Il denaro non dorme mai: la filosofia della finanza

«Il denaro è una puttana che non dorme mai! È gelosa, le devi dare attenzioni e se non stai attento, un giorno ti svegli e non la trovi più»1.
Come può esserci filosofia dove tutto è accrescimento di potere, irresponsabilità e minimo senso morale come nella finanza? Ci dovremmo chiedere cosa sia in effetti la filosofia, ma diventerebbe un discorso troppo articolato.

La finanza, essendo una appendice dell’economia reale, o almeno così nacque a metà Seicento e ufficialmente nell’Ottocento, ha una propria linea di pensiero. Molte sono le teorie d’applicazione alla realtà, da utilizzare come facciata rispetto al rigoroso sistema di numeri su cui si fonda.
Una delle più spietate e contradditorie è rappresentata dall’economista Friedman2, e interpretata a livello cinematografico da Gordon Grekko in Wall Street: i soldi non dormono mai del 1987:

«È vostra la compagnia, è vero, vostra di voi azionisti, da voi fregati da questi burocrati e i loro pranzi d’affari e liquidazioni d’oro. La Tender Carta ha 33 vicepresidenti acquisiti e ognuno guadagna oltre 200.000 dollari l’anno, io ho passato gli ultimi due mesi ad analizzare cosa facciano tutti e ancora non riesco a capirlo. Sembra la sopravvivenza degli incapaci. Per me o si funziona o si è eliminati […]. Io non sono un affossatore di compagnie, ne sono piuttosto un liberatore»3.

Il paradosso, nella prima fase del discorso tenutosi davanti a centinaia di azionisti dell’azienda Teldal Carta con la presenza dei vicedirettori, risiede nel tentativo da parte del protagonista di ribellarsi all’élite. Quelle che ora appaiono le vittime di un gioco truccato, diventeranno a distanza di pochi anni i peggiori criminali dell’alta finanza. Una rivoluzione da un sistema ingiusto ad un altro ancora più ingiusto, ma quanto meno diverso.
Così ci viene proposto, ma forse è meglio lasciare da parte i giudizi morali e concentrarci su le dinamiche interne.
Il punto focale risiede nel cambio di testimone: se prima l’azienda apparteneva alle cariche istituzionali, ora passa nelle mani degli azionisti, cioè di coloro che immettono nel sistema produttivo risorse finanziarie, credendo che l’azienda possa crescere. Una sorta di scommessa che può produrre ricchezza contingente a proprio rischio e pericolo. Loro dovrebbero essere riconosciuti, sempre secondo tale filosofia, come i veri proprietari dell’azienda, seppur vengano messi da parte ancora una volta gli operai che hanno la funzione di far muovere la ditta specifica sui binari reali.
Poi l’affondo finale:

«Il punto centrale è che l’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità. E l’avidità, ascoltatemi bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra disfunzionante società che ha nome America»4.

C’è un cambio di precetti morali. L’avidità risulta essere la base per ogni forma di aspirazione nel lavoro come nella vita. È forse avido di sapere il filosofo? È forse avido d’amore l’amante? È forse avido di competenze il cadetto? Siamo forse tutti avidi di vivere?

Comunque sia nella teoria di Friedman potremmo aggiungere che, diminuendo i poteri e i compensi dei capi che avevano solo una funzione di rappresentanza, le azioni avrebbero potuto salire aumentando di conseguenza i profitti degli azionisti. Infatti, tramite i dividendi che si basano su l’andamento delle quotazioni ovvero su la loro conseguente attrattiva di nuovi azionisti, avrebbero portato un bottino sempre più abbondante. È come allungare con l’acqua la limonata per poterne vendere di più, abbassando i costi di produzione.
Il problema sorge nel momento in cui non ci sia freno all’ingordigia. Quando non si contano più i danni diretti o indiretti provocati a lavoratori, ambiente o alla stessa azienda a lungo termine.

Un’altra conseguenza è la diminuzione degli investimenti per innovazione e sviluppo della stessa azienda. I fondi per ricerche e accrescimento infatti, verrebbero meno come successe ad alcune realtà economiche, dato che la percentuale maggiore dei ricavi andrebbe come premio agli investitori delle quotazioni. Il danno ricadrebbe a discapito dei nuovi orizzonti di investimento e di occupazione, unici fattori tra l’altro per imprimere effetti positivi su l’economica reale.
Non è un caso che il mito secondo il quale più il mercato azionario cresce più l’economia ne beneficia è stato smentito negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi del 2008 e dopo una scrupolosa comparazione tra salari e andamento dei consumi rispetto alla crescita delle quotazioni finanziarie. È vero piuttosto il contrario: quando la borsa crolla, la segue a ruota l’apparato economico.
I diritti degli azionisti risultano così squilibrati rispetto al peso della bilancia e la ricompensa per il rischio assunto nell’investendo risulta altamente iniquo.
Un nuovo squilibrio dunque che ci porta al punto di partenza.

Forse, il problema alla base di tutto è la stessa merce di scambio ovvero il denaro. Locke ad esempio, un pensatore inglese di fine ‘600, lo descrisse come un tacito accordo che fece dell’ineguaglianza una invenzione dell’uomo e non della natura. Per Gekko è solo qualcosa che non si vede, dove qualcuno vince e l’altro perde. Il denaro in questo caso né si crea, né si distrugge. Semplicemente si trasferisce da una intuizione ad un’altra, magicamente. E il capitalismo è il suo massimo.
Fortunatamente non è solo una questione di economia ma anche di legge: cambi la legge, cambi l’andamento.

Infine, c’è da chiedersi se è solo avidità personale di denaro o desiderio di accumulo illimitato la motivazione verso tutto questo. Ancora una volta Gekko risponderebbe al di là del senso comune:

«Non sono importanti i soldi, è la competizione. È giocare la partita e vincere. È solo questo»5.

Peccato che sia solo un film, e non la vita reale.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1-3-4-5. Citazioni dal film Wall street, 1987, regia di Oliver Stone.
2. Milton Friedman, Brooklyn, 31 luglio 1912 – San Francisco, 16 novembre 2006: economista statunitense, esponente principale della scuola di Francoforte.

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Giovani e azzardo

Amato come il rischio, odiato comea prigione.

Il gioco d’azzardo è da sempre qualcosa che affascina l’uomo, facendo credere di essere alle redini del comando, avvolgendolo nel caldo manto del “tin-tin” ripetuto delle macchinette che fingono di regalare soldi.

È un vizio, ma non di quelli da una notte e via, così sarebbe semplice avere il coltello dalla parte del manico; il gioco d’azzardo è un cannibale che ti divora piano piano, pezzo per pezzo, partendo dalle cose materiali che possiedi, fino a sbranarti l’anima.

Eppure, ben sapendo tutto questo, il gioco d’azzardo si diffonde a macchia d’olio e purtroppo anche tra i più piccoli; non parlo solo di figli di accaniti genitori (magari! Almeno ci sarebbero una spiegazione logica e un capro espiatorio), ma anche di bambini provenienti da famiglie normali, ma forse talmente normali da sfociare nell’ingenuità più profonda, tanto da portare loro stessi i figli a giocare dopo la scuola.

Il gioco è una condizione umana dettata dal bisogno di fuga dalla realtà e perciò visto come qualcosa di innocuo, divertente e rilassante. Non si scorge quasi mai il pericolo che esso possa diventare una droga di cui si avrà continuamente bisogno.

È noto ormai che il numero di giovani, soprattutto dai 12 ai 18 anni, gioca spesso d’azzardo, sia online che offline, adducendo scuse quali ‘per divertimento’, ‘per vincere soldi’ o, peggio ancora, ‘lo fanno anche mamma/papà/nonno’, dunque l’emulazione che è caratteristica tipica degli adolescenti.

Il gioco d’azzardo è, oggi, una realtà in forte espansione e la crisi economica, insieme alla mancanza di prospettive, hanno aumentato il ricorso a questa attività, che è diventata patologica per i più giovani, anche a causa della facilità di accesso ai siti internet dedicati o per la diffusione di video poker o simili in luoghi frequentati soprattutto da adolescenti.

Una domanda, però, sorge spontanea: perché si arriva alla patologia tra i giovani? L’ossessione per il gioco d’azzardo è sicuramente da intendersi come amplificatore di un disagio e, come dice il Dott. Paolo Bagnare, psicologo, in un’intervista:

“la vincita facile ha in sé un aspetto magico che fa presa in giovani individui che non si sono del tutto lasciati alle sole il pensiero magico infantile. Questa difficoltà innesca però il meccanismo che ci dice alla dipendenza. L’adolescenza è un periodo  border  caratterizzato  da una forte fragilità, durante il quale spesso si cerca un appoggio esterno per supplire alla mancanza di definizione e di forza interiore. Il giovane è anche incline a sfidare il mondo degli adulti pur non avendo ancora piena consapevolezza delle sue azioni. La Rete è sicuramente un modo per entrare in contatto con un’attività tipicamente da adulti e il denaro non è la molla principale. Gli adolescenti apprezzano l’eccitazione del gioco e la capacità di entrare in un mondo altro dove perdersi e dimenticare tutti i problemi della quotidianità.”

Il gioco, dunque, come motivatore, come aggancio da trovare in mezzo alla bufera adolescenziale che caratterizza ogni essere umano di quell’età, e come dimostrazione dal fragilità e debolezza emotiva.

Iniziare a giocare per caso, spinti dai propri genitori che come ‘premio’ di buon comportamento portano i figli in sala giochi, dimostra sempre di più l’assenza di valori e la vacuità morale che pervade la nostra società odierna, perché è palese la mancanza di dialogo genitore-figli, l’inadeguatezza dei primi nel non cogliere la gravità delle conseguenze del loro gesto alla loro apparenza innocuo e il totale oblio che mescola in un tutt’uno non impegno-divertimento-soldi-patologia (non omogeneo perché tutti e tre gli elenementi sono ben distinguibili, se ‘ascoltati).

Il morboso inseguimento del ‘soldo facile’ è una piaga ben estesa tra i giovani di oggi che, pur di comprarsi qualunque cosa, sono disposti a pagarla sempre e sempre di più, combattendo battaglie impari con delle macchinette programmate solo esclusivamente per vincere.

La nostra società ha il dovere di monitorare questa patologia sempre più diffusa, collaborando con la famiglia che per prima deve assicurare al giovane un’educazione votata al valore e al rispetto dei soldi, alla soddisfazione di sudarseli, alla capacità di guadagnarseli, sia con la scuola attraverso i racconti reali di chi la ludopatia l’ha vissuta sulla propria pelle, perché il manifesto appeso alla bacheca non serve, servono le testimonianze di chi ha vissuto l’inferno, divorato ogni giorno dalle fiamme, per poi riemergere e comprendere che la schiavitù del gioco è una dipendenza subdola ma anche superabile.

Valeria Genova 

[immagine tratta da Google immagini]