condotta, così come la dedizione assoluta all’altro, possono nuocere all’individuo, sembrano voler dire il nostro regista e la nostra scrittrice; è auspicabile aiutare la propria famiglia, essere devoti, ma la fermezza di carattere è necessaria per affermare l’io, in definitiva per crescere ed emanciparsi e creare una propria vita.

Se riflettiamo, anche ognuno di noi è in parte vittima di consuetudini che non riesce a soprassedere: dall’immagine banale, ma ancora viva oggi, di una donna che deve comunque interamente occuparsi delle faccende di casa, pur lavorando le stesse ore del partner, a quella di un uomo a cui è richiesta una gran carriera per sentirsi realizzato, alla necessità di coprire dei ruoli ben definiti, a seconda dell’ambiente da cui il singolo deriva.

Ancora oggi, sebbene con evidenti passi avanti rispetto ai secoli scorsi, permane comunque l’idea di una libertà condizionata per quanto concerne il ruolo che abbiamo all’interno di una famiglia, della società, del mondo. Tale ruolo, forse necessario per una definizione dell’io, non dovrebbe suscitare giudizi di valore sul singolo, o non essere così ricco di incrostazioni antiche, da cui l’individuo sente di non potersi in nessun modo liberare. Diamo spazio ai sentimenti e alla libertà di pensiero, dunque, perché ognuno ha il diritto di affermare la propria intima volontà.

 

Anna Tieppo

 

 

NOTE
1. tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen

 

[fermo immagine tratto dal film]

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Lady Macbeth: ritratto di donna in interno

Magnetico e deplorevole, sensuale e raggelante: sono davvero pochi i personaggi di pura fantasia che riescono ad avere una carica dicotomica così forte come quella insita in Lady Macbeth. Una figura costruita su una serie di contrasti apparentemente inconciliabili: un amore che sfocia nell’orrore del delitto, una sottomissione che in un attimo si può trasformare in incontenibile onnipotenza. William Shakespeare le ha dato vita, lo scrittore russo Nikolaj Leskov l’ha portata nel freddo distretto di Mtsensk e infine il regista teatrale britannico William Oldroyd l’ha filmata sul grande schermo, unendo gli insegnamenti dei due maestri sopracitati.

Il risultato finale porta il titolo di Lady Macbeth, un raffinato dramma in costume uscito nelle sale italiane lo scorso 15 giugno. Nonostante il film non manchi di alcune imperfezioni (ricordiamoci che stiamo parlando di un’opera prima), il lavoro di Oldroyd merita interesse per la sua grande capacità di costruire un personaggio femminile quantomai riuscito e appassionante. Il merito è soprattutto di una sensazionale Florence Pugh che da ragazzina timida e sottomessa inizia un percorso di trasformazione che la porterà a diventare una Lady Macbeth dilaniata da una tensione amorosa a dir poco sconvolgente. Fotografia e ambientazioni sono l’altro grande punto di forza di questa storia. Se il libro da cui il film è tratto era ambientato in Russia, la brughiera inglese si dimostra qui molto più adatta a rappresentare il simbolico conflitto interiore della protagonista, sottomessa e prigioniera all’interno delle mura domestiche, libera e passionale quando si trova a passeggiare nelle terre verdi e incontaminate del Regno Unito. Le dicotomie e le passioni di Lady Macbeth sono le stesse di un’adolescente viziata del nostro tempo, disposta a tutto pur di avere ciò che desidera ed è questa un’altra grande sorpresa del film di Oldroyd. Mentre nell’immaginario shakespeariano Lady Macbeth ci appare come una donna già matura al fianco di un marito da sostenere nella sua folle corsa all’onnipotenza, qui la protagonista è una ragazza che diventa donna solo dopo aver annientato gli uomini che la circondano. Il genere maschile esce annichilito alla fine della proiezione, ma al contrario di quanto si possa pensare Lady Macbeth non è una fastidiosa celebrazione del femminismo tout court, al contrario è un’intelligente esaltazione delle mille sfaccettature della donna in contrapposizione alla stupidità e alla pulsione fisica che caratterizza la maggior parte degli uomini.

Non male per un regista al debutto sul grande schermo. La sua ammirazione per la pittura di inizio Ottocento emerge tutta nelle riprese paesaggistiche che prendono a piene mani dai capolavori di William Turner o Caspar David Friedrich. I paesaggi simbolici di quello specifico genere pittorico diventano nel film un luogo chiave per spingere la protagonista verso il sublime, rappresentato qui da un bisogno d’amore che degenera in una spirale di violenza fisica e psicologica non facile da sostenere agli occhi di uno spettatore impreparato. Non c’è punizione o redenzione per una protagonista di tal fatta: la sfrontatezza data dalla giovane età e la sicurezza che solo il desiderio di onnipotenza possono dare, le consentono di tornare a sedersi sul divano di una casa ormai vuota come se niente fosse successo, salvo poi lasciarsi cullare dall’idea di essere diventata, a tutti gli effetti, un personaggio indimenticabile.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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