Meaning seeking come dimensione della motivazione

Montale diceva che il solo vivere non basta. Ancora prima, per Platone l’umano è come un otre forato: la biologia non basta. Le pulsioni e le funzioni biologiche non sono abbastanza: ognuno di noi è un progetto incompiuto con la vocazione a realizzarsi. Essa passa attraverso la ricerca di un significato, di un senso, che è ciò che si vive e si sente. Noi siamo esseri alla ricerca di un significato, viviamo secondo il principio dello scopo. Il nostro essere desideranti passa attraverso lo scopo.

Ciò che gli anglofoni chiamano meaning seeking è una dimensione fondamentale della motivazione ed è ciò che permette la realizzazione delle possibilità. Possibilità che spesso richiedono una profonda trasformazione dell’Io per essere portate a compimento. La motivazione è ciò che contagia sia l’Io sia gli altri permettendo la realizzazione di progetti di senso. Ognuno di noi necessita di un significato per affrontare l’esistenza. La sofferenza e la tensione monopolizzano la coscienza, che si libera dalle catene solo con il vento della motivazione e del valore.

Ciò che ha davvero significato richiede impegno e fatica. Solo la motivazione avvia, guida e mantiene comportamenti mirati. Solo la motivazione ripaga gli sforzi e gli ostacoli affrontati. L’impulso motivazionale si ha ogni volta che l’individuo avverte un bisogno, che rappresenta di fatto la percezione di uno squilibrio tra la situazione attuale e quella desiderata. Il bisogno è, quindi, uno stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi i mezzi necessari per riuscire a realizzarlo o sublimarlo.

Una suddivisione divenuta ormai classica distingue tra le motivazioni intrinseche e quelle estrinseche. Le prime inglobano i bisogni innati che provengono dall’interno dell’individuo stesso. Le seconde, invece, sono basate su una spinta che si volge a ottenere un beneficio esterno. L’essere umano si muove in funzione di ottenere vantaggi materiali (buoni voti, fama) o immateriali (carriera, potere).
A tal proposito, affascinante è la piramide di Maslow, ideata nel 1954 dall’omonimo psicologo, che si propone come un modello motivazionale dello sviluppo umano basato su una gerarchia di bisogni. In base ad essa, la soddisfazione dei bisogni più elementari è condizione necessaria per fare emergere quelli di ordine superiore. Alla base della piramide ci sono i bisogni essenziali alla sopravvivenza; salendo verso il vertice, si incontrano i bisogni più immateriali. Si parte dai bisogni primari e fisiologici, come cibo, acqua ed impulso sessuale a quelli di sicurezza (protezione, lavoro, salute e famiglia). Salendo, si incontrano poi i bisogni di appartenenza (famiglia o amici), quelli di stima (essere riconosciuto, realizzato) fino all’autorealizzazione, la quale altro non è se non l’aspirazione individuale a essere ciò che si vuole sfruttando le facoltà mentali e fisiche.

I bisogni fondamentali, una volta soddisfatti, tendono a non ripresentarsi, mentre i bisogni sociali e relazionali rinascono con nuovi e più ambiziosi obiettivi da raggiungere, almeno secondo Maslow. Una concezione che viene messa in dubbio dal neurologo e psicologo Viktor Frankl, che non esitò a provare come spesso, nonostante i bisogni più bassi non siano soddisfatti, un bisogno più alto, quale la ricerca di significato, può diventare più urgente. Mentre per Maslow l’essere umano è mosso dal bisogno, per Frankl, invece, dal desiderio di significato. Una “vita” significativa è, per quest’ultimo, una vita ricca di compiti, ovvero di appelli alla capacità umana di rispondere ad una problematica nella convinzione di poterla risolvere. L’essere umano sarebbe così libero di agire facendo leva sulle proprie risorse, compiendo così necessariamente degli sforzi1.

Per quanto la tematica richiederebbe un approfondimento maggiore, basti qui considerare il rischio lucidamente individuato da Frankl insito nell’autorealizzazione referenziale e solitaria. Essa, da sola, non rappresenta un criterio esaustivo per una teroria motivazionale. Da qui il concetto di autotrascendenza, che il neurologo spiega utilizzando la metafora dell’occhio. Un occhio può vedere se stesso solo in una condizione patologica di cataratta o glaucoma. Allo stesso modo, l’essere umano deve dimenticarsi di sé e porsi al servizio di una causa, dell’attuazione di un senso o della dedizione a un compito o a una persona.

Infine, rimangono alcune domanda aperte: un percorso di autorealizzazione referenziale non porta l’essere umano sul baratro della solitudine? In che misura continua ad avere senso la ricerca di autodeterminazione? E ancora: quale senso può avere l’espressione individuale fuori da un orizzonte relazionale? D’altronde, per dirla con Dante, «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante, Divina commedia, Inferno Canto XXVI).

 

Sonia Cominassi

 

NOTE
1. Cfr. Maria Teresa Russo, Etica del corpo tra medicina ed estetica, Rubbettino, Catanzaro 2008; L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti, presentazione di Daniele Bruzzone, Milano, Franco Angeli, 2010.

[Photo credit Alexis Fauvet via Unsplash]

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Pensiero laterale: perché applicarlo alla quotidianità

Non sempre per la risoluzione di una problematica è vantaggioso insistere sulla medesima soluzione. È più probabile che quella determinata situazione richieda un cambiamento di prospettiva; quello stesso movimento che Socrate auspicava per i suoi concittadini. È questa prospettiva alternativa ciò che Edward De Bono definì nel 1967 come pensiero laterale. Il concetto alla base del pensiero laterale è proprio l’idea secondo cui, per ciascun problema, sia sempre possibile individuare diverse soluzioni; alcune di queste emergono solo nel momento in cui si esuli da ciò che inizialmente appariva come l’unico percorso possibile e si inizi a cercare elementi, intuizioni e spunti fuori dal dominio di conoscenze secolari e dalla rigida catena logica. 

Nel corso dell’esistenza ogni essere umano si è trovato almeno una volta in un momento di crisi. Questo provoca solitamente un circolo vizioso dovuto a un pensiero statico, ripetitivo, capace di vedere e affrontare la situazione da un unico punto di vista. Per lo psicologo maltese De Bono, è possibile imparare a pensare in modo diverso per evitare questi loop, proprio attraverso la capacità umana del pensiero laterale. Il pensiero laterale, di natura intuitiva, è differente rispetto a quello verticale, ovvero a quella tipologia di pensiero logica e consequenziale, da sempre l’unica degna di considerazione. A volte quest’ultimo ci ingabbia e non ci permette di guardare oltre la nostra visuale, interagendo in modi differenti con la realtà.
Il pensiero laterale vede con favore il volersi sottoporre a una grande quantità di stimoli. Infatti, invece di lasciare che una sola idea faccia capolino nella propria mente, l’intrecciare molti concetti ed idee eterogenei, sviluppati magari in momenti differenti, può portare allo sviluppo di idee straordinarie. Ciò richiede una ferma volontà di non escludere alcuna sfaccettatura, perché nulla è davvero fonte di disturbo. Spesso questo incrocio di binari, o l’uso arbitrario di essi, permette scoperte e sviluppi del tutto inaspettati. Come scrive De Bono: «l’ideale, per l’intelletto umano, sarebbe di diventare una casa ospitale dove ogni apporto informativo è ben accolto e possano entrare non soltanto gli ospiti invitati o interessanti, ma anche il forestiero di passaggio e l’intruso» (E. De Bono, Il pensiero laterale, 2016).

A differenza del pensiero logico, quello laterale accetta di brancolare nel buio. Accetta il caos e il non ancora definito. Lo fa in quanto esso è lo spazio in cui per eccellenza brulicano le idee e, quindi, dove risulta più facile che emerga qualcosa di nuovo. 
Qui sta la pars costruens del pensiero laterale. Esso, a differenza di quello logico, non si limita a schemi rigidamente accettati, esso aspira a nuove idee. Idee più semplici e più efficaci che si inseriscono in un orizzonte diverso, in un  nuovo ordine, migliore rispetto al precedente. Basti pensare a chi, nonostante abbia risolto un problema in modo soddisfacente, continua a sentire uno stimolo a tentare nuove strade.
Di certo il pensiero laterale si scontra con la realtà. Ovvero, una volta concepita una nuova idea, non è facile individuare chi la metta in pratica. È sotto gli occhi di tutti come il concepimento di una nuova idea sia spesso molto più entusiasmante della sua realizzazione pratica. Solitamente, l’interesse se lo accaparrano quelle idee che mostrano in se stesse l’utile che è possibile ricavare, la loro valenza pratica.
Le idee nuove, tuttavia, rischiano di andare incontro ad una prova falsata proprio perché sono nuove. Lo spirito di conservazione rende difficile staccarsi dal passato. Si è riluttanti a dar credito a nuove idee. 

La pratica di nutrire nuove idee viene solitamente riservata ai ricercatori, quasi fosse parte integrante solamente del loro lavoro. Ciò giustifica tutti gli altri a non interessarsene, a non educare la propria mente al pensiero laterale. Ma esso è utile a tutti. A tutti coloro che necessitano di idee nuove, anche nelle piccole situazioni di vita quotidiana. Tutti possono acquisire una mentalità laterale ed essa richiede pratica: non ha delle ricette o delle tecniche specifiche di applicazione, richiede piuttosto una forma mentis, non di immediata acquisizione. È infatti faticoso abbandonare una determinata impostazione per un nuovo ordine, che scardini la prima. Chi applica una mentalità laterale si occupa di cercare nuove correlazioni tra gli elementi del problema, nutrendo così uno sguardo totalmente nuovo.

La nostra contemporaneità, come le singole esistenze, ha bisogno di persone che accolgano ed allenino questa forma mentis, che non si accontentino di soluzioni prefabbricate ma lascino vagare il proprio intelletto finché non approda su isole inaspettatamente vicine e fertili.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Dollar Gill via Unsplash]

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Consapevolezza e pratica di Mindfulness

Etimologicamente il termine consapevolezza deriva dal latino cum sapere. La sua traduzione potrebbe indicare un sapere insieme ad altri, nel senso di un confronto di prospettive ed esperienze provenienti da più viventi. In verità, credo che la parola denoti un fenomeno più intimo per cui l’essere informati o il semplice sapere non sono sufficienti. Si è lontani anche dalla conoscenza di tipo intellettuale così come da quella emozionale, che porta il conosciuto a livello del vissuto.
La consapevolezza è una condizione in cui la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona. È quel tipo di sapere che dà forma all’etica, alla condotta di vita, alla disciplina, rendendole autentiche. È la costruzione originale del modo con cui ognuno si rapporta al mondo.

Interessante è la mappa della coscienza di Hawkins, nella quale sono indicati diversi livelli strutturali. Per semplificare, si incontra innanzitutto la coscienza della mente e del corpo. In essa rientrano le emozioni più basse: paura, rabbia, preoccupazione, tristezza, rimpianti e senso di colpa. Ad esse si accompagnano, però, anche emozioni legate ad un senso di positività che denota comunque il perdurare dell’attaccamento alla materia: speranza, fiducia, ottimismo e comprensione. Questo stadio è dominato dalla dualità, da binari paralleli che contrappongono piacere e dolore, giusto e sbagliato, buono e cattivo.
Dal dualismo si ascende alla coscienza dell’anima o consapevolezza di sé. L’anima avvolta da consapevolezza osserva senza giudizio. Vive nell’unità, includendo il tutto. Non vi è esclusione, non vi è dualismo. Questo stadio della coscienza è descritto da emozioni quali Amore, Pace, Beatitudine. È un risveglio, un essere testimoni e osservatori partecipi.
Infine, la coscienza del tutto. Tutto è luce, coscienza ed energia.

Ed è proprio sull’osservazione che si costruisce la pratica della Mindfulness: una dimensione esperienziale, scaturita da una pratica personale compiuta con un certo tipo di attenzione, che favorisce lo sviluppo dell’attitudine alla consapevolezza. Nella pratica della Mindfulness, fondamentale è il termine sati, di origine pali, non facilmente traducibile, in quanto non trova posto nell’ordine simbolico. È l’istante in cui si osserva qualcosa prima di collegarlo ad un contenuto simbolico nell’ordine mentale. È lo stato mentale che accompagna il momento dell’analisi delle caratteristiche della cosa osservata.
La consapevolezza è presente nella cosiddetta mente del principiante che guarda per la prima volta e presta attenzione agli stimoli sensoriali senza emettere giudizi. Il fulcro diviene proprio questa osservazione primordiale e senza preconcetti. Una volta riusciti in questo stadio, si è più vicini al passo essenziale che consiste nel “lasciar andare” ogni sensazione percepita senza respingerla, ma lasciandola scorrere per osservarla così com’è. Per fare questo, è necessario accettare la presenza della sensazione, per quanto possa essere positiva o negativa.
L’obiettivo della pratica è uno stato mentale attento, che osserva lo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento. Siamo così testimoni primordiali, che guardano alla natura essenziale di qualunque percezione interna od esterna al sé e la lasciano scorrere così com’è, senza respingere o pretendere di modificare alcunché.
Si osserva come tutto è transitorio, nulla è permanente.

Lungi dall’essere una tecnica di rilassamento per svuotare la mente, è un atto che sviluppa la capacità progressiva di maggiore presenza al qui ed ora e che apre a esperienze inaspettate, alla ricchezza del momento presente, alla pienezza del vivere. Dall’altro, la pienezza dell’esperienza comprende necessariamente anche il suo lato “negativo”: il disagio, la sofferenza, il dolore. Quest’approccio ci chiede e ci insegna di non respingere e a non negare questa dimensione ma a farne motivo di crescita. Questo è l’aspetto cui si riferisce la parola “accettazione/accoglienza”.

La negatività non può essere evitata e la pratica della Mindfulness offre una possibilità a prima vista contro intuitiva, forse assurda: accettare il disagio e la sofferenza, imparare a rivolgere piena attenzione a quello che non piace, che non vorremmo o che causa dolore. In questa prassi apparentemente incomprensibile di fare spazio, di lasciar essere e quindi di essere meno condizionati, meno oppressi anche dalle condizioni che portano disagio. E, paradossalmente, facendo questo forse ci si può mettere nelle migliori condizioni possibili per trovare, quando ci sono, le vie e i modi più efficaci per gestire o risolvere le cause di sofferenza.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Tiard Schultz via Unsplash]

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Serie tv e differenti prospettive sulla guerra

Scorrendo le diverse serie TV presenti sulle maggiori piattaforme che oggi offrono anche cinema e intrattenimento, si scoprono dei gioielli la cui visione è spesso appannaggio di pochi esploratori. Tra questi, si scoprono mini serie televisive affascinanti e meno di nicchia di quanto potrebbero pensare i più. È il caso di Band of Brothers e The Pacific, entrambe con la produzione esecutiva di Tom Hanks e Steven Spielberg. Entrambe con una componente storica e realistica molto forte. La prima è tratta dal libro Band of Brothers di Stephen Ambrose, da cui prende il titolo il film, ed è strutturata sulla base di testimonianze di chi, quell’atroce avventura, la visse. 

La seconda, invece, è principalmente tratta dalle memorie di due Marines, Eugene Sledge e Robert Leckie, autori rispettivamente di With the Old Breed e Helmet for My Pillow, le cui esistenze, insieme a una terza, sono al cuore delle vicende narrate.

Confrontando le due serie emergono modalità differenti di vivere la guerra. In Band of Brothers non abbiamo dei protagonisti che occupano una posizione preminente rispetto agli altri personaggi. A ben guardare, non ci sono personaggi principali o secondari. Piuttosto una regina che trionfa tra la fame e il gelo: la fratellanza. Fratellanza che si crea e si rafforza come dita nodose tra i soldati della compagnia Easy. A fianco del maggiore Dick Winters, infatti, ruota un gruppo di soldati le cui difficoltà, asprezze quotidiane e paure emergono equamente e con pari interesse in chi le mostra allo spettatore. Non si tratta di un approccio monumentalista né eroicocentrico: non troviamo esaltazione del singolo, bensì occhi puntati sulle relazioni interpersonali ed i legami che vengono a crearsi.  

Al contrario, in The Pacific gli autori hanno scelto di incentrare la storia su tre specifici Marines: il soldato di prima classe Robert Leckie, il caporale Eugene “Sledgehammer” Sledge e il sergente di artiglieria John Basilone, mentre i restanti personaggi sono un contorno non ben definito e poco caratterizzato che funge “da spalla narrativa” alle vicende dei tre protagonisti.

Trovo apprezzabile come la guerra sia qui letta da un lato maggiormente introspettivo e riflessivo. Di conseguenza, dare maggiore risalto a tre singoli protagonisti è funzionale ad amplificare questo aspetto. Non solo. In questa ottica, ognuno dei tre protagonisti è portavoce di una diversa concezione di vivere e giustificare la guerra. Da un lato abbiamo il sergente John Basilone, Marine purosangue: in più momenti della serie gli autori lasciano trasparire come per lui il corpo dei Marine vada oltre ogni altro principio che non siano Dio e la famiglia. Per Basilone non serve una giustificazione alla guerra, lui è un Marine e la sua Patria è stata attaccata. Il soldato Robert Leckie, invece, viene sempre mostrato come riluttante alla guerra, intento a porsi interrogativi sul suo significato, sull’auspicata fine e la sua giustificazione, esprimendo sempre la mai celata volontà di voler tornare a casa al più presto. Tuttavia, il personaggio più complesso ed il cui aspetto emotivo è messo più in risalto è il caporale Sledge. In quest’ultimo l’evoluzione e, poi, involuzione morale è evidente.

Per lui la guerra rappresenterà un mutamento di convinzioni e avrà un ruolo devastante. Ansioso di poter essere reclutato, quando fa il suo ingresso sul campo viene mostrato come un ragazzo di sani principi morali; presto però perderà la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato. Agirà come coloro che il ragazzo di sani principi avrebbe disprezzato. Tornato a casa, non indosserà mai più la divisa.

Vi è un altro aspetto interessante. Se in Band of Brothers la vita dei soldati era incentrata, quasi esclusivamente, sulle vicende al fronte, in The Pacific gli autori dedicano ampia parte della storia alle vicende vissute in patria: il sistema di propaganda per la vendita dei War Bond, il reclutamento di giovani soldati, le vite affettive di questi, il modo in cui la guerra verrà vissuta dalle rispettive famiglie e, infine, il ritorno in patria.

Un ritorno molto toccante. Giovani soldati, poco più che maggiorenni, fanno ritorno a una casa mai mutata con profonde ferite spirituali e senza avere alcuna esperienza idonea per reperire un adeguato lavoro. Basti pensare alle pungenti parole di Sledge: “ho imparato ad uccidere i giapponesi e so farlo molto bene”. Non sanno fare altro che uccidere.

Si potrebbe dire: una guerra meno sentita, quella in Europa, ed una, invece, che ha toccato al cuore gli Stati Uniti nel Pacifico.

Da entrambe le serie emerge la guerra che dilania. La guerra che dispera. La guerra che distrugge. La guerra che disumanizza. Eppure, non manca la riflessione, propriamente umana, il pensiero critico ed il moto di propensione verso l’altro. Un moto volto al costruire, al sopravvivere insieme e non al distruggere.

 

Sonia Cominassi

 

[immagine tratta dalla copertina della serie TV Band of Brothers]

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Ruth Bader Ginsburg: il soggetto che si afferma

Era una serata piovosa quella in cui mi recai in un piccolo cinema della mia città a vedere Una giusta causa. Quel genere di cinema che amo definire esortativo, capace di infondere coraggio e intraprendenza nello spirito più assopito.

La prima giusta causa che noto è la non conoscenza, l’alone nebuloso che avvolge in Europa la figura della statunitense Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte Suprema e oggi anche indiscussa icona (e non troneggia solo su t-shirt, tazze e tatuaggi). Nata a Brooklyn nel 1933 da genitori ebrei immigrati dalla Russia, è divenuta, a partire dagli anni Sessanta, una delle figure principali nella lotta per la parità di genere. Come la melodia inziale Ten Thousand Men of Harvard anticipa, Ruth fu una delle nove donne che nel 1955 si iscrisse alla Harvard Law School, andando a occupare un posto dove avrebbe potuto sedere il cinquecentunesimo uomo. Rifiutata dagli studi legali per i quali era pressoché impensabile avere una collega donna, Ginsburg fa dell’insegnamento la sua aula di tribunale dove dimostrare, con i toni e i modi a lei propri, per nulla collerici, ma pacati e fermi, che la discriminazione esiste. La discriminazione è legale. Esistono leggi e relative applicazioni basate sul sesso, come recita il titolo originale: On the Basis of Sex.

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Immobile dinanzi allo schermo, mi è tornato in mente uno dei testi più belli che Virginia Woolf abbia scritto, Le tre ghinee, pubblicato nel lontano 1938: ad oggi un vero e proprio “classico” della letteratura femminista. Il titolo si riferisce alla somma di denaro di cui dispone l’autrice, la quale ha ricevuto tre richieste di donazione, per così dire. La prima da parte di un’associazione maschile pacifista, la seconda rivolta ad aiutare gli esigui istituti superiori per le donne e la terza proveniente, invece, da un’associazione che supporta le donne nell’inserirsi nel mondo delle libere professioni. La prima ghinea Woolf la destina all’istituto di istruzione per ragazze a condizione che quest’ultimo offra un’educazione che non sia la sterile replica di quella maschile, ma che costituisca bensì una cultura differente che formi alla pace, ossia contribuisca a “produrre il tipo di società, il tipo di persone che possano prevenire la guerra”1.. La seconda ghinea la dona all’associazione che aiuta le donne nell’accesso alle libere professioni, così che queste non vengano gestite solo da uomini. Al contrario, le donne devono portarvi il loro modo di essere, di comportamento e di sentire. La terza ghinea, invece, la consegna all’associazione pacifista maschile che lotta contro la guerra e i regimi totalitari.

Io credo che la Ginsburg abbia agito rivendicando un proprio e personale ruolo nel mondo forense. Infatti, la magistratura dell’epoca non era per nulla consapevole di come centinaia di leggi fossero basate e favorissero la discriminazione di genere. È qui che apporta il suo personale sentire: stanando la discriminazione di genere annidata in svariate leggi dei codici statunitensi. Ella diviene pubblicamente, andando oltre la sfera privato-domestica, l’altro dell’uomo e, a livello microscopico, del marito Martin. Altro perché ha una percezione diversa. Altro perché offre una diversa interpretazione dei codici normativi. Per venire riconosciute come altro è necessario muovere il primo passo fuori dalla condizione di sottomissione e oppressione dettata dal modello patriarcale, che, detto in altri termini, significa essere economicamente indipendenti. La Ginsburg vuole lavorare, è un essere pensante dotato di una propria intelligenza e, come tale, desidera metterla a frutto. Ciò equivale all’abolizione della schiavitù di una metà dell’umanità, per dirla come la De Beauvoir de Il secondo sesso

Abolire la schiavitù permette alla società di vivere una nuova stagione, di vedere rifiorita la spontaneità, la libertà e la dignità. Invece di una differenza tra maschio e femmina conflittuale e crudele si può passare ad una differenza che si riconosce reciprocamente tra soggetti, di pari dignità e libertà, solo altri l’uno dall’altra. La discriminazione di genere è un insieme di parole altre, che porta con sé nuove pratiche e nuovi metodi, dove ogni donna può apportare il suo proprio sentire e la sua propria intelligenza. Credo si sia sempre altri nel mondo a seconda del punto di riferimento che si tiene in considerazione. Tuttavia, l’altro non è meno soggetto di ciò che è di volta in volta l’io. È tutto qui: il riconoscimento che si è sempre di fronte ad un soggetto, altro certo, ma pur sempre con una soggettività propria che non si lascia schiacciare a mezzo, ma si erge kantianamente a fine.

 

Sonia Cominassi

 

 

NOTE
1. V. Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 57-58.

 

[Photo credit Award Today]

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La fragilità umana: una bellezza da custodire

Imperfezione deriva dal latino perficere – letteralmente compiere – che va ad indicare il non compiuto, non finito, ciò che deve ancora venire a completarsi. L’essere umano è la personificazione materica stessa di questo termine. Credo che l’imperfezione sia la fonte stessa della narrazione: dove vi è perfezione, là scema il raccontare. La parola perde la propria capacità diventando completamente superflua. L’uomo, invece, è parola.
Nessuna narrazione dell’umano sull’umano può prescindere da quella che è una delle caratteristiche peculiari e connotanti di questi: la vulnerabilità. Richiamare solo la capacità di agire e volere, ignorando la vulnerabilità, fornisce una rappresentazione utopica e priva di fondamenta realistiche dell’essere umano. Basti riprendere qui le parole della filosofa Martha Nussbaum: «una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità» (M. Nussbaum, La fragilità del bene, 2011).

Antigone può essere qui un esempio di grande valore. La sua è una tragedia che porta ad interrogarsi su importanti temi, quali la giustizia, i rapporti familiari, il sacrificio personale, la trasgressione delle norme. Antigone è un personaggio rivoluzionario, il cui nome porta con sé la riflessione sulla liceità degli atti umani. Chi si fa onere di tale riflessione non può trascendere la propria condizione di essere umano fallibile.
Antigone cammina verso la grotta della condanna accompagnata dall’amore per il fratello Polinice e per il diritto del singolo contro il nomos despotes. Né uno né l’altro la rendono immune dal timore, dal dubbio, da quel che già Nietzsche definì come l’assalto della realtà.
L’eroina tragica è consapevole che la sepoltura data al fratello contro la legge di Creonte non può che condurla verso la sua fine. Una consapevolezza che non può portare con sé alcuna gioia, ma solo la risolutezza a non cedere alla paura e al desiderio di volgersi indietro per imboccare una via meno dolorosa. Antigone anela la morte, ma non certo con gioia. La sua è una scelta quasi del tutto obbligata, data dalle circostanze che le rendono preferibile gli inferi al mondo dominato dall’arbitrio umano.

È chiaro, quindi, che le molteplici capacità e la consapevolezza che l’essere umano può acquisire nel corso della sua esistenza non possono debellare la fragilità che lo caratterizza. Antigone ci insegna a sopportare i dolori dell’esistenza: la sua superiorità sta nella consapevolezza della caducità della vita, manifestata attraverso l’esasperazione dell’esperienza della sofferenza, elevata ad arte.
Appare qui una struttura triangolare in cui la fragilità umana viene continuamente a confrontarsi e, quindi, scontrarsi. L’essere umano accede alla propria condizione di vulnerabilità attraverso la mediazione del corpo, del tu e del noi.

Innanzitutto, come il filosofo francese Vladimir Jankélévitch ha lucidamente puntualizzato, «l’uomo è fondamentalmente vulnerabile […] la morte può entrare in lui attraverso tutte le giunture del suo edificio corporeo» (V. Jankélévitch, Pensare la morte?, 1995). La fragilità o vulnerabilità è coestensiva alla vita: ogni creatura vivente è esposta al rischio di essere ferita e spezzata nella sua integrità a causa dei più svariati fattori esterni o interni quali violenze e malattie. In termini antropologici, la vulnerabilità del vivere indica come la promessa inscritta nella vita sia sempre esposta al rischio di essere ferita, spezzata, interrotta (P. Sequeri, E. Garlaschelli, L’umano patire, 2009). È solo grazie al corpo, infatti, che ciascuno si intuisce come un essere che nasce, cresce, invecchia e muore, che agisce e patisce, che sente dolore e piacere.

In secondo luogo: l’altro, il “tu”. La presa di coscienza del corpo come “proprio” procede di pari passo alla relazione instaurata con l’altro da sé. L’identità di sé si costituisce solamente nella relazione ad altri. L’io è sempre in relazione con alcune strette persone: la famiglia, gli amici. Si legge attraverso loro. Ci si apre a loro e in quest’apertura si scorge la possibilità di essere feriti.

Una ferita che può provenire, infine, anche dal consorzio degli esseri umani. Il suo simile può sempre agire contro di lui, lo può ferire, lo può trattare con violenza fino al punto da esporlo al rischio della morte. Basti citare brevemente Thomas Hobbes, per il quale il bisogno di sicurezza sociale è a fondamento della convivenza tra gli uomini. Questi, al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, accettano reciprocamente di rinunciare a porzioni della propria libertà (T. Hobbes, Leviatano).

Nonostante i risvolti che si possono presentare, credo che la fragilità umana sia il volto più umano dell’umano e che, come tale, vada preservato come quanto di più bello e prezioso che vi sia.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Mohan Murugesan via Unsplash]

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Dal sogno all’angoscia di volare: Icaro, il convento, Horikoshi

Quando Icaro, per vanità, si avvicinò al sole, cadde inesorabilmente. Eterno è l’ingegno di Dedalo che, per vincere l’ira di Minosse e fuggire dal labirinto da lui stesso progettato – e dove era stato confinato – pensò bene di dotare sé e il figlio Icaro di un paio di ali. Ma Icaro, sordo alle raccomandazioni paterne, per quella tensione propriamente umana di voler afferrare l’inafferrabile, si allontana, protende una mano verso il sole e cade. Smisurata appare la tensione dello spirito, soprattutto quando il desiderio è quello di staccare i piedi dalla terra. Proverbiale è la vanitas di un Icaro che rappresenta l’intero genere umano. Dagli albori della civiltà alzarsi in volo è una tensione propria dell’essere umano, quasi che la terra non sia sufficiente. 

Credo che la volontà dell’uomo corra spesso sopra i limiti e costituisca le fondamenta che strutturano i desideri. Il che mi conduce alle volontà che fanno capolino nella vicenda dell’”uccellaccio” che occupa buona parte della narrazione del Memoriale del convento di José Saramago. Man mano che le pietre della cattedrale di Mafra vengono poste, si fa corpo il sogno del gesuita Bartolomeu Lourenço de Gusmão di costruire un aerostato. Da solo l’aerostato non è nulla, se non un insieme di parti meccaniche, un assemblaggio di materiali. È fuor di dubbio che i sogni, per esser tali, devono assumere forma materica. È il soldato Balthasar, detto Sette-Soli, errabondo con un uncino al posto di una mano, a venir scelto da padre Bartolomeu per la costruzione materica dell’oggetto: per anni batte ferri e lima le travi dell’”uccellaccio”. Ma è Blimunda SetteLune, veggente dalla sconfinata dolcezza, capace, quando è a digiuno, di guardare attraverso la materia e di rubare la volontà dei moribondi, a conferire lo spirito alla materia. Sono le volontà che sostengono la materia e il tentativo dell’uomo di spiccare il volo. Qui volare è un miscuglio di sapere tecnico e sapere alchemico, di scienza, magia ed eresia: l’”uccellaccio”, così viene nominata la macchina, vola quando le volontà degli esseri umani, rubate da Blimunda e collocate all’interno di sfere, sono illuminate dal sole. 

È fuor di dubbio che la macchina rappresenti sia la possibilità di librarsi in cielo – non a caso viene definita continuamente “uccellaccio” – sia la caduta nel vuoto. L’essere umano dimostra in maniera palpabile come il desiderio di volare confluisca nel più ampio tentativo di sublimazione e di superamento dei conflitti, cosa di cui Baltasar è un ottimo esempio. Nutriamo il profondo bisogno di un sogno da condividere e costruire giorno per giorno, per dar senso a una vita tutta terrena, per rendere un’esistenza grave un po’ più leggera. Ovvero, portare avanti un progetto che colori la contingenza e dia ad essa una direzione. Di fatto, a nulla serve guardare al di fuori dell’immanenza, in attesa del responso divino. Al contempo, un’impresa di questo tipo è destabilizzante e potenzialmente capace di rivolgersi contro l’essere umano. Balthasar Sette-Soli si sentirà smarrito una volta che la macchina volante sarà ultimata, non sopporterà che essa marcisca sotto una montagna di rovi e, dopo averla fatta volare ancora una volta, accidentalmente, finirà bruciato sul rogo in luogo di Padre Bartolomeu Lourenço. 

L’incapacità di realizzare il volo è così diventata angoscia. Qui la mente corre allo Jirō Horikoshi di Miyazaki, che fin da piccolo sognò di fare il progettista e costruire un aereo dalle meravigliose fattezze fisiche ed ingegneristiche. E da qui la profonda delusione di vedere il suo aereo “Zero” asservito alla guerra. D’altronde, l’uomo da sempre non fa che usare la tecnologia per scopi bellici, facendo divenire oggetti di grande magnificenza, frutto della fantasia dell’uomo, armi di distruzione. Conferendo quindi loro una proprietà che non gli appartiene. 

Ora non è più possibile obliare il grande quesito e lasciarlo in disparte, in un cantuccio polveroso della mente. Esso si presenta in maniera prepotente e chiede una risposta. 
Ci meritiamo di volare?

 

Sonia Cominassi

 

[immagine di proprietà dell’autrice]

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Creature di moralità: l’affastellarsi di bene e male in Tolkien

Tutti noi conosciamo Il Signore degli Anelli per averne letto le avvincenti pagine o per aver visto almeno una volta il film diretto da Peter Jackson. Ognuno di noi ha sguainato la spada con Aragorn, usato la faretra di Legolas o sofferto sotto al grave peso di cui Frodo ha scelto di caricarsi. In maniera forse sorprendente, per i buoni conoscitori dell’opera, Tolkien ha affermato nella corrispondenza epistolare con la Houghton Mifflin che Il Signore degli Anelli non ha valenze allegoriche, morali, religiose o politiche. 

Eppure, il mio esercizio vuole essere quello di individuare una fisica moralmente connotata, dove ad ogni entità corrisponde una proprietà che la contraddistingue come “buona” o “malvagia”. Infatti, è arduo trovare nella storia un’entità che non sia caratterizzata in un senso o nell’altro. Ve ne sono poi alcune, credo le più complesse ed affascinanti, connotate sia come buone sia come malvagie, le quali hanno vissuto una trasformazione ontologica nel corso della propria esistenza o nel senso della consapevolezza della propria fragilità e della facilità con cui le tentazioni si presentano innanzi al cuore desiderose di trovare soddisfazione. L’ambivalenza umana ne è la rappresentazione per eccellenza: gli uomini costituiscono il punto di cesura tra i fatti morali intrinsecamente buoni e intrinsecamente cattivi. Nessuno (neppure Aragorn e Gandalf, la cui grandezza d’animo è incontestabile) è assolutamente privo del rischio di cadere in tentazione, di lasciarsi tentare dal male per venire, infine, soggiogato. 

Ciò che distingue gli animi più nobili è la consapevolezza di una fragilità che non vogliono abbia il sopravvento sulla loro volontà. Una volontà più forte di ogni fragilità, spesso accompagnata dalla grandezza della pietà e della comprensione. Invece, l’individuo che cede alla corruzione del male paga il proprio agire con la morte. Emblematico è il caso di Boromir di Gondor, soggiogato dalla volontà dell’Anello: nonostante il ravvedimento immediato, pagherà il suo errore morendo. L’esempio più tragico di corruttibilità umana rimane tuttavia il tradimento di Saruman, colui che per la sua profonda conoscenza finisce per cadere in tentazione e farsi traviare dal male. Il suo è un tradimento più grave di ogni intrinseca malvagità: egli avrebbe potuto compiere azioni buone, ma sceglie la via della malvagità lasciando che l’oscurità lo avvolga completamente.

Allontanandoci dagli uomini, la gradazione morale più pura tra gli esseri pensanti è quella degli Elfi. Il pensiero corre qui spontaneamente verso Elrond di Granburrone, Galadriel e Celeborn di Lothlorién: essi sono un ideale morale la cui statura si evince innanzitutto dalla caratterizzazione fisica di esseri splendenti, senza età, dai capelli color dell’oro o dell’argento, dalla profondità perduta dei loro occhi. Una silenziosa profondità simile a quella degli Ent, alberi semoventi, la cui presenza nel mondo delle Terre di mezzo è attestata sin dall’inizio dei tempi.

Lungi dalla perfezione elfica, i Nani ricevono comunque una positiva connotazione, almeno così appare dal pressoché unico esemplare a fare capolino nella storia, Gimli figlio di Gloin. Tuttavia, una rimbombante eco di sottofondo ricorda come l’avidità con cui hanno scavato negli abissi della terra li abbia portati a conoscere da vicino la malvagità originaria e le sue orride creature.

Poco differenti per statura dai nani, gli Hobbit sono creature placide e pacifiche: amanti della tranquillità, del bosco e della tavola. Non si contraddistinguono né per l’acutezza dell’ingegno e neppure per ambizioni di grandezza, eppure essi sono le più stupefacenti sorprese. Scontato sarebbe parlare di Frodo; credo piuttosto che il suo giardiniere, Sam Gangee, sia investito di una nobiltà d’animo e di una virtù che non è facile da eguagliare. Egli è la perfezione hobbit. La sua virtù è la più alta: il saper provare fiducia, condivisa dai personaggi più illustri ed eroici (da Aragorn a Galdalf fino al capitano di Gondor, Faramir). Come ammette lo stesso portatore dell’Anello, senza il suo Sam egli non sarebbe mai riuscito a percorrere il viaggio verso il Monte Fato.  

È interessante notare come la moralità interessi anche gli animali e le cose. Cavalli, nazgul, aquile e olifanti sono determinati sociologicamente dall’ambiente da cui provengono e in cui sono cresciuti. Così i cavalli del Mark sono destrieri coraggiosi e veloci come il vento, mentre gli animali di Mordor sono esseri traviati e martoriati dall’Oscuro Signore. Anche gli oggetti sono caratterizzati moralmente, ma la loro proprietà morale dipende da quella del loro possessore o dal luogo in cui si trovano. Basti pensare alla pietra Palantir: l’uso che ne viene fatto di volta in volta la determina moralmente anche se in via temporanea. Dal canto suo, l’oggetto degli oggetti, l’Anello, ha natura ambigua ed innegabile è la sua capacità di alterare la volontà e di sbiadire le intenzioni di chi lo detiene.

Accanto a questi si trova la lunga schiera di entità irrimediabilmente traviate. Ciò che è frutto del male non è di per sé qualcosa di originale ma è una brutta copia di qualcos’altro. Infine viene il male perfetto, incarnato da Sauron. Il male agisce come la proprietà di un’entità capace di esercitare solo effetti negativi per tutti gli esseri viventi o, ancora, come un’entità capace di generare un’oscurità sempre più cupa intorno a sé.

Si può, dunque, dedurre che solo il male è assolutamente puro e incontaminabile: per cessare di avere diretta influenza sul resto della realtà deve venir eliminato. Al contrario, il bene è la proprietà di qualunque entità capace di produrre intenzioni buone e dagli effetti positivi perduranti, a meno che non si sia corrotti dal male. Questo il senso ultimo della guerra per la Terra di Mezzo.

 

Sonia Cominassi

 

[In copertina una scena tratta dal film Il signore degli anelli. La compagnia dell’anello che mostra alcuni dei personaggi citati]

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Una parola per voi: governare. Giugno 2019

«[…] se per chi dovrà governare troverai un modo di vita migliore del governare, ottima potrà essere l’amministrazione del tuo stato, perché sarà il solo in cui governeranno le persone realmente ricche, non di oro, ma di quella ricchezza che rende l’uomo felice, la vita onesta e fondata sull’intelligenza. Se invece vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti di dover ricavare il loro bene di lì, dal governo, non è possibile una buona amministrazione: perché il governo è oggetto di contesa e una simile guerra  civile e intestina rovina con loro tutto il resto dello stato».

Da La Repubblica di Platone

 

Il 2 giugno è la Festa della Repubblica Italiana. Si ricorda il referendum istituzionale indetto nel 1946, occasione in cui il popolo italiano fu chiamato a decidere in merito alla forma di stato dello stivale. Dopo la dittatura fascista e l’orrore della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia cambiò faccia e ripartì da ideali quali la libertà, l’onestà e l’intelligenza. Come scrive Platone ne La Repubblica, ogni governo, per essere definito buono, dovrebbe avere a capo un uomo (o una donna, aggiungo) che possieda questi ideali e non cerchi di trarre il proprio bene personale dal ruolo di governante. Un concetto giusto ma anche, purtroppo, ormai desueto.

Per celebrare la Repubblica Italiana e quella platonica, questo mese la parola per voi è: governare. Il cinema, la letteratura, la musica e l’arte presentano tanti esempi di buono e cattivo governo. Storie di personaggi che hanno governato solo per accrescere il loro prestigio e la loro ricchezza, dando vita a rivolte e guerre sanguinose; di individui che, al contrario, hanno messo da parte le velleità personali per dedicarsi anima e corpo a un governo retto e intelligente.

 

UN LIBRO

massa-e-potere-chiave-di-sophiaMassa e potere – Elias Canetti

Prima di diventare un elemento peculiare delle società moderne, la massa è stata molte cose. Nelle sue memorie Canetti scrive: “È un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l’enigma nondimeno è restato tale”. Ciò che prende forma è un sentimento di astio verso un potere imprendibile e verso gli esseri umani che decidono di incarnarlo. Un potere che non può essere giusto perché è il volto di quella fragilità umana che ha sempre bisogno d’incattivirsi per confermarsi potere e che trova le masse ancora più irrisolte, forti e numerose nel loro resistere sotto il cielo.

UN LIBRO JUNIOR

il-re-che-non-voleva-fare-la-guerra-chiave-di-sophiaIl re che non voleva fare la guerra – Lucia Giustini, Sandro Natalini

La storia ci insegna che i più grandi re di ogni tempo hanno avuto grandi eserciti con i quali affrontare il nemico e conquistare nuovi territori per allargare i confini dei loro regni. Raramente viene ricordato Re Fiorenzo, sovrano decisamente atipico, perché non voleva eserciti, né guerre né nemici. Un album illustrato da leggere ai bambini dai 3 ai 6 anni. 

 

UNA CANZONE

civil-war-chiave-di-sophiaCivil War – Guns N’ Roses

Una canzone di condanna verso tutti i soprusi dello stato, in questo caso quello americano, che attraverso diritti negati, false promesse e guerre ingiustificate, tende ad arricchire quanti governano e ad impoverire e danneggiare la popolazione (“And I don’t need your civil war, it feeds the rich while it buries the poor. Your power hungry sellin’ soldiers, in a human grocery store“). Chiaro l’intento del testo, che entra inevitabilmente in testa grazie ad assoli spettacolari: la canzone mira ad infondere consapevolezza e volontà di riscatto (“Look at the shoes your filling
Look at the blood we’re spilling. Look at the world we’re killing. The way we’ve always done before. Look in the doubt we’ve wallowed. Look at the leaders we’ve followed. Look at the lies we’ve swallowed. And I don’t want to hear no more“).

UN’OPERA D’ARTE

george_grosz eclissi di sole chiave di sophiaEclissi di sole – George Grosz (1926)
 
Il celebre dipinto Eclissi di sole, realizzato dal grande artista tedesco George Grosz in un’epoca di grandi difficoltà finanziarie per la Germania, si presenta come una perfetta allegoria di un governo corrotto, guidato da una élite militare sanguinaria controllata astutamente da una classe dirigente senza scrupoli, fatta di ricchi banchieri e grandi industriali. La scena è eloquente: un uomo dell’alta società sta in piedi e suggerisce all’orecchio di un generale le decisioni da prendere al tavolo del governo, al quale sono sedute figure di uomini senza testa, che simboleggiano la totale passività di ministri e consiglieri, burattini nelle mani della classe dirigente. Sopra il tavolo è ben visibile un coltello dalla lama insanguinata, chiaro riferimento alla violenza attuata dai governi di regime guidati dai capi militari. L’eclissi di sole, titolo dell’opera, è visibile sullo sfondo: il simbolo del dollaro, emblema del capitalismo, oscura il sole che dovrebbe illuminare la tetra città raffigurata alle spalle del generale. Governare sotto l’egida del denaro significa, dunque, fare gli interessi di pochi potenti e soffocare i cittadini con la violenza e l’illiberalità.
 
 
 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Federica Bonisiol, Luca Sperandio

 

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La morte distratta, la morte che distrae

<p>XAM66129 Death and Life, c.1911 (oil on canvas) by Klimt, Gustav (1862-1918); 177.8x198.1 cm; Private Collection; Austrian,  out of copyright</p>

L’essere umano ha distratto la morte. O la morte ha distratto lui. Gli ha lasciato la lusinga della sua irrealtà. Gli ha lasciato la lusinga del suo essere spazio-temporalmente distante.

Alla fine non gli ha lasciato nulla, solo un corpo fatto di tanti piccoli tasselli che faticano sempre più a ricercare il giusto incastro. Ci provano, loro, a ritrovare un equilibrio, a riallacciare i fili che li uniscono al pezzo complementare. Ma il corpo non riesce a non piegarsi su di sé. Ed i tasselli si slegano di nuovo. I lacci non resistono: si strappano.

Si rivedono gli stessi tasselli nei molti corpi affastellati gli uni sopra gli altri del dipinto di Gustav Klimt Morte e vita (1910-1911). Ad una prima occhiata l’opera appare divisa in due parti. Ad uno sguardo più attento lo sfondo predominante è quello di morte su cui si staglia un quadretto vitale. Richiama un po’ la celebre metafora del fiore nel deserto. Come da una terra arida spunta un germoglio che assumerà colori sempre più brillanti per poi ripiegarsi sul gambo fino a sfiorare, in un moto parabolico, la terra da cui ha preso vita, così Klimt traspone su tela l’eraclitea mobilità del tutto, che, lungi dall’essere un divenire casuale o disordinato, è regolata secondo ritmi precisi. La vita succede alla morte e la morte alla vita in uno scontro perenne. Il polemos assurge a simbolo e insieme a regola di tutto ciò che avviene nell’universo: questo è caratterizzato da un’armonia superiore consistente nell’unità e identità degli opposti in tensione tra loro. Il divenire di tutte le cose è il risultato del perenne conflitto che permea il tutto. Esso trova espressione nell’incessante tensione e trasformazione di un contrario nell’altro.

Alla sinistra del dipinto si erge violacea e scheletrica la morte, di cui si intravede solo il cranio accompagnato da un lungo manto di croci e cerchi. Silente presenza, figura sottile quasi a volersi mimetizzare. È del colore della notte. Di quel blu che permette agli oggetti di fondersi nell’oscurità per agire indisturbati senza attirare l’attenzione di alcuno. Sulla destra vi sono molti corpi annodati e incastrati tra di loro che colmano l’intero spazio esistenziale. Esseri umani di ogni età e genere. Una madre con bambino è circondata da fanciulle e da un’anziana col viso giallastro del tempo rivolto verso il basso. Nella parte inferiore una commovente figura maschile sorregge e al contempo cerca conforto in una giovane donna. Tutte queste figure sono nude o avvolte da un manto di tasselli rossi, arancioni, blu, verdi, gialli. La parte alta, destra, del dipinto trasmette serenità: la bellezza della giovinezza si intreccia a quella della maternità. Tuttavia, lo sguardo viene disturbato dal volto prostrato dell’anziana e dall’abbraccio sofferente tra l’uomo e la donna.

L’opera pone l’accento sull’eros, sulla psiche, sulle energie di vita e di morte, in un’allegoria dove è chiara la dicotomia tra significato e significante, tra quello che appare e ciò che è interpretabile. Sono tutte composte e longilinee le figure umane presenti. Per alcune la morte non è ancora venuta e per altre essa è già passata e lascia un’assenza carica di dolore. Il sonno rappresentato rimanda al desiderio propriamente umano di voler allontanare la morte. I corpi assumono atteggiamenti difensivi, non possono farne a me. Si tratta di posizioni primordiali, quale quella fetale. I corpi sono riversi gli uni sugli altri, intrecciati e protetti come nel grembo materno. Provano una paura ancestrale nei confronti della morte, alla quale ognuno soggiace e il cui spettro ciascuno tenta di allontanare dalla mente mediante il sonno. Il sonno è, quindi, l’ultimo tentativo di avere la meglio sulla paura umana di perdere la vita. La morte così dipinta dall’austriaco è inquietante, inquietante nel suo essere all’erta. Non si è riusciti a distrarla oltre. Arriverà presto. Ed il chiacchiericcio heideggeriano scomparirà lasciando una nudità essenziale.

Jep Gambardella, nell’ultimo scorcio de La grande bellezza chiude gli occhi e coglie un pensiero di grande verità:

Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. […]

È impossibile sottrarsi alla vita e alla morte. Ognuna è perfettamente integrata nell’altra. Alla fine, dopo l’uomo miserabile viene lei, la morte. Fino a quel punto si era distratta. La bellezza della vita ed il godere di essa sono tutto ciò che abbiamo. Ciò che la morte infine si prende perché di maggiore valore. Non rimane che allontanare il velo del chiacchiericcio dalla bellezza per goderne profondamente: la morte non si lascia distrarre a lungo.

 

Sonia Cominassi

 

[In copertina, dettaglio dell’opera di G. Klimt, Vita e morte]

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