Un giorno a casa di Kant

Anche i filosofi, alla fine, invecchiano, si ammalano e muoiono. Ma prima della morte c’è stata la vita, fatta non solo di “pensiero”, ma anche di piccole routine quotidiane. Il libro di Thomas de Quincey Gli ultimi giorni di Immanuel Kant (1827/1854) si concentra, come da titolo, sulla parte finale della vita del filosofo, dipingendo un ritratto commovente dell’anziano pensatore; nella parte iniziale, tuttavia, il suo scritto ci offre un interessante e vivace spaccato della “giornata-tipo” di Kant. Seguiamo allora passo per passo il bel resoconto di questo bravo biografo: sarà come entrare ed essere ospiti per un giorno nella casa di uno dei filosofi più noti di sempre.

La giornata di Kant, racconta De Quincey, iniziava alle «cinque meno cinque in punto», ora in cui il suo maggiordomo lo veniva a svegliare «ad alta voce, con tono militare», scandendo le seguenti parole: «Signor professore, è l’ora». Kant scendeva dal letto senza esitazione: «a questo invito Kant invariabilmente obbediva senza alcun indugio, come un soldato risponde alla parola d’ordine». Seguiva una colazione frugale costituita da una o due tazze di tè, dopo la quale Kant fumava per qualche minuto la pipa riflettendo sulle disposizioni da dare ai domestici per la giornata. Verso le sette Kant usciva per andare a fare lezione, dopodiché tornava a casa e si recava nel suo studio, dove si dedicava alla lettura e alla scrittura in attesa dello scoccare dell’ora di pranzo.

Dalla ricostruzione di De Quincey apprendiamo anche le abitudini di Kant a tavola, di come egli scegliesse e disponesse con cura i cibi e i vini, e di come amasse intrattenere i suoi ospiti:

«a un suo pranzo, il numero dei convitati non doveva scendere al di sotto del numero delle Grazie, né superare quello delle Muse. […] Vi era una sufficiente scelta di piatti per venire incontro alla varietà dei gusti; e le caraffe del vino non erano poste a lato su tavolini distanti, o sotto l’odioso controllo di un domestico, ma anacreonticamente sulla tavola, e a portata di mano per ogni convitato. […] Tutto l’intrat­tenimento era insaporito dalle spezie del suo spirito illuminato, che si profondeva e riversava con naturalezza su tutti gli argomenti, via via che il procedere della conversazione gliene dava occasione».

Dopo pranzo (l’unico pasto che Kant consumava nell’arco della giornata), il filosofo si concedeva una passeggiata solitaria, non solo «per tenersi in esercizio», ma anche al fine di potersi immergere nei propri pensieri in pace e serenità «dopo tanta conversazione conviviale». Ma c’era anche un altro curioso motivo per cui egli voleva rimanere solo: durante quel tragitto «egli desiderava respirare esclusivamente dalle narici, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse stato obbligato ad aprire continuamente la bocca conversando».

La ragione di questa strana abitudine è presto detta: Kant era convinto che, respirando in tal modo, «l’aria atmosferica, essendo […] condotta per un percorso più lungo, giungesse perciò ai polmoni con minore crudezza e a una temperatura un po’ più alta, dunque con minore capacità di irritarli. Saldo e perseverante in questo esercizio, che raccomandava costantemente ai suoi amici, Kant si vantava di una lunga immunità da raffreddori, malesseri, catarri e disturbi polmonari di ogni genere». Kant, in effetti, a parte il naturale declino a cui andò incontro sul finire della sua vita, non si ammalò praticamente mai nel corso della sua esistenza.

Dopo essere tornato dalla passeggiata, Kant si sedeva sul suo tavolo di lavoro vicino alla stufa, guardava dalla finestra l’antica torre di Löbenicht e si rimetteva al lavoro: studiava qualche libro, prendeva appunti, preparava la lezione del giorno dopo. Poteva andare avanti anche fino alle dieci di sera, ora scoccata la quale si spogliava e andava a dormire senza cenare. Kant aveva peraltro un modo tutto particolare di mettersi a letto: egli amava che le coperte lo avvolgessero completamente, «come una mummia, o […] come il baco da seta nel suo bozzolo».

«Dopo essersi impacchettato per la notte […] esclamava sovente tra sé […]: “È possibile concepire un essere umano che goda di una salute più perfetta della mia?”».

Il mattino seguente la giostra della vita ricominciava il proprio giro, e le giornate si ripetevano più o meno tutte uguali: l’inflessibile routine imposta da Kant «mai in alcuna circostanza variava o si allentava», afferma De Quincey. La puntualità e la precisione del filosofo nel ripetere gli stessi “rituali” divennero proverbiali: si vocifera che, vedendolo passare per strada, gli abitanti di Königsberg regolassero i loro orologi. Per Kant «la monotonia di questo succedersi non era opprimente, ed è probabile che essa contribuisse, insieme all’uniformità della sua dieta e ad altre abitudini, improntate alla stessa regolarità, a prolungare la sua vita. […] Egli era giunto a ritenere che la sua salute e la sua longevità fossero in gran parte il risultato dei suoi sforzi disciplinati. Parlava di se stesso come di un ginnasta che avesse continuato per quasi ottant’anni a conservare l’equilibrio sulla corda tesa della vita, senza mai oscillare né a destra né a sinistra».

Ma infine anche la salute di Kant, che per moltissimo tempo fu perfetta come un cristallo, incominciò a presentare le prime inevitabili incrinature. Ma di questo si parla nella parte restante del libro, il cui contenuto noi però non sveleremo, perché è calata la notte – si è fatto proprio tardi, ormai –, e non sarebbe educato rimanere qui, a casa di Kant, e parlare di lui. Le nostre voci, impegnate a raccontare qualche pettegolezzo sul suo conto, potrebbero arrivare fino in camera sua e svegliarlo – il che sarebbe un vero peccato, visto che adesso dorme sereno, in attesa della “levataccia” alle cinque meno cinque di domani.

 

Gianluca Venturini

 

 

[L’immagine di copertina è una rielaborazione digitale di immagini tratte da Google immagini]

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Tra illusione e realtà: “I begli occhi di Maya”

«È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sonno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua»1.

Se Arthur Schopenhauer rendeva la dea dell’abbondanza e dell’illusione la metafora cardine della sua filosofia, di quell’esistenza che è fallace e ingannevole come i sogni, non meno fa Giovanni Pigozzo nel romanzo I begli occhi di Maya, dove Maya e i suoi “occhi” diventano oggetto profondamente concupito e ricercato, elemento cruciale dell’intreccio, che spinge i protagonisti a confrontarsi con mondi tra l’apparenza e il vero.

Tutto ha inizio dalle scoperte di un vecchio professore archeologo, una «brava persona, sulle nuvole», «forse un po’ timido», come viene descritto nel romanzo, che lascia in eredità una complicata serie di enigmi, uniti all’alone di mistero che avvolge la sua morte. A risolverli è chiamato un suo caro studente che, viaggiando per le vie di Milano, dovrà cercare di ricomporre tutti i pezzi del puzzle, rendendo onore al lavoro e nel contempo alla memoria del professore.

Non è facile trovare il filo conduttore, il bandolo della matassa che spieghi la serie intricata di vicende che lega la storia dei due “occhi” e, forse, la risposta si trova più nel passato che nel presente, in quella memoria tanto cara allo studioso di archeologia. «A che può servire vivere, se non puoi ricordare? Perché hai voluto bene, se non puoi ricordare un volto che hai amato? Perché essere felici se una mattina non sai di esserlo stato?»2.

Il presente, in fondo, è soltanto l’ultima estremità di un passato millenario, il risultato delle vicende che hanno interessato persone e popoli appartenenti a realtà altre. Così come ognuno di noi è la somma delle esperienze e delle identità che hanno segnato la sua persona e il luogo in cui vive, anche i due smeraldi verdi sono il frutto del passaggio di epoche diverse, che hanno lasciato i segni della loro presenza.

Ecco dunque che il romanzo arriva ad abbracciare uno spazio di tempo dilatato: dalla Roma classica al medioevo, fino alla Milano contemporanea. Storie antiche, incise su pergamene, prendono magicamente vita e il lettore si trova a camminare prima tra le strade di Aquileia, poi a fianco al Duomo di Milano, trasportato nel tempo e nello spazio assieme ai personaggi.

Ma si tratta di sogno o realtà?

«Qualche volta mi sveglio all’alba e mi chiedo intontito se il mondo non sia solo il sogno di un dio addormentato: un tempo in cui esiste un presente, ma per lui scorre diversamente»3 si interroga una mattina il protagonista, ancora ignaro del ruolo di cui sarà investito. Forse i significati degli oggetti vanno oltre ciò che abbiamo immaginato, può darsi che un codice racchiuda più indicazioni di quelle aspettate, oppure che una poesia avvolga in metafora uno spazio fisico; tutto può nascere come finire nella nostra mente, il confine tra vero e non vero si dispiega nell’intervallo di un velo sottile, indefinibile. La realtà, dunque, deve essere indagata, come ci insegna il nostro caro protagonista; il piacere della scoperta è sempre presente in colui che non si accontenta di frasi fatte, di supposizioni, ma cerca e filtra il mondo con sguardo critico, aperto a nuove soluzioni e prospettive.

«Ti vuoi arrendere? Io non mi fermerò»4 sostiene con fermezza l’io narrante, pronto ad andare fino in fondo ai suoi ragionamenti, senza abbandonare al primo ostacolo.

Un invito a non rimanere nel “sonno della mente”, a lasciarsi illudere solo nella misura in cui l’illusione può farci apprendere qualcosa di utile per il presente, diventando una sorta di sogno rivelatore.

Un romanzo che tocca le radici del nostro passato, facendo percepire quel legame nascosto che sempre permane tra noi e l’antico, ponendoci nell’ottica dell’investigatore o dello scienziato, mai sazio di esperienze.

 

Anna Tieppo

 

L’autore. Giovanni Pigozzo è nato alla fine degli anni Ottanta nella campagna veneta, si è trasferito a Milano vent’anni dopo. Ha esordito come scrittore di racconti brevi confluiti nella raccolta dei Racconti a luce spenta (2014), cui ha fatto seguito un denso racconto (lungo) in edizione singola, Mi fa male il tuo dolore, edito nel 2016. Questo è il suo primo romanzo.

NOTE:
1. A. Schopenhauer in Domenico Massaro, La comunicazione filosofica, Tomo A, 3, Trento, Paravia, 2002, p. 10.
2. G. Pigozzo, I begli occhi di Maya, FdBooks, Bologna, 2016, p. 64.
3. Ivi, p. 50.
4. Ivi, p. 89.

 

[immagine tratta da google immagini]

 

I begli occhidi Maya