Bioetica e ambiente. L’uomo, la natura e le calamità naturali

Terremoti, alluvioni, frane e valanghe, i disastri naturali negli ultimi tempi hanno pesantemente colpito il nostro Paese provocando vittime e danni. Possiamo definirli esclusivamente fenomeni naturali causa dell’imponderabilità della natura o eventi amplificati dall’attività umana se non addirittura imputabili alla mano dell’uomo? Forse la natura si sta ribellando allo sfruttamento geotermico del sottosuolo, alle trivellazioni sotterranee, all’inadeguato utilizzo del territorio, all’errata urbanizzazione, ai cambiamenti climatici causati da inquinamenti e surriscaldamento del Pianeta?

Come ottenere una riconciliazione tra la natura e l’uomo partendo proprio dall’uomo, e perché la bioetica può rendersi utile nella realizzazione di tale processo?

Nel 1971, l’oncologo americano Van Reasselaer Potter, attraverso la costruzione del neologismo bioetica1, rese esplicita la consapevolezza dell’avanzare e del radicarsi di un progresso scientifico-tecnologico che avrebbe portato con sé la possibilità e la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita, ma anche il rischio di un disfacimento dell’uomo e della sua umanità. Potter mise in luce la sua preoccupazione per la sopravvivenza dell’intero ecosistema.

L’oncologo americano richiamava, quindi, alla necessità di una nuova disciplina che combinasse la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani, sanando la spaccatura tra due ambiti di sapere: il sapere scientifico e il sapere umanistico. La bioetica, così intesa, non avrebbe fatto riferimento solo alle problematiche biomediche, ma si sarebbe occupata di tutta la biosfera e quindi della vulnerabilità della natura in relazione all’intervento tecnico dell’uomo.

Nel corso della storia, nel rapporto con la natura, l’uomo ha assunto nei confronti della biosfera due atteggiamenti antitetici a seconda che predominasse in lui il rispetto per ciò che rendeva possibile la vita o, al contrario, il desiderio di esserne il padrone assoluto.

Le tradizioni di pensiero dominanti nella nostra cultura hanno promosso due opposti fondamentalismi individuabili nell’antropocentrismo e il biocentrismo. Il primo sostiene che compete all’uomo la preminenza all’interno del mondo naturale affermando, nelle sue correnti più radicali, il primato assoluto dell’uomo sulla natura; il secondo, all’inverso, rifiuta l’idea di una superiorità umana, per cui l’uomo è un semplice cittadino biotico i cui interessi si intersecano con quelli della biosfera.

È possibile identificare una terza via? L’uomo è l’unico essere degno di considerazione morale? Ne è l’unico destinatario? Come coniugare le preoccupazioni ecologiche con la cultura umanistica, la quale, dal canto suo, ipotizza la centralità dell’uomo? Come salvaguardare la natura senza penalizzare lo sviluppo dell’attività umana?

Credo che una terza via esista e che debba mantenersi in un’ottica antropocentrica: non si può prescindere dall’avere come punto di riferimento e come protagonista l’uomo se si vuole creare un’etica dell’ambiente in grado di proporre soluzioni operative. Il recupero dell’equilibrio tra uomo e natura non si ottiene mettendo sullo stesso piano l’essere umano e gli altri esseri viventi, ma piuttosto modificando il modo di pensare e agire dell’uomo nei confronti delle altre entità naturali. L’uomo deve farsi custode e rendersi responsabile di tutto il mondo naturale disciplinando, se necessario, la propria condotta. La natura è un bene da conservare e difendere per rispetto dell’essere umano stesso e in funzione della qualità e della sopravvivenza delle generazioni future, la tentazione di onnipotenza derivante dal vasto apparato di conoscenze tecnico-scientifiche deve essere assolutamente superata.

Riprendendo il pensiero del filosofo tedesco Hans Jonas: l’uomo deve considerare la natura come un bene da tutelare e da proteggere, e deve agire in modo che le conseguenze delle sue azioni siano compatibili con il mantenimento della vita umana sulla terra2.

La bioetica, come ambito di riflessione interdisciplinare, attraverso l’integrazione di differenti approcci: da quello biologico a quello economico, industriale, giuridico ed etico può offrire riflessioni significative che si trasformino in comportamenti attuabili al fine di assicurare le condizioni per uno sviluppo “sostenibile” delle attività umane che, nel contempo, permetta all’uomo di continuare a vivere nel suo mondo, ambiente non di distruzione e di morte, ma di vita.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE
1. V.R. POTTER, Bioethics: Bridge to the future, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1971, p.1.
2. H. JONAS, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1990.

[Immagine tratta da Google immagini]

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Il costo psico-sociale del progresso tecnologico

Questa riflessione nasce dopo la visione delle prime puntate di Black Mirror, una serie televisiva britannica, ideata e prodotta da Charlie Brooker per Endemol che vi consiglio di guardare se siete pronti a mettere in discussione tutto il mondo che vi circonda.
Il filo conduttore di ogni episodio sembra riguardare il progresso tecnologico, la dipendenza da esso e i danni collaterali provocati alla razza umana. Vengono immaginate e ricreate diverse situazioni del mondo moderno o futuro in cui una nuova invenzione tecnologica o un’idea paradossale ha in qualche modo destabilizzato la società e i sentimenti umani. In altre parole, parliamo di una serie-tv che mostra una visione futura della società umana basata sugli attuali trend tecnologici di socializzazione virtuale, interazione, connessione costante e gamification.

Ciò che emerge è uno scenario a dir poco devastante e stupefacente che tratteggia l’assuefazione che il progresso tecnologico sta prospettando per il futuro. Provate a pensare ad una realtà in cui verranno impiantati micro-schermi nella retina (Z-Eyes) con cui bloccare (oscurandone la visione come nei social) persone reali che vi stanno antipatiche, controllare e ricontrollare fino allo sfinimento il vostro passato alla ricerca di errori, dettagli insignificanti, ricordi struggenti e momenti intimi che dovrebbero restare irripetibili.
Pensate ad un futuro che vedrà un’integrazione completa tra la vita reale e la vita virtuale e i social, talmente tanto riuscita da dare vita a figure professionali che cureranno il vostro punteggio, i vostri follower, le vostre relazioni interpersonali in streaming grazie a chip inseriti sottopelle che registreranno tutto come una regia occulta.
Una delle prospettive più sconvolgenti che viene mostrata vede addirittura la commercializzazione di un macabro software che permette di parlare con un defunto grazie alla realtà aumentata ed alla eredità social cristallizzata sul web di tutti noi.
Guardando questa serie ho pensato che tutto ciò, sebbene assolutamente assurdo, è del tutto credibile e possibile perché alcune cose che sono diventate di uso comune oggi sarebbero state impensabili ed assurdamente inutili anni fa.

Tutto è possibile ed estremamente più vicino di quanto si pensi (Google Glass): non ci vorrà tanto, ma quale sarà il costo psicologico e sociale del progresso tecnologico? A cosa stiamo rinunciando, a cosa rinunceremo, quali danni stiamo arrecando ai nostri processi cognitivi e relazionali abusando in questo modo del virtuale a scapito del reale?
Perché il pericolo esiste: è bene che questo si sappia e che non venga sminuito. Ci troviamo di fronte ad un’evoluzione che oggi è più che esponenziale, che corre e si rincorre come nella storia non è mai avvenuto.
Da tempo sociologi e psicologi cercano di avvertirci, parlano per esempio dei quasi mitologici Hikikomori, poveri adolescenti che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, che passano la loro vita in una camera, credendo di giocare attraverso una consolle, di fare sport attraverso un avatar virtuale e di socializzare attraverso Facebook. E non sto parlando di una puntata di Black Mirror.

I danni di questo progresso sono solo minimamente immaginabili perché i risultati potremo osservarli realmente solo tra qualche generazione.
Il compianto Bauman asseriva: «Il vantaggio della rete è la possibilità di una comunicazione istantanea, ma questa possibilità ha delle conseguenze, degli svantaggi non calcolati. I social media spesso sono una via di fuga dai problemi del nostro mondo off-line, una dimensione in cui ci rifugiamo per non affrontare le difficoltà della nostra vita reale»1.
Ovviamente sarei ipocrita a dire che il progresso tecnologico, i social, il web non hanno migliorato il nostro tenore di vita. Sarei falso se volessi proporre un arretramento: grazie al web questo mio articolo raggiungerà centinaia di persone; qual è però il costo di questa di questa amplificazione? Centinaia di persone passano le giornate a confrontarsi non più fisicamente, attraverso il dibattito, ma sterilmente attraverso la tastiera: via la faccia, le anime, il pathos, via il confronto reale.
Grazie ai social network si entra in contatto con persone ormai lontane, ci si ritrova, ma in realtà la discussione si allontana fisicamente, credendo di interagire, di socializzare. A fine serata provate a fermarvi, provate a pensare a quanto hanno vibrato le vostre corde vocali, quanta aria fresca è entrata nei vostri polmoni, provate a pensare, se non ci fosse stato WhatsApp sareste usciti per parlare con quegli stessi amici? Ritenete una comodità restare in casa mentre chiacchierate della vostra giornata super-piena di lavoro? Sarà un vantaggio poter riguardare il passato coscienti di non poterlo comunque cambiare? Come vi sentireste se al centro delle recensioni non ci fossero più solo ristoranti (dietro cui ci sono comunque persone) ma voi, il vostro carattere? È un’app così assurda da immaginare?

L’obiettivo non è regredire: non si vuole perdere nulla. Io credo che l’umanità debba pensare al suo futuro proprio agendo sulla concezione di esso, calibrando attentamente la nostra concezione di progresso tecnologico, di futuro. Abbiamo bisogno di rallentare, capire che uno smartphone, l’uso indiscriminato di Facebook, potrà regalare ai nostri figli un magnifico mondo inesistente, una vita soffusa, un’economia sterile, una civiltà che non è, già ora, più interessata al bello, all’arte, alla cultura.
Credo sia necessario individuare una capacità di sviluppo tecnologico sostenibile che ci consenta di migliorare la nostra vita quel tanto che basta per non creare una perdita futura dal punto di vista sociale e lavorativo, poiché anche questo è un altro punto sensibile da trattare come si deve.
Il progresso e l’innovazione sono il motore dell’economia industriale, la scintilla che ha portato all’economia del benessere negli anni passati: oggi siamo oltre 7 miliardi di persone su questa Terra, la smaterializzazione dei lavori, la dismissione dell’uomo-operaio, dell’uomo-lavoratore a fronte dell’online distruggerà posti di lavoro e annienterà vite umane. L’economia e il lavoro si adegueranno certamente: siamo sicuri che la crescita e lo sviluppo debbano seguire una via tanto sregolata? Siamo sicuri che non sia più giusto seguire il vivere bene piuttosto che il vivere meglio?

Flavio Albano

Flavio R. Albano è docente a contratto di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università degli studi di Bari. Dal 2006 collabora con aziende di servizi turistici di tutta Italia nella selezione, formazione e gestione delle risorse umane. Ad oggi ha all’attivo diverse ricerche scientifiche, pubblicazioni e partecipazioni a conferenze internazionali, collabora con diversi enti pubblici e privati sullo sviluppo di analisi di marketing territoriale. Nel 2014 ha pubblicato il libro “Turismo & Management d’impresa” subito adottato all’Università della Basilicata. Nel tempo libero scrive romanzi di narrativa, dipinge, suona la batteria e recitare resta la sua più grande passione.

NOTE:
1. Z. Bauman, La vita tra reale e virtuale, Egea, Milano 2014.

[L’immagine, tratta da Google Immagini, è un fermo immagine di una puntata di Black Mirror]

Per uno sviluppo sostenibile: intervista all’ex ministro Enrico Giovannini

Abbiamo raggiunto telefonicamente Enrico Giovannini sulla via del ritorno dal Festival di Internazionale a Ferrara, svoltosi dal 29 Settembre al 2 Ottobre scorso. Giovannini, economista e statistico, già presidente dell’Istat, ex ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del governo Letta, da sempre attento ai temi della sostenibilità, è ora fondatore e portavoce dell’ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile): si tratta di una rete di associazioni del mondo civile ed industriale italiano con l’obiettivo di sensibilizzare la società e la politica italiana rispetto agli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU in materia di sviluppo sostenibile. L’abbiamo contattato il giorno dopo il suo intervento dal titolo Un’altra idea di mondo al Teatro Nuovo di Ferrara, gremito di giovani, nel quale ha parlato delle varie proposte della sua associazione e del futuro dell’Italia.

 

Giovannini, lei è portavoce dell’ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile): ‘sviluppo sostenibile’ oggi ci sembra un termine quasi abusato, malamente applicato all’interno dei contesti, probabilmente perché il concetto non è realmente capito. Ce lo può spiegare?

Per molti anni il concetto dello sviluppo sostenibile è stato declinato  fondamentalmente in una dimensione ambientale. Per fortuna non è più così. Dalla commissione Bruntland, che aveva parlato di uno sviluppo sostenibile articolato in quattro dimensioni – economica, ambientale, sociale e istituzionale – è passato gradualmente un concetto che è più esteso della pura dimensione ambientale. Dopodiché, l’anno scorso, con l’assunzione dell’agenda 2030 dell’ONU e la fissazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile, questa visione – come si dice in modo abusato – a 360 gradi, è stata riconosciuta come l’unica possibile. Sul piano della misurazione da molti anni gli statistici internazionali hanno fatto presente che la sostenibilità di un modello di sviluppo ha a che fare con la quantità di capitale fisico, sociale, naturale e umano che ogni generazione trasmette alla generazione successiva; quindi effettivamente ormai, nonostante il rischio di abuso di cui lei parla, penso che il concetto sia stato almeno definito in modo chiaro.

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Quali possono essere i mezzi e le strategie più efficaci affinché si generi una maggior sensibilità, una sensibilità condivisa nei singoli a queste tematiche, che sono dunque estese oltre il problema ambientale?

Abbiamo creato l’ASviS, l’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile, proprio per sostenere in Italia l’applicazione dell’intera agenda 2030, di tutti i 17 goals e i 169 targets che vanno dalla povertà alla pace, alla violenza, alle disuguaglianze, all’educazione alla salute, alle tematiche ambientali, ma riguardano anche l’occupazione e la crescita del benessere. Noi di ASviS abbiamo sposato proprio questa logica nel rapporto che è stato presentato il 28 Settembre alla Camera dei Deputati, e che è accessibile sul sito www.asvis.it. Ecco, queste 126 organizzazioni della società italiana che formano ASviS, rappresentano complessivamente più di duemila associati che si sono messi insieme per delle proposte molto concrete. Per esempio abbiamo suggerito di inserire il principio di sviluppo sostenibile nella parte prima della Costituzione, come è stato fatto in Francia e come è stato fatto in Svizzera, perché, se lo sviluppo sostenibile deve guidare non solo le politiche ma anche i comportamenti dei singoli e delle imprese, trovo questo uno dei principi cardine su cui vogliamo che si basi tutto, quindi anche le future leggi. Abbiamo inoltre proposto che il Presidente del Consiglio prenda in mano l’agenda complessivamente, trasformando il comitato interministeriale per la programmazione economica in un comitato interministeriale per lo sviluppo sostenibile proprio per marcare un cambiamento di paradigma, in cui non ci si concentri soltanto sulla crescita economica. E poi ci sono altre iniziative istituzionali tra cui l’avvio di una campagna informativa continua su questi temi, ma soprattutto l’educazione allo sviluppo sostenibile nelle scuole. Per questo siamo in contatto con il MIUR per sviluppare dei programmi in tale direzione. È importante che le università italiane, tramite la conferenza dei rettori, abbiano creato la rete delle università per lo sviluppo sostenibile, volta non solo ad applicare i principi di sostenibilità alla mobilità degli studenti, ma che condivide anche una strategia a tutto campo che ha a che fare con la ricerca e con i programmi didattici. Per ciò che riguarda invece le proposte di politiche concrete, queste sono articolate intorno a sette assi: il primo asse ruota intorno al cambiamento climatico e all’energia, il secondo riguarda le disuguaglianze, non solo di reddito o di ricchezza ma anche di accesso, di opportunità e di genere, il terzo asse riguarda l’innovazione e il lavoro, il quarto asse ha a che fare con il capitale umano (che vuol dire salute, istruzione stili di vita), il quinto riguarda il capitale ambientale e quindi le dimensioni ambientali, poi ancora le città, le infrastrutture, il capitale sociale e infine la cooperazione internazionale.

Esiste una differenziazione a livello strategico nel loro coinvolgimento alle politiche sostenibili? Qual è il loro ruolo sia in termini ricettivi che attivi?

Le rilevazioni che sono state fatte in Italia (ma non solo), mostrano come i giovani siano molto più ricettivi su queste tematiche, hanno molto più la consapevolezza dell’interdipendenza nel nostro Paese rispetto ad altri Paesi, e sono più sensibili ai temi della sostenibilità ambientale. Trasformare tutto questo in azione è credo uno dei grandi interrogativi che le società in particolare occidentali hanno, perché è evidente che questo nuovo paradigma non promette necessariamente umori meravigliosi e per definizione migliori del passato.

Questo è un cambio importante. Vuol dire passare da un concetto di crescita quantitativa a uno di benessere anche qualitativo. Però è evidente che in questa prospettiva la disoccupazione giovanile, che in Italia è così alta, non aiuta, anzi taglia le gambe a quella che sappiamo essere la generazione più istruita che questo Paese abbia mai avuto. Quindi come riuscire a coinvolgere i giovani è uno dei temi anche per l’ASvis  e stiamo prendendo contatto in particolare con associazioni studentesche e soggetti che mettano i giovani sul mercato del lavoro, per coinvolgerli attivamente, non semplicemente come ricettori, ma come attivi partecipanti. Ieri a Ferrara sono stato molto lieto che il teatro fosse pieno di giovani interessati e anche al termine dell’incontro ho avuto modo di conversare con loro. Insomma credo che questa, essendo un’agenda per il futuro, sia un’agenda che le giovani generazioni debbano usare per cambiare un modello di vita insostenibile.

Lei ritiene che oggi si possa parlare di un’etica della sostenibilità?

Sempre di più ci sono persone che a causa della crisi di questi anni hanno scoperto di consumare in modo superfluo. E questa è una ragione per cui, in Italia e non solo, gli stili di consumo stanno cambiando. Certamente negli altri Paesi europei c’è una disponibilità molto maggiore, per esempio per una mobilità non basata sul mezzo privato. Nelle città italiane il mezzo privato è ancora considerato fondamentale; in quelle spagnole, danesi, nel nord Europa, sono invece considerati prioritari altri strumenti, in nome di una condivisione dei mezzi. Quindi è molto difficile dare giudizi in modo così generalizzato. L’ultima considerazione da fare è che molte imprese stanno effettivamente cambiando approccio. Alcune si stanno facendo semplicemente un new dressing: usano cioè il concetto di ‘sviluppo sociale’ o ‘sostenibilità’ come uno specchietto per le allodole in termini pubblicitari; molte altre invece hanno intrapreso veramente delle trasformazioni importanti. Il fatto che a fine anno finalmente l’Italia dovrebbe recepire la direttiva europea per la rendicontazione non finanziaria (cioè l’obbligo per le imprese di rendicontare attraverso bilanci che non guardino solo alle dimensioni economiche, ma anche a quelle sociali e ambientali) può aiutare a cambiare questa cultura. Dicevo, molto sta cambiando ma troppo lentamente perché il tempo che abbiamo davanti per cambiare modello di sviluppo non è molto, prima di avere il collasso di alcuni sistemi.

Concludiamo con una questione che ci è (ovviamente) cara: che cosa pensa della filosofia? Ritiene che possa predisporre l’apertura mentale giusta per accogliere ed anche attuare delle politiche più consapevoli?

Quand’ero ragazzo, dovendo scegliere che facoltà frequentare, l’alternativa era tra Filosofia ed Economia. Alla fine scelsi Economia, ma ritenendo che l’economia (soprattutto moderna) non debba essere pura matematica applicata attraverso modelli rigidi, ma che la componente umana sia assolutamente fondamentale per capire comportamenti e movimenti che nella società sono molto più profondi di quelli insiti nei modelli economici. Se filosofia vuol dire la riflessione sui fini ultimi dell’uomo, della società, e vuol dire anche l’elaborazione di modelli che aiutino in modo più complessivo, olistico, a trattare le problematiche che oggi abbiamo davanti, indubbiamente la filosofia può contribuire a questo modello di sviluppo, a questo nuovo modo di concepire le relazioni tra economia, ambiente e società, e soprattutto a rendersi conto che i singoli non sono tali ma sono sempre parte di una società che è viva, che evolve ma non necessariamente nella direzione giusta. Quindi tutti sono chiamati a contribuire a questo sforzo di portare il mondo su un vero e proprio sentiero di sviluppo sostenibile.

 

Dalle parole di Giovannini si evince quindi il volere di unire un forte spirito umanistico a politiche economiche e sociali concrete per cambiare il modello di sviluppo che conosciamo oggi. Importante è anche la visione di sostenibilità che comprende tantissimi ambiti interconnessi tra loro: dall’ambiente in primis, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Non bisogna pensare di cambiare singoli ambiti della nostra vita, ma di cambiare il nostro modello di vita affinché sia più sostenibile in tutti i sensi e garantisca maggiore giustizia e inclusione sociale. Le premesse e le volontà popolari sembrano esserci, come testimonia la nascita di Asvis. Ora la palla, come sempre, passa alla politica.

Tommaso Meo

[Le immagini sono tratte da Google Immagini e da www.onuitalia.com]

La tensione tra infinito e sostenibilità del limite

Daniel Callahan, cofondatore con Willard Gaylin dell’Hastings Center di New York e Direttore dell’International Programin, critica tre approcci della pratica medica nella medicina occidentale. Innanzitutto la volontà di dominare e asservire la natura, aspirazione in base alla quale anche la stessa morte costituisce un semplice e anonimo difetto biologico suscettibile di correzione e destinato ad arrendersi ai poteri dell’egemonia della scienza; in secondo luogo, considera la sua tensione a proporsi orizzonti irraggiungibili, illimitati, non ammettendo la sola possibilità di un ‘punto d’arrivo’ soddisfacente. Infine l’autore fa luce sull’aggressivo espansionismo sociale, una tendenza invasiva ad insinuarsi in ogni aspetto della vita umana (sfociando, così, nella ‘medicalizzazione’).

Parlando di ‘medicina sostenibile’, Callahan propone uno slittamento progressivo di enfasi clinica alle cronicità, alla prevenzione sociale, dalla ricerca di una salute eterna al raggiungimento di un più maturo equilibrio tra le esigenze della natura e le prospettive della ricerca: propone, cioè, il recupero di una medicina tradizionale umanizzata. In Callahan vi è uno slancio verso un ritorno della comunità internazionale ai valori della convivialità, della sobrietà, di una medicina capace rispettare i naturali limiti biologici della dimensione umana e spirituale nella relazione terapeutica. Nel mondo della medicina di Callahan si promuove sistematicamente la stabilità, nella tensione a scongiurare la morte prematura e proteggere tutti i cittadini in maniera equa dalle malformazioni fisiche e mentali. L’autore si pone un quesito riguardo il rapporto, il legame che àncora la vita alla medicina: si chiede cioè se l’individuo debba modificare la propria concezione della medicina o piuttosto la propria concezione riguardo la vita. Callahan sostiene che una radicale revisione, riguardi e debba riguardare entrambe queste realtà in quanto:

«[…] Una vita che dipendesse per il proprio significato dai puntelli e dal progresso della medicina non […] sembrerebbe vita, a dispetto del fatto che il […] corpo continuerebbe a vivere per un po’. Una medicina che promettesse continuamente nuovi miracoli, nuovi corpi e nuovi io per veder finanziata la propria ricerca e per giustificare i propri colossali investimenti […] sembrerebbe una medicina che ha perduto la retta via, dimenticando di non essere affatto la via di accesso alla vita felice»1.

L’autore si batte contro le distorsioni introdotte da un approccio esclusivamente scientifico dell’applicazione medica, la cui fragilità risiede anche nel non dare ascolto ai punti di forza delle tradizioni e delle pratiche antiche.

«La mia tesi è che le società moderne […] hanno bisogno di una medicina “sostenibile”[…], una medicina che, sul terreno della ricerca non meno che su quello dell’assistenza, aspiri a conseguire una condizione di stabilità a un livello economicamente sopportabile, equamente accessibile e nello stesso tempo psicologicamente sostenibile, ossia tale da soddisfare la maggior parte […] dei bisogni e delle aspettative ragionevoli concernenti la salute. Quello a cui penso è un cambiamento sul terreno degli ideali e delle speranze della medicina, non solo su quello dell’organizzazione e dell’erogazione dell’assistenza sanitaria ai malati»2.

Una medicina economicamente sostenibile sarebbe, necessariamente, una medicina del razionamento e dei limiti la quale, tuttavia, si serve di essi per salvaguardare l’equità: essa porterebbe così l’individuo all’accettazione di una realtà continua e permanente del rischio (quale, per altro, si configura la natura umana), della malattia tentando di elaborare una prospettiva attraverso cui ‘proporsi’, presentarsi ed adattarsi nel miglior modo possibile. Al contrario, l’attuale espansionismo medico, sempre più emergente e senza controllo, è causa di una crescente insoddisfazione: se da un lato, infatti, l’uomo non è ancora riuscito a dominare e piegare la natura alle proprie materiali aspirazioni attraverso la medicina, dall’altro gli stessi successi dal suo progetto di dominio hanno generato una serie di nuovi problemi. La medicina moderna, nella convinzione per cui nella ricerca della salute risiede il segreto del significato della vita, ha portato a ritenere che anche la mortalità stessa, ben lontana dal dovere essere integrata e compresa in una visione equilibrata dell’esistenza, va semplicemente combattuta e rifiutata: la lotta della medicina contro la morte, l’invecchiamento e l’infermità rappresenta addirittura la sola fonte del  significato umano.

«[…] La medicina sostenibile è necessaria non solo perché non possiamo permettercene una diversa, ma anche perché essa può aiutarci a fare piazza pulita della medicina incontentabile e priva di scopi precisi prodotta dal progresso e dall’abbraccio con il modernismo. Una medicina sostenibile ci costringerà a riconsiderare il corpo e la mente, il significato sociale di medicina e assistenza sanitaria, nonché il rapporto tra la medicina e le culture di cui fa parte. Questa è la sola direzione capace di far sì che la medicina economicamente sostenibile lo sia anche psicologicamente»3.

Per Callahan l’uomo deve rendersi consapevole della necessità di modificare i propri valori, le proprie speranze e le proprie aspettative: i cambiamenti del suo modo di pensare devono investire tanto la sua capacità e possibilità di far fronte al fisiologico e inevitabile invecchiamento quanto alle malattie che minacciano la sua sopravvivenza, che incombono e costellano l’esistenza dell’individuo.

«Due sono le frontiere su cui si deve agire: una si estende lungo l’asse temporale dell’invecchiamento, e l’altra lungo quello dei bisogni individuali. Il primo e più importante passo nell’istituzione di queste restrizioni è riconoscere che entrambe le frontiere sono aperte ed infinite e che quindi non potranno mai essere definitivamente conquistate: esse infatti non ammettono alcun limite naturale conosciuto, sebbene se ne siano presi in considerazione alcuni possibili»4.

Callahan, nel sostenere la necessità di stabilire dei limiti, intende evidenziare l’importanza di tenere presenti alcune potenti tensioni, come quella che si crea tra l’accettazione della finitezza della persona in quanto tale e la umana aspirazione al progresso infinito, tra le più disparate esigenze individuali e quelle del bene comune, tra il proprio peculiare perseguimento della salute in quanto valore individuale e l’imprescindibile necessità di destinare le risorse anche ad altri settori. Oggi bisogna lavorare entro ambiti e limiti ben delineati, per stabilire priorità chiare ed inderogabili: uno spiccato senso del limite evidenzierà proprio la necessità di queste priorità.

Riccardo Liguori

NOTE:
1. Daniel Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna, tr.it a cura di Rodolfo Rini, Baldini & Castoldi, Milano, 2000, pag.18.
2. Ivi, pag. 24.
3. Ivi, pag. 319.
4. Ivi, pag. 223.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Abbi cura del mondo, abbi cura di te

<p>Dettaglio della statua equestre bronzea dell'imperatore Marco Aurelio (161-180 ad). eretta nel mezzo della piazza del Campidoglio sin dal 1538 quando la piazza fu ristrutturata da Michelangelo.</p>

Negli ultimi anni si fa un gran parlare di ecologia e stili di vita green, cioè rispettosi dell’ambiente in cui noi esseri umani siamo chiamati a vivere. Si sono accumulati volumi e volumi di prescrizioni da osservare per vivere in maniera sostenibile, col minimo impatto possibile sul nostro habitat. Se, per un verso, è indispensabile agire sui comportamenti di ciascuno, correggendone quegli aspetti che danneggiano maggiormente l’ecosistema, è pur vero, per altro verso, che tutto ciò non è sufficiente a provocare un cambiamento radicale del nostro modo di vivere la Terra e, in senso più ampio, la Natura (la maiuscola vuole qui indicare la totalità naturale organicamente intesa, compreso dunque il principio che riposa al cuore di ogni singola entità naturale). L’autentica trasformazione di cui c’è bisogno, a ben vedere, non può non prendere le mosse da un’attenta analisi di sé e dei rapporti che continuamente costruiamo con la Natura, tramite le nostre azioni.

Pur continuando a ragionare su quali determinati comportamenti siano in grado di giovare o, al contrario, di nuocere al nostro eco-sistema, bisogna indagare la fonte originaria dell’inquinamento che ammala la Terra e, ancor più a fondo, capire che non è fatto solo di COo di residui d’altro genere, questo miasma che, forse troppo tardi, è diventato uno degli oggetti principali delle nostre preoccupazioni.

Per questa riflessione, proponiamo come interlocutore un uomo d’altri tempi, che dedicò tutta la sua vita a indagare se stesso e la natura delle proprie azioni, a edificarsi secondo i principi del dominio di sé e del costante esercizio di autocoscienza. Si tratta di Marco Aurelio, a cui gli dèi diedero in sorte di essere a capo dell’Impero Romano dal 161 al 180 d.C.

Nei suoi Pensieri (il titolo originale è Ta eis eauton, “A se stesso”), al paragrafo 16 del libro II, Marco Aurelio scrive che «l’anima dell’uomo si copre d’infamia, innanzi tutto quando diventa, per quanto dipende da lei, come un ascesso e un tumore del mondo».

L’anima dell’essere umano ha in comune con ogni singola altra entità che vive nel cosmo, il partecipare di una natura universale, di un qualcosa di divino che innerva tutta la realtà. Scavando in se stesso, l’essere umano scopre che la propria intima natura è data dalla sua appartenenza ad una Natura principiale, che fa della sua vita singolare, una determinazione della vita del Tutto.

L’uomo retto è dunque capace di prendersi cura della Vita, curandosi del proprio sé più profondo (la parola originale è daimon, sulla cui traduzione si possono scrivere trattati. In un senso generico, si può tradurre come “spirito”: nulla ha a che vedere con l’italiano “demone”, che ha un’accezione notoriamente negativa), seguendo i principi di una ecologia interiore per cui, alla fine della vita mortale, ciascuno riconsegnerà alla Natura il proprio spirito, intonso e puro, così come l’ha ricevuto al momento della nascita. L’essere umano ha sin da sempre ciò che gli occorre per prendersi cura del proprio sé: l’introspezione dà la conoscenza necessaria al raggiungimento dell’equilibrio; l’esercizio costante permette il suo mantenimento, nonostante gli accidenti della vita che si mostrano, per quanto gravi, esterni a ciò che di meglio c’è nell’essere umano: il suo daimon, appunto.

Chi non volesse prendersi cura di sé, pur se a fatica – perché è difficile, sia chiaro, conoscersi e curarsi –, non danneggerebbe soltanto se stesso ma la Totalità; o meglio: danneggerebbe se stesso e, allo stesso tempo, la Natura. Marco Aurelio è attento a definire, infatti, l’anima lorda dell’uomo inconsapevole come “tumore del mondo”, un agglomerato di cellule malate che, proliferando, infettano tutto il corpo – anche simbolico – di cui sono parte. L’anima che si maltratta, che non rende onore a se stessa, spreca la propria vita e inietta errore nell’organo della Totalità e rischia di non aver occasione di rimediare: mai distogliere l’attenzione da sé. Disonorare il proprio sé significa, ipso facto, disonorare la Natura di cui si è parte.

L’inquinamento più pervasivo è dunque quello delle intenzioni, in forza del quale ci lasciamo distrarre da ciò che è veramente importante: dal compito che ciascuno di noi ha, di prendersi cura di sé e del mondo, di sé nel mondo.

Ecco, dunque, uno degli insegnamenti che possiamo trarre dalle parole di Marco Aurelio: tra ciascuno di noi e la Natura esiste un inscindibile legame di doppia implicazione, che è posto nel profondo dell’essere umano. Se inquiniamo il nostro sé, inquiniamo la Natura di cui siamo particelle, inevitabilmente. E ciò, a prima vista, appare sconcertante: chiunque abbia mai provato a farlo, sa bene quant’è difficile prendersi cura di sé, non violentare la propria anima con ciò che non vorremmo fare – almeno così pare – eppure ci ritroviamo a fare; con ciò che – lo sappiamo bene – ci arreca danno, eppure continuiamo a cercare spasmodicamente. Ma laddove c’è il problema, si cela anche la soluzione. È su questo legame, infatti, che dobbiamo ritornare a riflettere, se vogliamo che qualunque correzione dei nostri comportamenti (privati o pubblici, industriali o familiari) raggiungano autenticamente il grado di sostenibilità richiesto dalla pericolosa situazione in cui ci ritroviamo, tutti. È nel ripensamento di noi stessi che possiamo trovare la cifra del nostro rapporto con la Natura, la tonalità giusta in rapporto con la quale accordare le nostre pratiche quotidiane, i nostri sistemi economici e politici, la nostra vita interiore, che devono tornare ad essere naturali: «non v’è nulla di male – scrive il nostro autore in chiusura del II libro – in ciò che avviene secondo natura».

Emanuele Lepore

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Quale etica per l’ambiente?

Nell’attuale contesto nel quale molti scienziati ritengono che in base al trend attuale sia in atto un mutamento globale e incontrollato delle condizioni ambientali, con conseguenze così gravi da mettere in pericolo la vita sulla terra, può essere utile esaminare i fondamenti filosofici e/o teologici dell’etica ambientale per comprendere su quali basi poter sviluppare una efficace politica per l’ambiente.

Questa minaccia incombente può essere in grado di provocare un radicale ripensamento dei fondamenti stessi della cultura mondiale e delle linee di sviluppo della società moderna.

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Rapporto Uomo-Natura: un difficile equilibrio

Il visibile e crescente degrado del nostro pianeta, la progressiva distruzione degli ecosistemi, quali ad esempio le foreste pluviali, la desertificazione, i cambiamenti climatici, l’uccisione indiscriminata e ingiustificata di animali (balene, elefanti, tigri, ecc.) ci impone una preoccupata riflessione sulle problematiche ambientali.

Su tali problematiche si possono sviluppare dei ragionamenti sulla base di due aspetti:

  • un’analisi tecnico-scientifica delle conseguenze, spesso devastanti, provocate dall’attività umana e delle possibili soluzioni tecniche e gestionali;
  • un approfondimento della portata dei principi etici e delle conseguenti elaborazioni culturali in rapporto con le politiche ambientali.

La problematica ambientale, nel corso degli ultimi anni, ha assunto un ruolo sempre più preminente sul modo di pensare, di percepire, e di giudicare le priorità sociali da parte della popolazione.

Nelle società democratiche questo approccio sta infatti condizionando inevitabilmente l’opinione dominante in base alla quale poi operano i decisori politici e la dirigenza dell’industria.

L’etica ambientale, con una sostanziale azione politica in campo economico, fa essenzialmente perno sul concetto di “sviluppo sostenibile”. Tale approccio che, apparentemente, è ormai universalmente riconosciuto, si differenzia però nell’azione politica in due interpretazioni dell’espressione non facilmente conciliabili.

Infatti per gli ambientalisti l’espressione deve essere interpretata in chiave di far sempre e comunque prevalere il “sostenibile”, mentre per i governanti e per l’industria, come anche fatti recenti in Italia hanno dimostrato, viene più considerato lo “”sviluppo” e quindi la difesa degli interessi economici.

È sempre più vitale che l’uomo e i pubblici poteri che egli contribuisce a determinare ed orientare, accedano, in modo sempre più convinto, al valore etico della tutela ambientale e della condivisione e compartecipazione responsabile delle risorse naturali.

L’umanità deve pensarsi non in termini di intenso e sistematico sfruttamento delle risorse, ma piuttosto di presenza armoniosa che garantisca, a tutto l’ecosistema, non una sopravvivenza rischiosa, ma un equilibrio attento agli interessi vitali di tutte le creature del pianeta.

Su questa prospettiva pesano in particolare gli interrogativi relativi alla possibilità che lo sviluppo dei Paesi emergenti sia conciliabile con la compatibilità ambientale e che i Paesi sviluppati riducano effettivamente l’impatto ambientale complessivo dei loro sistemi economici.

In questo contesto dobbiamo trovare risposte alle domande etiche nelle politiche ambientali.

Abbiamo bisogno di una “nuova” etica, o è sufficiente obbedire alle etiche tradizionali? Quali sono i fondamenti più appropriati per una nuova etica ambientale? Qual è il processo con cui possiamo ottenere politiche ambientali eque e un nuovo “contratto sociale globale” tra Paesi in via di sviluppo e Paesi industrializzati?

Matteo Montagner

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