La soggettiva oggettività della bellezza

Quando ci sorprendiamo catturati dallo spettacolo della natura o dai capolavori dell’arte e ci ritroviamo a fissare con uno scatto fotografico la sensazione di piacere che stiamo provando, siamo ben consapevoli di aver preso parte all’esperienza della bellezza. Eppure, se ci chiediamo: che cos’è la bellezza? ci ritroviamo prigionieri di uno strano paradosso; ci rendiamo conto che la bellezza sappiamo riconoscerla, ma non siamo in grado di darne una definizione precisa.
E come ad un bivio, ci si presentano una serie di ulteriori domande nelle quali il pensiero si incaglia: è bello è ciò che è bello oppure bello è ciò che piace? Ovvero, la bellezza è qualcosa di assoluto e oggettivo, che tutti riconosciamo allo tesso modo, oppure è relativa ai gusti personali di ognuno? E ancora: la bellezza risiede nell’oggetto che ci ha riempito gli occhi di stupore, oppure in noi stessi che siamo in grado di percepirla?

Cerchiamo di dipanare questi aut-aut, provando a descrivere cosa succede quando siamo partecipi dell’esperienza della bellezza.

Il filosofo Immanuel Kant, nella sua Critica del giudizio (1790), afferma che «chiamiamo bella una cosa per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla». In altre parole, diciamo bello quell’oggetto che avvertiamo in perfetta sintonia con il nostro gusto e i nostri canoni estetici.

Tante volte formuliamo giudizi estetici in linea con i nostri gusti personali, come quando, anche conformemente alla moda del momento, consideriamo bello e da noi preferibile, per esempio, un pantalone taglio sigaretta piuttosto che a zampa di elefante, il colore blu piuttosto che il rosso. Questa discrezionalità di scelta ci dimostra che la bellezza ha qualcosa di soggettivo in quanto è vincolata a noi, è condizionata dal nostro modo privato di percepirla e di viverla.
È possibile, però, percepire la bellezza anche in un modo “condiviso” e intersoggettivo, e questo può succedere nel momento in cui si verificano le condizioni per le quali la bellezza ci si mostra come qualcosa di oggettivo e assoluto, ovvero quando «la soddisfazione che determina il giudizio di gusto è disinteressata» (Kant, Critica del giudizio, 1997). In definitiva, quando l’alchimia che si sprigiona tra noi e l’oggetto contemplato non è condizionata dall’interesse materiale nei confronti di quell’oggetto.

Fruiamo della bellezza pura e assoluta quando il piacere estetico non scaturisce da alcuna previsione di utilità, né tanto meno da un principio morale o etico oppure da un’attrattiva o desiderio personali. E ciò si verifica quando, ad esempio, godendo della bellezza di un campo di biondeggianti spighe di grano, non penso al guadagno che ne posso ricavare, oppure quando, giudicando bello il dipinto La libertà che guida il popolo di Delacroix, prescindo dall’ideale etico e morale a cui mi esorta e ne ammiro semplicemente l’armonia, il perfetto e interiore accordo tra tutti gli elementi che lo costituiscono e il mio spirito.
Non è poi raro che, quando estasiata esclamo: “Che bello!” al cospetto della vista de La nascita di Venere di Botticelli, del Colosseo o ancora delle splendide spiagge della costiera amalfitana, mi aspetto di condividere la mia soddisfazione estetica anche con chi mi sta accanto, «pretendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (Kant, Critica del giudizio, 1997), come se l’esperienza della bellezza che sto vivendo, sia appunto qualcosa di assoluto, che valga allo stesso modo per tutti.

Allora, se la bellezza ha la capacità di suscitare, allo stesso tempo, uno stato di piacere che è sì privato, ma anche universalmente condivisibile, non si potrebbe definire la contemplazione della bellezza come un’esperienza intersoggettiva o “soggettivamente oggettiva”?
Non è forse vero che, quando ci troviamo in coda con tanti altri, al Louvre, per godere della bellezza del quadro più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, o quando a un concerto veniamo piacevolmente rapiti dall’ascolto del Chiaro di luna di Debussy, proviamo un’affinità con chiunque partecipi con noi al medesimo spettacolo della bellezza?

Il miracolo della bellezza ci fa riscoprire accomunati dal medesimo sentimento estetico e dalla medesima capacità di giudicare la bellezza. E questo succede perché, in realtà, la bellezza che pensiamo di ritrovare nella natura o dell’arte, non è altro che la bellezza che portiamo dentro di noi.
Nulla sarebbe bello se alcun uomo o donna non lo recepisse come tale, non solo perché nessuno si accorgerebbe della bellezza racchiusa, ad esempio, in un bocciolo di rosa che si schiude, ma anche perché quel bocciolo di rosa può essere giudicato bello solo dalla comunità umana, costituita da individui capaci del medesimo sentire e il cui animo è strutturato esattamente come il mio.

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Léonard Cotte via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Essere in buona salute e sentirsi bene nell’epoca delle biotecnologie

Un tempo la salute del paziente e i successi in ambito medico erano riscontrabili in termini quantitativi, ovvero l’oggettività scientifica costituiva il parametro attraverso il quale si riscontrava se la terapia messa in atto aveva ristabilito o meno lo stato di salute fisica del paziente.

Nel secondo dopoguerra, la medicina ha avviato una prima rivoluzione terapeutica debellando molte malattie infettive gravemente invalidanti o mortali; inoltre, l’applicazione del metodo sperimentale ha permesso l’allungamento della vita media. Negli anni, una seconda rivoluzione, quella biologica, ha consentito di iniziare a intervenire nell’ambito della nuova genetica.

Tali successi e innovazioni medico-scientifiche hanno reso dunque necessario un ripensamento dei contenuti del termine salute.

Nel 1948, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) diede una svolta al concetto di salute fino ad allora caratterizzato da un approccio paternalistico. La salute venne definita come uno «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia».

Questa definizione annunciò il superamento del riduzionismo organicista e la valorizzazione della dimensione soggettiva. Quindi, la salute viene intesa anche come l’auto-percezione del singolo soggetto nei vari momenti della sua vita.

Ciò avrebbe quindi permesso di affiancare allo stato di salute oggettivamente rilevabile in termini clinici, il concetto di qualità di vita, frutto della percezione stessa del paziente, delle sue preferenze e valori. Il progresso scientifico-tecnologico in medicina avrebbe così favorito l’affermazione di tale parametro, da affiancare e valutare congiuntamente alla qualità delle terapie.

Ad oggi, non è possibile definire uno stato di salute tralasciando la percezione della persona stessa di trovarsi in uno stato di buona salute, oppure non prendendo in considerazione i fattori psicologici e morali relativi alla percezione di sé e del proprio benessere.

Sebbene focalizzarsi sulla persona, sulla valutazione integrale e multidisciplinare dei bisogni al fine di promuoverne dignità e qualità di vita, sia il punto di svolta della definizione dell’OMS, il raggiungimento di uno stato di completo e concomitante benessere fisico, psichico e sociale risulta oggettivamente utopistico.

Sposando tale definizione, pertanto, nessun essere umano potrebbe essere definito completamente “sano”. Inoltre, associare il benessere alla salute significa inevitabilmente legare il malessere all’assenza di salute; è tuttavia evidente che le cose non stanno così: il benessere e il malessere sono stati non stimabili effettivamente.

Di qui, la concreta difficoltà nel determinare all’unanimità la validità dei parametri oggettivi e dei fattori soggettivi che convergono nella valutazione della qualità di vita; ne deriva quindi la difficoltà di sapere a chi spetta stabilire i termini che la definiscono e la rilevanza da assegnare a ciascuno di essi nell’elaborazione delle scale di stima della qualità di vita.

Tale prospettiva può avere conseguenze rilevanti soprattutto per quanto riguarda la valutazione delle nuove biotecnologie e il loro impatto sulle nostre vite; la presenza di parametri soggettivi nella definizione dello stato di salute è indicativo non solo della rilevanza delle prospettive emancipatorie che caratterizzano le “nuove tecnologie della libertà” (libertà dalla malattia, libertà dal dolore, libertà da un determinato destino biologico, ecc…), ma anche delle sfide che il loro uso o abuso può comportare.

Infatti, gli ambiti specialistici maggiormente interessati da un’attenta valutazione della qualità di vita sono quelli in cui la conoscenza biologica, che si ottiene nei laboratori, è stata tradotta in tecnologia, ovvero in metodi, procedure e strumenti che possono modificare le nostre vite con lo scopo di migliorarne la forma o il funzionamento oltre quanto necessario per il recupero di uno stato di salute quantitativamente rilevabile.

Il passaggio da una concezione della salute intesa in senso puramente quantitativo, ad un’idea di salute intesa come benessere e ben vivere, avente al suo centro la capacità dell’individuo di prendersi cura di sé, comporta un rischio ben definito: un impiego ideologico del criterio di qualità di vita.

Il problema risulta essere quello di porre il principio di qualità di vita a fondamento della norma etica, permettendo ad ogni soggettività la gestione indiscriminata del proprio corpo e della propria vita, in conformità ad una visione del bene e della qualità di vita totalmente personali, dimenticando però che le conoscenze di cui oggi disponiamo richiedono una riflessione a tutto campo, universalmente condivisa.

Se da un lato non si può concepire una medicina priva del coinvolgimento dei desideri del paziente nel ripristino della sua salute, dall’altro è altrettanto necessario che i bisogni del paziente siano orientati da valori etici coincidenti con il rispetto della vita fisica, delle persone, dell’ “ecosistema” in cui viviamo. La ricerca scientifica e l’attività medica devono avere una finalità orientativa ben precisa perché senza un’etica della vita non può esserci una qualità di vita.

Ritengo dunque che la definizione epistemologica dello stato di salute dovrebbe essere accostata ad una condizione di equilibrio dinamico da creare tra il soggetto e l’ambiente umano, biologico e sociale che lo circonda, in maniera tale da poter affrontare, attraverso lo sviluppo di risorse interne, le condizioni di malattia.

 

Silvia Pennisi

 

[Photo credits Emma Simpson su Unsplash.com]

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“Ti piace perché è bello o è bello perché ti piace?” La bellezza e i suoi perché

Ho veduto una sola volta l’unica, colei che la mia anima cercava, e la perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione l’ho sentita presente. Era là, questo essere supremo, là nella sfera dell’umana natura e delle cose esistenti. Non vi domando più dove essa è: è esistita nel mondo e può tornarvi; vi è soltanto nascosta. Non domando più che cosa essa sia, l’ho veduta, l’ho conosciuta. Oh, voi che cercate il sommo bene nelle profondità del sapere, nel tumulto dell’azione, nell’oscurità del passato, nel labirinto del futuro, dentro le fosse o sopra le stelle, conoscete il suo nome, il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è bellezza. 1

Siamo davanti a un tramonto, ci sfugge un sospiro e pensiamo che non ci sia niente di più bello in quel momento, un po’ come quando guardiamo negli occhi la persona che amiamo. Reputiamo bello ciò che ci piace, ciò che alla fine ci procura piacere, ma anche Kant sarebbe d’accordo nel denotare che nell’istante in cui definiamo qualcosa “bello” stiamo dando soltanto un nostro giudizio personale: si tratta di un giudizio di gusto, non logico, ma bensì estetico. A riguardo del piacevole, Kant usa il termine tedesco Angenehm e afferma che esso “è ciò che piace ai sensi nelle sensazioni”2.

ll bello è per prima cosa una forma, legata all’oggetto delle nostre rappresentazioni estetiche: bello è qualcosa di definito nel materiale, ma inesprimibile in un concetto, può essere bella una rosa o una statua o un giardino fiorito in primavera, ma non si riesce a dire perché è bello. A questo punto si può pensare allora alla sua finalità: può esserci un bello con finalità senza scopo o un bello strumentale. Nel bello senza scopo vi è un nostro totale disinteresse nel dare il giudizio, il bello appare per se stesso e si mostra in sé. Il bello strumentale semplicemente è legato all’utilità dell’oggetto di cui noi vogliamo disporre. Riprendiamo l’ultimo esempio fatto, quello del giardino di fiori in primavera. Se io per la prima volta entro in questo giardino e vedo tutti i fiori ben curati, che sbocciano, di tutti i colori, rimando meravigliata per la bellezza intorno a me, ma non esprimo questo giudizio perché mi interessa o mi serve per qualche motivo preciso, ma perché denoto che è bello di per sé e può essere un giudizio universalmente valido, che tutti posso esporre. Ma se io sono il giardiniere di tutti quei fiori, li trovo belli anche per mio interesse, perché è mio lavoro occuparmi di tutto il giardino e curarlo. Risulta essere in ogni caso una percezione soggettiva che a seconda dell’interesse o disinteresse assume un validità differente perché personale.

Alla fine “Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace”, i detti popolari non sbagliano mai.

Ma cosa produce la Bellezza?

Hölderlin scrive che la bellezza ha tre figlie: la prima figlia è l’arte, fonte divina di giovinezza per l’uomo; la seconda figlia è la religione, amore della bellezza; infine la terza è la filosofia, la figlia mancante, poiché essa è limitata da una conoscenza del contingente. La filosofia trova possibilità solo attraverso l’intuizione immediata, che procede dalla bellezza ai sensi, divenendo fondamento logico e ontologico.

Vorrei solo concludere questo articolo con questa citazione:

Il saggio ama proprio lei, la bellezza che tutto racchiude. Il popolo ama i suoi figli, gli Dei che gli si manifestano in forme molteplici. […] E senza tale amore per la bellezza, senza questa religione, ogni Stato non è che scheletro secco senza vita e spirito e ogni pensiero e ogni azione un albero senza cima, una colonna cui è stato troncato il capitello. 3

Al prossimo promemoria filosofico!

Note

1] Holderlin F., Hyperion oder der Eremit in Griechenland (1799), cit p. 59

2] In tedesco “ist das, was den Sinnen in der Empfindung gefallt

3] Holderlin F., Hyperion oder der Eremit in Griechenland (1799), cit p. 89

Azzurra Gianotto

[Immagine tratta da Google Immagini]

intervista a Gli uffici di Oberdan

gli uffici

L’intervista agli Uffici di Oberdan, continua il percorso iniziato con l’intervista a Sisma ed apre ufficialmente la mia nuova rubrica: Traffici d’idee, una rubrica che è un pretesto per parlare delle persone che incontro e per incontrane di nuove. Fino a qui si è parlato con dei musicisti, in futuro ce ne saranno degli altri ma ci sarà spazio per altre storie di individui o di gruppi di esseri umani impegnati nel ricercare qualcosa di personale. A me la scelta di cosa valga la pena di essere raccontato.

Perché parlare con gli altri, parlare degli altri di altro è parlare con se stessi di sé. A me diverte e quindi…

Intervista a GLI UFFICI DI OBERDAN

Incontro Davide Cadoni (chitarra e voce) e Pasquale Rao (Basso). Con Davide Amadio (batteria) compongono Gli uffici di Oberdan. Inizia a fare buio.

Spiegatemi il vostro nome, posso capire perché Oberdan, ma gli uffici?

Oberdan, e la sua storia, incarnano l’animo rivoluzionario e sovversivo che in fondo spinge tutti noi a cercare di eludere lo stato “non naturale” delle cose, quel fuoco che arde contro tutto ciò che ci tiene all’oscuro della verità. Si parla di rivoluzioni sociali che possono aver luogo solo dopo quelle personali. Come lui, ognuno di noi dedica la vita ad una personale e continua rivoluzione. Ogni giorno scopriamo nuove sfumature e decidiamo se esse fanno parte indelebilmente del nostro essere o se invece lasciano margine al miglioramento, permettendoci così di plasmare in meglio la sostanza densa in cui immergiamo le nostre giornate. Oberdan offre la sua vita con lo scopo di riunificare l’Italia, annettendo territori posti per altrui volontà oltre il confine. Come lui vogliamo esplorare quegli orizzonti sconosciuti che sentiamo potrebbero arricchirci, che sentiamo ci debbano appartenere. Egli diventò martire per dare vita ad un’Italia unificata, metafora del nostro tutto. Mettere in gioco la propria vita per completarci come persone, per raggiungere il proprio senso, a costo anche della morte. Gli uffici mi chiedi? Sono stanze immaginate dentro le quali ci piace pensare si preparasse la rivolta “Si suona come si vive, per scoprire, costruire e conquistare quella parte di noi che sentiamo debba in qualche modo appartenerci, per accendere la luce in quegli uffici in cui progettiamo ogni giorno le nostre rivoluzioni.”

Come vedrebbe il presente O.?

La vedrebbe male, perché l’Italia è di fatto ancora divisa, non c’è senso di fratellanza , non c’è ascolto ne dialogo tra le persone. La speranza è che la musica possa continuare ad aprire gli occhi e i cuori delle persone, annullando le distanze che portano a sentirci soli in mezzo alle nostre trincee.

parto con le domande filosofiche della redazione:

Nelle vostre canzoni si scorge il paradosso tra l’evoluzione dell’uomo attraverso lo sviluppo tecnologico e l’involuzione della sua etica: secondo voi è impossibile che tecnica ed etica possano percorrere insieme la stessa strada? Perché?

Mi dicono che la tecnica non è un male, il problema è l’utilizzo che se ne fa. Mi dicono anzi che la tecnica è meravigliosa. Anche fare un cd richiede un sapere tecnico notevole, occorre saper suonare, saperlo produrre e poi saperlo distribuire al pubblico. È il profitto che poi crea i problemi. Il profitto quando questo diventa l’unico obiettivo.

Ecco si il problema tra etica e tecnica è proprio questo. Andrebbero benissimo le due cose se puntassero entrambe ad un obiettivo giusto. Chiedo cosa vuol dire giusto? Giusto è ciò che può servire a nutrire e a perseguire il bene comune, e personale. Giusto è quel qualcosa che veramente è utile all’uomo, un’utilità che si avvicina al naturale. Alla natura animale dell’uomo, non intesa come irrazionale, o non solo, ma come stato di natura non condizionato dal contesto sociale. Quella cosa tanto ricercata da Hobbes e Locke. Si aggancia subito la seconda domanda.

2 Nella vostra canzone “Contronatura” mi hanno stupito questi due versi:

“Non cercare di andare contro natura

non cercare di andare contro quello che sai”

Cosa vuol dire per voi ‘andare contro natura’? Essere ‘secondo natura’ o meno, è, secondo voi, qualcosa che dipende dal soggetto singolo o dalla società?

I versi citati sono un gioco voluto, possono essere intesi come le parole della società, che eleva il suo giudizio a verità naturale, inattaccabile. Non andare contro natura, contro quello che sai, quindi contro quello che ti è stato detto. Allo stesso tempo queste parole possono essere un mantra da ripetersi. Un ricordarsi quello che sai dalla nascita, prima che i dogmi sociali imprigionino il tuo pensiero, quei desideri puri e quei bisogni reali che tutti possediamo.

Cerchiamo poi di definire cosa sia naturale. Ma non ci riesce alla perfezione, e siamo contenti di questo. Si ci sono dei bisogni comuni, ma non siamo omini di pongo fatti con lo stampino, il senso di questo esistere è proprio scegliere quali sono le vie che più ci piacciono, quelle che ci fanno correre senza mollare.

3- Leggendo il testo di “Perdo tempo” mi viene da pensare che ci sia paura nei confronti del tempo. Secondo voi il tempo è soggettivo, quindi è una costruzione mentale che il singolo plasma a seconda delle sue esigenze o esiste davvero un tempo oggettivo pertanto menefreghista nei confronti dell’uomo?

Preciso che tra una domanda seria e l’altra ci perdiamo in cazzate esistenziali senza capo ne coda, ma estremamente fondamentali. Ma di questo parlerò dopo.

Rispondono alla mia domanda ed ammetto che sono costretto a richiedere più volte la risposta, alla fine arrivo a capirci qualcosa. Per limiti miei ovviamente. Riassumo come posso. Il tempo oggettivo come quarta dimensione fisica lo scartiamo proprio. Non ci interessa ciò che non passa attraverso l’uomo. C’è nel tempo umano, un tempo considerato semi-oggettivo. La classica linea della vita, che ci dovrebbe spiegare quando è il momento di fare cosa. Ma agli Uffici non piace avere obblighi e preferiscono cancellare le tacche da questo metro. Perché? Perché anche questo tempo è un’invenzione. Si finge oggettivo quando in realtà è una costruzione altrui. La risposta è: “non è che non esita proprio, ma chissenefrega!”. La soluzione non è misurare il tempo. È caricarlo di valore. Quando una vita è ben spesa anche l’angoscia del tempo sparisce. I Baustelle dicono: “credi di morire, non è niente se l’angoscia se ne va”.  Pasquale mi racconta di come sia cambiata la sua vita da quando suona: “Prima tornavo a casa da lavoro, guardavo la tv, andavo a letto e poi di nuovo a lavoro. Adesso ci troviamo a suonare. Creiamo qualcosa di nostro. Sono sempre stanco morto. Ma sono felice.” E mi dice anche che ogni cosa dovrebbe essere fatta come fosse l’ultima volta. Non credere a quello che si fa. Quello è perdere tempo! E non, come si sentono dire tutti quelli che fanno qualcosa che gli piace: fai qualcosa di utile, fai qualcosa che serva, non fare il perdi tempo.

E ci troviamo a perdere tempo a chiacchierare, a scoprirci, a scrivere articoli, a scrivere poesie, ad ascoltare musica buona e schifosa. A fare progetti che magari non fanno successo. Ma come mi dicono Gli Uffici di Oberdan, l’importante è non voltarsi indietro e vedere una vita di rimpianti, l’importante è averci provato.

Ok prima vi parlavo di tutte quelle altre cose non propriamente attinenti alle domande, provo a raccontarle unendole alle sensazioni dell’ascolto del loro disco:

Parte svarione, solo per chi ha tempo da guadagnare.

Ascolto gli Uffici di Oberdan su Spotify, quello per computer che quello sul telefono fa schifo. La velocità degli anni “perché il tempo ci sfugge ma il segno del tempo rimane[1]”. E con il passare del tempo, nei miei attimi recenti, la gente scema mi pare sempre meno interessante e mi trovo ad essere meglio di loro senza presunzione. Ok uno due tre, schiaccio play:

“Puntiamo solo a salire, puntiamo solo ad impazzire” puntiamo pesante  sui nostri sogni, puntiamo a scendere dal letto con felicità. Che poi è donna e quindi per averla non va rincorsa.  Ma stiamo parlando di rivoluzione e di bombe in tasca. “pronte ad esplodereee” e forse bastano due bombe in tasca come coperta di Linus per fare la rivoluzione, Oberdan non si nasce si diventa, si diventa morendo, ma vabbè.

“ Non cercare di andare contro quello che sai” “la chiave della felicità è la disobbedienza in sé a quello che non c’è[2]”. Non cercare di imparare dagli altri quello che non sai, meglio stare incompleti che vivere altre vite “so che hai sogni non tuoi”. Cosa vuol dire contro natura  chiedo agli Uffici? contro natura gioca sulla natura naturale e su quel che ti dicono sia naturale. Ma cos’è naturale? “com’è spoglia la città da quando soffre solo il freddo”, naturale è ciò che appartiene all’animale umano, il naturale ce l’hai nel sangue, non è naturale l’imposizione della società che crea bisogni indotti intrappolando l’individuo. a casa mia si parla di mangiare e di proteggersi da varie cose: dal disordine, da futuro, da stare da soli, da far soffrire gli altri e dal non farli soffrire proprio. Proteggersi è naturale, ma imprigionarsi non lo è. Per gli Oberdan è una ricerca non finita, il loro album è un invito a ricercare la propria via, nel rispetto degli altri, della bellezza naturale e di quella umana. È un tentativo di slegare le catene ai tizi nella caverna, consapevoli che i molti se ne resteranno comodi al buio, ma qualcuno uscirà alla luce. “sarebbe stato più semplice non aver mai aperto gli occhi, sarebbe stato più facile, non averli chiusi mai”

Dopo averli intervistati è più chiaro questo cd, dovrebbe essere obbligatorio ed illegale un colloquio con l’artista. Continuiamo parlando della comunicazione, degli effetti di parlare solo di sesso e violenza

Venerdì sono andato a vedere Jovanotti. Che gioca al rock n’ roll. Anche Ligabue dice qualcosa di simile, aspetta come dice? Apro Youtube e trovo questo: Andrea comunica il suo suicidio con un video, poco dopo si toglie la vita. E forse gli Oberdan avevano ragione, tira più un morto ammazzato che un carro di buoi. Sulla fica non saprei.

“Mi vedi bene; mi vedi bene; mi vedi bene; mi vedi bene ma io — non ci riesco!!” e subito penso alle ragazze e dimentico Andrea “Andrea si è perso, ma non sa tornare, Andrea ha in bocca un dolore, la perla più scura[3]”. Ha ragione Andrea, che i miei articoli vanno letti cagando. E mi rende felice avere un posto nel mondo, un posto di pace e meditazione. “Che bello che era averti attorno/ come aver trovato un posto al mondo/ dove alla fine fare ritorno/ quando non c’è un posto dove andare[4]” “Non essere noioso Non sentirmi più solo/ Stare bene così/ Senza un posto nel mondo[5]

In sostanza se non srotolo una morale, se non estraggo pathos dal concetto dell’album, vuol dire che  PERDO TEMPO? Di questo parliamo al secondo spritz metà Aperol e metà Campari, di quello che ti dicono, del non naturale che diventa fondamentale, ti dicono che se non si fanno le cose come vanno fatte, si perde tempo. Se non si fanno le cose che vanno fatte si perde tempo. E così il tempo non si vince mai, si asseconda. E il tempo poi vince sempre sulla lunghezza, si può batterlo solo in intensità. E gli Oberdan mi dicono: meglio bruciare rapidi e intensamente piuttosto che spegnersi lentamente senza aver mai prodotto alcun calore. “Non tutto quel che brucia si consuma” “e lo ripeto ancora, fino a impararlo a memoria, finché siamo qui, noi siamo gli immortali[i].”

Finisco l’intervista, ci penso qualche giorno, che la vita non è facile, la vita non è male se scegli come spenderti, scegliere da gusto all’esperienza, dà peso all’esistenza.  E la scelta viene dal desiderio e dalla ragione, la scelta è l’espressione dell’individuo. E che parlare con la gente è sempre una scusa per scoprirsi

parlare di qualcuno

È parlare di tutto il resto

dei pochi sconosciuti

tra i sette miliardi

e dei soliti sette gatti

 

cose dalle cose.

parlare del tale, dell’ernia iatale

sempre parlare di tutto

il resto

lasciare o non lasciare il resto di mancia

lasciare o lasciare una manciata di affetto

in prestito, in franchising

la propria personalità, francamente

Franca, dovresti smetterla di essere così brava

 

parlando di qualcuno

parlare di tutto il resto

e dei pochi sconosciuti

tra i sette miliardi

tra i soliti sette gatti

che ci si sente sparlati

ed è fastidioso non sentirsi nominati.

e non posso fare a meno di infastidire

di infastidirmi, di evitare

di essere schiacciato, di schiantarmi sul gelato

E di scegliere sopra quale merda ronzare

di proclamare la mia indifferenza

nell’attesa della tua venuta.

Bzzz

amen

 

Gianluca Cappellazzo

 

[1]Baustelle, Le rane

[2]Afterhours, Quello che non c’è

[3]Fabrizio De André, Andrea

[4]Ministri, Comunque

[5]Marracash, Senza un posto nel mondo

[i]Jovanotti, Mezzogiorno. Jovanotti, gli immortali.