Inconscio e arte in Hieronymus Bosch

Hieronymus Bosch, pittore olandese attivo tra fine 1400 e inizio 1500, è noto per la complessità delle sue opere. Il suo linguaggio artistico è sicuramente singolare, caratterizzato da figure oniriche e luoghi curiosi, popolati da creature fantastiche e mostruose. Questo artista eclettico è protagonista di una mostra a Palazzo Reale (Milano) in quanto emblema di un Rinascimento alternativo, contrapposto al Rinascimento che fa perno sul mito della classicità. L’altro Rinascimento di Bosch è composto da mondi onirici, composizioni affollate, in cui loci amoeni, ovvero luoghi incantevoli, sono dipinti vicino a città incendiate e sono popolati da mostriciattoli, uomini con volti spaventosi e ibridi animali. Nonostante ciò, da lontano le sue creazioni possono sembrare ordinari dipinti rinascimentali.

Bosch è un artista davvero enigmatico: la sua vita tranquilla di uomo religioso si contrappone a un’arte in cui vengono alla luce demoni con sembianze di uomini, animali e/o oggetti. Queste figure informi passano dalla mente dell’artista alla tavola, immersi in ambienti fantasiosi e inquietanti, e sono figure che ben si inseriscono nella cultura del tempo di Bosch: rappresentano speranze e timori che si respiravano in un Medioevo agli sgoccioli. Il pittore mette in scena un mondo la cui unica certezza era la miseria di ogni singolo individuo, dovuta a una morale sempre conflittuale. Questo conflitto interno non è, però, legato solamente agli uomini di quel periodo, ma è presente in ciascuno di noi come continua guerra tra bene e male. Quello di Bosch è un monito: il male non è qualcosa di relegato all’aldilà, bensì è presente nella nostra realtà. La follia dell’umanità ci ricorda e il peccato e il male sono abissi in cui chiunque può cadere. Bosch, dunque, rappresenta le conseguenze di una vita totalmente lasciva e dedita al male, come vediamo nel Trittico del Giardino delle delizie (1480-1490).

Al di là delle motivazioni razionali che legano Bosch alla sua arte, non possiamo non pensare che egli sia un perfetto esempio di alcune riflessioni della psicanalisi sull’arte. Freud, per esempio, dedica una serie di saggi all’arte come sublimazione e come terapia. Il processo di sublimazione consiste nel rendere i nostri impulsi, anche quelli più infimi, attraverso un veicolo socialmente accettato. Gli aspetti dei processi creativi non sono mai sotto controllo cosciente dell’artista proprio perché l’arte permette di rappresentare le proprie pulsioni, anche quelle più profonde, come afferma Dalton Peggy, psicoterapeuta contemporanea. L’artista prende sempre ispirazione dal suo inconscio creando un mondo di finzione, quasi fosse un gioco infantile. E quale esempio migliore di mondi di finzione creati dall’arte se non le opere boschiane?

L’arte è, dunque, una sorta di terapia, sia per l’artista che per noi spettatori, poiché possiamo interfacciarci con il nostro io, toccando corde nascoste ed emozioni spesso messe a tacere. Freud usa il termine perturbante per descrivere ciò che si prova fruendo un’opera d’arte. Si percepisce, cioè, qualcosa di spaventoso e familiare, per usare un ossimoro caro al fondatore della psicoanalisi: si vuole tenere lontana l’opera ma, allo stesso tempo, si è attratti da essa perché rappresenta il nostro io, più nascosto e più vero. Questa contraddizione spiega chiaramente le sensazioni provate di fronte a un’opera boschiana. Bosch, infatti, è – come ciascun artista o ciascuna persona che crei arte, anche solo per piacere – «uomo che si distacca dalla realtà poiché non riesce ad adattarsi alla rinuncia al soddisfacimento pulsionale che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della fantasia» (S. Freud, Precisazione sui due principi dell’accadere psichico, 1911). L’arte di Bosch ci ha lasciato, dunque, diverse eredità: il legame tra arte e sogno o incubo ha colpito i surrealisti, che si sono ispirati particolarmente alle opere boschiane, tanto che il pittore olandese viene considerato precursore del movimento. Inoltre, grazie al suo rappresentare vizi e conflitti interiori, Bosch ci permette di riflettere sulla funzione dell’arte, soprattutto in stretto legame con le nostre pulsioni.

 

Andreea Elena Gabara

 

[Photo credit Johannes Plenio via Unsplash]

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Una citazione per voi: Schopenhauer e la vita come sogno

 

• LA VITA E I SOGNI SONO PAGINE D’UN SOLO LIBRO •

 

Tra gli autori che più e meglio hanno parlato del sogno troviamo Arthur Schopenhauer, che nel suo capolavoro – Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) – ci offre un interessante punto di vista. In un intrico di argomentazioni sul nesso tra rappresentazioni vere e astratte, Schopenhauer ci conduce ad una domanda spinosissima: «non potrebbe essere tutta la vita un sogno?», un interrogativo che richiama quello di Cartesio delle Meditazioni metafisiche. Se però il filosofo francese intendeva risolverlo nella degradazione del sogno a mera illusione, Schopenhauer approderà all’esatto opposto.

Anzitutto, ciò che possiamo sostenere è che il ricordo del sogno sia meno nitido e a fuoco della realtà, ma non che il sogno stesso sia meno concreto di quella. Non sono valide, inoltre, né la visione di Kant – che voleva il sogno meno autentico perché regolato dalla casualità –né la prospettiva empiristica di Hobbes, secondo cui il sogno differisce dalla vita in virtù della rottura che lo caratterizza al risveglio. Diventa allora legittima un’altra ipotesi: non sarà che non c’è rottura e alterità alcuna tra le due dimensioni? Balza agli occhi del filosofo tedesco come si dia quest’affinità strettissima, della quale non si deve aver motivo di vergogna come vorrebbero razionalismo e logocentrismo. Anzi, come hanno sostenuto in tanti – da Platone fino allo Shakespeare de La tempesta – potremmo pensare che il mondo reale sia avvolto come un sogno da un Velo di Maya, e che noi stessi non siamo altro che «il sogno di un’ombra». Leggiamo la celebre immagine che a tal proposito ci offre Schopenhauer:

«La vita e i sogni son pagine d’un solo e medesimo libro. La lettura condotta con continuità e coerenza si chiama vita reale. Quando però l’ora consueta della lettura (il gioco) giunge al termine e viene il tempo del riposo, noi spesso continuiamo a sfogliare il libro e ad aprire, senza ordine e continuità, una pagina ora qui ora là»1.

È vero, nella vita c’è più rigore che nel sogno e ci sembra che le due realtà siano a se stanti in virtù dell’evento del risveglio, che segna il passaggio da una vita mnemonica ad una mondana. Ma, guardando più da vicino, ecco che cogliamo l’illusione nella realtà così come scorgiamo un senso perfino nell’incubo più assurdo. Qui una pagina più ordinata, causale e rigorosa, ma non meno velata dal gioco delle apparenze; lì una pagina creduta caotica ma che di fatto è scritta nei caratteri di un disordine ordinato; qui un capitolo dall’ampio sviluppo, che trova il suo epilogo al momento della morte; lì uno breve, che inizia e finisce nell’arco di una notte.

 

Nicholas Loru

 

NOTE:
1. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Einaudi, Torino 2013, I, §5, p. 47.

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Lo straniamento tra Freud e Magritte

Teorizzato puntualmente da Freud ma già anticipato qualche decennio prima da altri studiosi (per esempio Meury e de Saint-Denis) l’inconscio e la sua scoperta hanno aperto un’intera e quasi inesplorata nuova dimensione a cui gli artisti hanno cominciato ad attingere, traducendo nel linguaggio artistico anche concetti ad esso connessi come quello di straniamento.

Particolarmente noto è il legame tra il Surrealismo e le teorie psicanalitiche freudiane, ma è interessante sottolineare che qualche movimento lo si può riscontrare anche nei decenni (forse persino nei secoli) precedenti. Ad una dimensione onirica inquietante ha fatto per esempio riferimento Francisco Goya (1746-1828), che può essere emblematicamente racchiusa nella sua famosissima acquaforte Il sonno della ragione genera mostri del 1799, a proposito della quale pare che Goya stesso abbia scritto che «la fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili». Quella fantasia che dà sfogo agli orrori interiori è facilmente riscontrabile anche nelle “opere al nero” del pittore Odilon Redon (1840-1916), che traccia con carboncino o traduce nella stampa le impossibili e spesso mostruose creature che popolano il suo inconscio, fortemente suggestionato dalla sua infanzia solitaria e infelice.

Le opere di Redon tuttavia sono particolarmente interessanti perché anticipano, di quasi quarant’anni, il concetto freudiano di straniamento, Das Unheimliche, spesso tradotto come perturbante, da un saggio pubblicato nel 1919. Con questo termine Freud faceva riferimento a una sensazione di angoscia e paura generata da una situazione avvertita al contempo come familiare ed estranea. Così nelle opere di Redon cominciamo a trovare immagini che mescolano oggetti e situazioni reali calate in contesti e scenari impossibili, come in L’occhio come un pallone bizzarro si dirige verso l’infinito (litografia del 1882) scorgiamo un gigantesco occhio-mongolfiera che fluttua su una superficie marina. Per Freud il sogno è contaminato della realtà ma questa viene trasfigurata e da questo nasce il perturbante: la familiarità di ciò che conosciamo si mescola con qualcosa di totalmente altro, spesso fantasioso, mostruoso, impossibile. Proprio come questo occhio mongolfiera.

Il fascino dello straniamento è tale da ricorrere in un altro grande maestro del novecento, Giorgio de Chirico (1888-1978). Nelle sue visioni metafisiche, sospese nello spazio e nel tempo e dunque (forse) collocabili in una dimensione interiore, gli oggetti della vita diurna si combinano in modo assurdo: l’arte dunque non è altro che un gioco cosciente analogo all’involontaria attività onirica. Tante sono le opere che si potrebbero citare come spunto, per cui prendiamo un po’ casualmente come esempio Canto d’amore del 1914. Qui vi troviamo un guanto inchiodato, una testa statuaria, una sfera verde, un profilo cittadino sullo sfondo: elementi del tutto reali collocati in maniera del tutto innaturale, accostati in modo apparentemente casuale che, al primo impatto, non possono che farci aggrottare le sopracciglia.

Giungiamo dunque al Surrealismo citato in apertura, il cui Manifesto (1924) dichiaratamente esplicita il suo rifarsi alle teorie freudiane, anche se – come abbiamo ormai capito – il cammino dei surrealisti si colloca su un solco già segnato, o per lo meno abbozzato, da pittori precedenti. Tra i molteplici riferimenti a concetti freudiani tradotti in arte dai pittori surrealisti (Salvador Dalì e Max Ernst tanto per citarne due) torna inevitabilmente anche lo straniamento, il cui interprete più geniale è però a mio modesto parere il belga René Magritte (1898-1967). Ancora più che in de Chirico è evidente e impattante il perturbante, poiché le tele di Magritte si popolano di oggetti e paesaggi reali combinati in modo del tutto improbabile. L’artista ci costringe in una lotta corpo a corpo con gli automatismi della nostra mente, ci sfida ad immaginare una realtà totalmente altra. Si perde in parte la dimensione angosciosa freudiana (non a caso Magritte prende più volte le distanze dal Surrealismo) e i soggetti diventano quasi un puro gioco, un esercizio di domanda. Che ci fa una tromba in fiamme su una spiaggia? O tre giganteschi sonagli sospesi nel cielo? O un bicchiere in bilico su un ombrello aperto? O degli uomini in bombetta che piovono dal cielo? La nostra ragione è sotto scacco e dobbiamo sondare dei modi alternativi con cui “vincere” l’opera. Anche la tecnica iper realistica, quasi fotografica, adottata dall’artista cerca di strapparci dalla dimensione onirica ma al contempo anche dalla realtà, facendoci precipitare in una sur-realtà, una realtà diversa. Difficile dunque trovare una sorta di “morale” o di messaggio nelle tele di Magritte; certo è che anche il mondo a occhi aperti, oltre a quello onirico, è fatto di momenti e cose stranianti, che possono provocarci angosce, ma più la nostra mente è flessibile e allenata al bizzarro e all’imprevisto, più saremo in grado di sopravvivervi.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit: immagine quadro di Magritte da flickr]

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Viaggiando tra i sogni interiori: Myricae di Pascoli

Il sogno e la dimensione onirica sono, come afferma in un suo saggio Fernando Bandini1, elementi portanti della poesia pascoliana, spesso caratterizzata da atmosfere decadenti e rarefatte, che hanno il sapore “dell’altrove”Leggendo, infatti, i componimenti della raccolta Myricae (1891), capita di trovarsi all’interno di paesaggi misteriosi, perlopiù notturni, dove i sensi colgono elementi indefiniti, lontani, appartenenti ad una dimensione altra. Si tratta di percezioni perlopiù uditive o visive, che contribuiscono a creare un’atmosfera carica di elementi simbolici.

Ciò si può notare in L’assiuolo, dove l’io poetico afferma: «Le stelle lucevano rare/tra mezzo alla nebbia di latte:/sentivo il cullare del mare,/sentivo un fru fru tra le fratte;/sentivo nel cuore un sussulto/,com’eco d’un grido che fu/sonava lontano il singulto:/chiù…» (9-16). Il paesaggio riflette una realtà indistinta, dove il canto dell’assiuolo si confonde tra la vegetazione, così come la sua immagine; non è chiaro quanto ci sia di vero in ciò che il poeta percepisce: parte di ciò che sente potrebbe essere immaginato, o meglio sognato. La scelta di ambientare il componimento tra le tenebre della notte contribuisce infatti ad ampliare la sensazione di mistero che pervade l’intera scena.
Analogamente, nel componimento Sogno, Pascoli immagina di essere ritornato nel suo villaggio, nella sua casa e vede che «nulla era mutato» e «ai morti ero tornato». In qualche modo, dunque, l’aspetto del sogno, secondo il poeta, ci mette in contatto con un mondo sospeso, in parte interiore, dove riscopriamo legami antichi, che dentro di noi sono rimasti intatti.

Il sogno, sotto altri aspetti, diventa una porta di accesso che ci permette di viaggiare, forse addirittura nell’aldilà, dove possiamo ritrovare i nostri cari defunti. Sotto questo punto di vista, esso costituisce una sorta di medium, si carica di un ruolo fondamentale nella vita dell’individuo: quello di collegamento tra due mondi da sempre separati. Pascoli realizza dunque una rivalutazione del sogno, agli albori delle teorie psicanalitiche di Freud, che di lì a poco affronteranno le tematiche dell’inconscio.

Ciò non deve far pensare, tuttavia, che il ruolo cruciale attribuito al sogno elevi quest’ultimo ad una situazione di privilegio nell’immaginario pascoliano; esso, al contrario, è perlopiù un sogno di angoscia, di dolore, che viene rievocato da suoni o da visioni lugubri, come dal «pianto di morte» dell’assiuolo. Sembra quasi che l’io poetico tema questi incontri, come se il viaggio dentro di sé, attraverso l’onirico, desti paura, destabilizzazione.
In Paese Notturno, ad esempio, l’oscurità della notte suscita l’immaginazione del poeta, che non distingue le capanne attorno e si chiede se siano un «tempio dell’antico Anubi». La campagna circostante si veste di ombre che l’io non riesce a comprendere e perciò prova una certa paura, di fronte a qualcosa che è apparentemente sconosciuto. È come se il soggetto si fosse immerso in un mondo altro, interiore, dove esistono lati non noti nemmeno a sé e tutto ciò gli suscita timore. Si percepisce inevitabilmente, in questi componimenti, l’influenza freudiana, nello spazio che il poeta lascia all’espressione dei propri sentimenti, in questo caso costruttori dell’esterno, partendo dall’interno.

In definitiva, ciò che emerge dai componimenti della raccolta Myricae ci riporta ad una visione del sogno quale elemento centrale della nostra quotidianità: porta di accesso verso altri mondi o verso noi stessi, al contempo espressione profonda delle nostre paure e della nostra interiorità. In questo senso Pascoli ci ricorda che è importante ascoltarsi, anche nei momenti in cui sogniamo, perché tutto fa parte di noi, e la realtà non è altro che l’espressione di quello che siamo, anche quando non siamo coscienti.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Cfr. F. Bandini, Sogno e visione onirica nella poesia di Giovanni Pascoli, in V. Branca, C. Ossola, S. Resnik, I linguaggi del sogno, Sansoni Editore, Firenze, 1984.

 

[immagine tratta da pixabay]

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Ad occhi aperti o chiusi, l’importante è sognare

A volte ci dimentichiamo di sognare, e non perché non pensiamo più al futuro, ma perché siamo troppo occupati ad organizzarlo, programmarlo e scandirne le tempistiche. Sembra quasi che il tempo di fantasticare abbia una scadenza specifica nella vita di ognuno di noi: si smette perché “non c’è più tempo” e quindi gli unici sogni che ci permettiamo sono quelli che iniziano quando spegniamo la luce. Tuttavia, sarebbe davvero ingiusto declassare i sogni notturni a strane immagini caotiche dopo secoli di ricerche. Nel II secolo, i Greci manifestavano grandissimo interesse nei confronti dei sogni, ritenuti in grado di predire il futuro, se uniti alla simbologia. Proprio per questo, la figura dell’interprete dei sogni era considerata quasi sacra e godeva di grandissimo rispetto. Tra questi, uno dei più conosciuti fu Artemidoro di Daldi, scrittore e filosofo che dedicò la sua vita a studiare e riportare nella sua opera Onirocritica1 i sogni di centinaia di persone che si rivolgevano a lui per trovare spiegazioni. La curiosità umana di scoprire quale oscuro significato si celi dietro ai nostri sogni non si è mai spenta nel corso della storia e ancora oggi tutti noi, almeno una volta, abbiamo googlato appena svegli quei ricordi offuscati o consultato un libro, magari comprato qualche tempo fa sperando ci tornasse utile, prima o poi.

Parlando di libri e di sognare, non si può non citare L’interpretazione dei sogni2 di Freud. Secondo lo studioso, i sogni sono una sorta di pulsione che ci spinge verso l’appagamento del desiderio, la ricerca di qualcosa che non ci è concesso quando il Super Ego è vigile. Anche durante la fase REM, ossia quando il sonno è più profondo e quando i sogni si manifestano, continua il conflitto tra il principio primario (il piacere, l’inconscio) e il principio secondario (la realtà, la razionalità) che ci impedisce di fare sogni chiari e riconoscibili. Sembra quindi che la notte sia il momento che ci concediamo per lasciare che tutti i nostri istinti, desideri e segreti escano allo scoperto, o almeno in parte. Spesso ci capita di svegliarci pieni di domande: “perché ho sognato questa persona?” o “cosa ci facevo in quel posto?”; altre volte con un po’ di imbarazzo ci chiediamo se forse non abbiamo mangiato troppo pesante la sera prima; altre ancora siamo semplicemente molto confusi e dimentichiamo quelle immagini psichedeliche in un paio di minuti.

La corrente artistica che ha come nucleo «la fede nell’onnipotenza del sogno»3 è il Surrealismo. Nel Manifesto pubblicato nel 1924, lo scrittore Breton, oltre a fare esplicito riferimento a Freud e ai suoi studi, scrive: «perché allora non accordare al sogno ciò che a volte rifiuto alla realtà, ossia questo valore di certezza in se medesima che, nella sua temporalità, non è affatto esposta alla mia negazione? […] Non può anche il sogno essere utilizzato per la soluzione dei problemi della vita?». Il Surrealismo, definendosi «un mezzo di liberazione totale dello spirito e di tutto ciò che lo rassomiglia»5, aveva l’obiettivo di esprimere figurativamente l’inconscio e l’irrazionale automaticamente, senza mediazioni. Potremmo quasi dire che i pittori cercavano di rendere il sognare realtà.

Un altro modo, non sempre facile, per trasformare i sogni in realtà è quello di realizzarli nel corso della nostra esistenza. Quando siamo piccoli dedichiamo tanto, tantissimo tempo a fantasticare su come sarà la nostra vita, il nostro “lavoro”, le nostre amicizie e le nostre relazioni. C’è chi sogna di rimanere sempre nello stesso paese e chi non vede l’ora di scoprire tutto quello che il mondo ha da offrire; chi ha in mente un progetto ben preciso e chi non esclude alcuna possibilità. Eppure, a un certo punto, ci ritroviamo a percorrere un percorso che non ricordiamo di aver scelto o ci sta troppo stretto. Se c’è una cosa positiva che la pandemia ci ha concesso (almeno all’inizio) è la chance di fermarci e domandarci se quello che stiamo facendo corrisponde davvero a ciò che sognavamo in principio o se stiamo solo andando avanti per inerzia con il terrore di perdere preziosissimo tempo. E se siamo così fortunati da poter scacciare i nostri dubbi, allora perché non lasciare la nostra immaginazione libera di sognare ancora, senza restrizioni o limiti autoimposti? In fin dei conti, citando Paulo Coelho, «c’è solo una cosa che rende un sogno impossibile da realizzare: la paura di fallire»6.

 

Beatrice Pezzella

Beatrice Pezzella, classe 2000, studia Scienze della Comunicazione all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, dopo aver frequentato il Liceo Linguistico a Treviso. Amante della lettura, dell’arte, dei viaggi e della cultura in generale, nel tempo libero scrive riflessioni su temi ispirati alla quotidianità e al mondo che la circonda.

 

NOTE:
1. Artemidoro, D. del Corno (a cura di), Il libro dei sogni, Adelphi,  Milano, 1975, 7ª ediz., pp. LVIII-366
2. S. Freud, L’interpretazione dei Sogni, Einaudi, Torino, 2014
3. A. Breton, Manifesto del Surrealismo, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 340
4. Ivi, p. 329
5. M . De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 181
6. P. Coelho, L’Alchimista, La nave di Teseo, Milano, 2017

[Photo credit Johannes Plenio su unsplash.com]

“Il sogno di un uomo ridicolo”: vincere l’indifferenza

Esiste un racconto di Dostoevskij – brevissimo, nascosto dai più voluminosi lavori dello scrittore russo – a cui non è mai stata dedicata troppa attenzione, forse perché non ha nemmeno un titolo accattivante: Il sogno di un uomo ridicolo. A sentirlo, ci si chiede che cosa avrà mai da dire un uomo che si definisce ridicolo.

Quando ci si imbatte in questo testo, l’inizio quasi non smentisce le aspettative del lettore. Vi è un uomo, di cui nulla si sa, né il suo nome, né la sua storia, ma tutto ciò che è importante sapere è che egli è ridicolo.
L’essere ridicolo racchiude ogni particolare del protagonista, tutta la sua essenza, e vi si spiega tutto il suo mistero. Nel momento in cui egli afferma che è un uomo ridicolo, che sempre lo è stato, e se ne è vergognato terribilmente, il lettore lo conosce profondamente.

Se da giovane egli provava immenso imbarazzo per se stesso, da adulto giunge a una consapevolezza che placa la sua vergogna e lo conduce a una decisione naturale: l’uomo ridicolo sa che la vita gli è indifferente, e che dunque tanto vale morire.

«Un po’ alla volta mi sono convinto che non c’è mai stato nulla. Allora ad un tratto ho smesso di essere irritato con gli uomini e quasi smisi di notarli»1.

L’uomo ridicolo giunge a considerare la morte, perché essa non è l’opposto della vita ma l’indifferenza lo è. Scoprire che le azioni, gli intenti, non sono nulla e che ovunque ogni cosa è priva di senso è il vero contrario della vita, e non la morte. L’indifferenza non è soltanto verso il mondo e gli altri ma nasce nell’uomo ridicolo come consapevolezza che egli stesso è indifferente per il mondo. L’indifferenza è il negativo che si sostituisce all’esistenza e alla sua potenza, che ingloba il protagonista, ed egli non si accorge nemmeno più della vita che cerca di catturarlo nuovamente.

Quando gli si avvicina all’improvviso una bambina in cerca di aiuto, ovvero la vita nella sua crudezza e banalità, egli è ormai sopraffatto dall’indifferenza e nulla può fare per lei, se non allontanarla.
Se la vita trascina l’essere umano nelle direzioni più disparate e nel modo più incomprensibile, l’indifferenza costringe l’uomo ridicolo a piegarsi su stesso, fino a rannicchiarsi in sé, e scomparire.
Giunti a questo punto, è allora vero che l’uomo ridicolo sembra non avere niente da insegnare a chi legge. E come potrebbe se ogni cosa è priva di peso?

Tuttavia, vi è un momento in cui nell’indifferenza che ingloba l’uomo ridicolo si forma una crepa. Egli, dopo aver scacciato la bambina, la vita stessa, ed entrato in casa con l’intento di spararsi, piomba in un sonno profondo e improvviso; sogna di essere catapultato in una terra identica alla nostra, ma in cui gli uomini sono puri, privi di angosce e colpe. L’uomo ridicolo, nel suo sogno, si imbatte in uomini che vivono, per i quali niente è indifferente, poiché sentono di non dover capire l’esistenza, ma solo goderne. Gli uomini innocenti non hanno scienza o religione, perché la vita non va studiata, o posseduta, ma solo vissuta.

«Ma il loro sapere era più profondo e più elevato di quello della nostra scienza; perché la nostra scienza cerca di spiegare la vita […]; loro, anche senza la scienza, sapevano come si fa a vivere»2.

Il sogno dell’uomo ridicolo si conclude con un paradosso: gli uomini puri vengono corrotti dalla sensualità della menzogna e dimenticano il loro stato originario. Gli uomini, la natura, gli animali non sono che strumenti, e il loro essere diviene perciò indifferente.
L’uomo ridicolo si sveglia con la verità negli occhi e nella mente, desideroso che tutti la conoscano.

Il sogno di un uomo ridicolo può sembrare l’ennesimo racconto sullo stato originario degli uomini, la storia della loro corruzione e la nascita, inevitabile, della civiltà. Vi è però un significato più profondo del racconto di Dostoevskij, che spiega perché il protagonista non può che essere un uomo ridicolo.

L’uomo ridicolo è colui che cerca di comprendere la vita, perché gli è lontana: è un mistero che non riesce a risolvere. Egli è ridicolo perché in questo fallisce e se ne vergogna. È solo tramite un sogno, cioè un’altra dimensione dell’esistenza, la stessa che gli sfugge, che egli riconosce di poter ritrovare ciò che ha perduto. Al suo risveglio, l’uomo ridicolo viene deriso dagli altri, a cui vuol donare la verità, ma egli non prova più vergogna per se stesso, poiché adesso non cerca più di metter la vita in provetta, o nei libri, ma di viverla per ciò che è.

Il sogno di un uomo ridicolo è lo scritto meno famoso di Dostoevskij e forse il racconto di cui abbiamo più bisogno in questo tempo. Uno scrittore trascorre la sua esistenza a cercare le parole giuste, e non è una vita sprecata, perché egli è un osservatore di uomini e riesce a mettere nero su bianco quel che in fondo sappiamo, ma che non siamo in grado di ammettere a noi stessi. Dostoevskij invita, con pochissime pagine, a vincere l’indifferenza, che è la vera morte della vita, il suo dissolvimento. L’uomo ridicolo, a cui non crede nessuno, è per certo colui che non può insegnare nulla, altrimenti non avrebbe imparato dagli uomini innocenti che nella vita bisogna entrare e non guardarla da un sogno.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. F. Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo, Roma, Newton Compton 2005, p.135.
2. Ivi, p. 147.

[Photo credit Sharosh Rajasekher]

 

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Il sogno di un viandante: Sbarbaro e il cammino esistenziale

Se osserviamo con attenzione le opere pittoriche del Novecento, leggiamo una raccolta di poesie dello stesso periodo o un romanzo che narra le vicende del secolo, possiamo notare come tra le immagini, spesso compare un leit motiv: la figura di un uomo che cammina per le vie cittadine, di un personaggio colto nell’atto di spostarsi o di un viandante che si riversa tra la folla.

Si tratta di raffigurazioni che hanno fatto strada, diventando metafora di una condizione esistenziale: la vita come un viaggio, un percorso in cui l’uomo si trova a dover muovere dei passi, sicuri o incerti, soli o in compagnia. In fondo che cosa significa vivere se non viaggiare? Che si tratti di un viaggio fisico o mentale, l’uomo da sempre è spinto per propria natura al dinamismo, a percorrere vie che lo conducono a successi ed insuccessi, sperimentando strade sempre nuove.

Camillo Sbarbaro, in linea con le tendenze del secolo, rende il viandante, l’uomo camminatore, il protagonista della sua raccolta Pianissimo, rappresentando un personaggio che si muove, nel mentre si trova a riflettere sui profondi significati dell’esistenza: il dolore, l’amore, la solitudine, la vecchiaia.

«M’incammino/pei lastrici sonori nella notte./ Non ho rimorso e turbamento»1. L’io poetico vaga, va oltre le case, gli alberi, la folla, si insinua nelle vie più oscure e dimenticate della città, senza trovare una meta precisa al suo viaggio, quasi fosse un ubriaco che non conosce il fine dei suoi passi. L’uomo di Sbarbaro è un uomo privo di punti di riferimento, la vita lo sovrasta, non è lui a guidare il timone della sua nave, ma si lascia trasportare dalla realtà, dalle cose, spesso si trova in difficoltà lungo il percorso, è costretto ad affrontare l’aridità del vivere. Si tratta di una chiara metafora esistenziale, non molto distante dall’immagine che altri poeti, come Leopardi, ci hanno trasmesso nella storia della letteratura.

Ciò che Sbarbaro ricorda ai suoi lettori è la condizione di ognuno di noi: sempre in cammino, spesso travagliati da una serie di dolori, inconsapevoli di dove voltarsi o dove recarsi.

Quante volte ci sentiamo anche noi «come una nave senz’ancora né vela che abbandona la sua carcassa all’onda?» Quante perdiamo i punti di riferimento a noi consueti e vaghiamo come sonnambuli «sull’orlo di un burrone» senza nemmeno accorgerci dove ci troviamo?

Proprio queste situazioni sono, secondo il poeta, l’essenza del nostro vivere, lo spazio di tempo in cui alterniamo sonno e veglia, due condizioni che talvolta si mescolano tra loro, quasi a dire che

l’uomo non vive appieno la realtà, ma spesso non si accorge di vivere.

«Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo/come in sonno tra gli uomini mi muovo./ Di chi m’urta col braccio non mi accorgo»dichiarava l’io poetico, come se la meraviglia di scoprire la realtà fosse venuta meno, lasciandolo in uno stato di perenne torpore.

Si tratta di una condizione che spesso coinvolge anche i più attenti, tanto la nostra quotidianità ci spinge a camminare velocemente, incrociando le persone senza assaporare il loro carattere o la loro personalità.

Tuttavia, come capita talvolta in alcune narrazioni poetiche e non, anche la figura umana può in qualche modo trovare una forma di riscatto, in alcuni sentimenti eterni quali l’amore per la famiglia, il radicamento alla terra, la condivisione.

«Forse un giorno sorella noi potremo/ ritirarci sui monti, in una casa/ dove passare il resto della  vita./Sarà il padre con noi se anche morto»diceva Sbarbaro, quasi sognando un nuovo incontro familiare.

In conclusione dal libro Pianissimo emergono due importanti verità: l’uomo contemporaneo tende a muoversi con velocità tra gli spazi del reale, spesso inconsapevole di se stesso; contemporaneamente, in questo viaggio verso una meta sconosciuta, è possibile amare ed essere amati, riscoprire la natura, il legame profondo che abbiamo con le nostre origini.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di Lorenzo Polato, Marsilio, Venezia 2001, p. 45.
2. Ivi, p. 60.
3. Ivi, p. 63.

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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Bene e male nel genio di Fëdor Dostoevskij: può il male permettere la vita?

Il nono capitolo dell’undicesimo libro de I fratelli Karamazov di Dostoevskij è forse quello più denso di significato di tutta l’immensa opera letteraria. Meriterebbe una pubblicazione a sé stante, tanto fecondo di concetti, riflessioni, ironia e teorie. Si passa da tesi teologiche a sociologiche, da filosofiche ad antropologiche, da scientifiche a psicologiche.

L’ambientazione è quella di una stanza, in cui il personaggio di Ivan sembra avere un’allucinazione che gli mostra, seduto sul divano, il diavolo pronto a conversare con lui. Il dibattito è carico di tensione in quanto il protagonista è convinto che si tratti di un’allucinazione, in un crescendo di collera verso quel gentiluomo modesto che cerca – almeno questo è ciò che Ivan pensa – di convincerlo della sua reale esistenza. Non dobbiamo infatti aspettarci una classica rappresentazione di Satana, in quanto è quello stesso particolare diavolo (da notare che non uso la d maiuscola) a dircelo:

«In verità te la prendi con me perché non ti sono apparso in un qualche bagliore rosso, ‘tonante e rilucente’, con ali di fuoco, ma mi sono presentato con un aspetto così modesto. Ti senti offeso in primo luogo nei tuoi sentimenti estetici, ed in secondo luogo nell’orgoglio; ‘Come,’ dici, ‘da un uomo di tale statura può recarsi un diavolo così volgare?’. No, in te comunque c’è questa vena romantica […]»1.

Una delle tesi più profonde è quella relativa alla “cattiveria” del diavolo – del male – collegata all’argomento della teodicea. È sempre il diavolo a dirci: «Io per natura ho un cuore buono e allegro […]. Per una qualche predestinazione fatta prima che il tempo avesse inizio, nella quale non mi sono mai potuto raccapezzare, io sono destinato a ‘negare’, mentre invece sono sinceramente buono e del tutto inadatto alla negazione. No, fila a negare, senza la negazione non ci sarà la critica, e che rivista sarà mai senza la ‘sezione della critica’? Senza critica si sentirà soltanto ‘osanna’. Ma per la vita la sola ‘osanna’ è poco, è necessario che questo ‘osanna’ passi attraverso il crogiolo del dubbio, e così va, roba di questo genere. io, d’altronde, in tutto questo non mi voglio immischiare, non sono stato io a crearlo, e quindi non ne rispondo nemmeno»2.

Già la prima, semplice, affermazione fa riflettere: per natura il diavolo è buono e allegro. Non per scelta, ma per natura, cioè per costituzione: per definizione. L’essenza del diavolo si scontra però con la realtà: il suo destino è quello di negare, di criticare, di distruggere. La sua essenza “buona e allegra” si concretizza in azioni tutt’altro che buone e allegre. Com’è possibile?

Ma il dialogo è ancor più radicale: «E mi hanno scelto come capro espiatorio, mi hanno costretto a scrivere nella sezione della critica, e ne è venuta fuori la vita. Noi comprendiamo questa commedia: io, per esempio, esigo in modo semplice e diretto l’annientamento. ‘No, vivi’, dicono, ‘perché senza di te non ci sarebbe niente. Se sulla terra tutto fosse sensato, allora non succederebbe un bel nulla. Senza di te non ci sarebbero avvenimenti, e invece è necessario che ce ne siano.’ Ed ecco che presto il mio servizio a malincuore, affinché ci siano avvenimenti, e su ordinazione creo l’insensato»3.

La citazione dovrebbe veramente continuare fino alla fine del capitolo, perché ogni parola è dosata col contagocce in quanto a significato – sia in sé che in relazione alle altre – ma per ora concentriamoci su questo.
La vita nasce dalla costante opera di negazione prodotta dal diavolo. Cosa significa? Ontologicamente e semplicisticamente potremmo dire che sono le differenze a permettere l’esistenza. Ovvero il fatto che due enti – per esempio una casa ed un albero – possano esistere distintamente viene garantito dal fatto che quegli enti non sono lo stesso ente – una casa non è un albero – e quindi in questo modo la loro indipendenza ontologica reciproca viene salvaguardata, e ciò permette la loro determinazione.

Il punto è che qui la parola vita potrebbe non coincidere con esistenza (in senso ontologico). Ovvero si potrebbe pensare che il diavolo stia parlando proprio del dispiegarsi dei nostri “Io” nel tempo, del nostro viaggio su questa terra che inizia con la nascita e termina con la morte. In questo senso “l’insensato” potrebbe essere ciò che per l’uomo è insensato – o ciò a cui non sa dare risposta, che non è insensato perché contraddittorio o incomprensibile – ma che in realtà è proprio quello che dà sensatezza a quella che noi pensiamo essere la sensatezza. La scopriamo così intimamente dipendente da questo insensato, che non riusciamo totalmente a comprendere ma che sappiamo avere un senso da qualche parte.

E questi sono solo due superficiali inizi di possibili interpretazioni, che possono essere veramente infinite. Memorabili sono inoltre il discorso sulla specificazione dei saperi (ed in particolare della medicina), sull’esistenza o meno di Dio – è il diavolo stesso a confessare, in prima battuta, la propria ignoranza in materia –, il destino di un’ascia nello spazio, le leggende sulla Fede, il “palmo di naso”, la continua alternanza tra realtà e illusione, discorsi sull’uomo ammiccanti a Nietzsche e molte altre.

È un testo molto lungo, bisogna dirlo, ma almeno la ventina di pagine in cui consiste questo capitolo – anche se perdono qualche significato se estrapolate dall’opera completa – vanno assolutamente lette nella vita. Abbiamo di fronte un caso di Filosofia a disposizione della quotidianità che parla il linguaggio del romanzo consegnandoci alcune delle teorie e problematizzazioni – a mio modo di vedere – più belle della Storia, dobbiamo solo essere pronti a coglierlo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

NOTE:
1. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Feltrinelli, Milano 2014, p. 882
2. Ivi, p. 875
3. Ivi, pp. 875-876

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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Falsità cosciente e sincerità incosciente

La filosofia e l’indagine filosofica ad essa collegata si prefiggono di giungere, mediante dialogo, ragionamento e logica, ad aletheia, ovverosia verità. Si può pensare a ciò come un traguardo oltre le nostre umane capacità, magari neanche possibile poiché una verità epistemica ultima capace di racchiuderne ogni altra si potrebbe non dare a noi.

Per verità si richiama inevitabilmente al concetto di indubitabilità, ad una dimensione ontologicamente completa e quindi al massimo grado di perfezione, non mancando di nessun attributo. Se fosse manchevole di anche solo una particolarità verrebbe a mancare la pienezza del tutto, si toglierebbe il tutto perché non più fedele al suo nome e sarebbe un tutto senza davvero tutto, privo di qualcosa. Quel qualcosa è un dato non da poco che fa acquisire indeterminatezza e imprecisione all’analisi filosofica volta ad una conoscenza epistemica, dunque rigorosa e incontrovertibile. In tale logica probabilistica ci si può avvicinare con un variabile grado d’approssimazione ad una conclusione, ad una tesi convincente ma falsificabile in futuro. Popper diceva che una teoria scientifica per essere tale deve correre il rischio di essere falsificata. Anche la filosofia, a mio modesto parere, compie questo processo in una successione di tesi approssimative che indagano l’animo umano, inseguendo un senso rappresentato come una continua tendenza alla verità senza mai raggiungerla. Più accurata sarà l’argomentazione più la tesi sarà solida, o meglio tenderà alla solidità e convincerà nel tempo. La convinzione, la persuasione sono elementi che contraddistinguono il dialogo umano, lo scambio di opinioni e tesi tra interlocutori che vogliono giungere ad un risultato dialettico. Cercare la verità mediante il confronto, dire la verità potrebbe essere il mezzo eppure un dialogo non sempre è composto dalla veridicità delle proposizioni degli interlocutori. Il presupposto, spesso, è già permeato da falsità, da intenti diversi da quelli che potrebbero essere quelli della ricerca di cui stiamo parlando.

I sofisti tanto condannati da Socrate sono ancora tra noi e nel loro argomentare per ottenere ragione ad ogni costo sacrificano una base veritativa fondamentale per la ricerca stessa. Viviamo in una società in cui l’inganno è una base piacevole e favorevole per il singolo che vuole emergere, avere la meglio su altre soggettività – magari annientandole – per potersi garantire il proprio benessere. L’inganno è sui volti illusori che abitano il mondo, un fiume di maschere pirandelliane che inonda le strade, le scuole, i ristoranti, le banche, gli uffici. La menzogna parte dal singolo a beneficio del singolo ma contemporaneamente preclude il benessere dei molti. Il paradosso di siffatta società consiste nell’essere composta da individui che pensano a loro stessi e la decostruiscono togliendosi, togliendo la loro funzionalità sociale, annichilendo la forma complessiva che il castello di sabbia dovrebbe avere nel suo essere realizzato dagli svariati granellini.

Se ne conviene che forse Pirandello aveva ragione quando scriveva «imparerai a tue spese che nella vita incontrerai tante maschere e pochi volti»1. Ebbene è in un volto che si può insediare la verità, o almeno il presupposto sincero per favorire il dialogo. Far cadere la maschera svela il vero volto di un individuo, ne mostra gli occhi, lo sguardo che attua già una comunicazione, fa trasparire emozioni e pensieri. La falsità cosciente della maschera può essere combattuta e abolita anche solo da uno scambio di sguardi, un’azione di riconoscimento tra soggettività che non si ignorano, bensì si scoprono, si cercano senza cedere a piegarsi all’altro. L’occhio umano è sottovalutato, è uno specchio che riflette l’interiorità dell’osservatore e svela, anzi disvela l’aletheia personale, quasi inconsciamente. Proprio l’inconscio, come ampiamente studiato e teorizzato dalla psicoanalisi da Freud in poi, pare proporsi come unica via veritativa, come espressione ed esplosione irrazionale di ciò che durante il giorno è velato da un super-io capace di diffondere e incentivare la menzogna.

In tal senso il sogno, la dimensione onirica si fa maestra ed ente esplicito dell’interiorità celata, di quello sguardo che ogni tanto desidera porsi una maschera per la vergogna, per l’imbarazzo e il conformismo sociale o adeguamento alla massa. Solo in quel momento, in quella vita notturna troviamo conforto e libera espressione, riscoprendo l’inconsistenza della libertà che tanto professiamo d’avere nella vita diurna. Anche in questo caso siamo i coscienti fautori della menzogna che in tal dimensione diviene una bugia riguardo la libertà, un’autonegazione posta da noi stessi e con altrettanta ed ingenua maestria puntiamo l’indice accusatorio verso altro da noi, verso un ente che dovrà essere colpevole di un nostro e solo nostro atto…

…quello di avere mentito.

 

Alvise Gasparini

NOTE:
1. L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Einaudi 2005

 

 

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Tra illusione e realtà: “I begli occhi di Maya”

«È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sonno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua»1.

Se Arthur Schopenhauer rendeva la dea dell’abbondanza e dell’illusione la metafora cardine della sua filosofia, di quell’esistenza che è fallace e ingannevole come i sogni, non meno fa Giovanni Pigozzo nel romanzo I begli occhi di Maya, dove Maya e i suoi “occhi” diventano oggetto profondamente concupito e ricercato, elemento cruciale dell’intreccio, che spinge i protagonisti a confrontarsi con mondi tra l’apparenza e il vero.

Tutto ha inizio dalle scoperte di un vecchio professore archeologo, una «brava persona, sulle nuvole», «forse un po’ timido», come viene descritto nel romanzo, che lascia in eredità una complicata serie di enigmi, uniti all’alone di mistero che avvolge la sua morte. A risolverli è chiamato un suo caro studente che, viaggiando per le vie di Milano, dovrà cercare di ricomporre tutti i pezzi del puzzle, rendendo onore al lavoro e nel contempo alla memoria del professore.

Non è facile trovare il filo conduttore, il bandolo della matassa che spieghi la serie intricata di vicende che lega la storia dei due “occhi” e, forse, la risposta si trova più nel passato che nel presente, in quella memoria tanto cara allo studioso di archeologia. «A che può servire vivere, se non puoi ricordare? Perché hai voluto bene, se non puoi ricordare un volto che hai amato? Perché essere felici se una mattina non sai di esserlo stato?»2.

Il presente, in fondo, è soltanto l’ultima estremità di un passato millenario, il risultato delle vicende che hanno interessato persone e popoli appartenenti a realtà altre. Così come ognuno di noi è la somma delle esperienze e delle identità che hanno segnato la sua persona e il luogo in cui vive, anche i due smeraldi verdi sono il frutto del passaggio di epoche diverse, che hanno lasciato i segni della loro presenza.

Ecco dunque che il romanzo arriva ad abbracciare uno spazio di tempo dilatato: dalla Roma classica al medioevo, fino alla Milano contemporanea. Storie antiche, incise su pergamene, prendono magicamente vita e il lettore si trova a camminare prima tra le strade di Aquileia, poi a fianco al Duomo di Milano, trasportato nel tempo e nello spazio assieme ai personaggi.

Ma si tratta di sogno o realtà?

«Qualche volta mi sveglio all’alba e mi chiedo intontito se il mondo non sia solo il sogno di un dio addormentato: un tempo in cui esiste un presente, ma per lui scorre diversamente»3 si interroga una mattina il protagonista, ancora ignaro del ruolo di cui sarà investito. Forse i significati degli oggetti vanno oltre ciò che abbiamo immaginato, può darsi che un codice racchiuda più indicazioni di quelle aspettate, oppure che una poesia avvolga in metafora uno spazio fisico; tutto può nascere come finire nella nostra mente, il confine tra vero e non vero si dispiega nell’intervallo di un velo sottile, indefinibile. La realtà, dunque, deve essere indagata, come ci insegna il nostro caro protagonista; il piacere della scoperta è sempre presente in colui che non si accontenta di frasi fatte, di supposizioni, ma cerca e filtra il mondo con sguardo critico, aperto a nuove soluzioni e prospettive.

«Ti vuoi arrendere? Io non mi fermerò»4 sostiene con fermezza l’io narrante, pronto ad andare fino in fondo ai suoi ragionamenti, senza abbandonare al primo ostacolo.

Un invito a non rimanere nel “sonno della mente”, a lasciarsi illudere solo nella misura in cui l’illusione può farci apprendere qualcosa di utile per il presente, diventando una sorta di sogno rivelatore.

Un romanzo che tocca le radici del nostro passato, facendo percepire quel legame nascosto che sempre permane tra noi e l’antico, ponendoci nell’ottica dell’investigatore o dello scienziato, mai sazio di esperienze.

 

Anna Tieppo

 

L’autore. Giovanni Pigozzo è nato alla fine degli anni Ottanta nella campagna veneta, si è trasferito a Milano vent’anni dopo. Ha esordito come scrittore di racconti brevi confluiti nella raccolta dei Racconti a luce spenta (2014), cui ha fatto seguito un denso racconto (lungo) in edizione singola, Mi fa male il tuo dolore, edito nel 2016. Questo è il suo primo romanzo.

NOTE:
1. A. Schopenhauer in Domenico Massaro, La comunicazione filosofica, Tomo A, 3, Trento, Paravia, 2002, p. 10.
2. G. Pigozzo, I begli occhi di Maya, FdBooks, Bologna, 2016, p. 64.
3. Ivi, p. 50.
4. Ivi, p. 89.

 

[immagine tratta da google immagini]

 

I begli occhidi Maya