Il capitalismo nato dalla religione

Quando pensiamo al capitalismo volgiamo lo sguardo sempre all’altro, alla nuova moda, ai nuovi influencer, ai grossi imprenditori, ai finanzieri di Wall Street. È una tensione sempre volta all’esterno, così da potersi sottrarre dal giudizio, individuando le cause ad un passato fatto di scelte sbagliate e dunque non dipendenti da noi, e a un futuro incerto come effetto.
C’è il comunista con il rolex e il libertario con il pugno chiuso. Tutte sfaccettature di una spinta discriminatoria verso l’esterno, ad un nemico immaginario e per questo collettivo.
Ci fu però un pensatore che volle indagarne le cause e i susseguenti effetti senza giudizi di valore o schemi precostituiti, unificando metodo scientifico e indagine sociologica. Un pensatore che vide la causa del capitalismo non tanto nell’esteriorità tra individui o in forze occulte capitanate da élite sconosciute, ma dalla spinta introspettiva degli stessi componenti, cioè noi, alla cui radice fu presente la religione. Max Weber rappresentò tutto questo.

Lo studioso tedesco influenzò più di tutti la sociologia del XX secolo: i suoi studi riguardarono molteplici aspetti della realtà, tra cui uno dei più centrali come l’economia in rapporto alla storia e alle persone. Un’analisi che voleva intrecciarsi tra le caratteristiche essenziali, l’origine e il destino della civiltà occidentale moderna, il cui perno risiedeva come oggi nel capitalismo. Capire cosa fosse, significava comprendere la civiltà europea.

Il punto di partenza è costituito dalla definizione dell’agire economico, come lo stesso Weber scrive nel Osservazione preliminare del saggio l’etica protestante e lo spirito del capitalismo: “un atto che si basa sull’aspettativa di guadagno derivante dallo sfruttare abilmente le congiunture dello scambio, dunque da probabilità di guadagno fortemente pacifiche” 1.

Esso non è uguale dunque al semplice desiderio di accumulare denaro e non è eguale alla rapina, ma al guadagno pacifico e disciplinato razionalmente verso l’aumento del capitale, tutto utilizzando le congiunture dello scambio. C’è alla base un’organizzazione razionale del lavoro fortemente libero in quanto pagato, fino alla costruzione di un sistema di imprese collegate fra loro attraverso il mercato. La società diventa capitalistica quando la soddisfazione dei bisogni privati avviene tramite le merci che le stesse imprese producono, come avviene ora.
Inoltre, la dimensione morale dello sfruttamento che verrà sottolineata da Marx è completamente nulla. Questo perché lo stesso Weber sottolinea come l’analisi dello sfruttamento sia un aspetto, indagare invece sulla razionalità formale del calcolo economico un altro.

La presenza dunque del lavoro libero, l’agire razionale rispetto ad uno scopo, la divisione fra famiglia ed impresa e lo sviluppo del diritto, permisero che la cultura capitalistica da lui chiamata “spirito”, sia stata in grado di espandersi nella sua particolare e accettata forma, costituendo una nuova società.

Ma dove risiede l’origine di tutto ciò? La risposta di Weber risiede nell’etica protestante dopo la riforma di Lutero del 1517.

Il protestantesimo pose l’accento sull’individuo come interprete diretto della parola di Dio. Un individualismo che per alcuni pensatori era all’origine della cultura occidentale.
Ma per Weber la strada era un’altra: l’enfasi particolare sulla vita mondana e la sua rivalutazione nei compiti. Infatti, il volere divino di tipo protestante a differenza del cattolicesimo accolse il carattere di imperscrutabilità e della totale indipendenza dalle azioni degli uomini. Il singolo credente non ha alcun potere sulla propria salvazione, e l’unica cosa che può fare è occuparsi del mondo come creazione di Dio, vietandosi ogni indulgenza nei confronti del piacere. Ciò ebbe ricadute psicologiche rilevanti.
Il risultato è una vita metodica con il lavoro, come glorificazione del Signore e strumento per evitare le tentazioni. Weber la chiama “l’ascesi intramondana” ovvero la rinuncia al godimento del mondo e propria presenza attiva nel creato tramite il lavoro.
In tal senso, soprattutto nella cultura calvinista, permetteva che il capitale detto da Karl Marx il surplus derivante dall’attività economica non fosse sperperato, ma piuttosto reinvestito per una maggiore produzione. Il fine non risiedeva dunque nel consumo, ma nella crescita sistematica della stessa ricchezza. Per ingordigia? No, per amore di Dio e della vita eterna. Sembra quasi un paradosso.

Eppure, a ben guardare le cose sono diverse.
Oggi non penseremo mai a tali meccanismi, non volgiamo la nostra attenzione sul profitto ma sul bene di consumo. Non vediamo redenzione ma solo tentazione. Ci sembra paradossale e lo stesso Weber lo ammette. Nell’Etica protestante scrisse:

«Solo come un mantello sottile, che ognuno potrebbe buttar via (…), la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli eletti. Ma il destino ha fatto del mantello una gabbia d’acciaio. Mentre l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e ad operare nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistarono una forza sempre più grande nella storia. Oggi lo spirito dell’ascesi è sparito, chissà se per sempre, da questa gabbia» 2.

Una volta avviato, il capitalismo procede meccanicamente, quasi per forza di inerzia come una sorta di valanga – non dimentichiamo che nasce dall’agire razionale e una cosa razionale se funziona si trasforma in macchina pur di avanzare. Chi nasce al suo interno – come tutti noi – vi si trova inserito come in un mondo naturale, e per questo il male ci appare all’esterno.
Si vengono a perdere i propri fondamenti culturali, come se la modernità capitalistica distruggesse le forze che hanno contribuito a farla nascere.

C’è soluzione? Per il pensatore forse si, forse no; non gli importava. Il suo metodo d’indagine che lo fece penetrare così affondo nella società dell’epoca non comprendeva valori morali o soluzioni alternative, ma l’accettazione del mondo così com’era tramite un metodo d’indagine avalutativo. Poteva così indagare senza pregiudizi, in modo oggettivo in una scienza come la sociologia, che poco ha di distaccato rispetto al mondo, perché in società tutti ci viviamo e ne siamo modificati psicologicamente.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE

1. M. Weber, Etica protestante e la nascita del capitalismo, 1905, p. 67.
2. Ivi, p. 305

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La vigilia delle mimose

Molto spesso, quando si parla di culture o di Storia, ci si concentra su svariati aspetti sociali legati per esempio ai sistemi di credenza, alla religione, ai riti, alle forme di governo e alla vita in generale, come se fosse semplicemente un filone narrativo che dall’alto propone una visione collettiva della società.
Ma cosa succede quando ci si concentra sui rapporti umani tra gli attori protagonisti di quella stessa società?
Quali sono i rapporti tra adulti e bambini, tra anziani e giovani, tra donne e uomini?

Siamo abituati a credere, erroneamente, che il nostro essere occidentali abbia raggiunto un livello di equilibrio stabile, tale da poter essere insegnato in altri mondi ad altri uomini.
Sono circa cinquecento anni che abbiamo questa idea fissa di superiorità innata, partorendo in continuazione controsensi.
Quando, per esempio, ci imbattiamo nel ‘medioevo islamico’, prototipo di un luogo in cui la donna non è libera e vittima di continui abusi, eleggiamo noi stessi messaggeri immacolati di libertà.

In un altro articolo mi concentrai sull’esportazione del nostro sistema politico democratico, oggi, alla vigilia dell’ 8 Marzo ( festa della donna ), mi concentrerò sul nostro sistema di relazioni umane partendo da una semplice domanda:

Quanto è cambiato rapporto uomo/donna nel tempo?
Risposta secca: Tanto.
Risposta complicata: Tanto ma non troppo.

Perché tanto? Queste sono le consuetudini in una regione della Francia settentrionale nel XVII secolo:

«Purché non la uccida o la mutili, è lecito al marito picchiare la moglie quando gli faccia torto; ad esempio […] quando lo contraddice, o quando non obbedisce ai suoi ordini ragionevoli.
In tutti questi casi e in altri simili, castigare la propria moglie rientra nell’ufficio del marito 1»

Se oggi un ragionamento simile dovesse emergere in una discussione pubblica, ci sarebbe come minimo il linciaggio mediatico, lo scandalo comune e l’indignazione conseguente.
E se lo stesso ragionamento avvenisse nella stanza più oscura della mente del singolo uomo?
Ecco la risposta al ‘Tanto ma non troppo’:

«Elena Ceste, ecco perché il marito l’ha uccisa: infedele e da raddrizzare»
«Eligia Ardita, uccisa perché chiese al marito di non uscire»
«Padova, Isabella è stata uccisa: un triangolo diabolico dietro il delitto»

Questi sono i titoli di alcune testate giornalistiche apparse tra il 2014 e il 2016; non nel XVII secolo, non di società ‘arretrate’ e non di religioni demoniache.
Sono il triste volto di chi indossa la maschera dell’inconsapevolezza, di chi ama cadere dalle nuvole o forse di chi preferisce guardare le ingiustizie altrui dimenticando le macerie accumulate sotto il proprio tetto.

Quanto spazio c’è tra ciò che crediamo di essere e ciò che in realtà siamo?
Probabilmente non è uniforme, ci sono momenti in cui i due ‘noi’ si sfiorano e altri in cui nemmeno si parlano, lontani anni luce l’uno dall’altro, in perenne e silente litigio.

Un abisso che si fa sempre più impenetrabile quando innalziamo la donna come figura da difendere contro le mercificazioni progressiste della nostra epoca, e nello stesso momento ci rifugiamo ai lati delle strade, schiavi di un piacere estremamente effimero pagato ad altre schiave, merce di altri uomini e di altro progresso.

Levando l’ancora da questi estremi, possiamo dirigerci verso l’imparziale trattamento lavorativo che tuttora resiste in certi ambienti, dove la maternità è vista come un danno, e l’essere donna uno svantaggio per la produzione.
Situazioni comunque difficili e certamente infelici che sottolineano ancora una volta il nostro essere impreparati alle sfide del presente.

Viene da chiedersi se, davanti a tutto questo, il giorno delle mimose è forse irreale o ipocrita.
Oppure dovrebbe essere semplicemente disincagliato dalla data specifica per naufragare durante tutto l’anno, in modo da festeggiare quotidianamente questa nostra metà che ha ispirato poeti, scrittori, filosofi, gesta di eroi e condottieri scoloriti nel non-tempo letterario?

Cosa poter fare, infine, per evitare di superare quel confine che ci separa dalla brutalità della nostra natura, dalla sottile pianificazione del male, dalle tempeste avventate dei nostri folli gesti?
Rimarrà forse uno dei tanti aspetti irrisolti del nostro libero arbitrio, che ci rende forti e deboli in egual misura di fronte a quello specchio con cui facciamo i conti ad ogni sorgere del sole.

Alessandro Basso

NOTE

1 Coutumes de Beauvaisis, a cura di A. Salmon, Paris, 1899, p.335

C’era una volta un re

Nelle settimane che precedono il Natale i preparativi coinvolgono inevitabilmente un po’ tutti.
Cambiano le strade e le piazze, illuminate da una sovrabbondanza di luci; cambiano le vetrine dei negozi, pronte ad accogliere i cacciatori di regali; cambiano le stazioni dei treni e gli aeroporti, in cui compaiono abeti carichi di colore.

Magia direbbe qualcuno, e come per magia non tutti sono contenti.
Sembra davvero incredibile, ma anche il Natale è diventato un pretesto per rispolverare dei punti imprescindibili che reggono buona parte del dibattito pubblico.

Aiutare chi non ha nulla?
Cercare di vivere serenamente dimenticando i malumori di un anno intero?

Niente di tutto questo; la diatriba si dipana attorno al Crocifisso e al presepe.
Ebbene sì, due simboli del tutto innocenti stanno portando scompiglio tra social e televisione; a onor del vero è ridondante, non un’esclusiva ‘Inverno 2015’.
Quando al minestrone mediatico si aggiungono elementi religiosi, politici e sociali, il risultato è assicurato: prese di posizione, strafalcioni storici, discorsi senza capo né coda… insomma, chi più ne ha più ne metta.

Davanti ad una situazione del genere ho spesso provato a spiegare in termini essenziali cosa volesse dire il termine ‘laico’, ma nonostante gli sforzi, ogni appello al ragionamento cade inevitabilmente nel vuoto.
Affermare che l’Italia non ha una religione di Stato dal 1948, riconoscendo tutte le usanze e i culti purché non violino la legge, dovrebbe portare a pensare che, di conseguenza, esporre un qualsiasi simbolo in luoghi statali segna di fatto una preminenza, una superiorità, legata alla religione da esso rappresentata.

Eppure tutto questo passa in secondo piano, ma perché?

Perché “l’Italia ha radici cristiane” (cit.), “Roma è nata cristiana” (cit.), “noi, quando andiamo nei Paesi arabi, non possiamo pregare o ci uccidono” (cit.), e tante altre risposte in cui le frasi fatte abbondano più delle ciliegie a Maggio.
Un misto tra rivendicazioni storiche e giustificazioni che portano i simboli cristiani ad essere usati non come tali, ma come ripicca nei confronti altrui.

Ho voluto provare anche io a portare avanti delle obiezioni simili, su un argomento legato a doppio filo con il Crocifisso.
La norma a cui mi sono ispirato e che regge la presenza dello stesso, risale al regio decreto n° 965 del 1924, articolo 118, leggermente modificato nel corso degli anni ma nella sostanza immutato.

“Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re.”

Entrando in un’aula di un istituto scolastico statale, troviamo il simbolo cattolico ma non il ritratto del Re.
Siamo una Repubblica, direte voi.
Certo, siamo una Repubblica tanto quanto uno Stato laico.
Ma, come detto in precedenza, abbiamo radici cristiane.
Abbiamo radici cristiane tanto quanto monarchiche…

Facciamo qualche esempio.

Quando raccontiamo la Storia di Roma, elenchiamo ben sette re e ottantacinque augusti imperatori.
Studiando le intricate vicende dell’Alto Medioevo troviamo altri re, imperatori franchi e germanici, duchi, principi e sovrani bizantini.
Nell’epoca delle Signorie annoveriamo famiglie nobiliari, casate da nomi altisonanti, dinastie da cui ebbero origine gli Stati Italiani quasi totalmente retti da monarchie o da oligarchie.
Parliamo di feudi meridionali, le nostre fiabe narrano di castelli e cavalieri.
Tutto molto lontano dalla democrazia che oggi conosciamo.

Duemiladuecento anni totali di sovrani contro milleseicento di cristianesimo ( dall’editto di Tessalonica del 380 d.C in cui il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero Romano ), se i numeri non mentono la nostra cultura è stata molto più suddita di un monarca che fedele alla Santa Romana Chiesa

Ecco spiegato il mio “stupore” all’assenza del ritratto del Re nelle aule scolastiche, nonostante la vastissima scelta da cui attingere, per ricordarne alcuni: Augusto, Totila, Carlo Magno, Napoleone, Vittorio Emanuele II.

No, non sono uno sprovveduto, so benissimo che avere un regio ritratto in aula stonerebbe con la natura politica del nostro Paese.
E poi, in Italia, non mancano certamente luoghi in cui possiamo immergerci nel glorioso passato; abbiamo fortezze, musei, gallerie d’arte… di sicuro non ci preoccupiamo di esporre queste profonde radici anche nei luoghi statali.
Allo stesso modo, secondo la mia visione, la fede religiosa può esprimersi tra le migliaia di chiese, luoghi di culto, cappelle, immagini votive ed edicole che costellano le nostre bellissime città.

Per fare una giusta critica a coloro che, come me, hanno qualche riserva sulla contraddizione laico-religiosa in atto, devo dire che non c’è bisogno di provare empatia giocando la carta del disagio, l’ho vista usare troppo spesso e la trovo fondamentalmente errata e forviante.

Perché al di là di tutte le considerazioni logiche, razionali e storiche che possono sembrare poco divertenti e decisamente pesanti, dovremmo forse dimenticare la nostra (im)maturità, spesso sconsiderata e deleteria, e provare a vivere il Natale – così come il resto dell’anno – un po’ come fanno i bambini, lontani dalle fissazioni degli adulti, dalle lotte contro i mulini a vento, dalle croci usate come spade nelle furiose ed inutili battaglie senza quartiere.

Alessandro Basso

L’esportatore di progresso

Il suo è un mestiere difficile che non prevede la pensione, nessuna indennità o malattia, non gli da diritto a programmare ferie, non si ferma mai, nemmeno il tempo riesce a contenerlo.
Questo lavoro gli piace così tanto che non ha mai firmato un contratto, non ha mai sentito il bisogno di tutelarsi o di mettere per iscritto diritti o doveri che si è imposto da solo.
E’ un libero professionista, il dipendente di se stesso, disfa e costruisce di volta in volta i suoi obiettivi, allarga gli orizzonti oppure ricalca vecchie orme in terre già battute.
Non serve avere un’età, lui per esempio non ha età, si sposta a cavallo dei secoli attraversando mondi paralleli, epoche e società.

E’ cittadino del Mondo, padrone e suddito, comanda e serve gli uomini perché hanno bisogno di lui e lui ha bisogno che essi lo usino solo per poter dire che esiste.
In Occidente lo trattano bene, c’è terreno fertile per qualsiasi sua proposta estrema, e quando ha carta bianca da il meglio di se.
Ma in che cosa consiste il suo lavoro?
Semplice, lui esporta progresso.

Un bel giorno decide che la società a cui appartiene è la migliore in assoluto, e sente il bisogno di comunicarlo a tutti gli altri privandoli della possibilità di replica.
Detta così superficialmente non contribuisce a svelare l’arcano ragionamento; occorre specificare allora quali siano le materie sociali su cui agisce.

Prendiamo la scrittura.
L’esportatore del progresso ha stabilito che i popoli senza scrittura sono primitivi, mentre quelli che la possiedono sono avanzati.
Poco importa se esistono altri metodi per raccontare o tramandare qualcosa perché l’esportatore di progresso ci riferisce che le parole scritte non sono mutabili, ergo non possono essere interpretate a seconda dei tempi, mentre l’oralità – al contrario – è e sarà sempre imperfetta.
Del resto, quando mai abbiamo modificato l’interpretazione dei testi Sacri, o altri scritti realizzati da personalità che, inevitabilmente, hanno intriso pagine e pagine di cronache ‘sporche’ del loro punto di vista?

Esistesse solo questa categoria ad impegnare il nostro progressista nel suo duro lavoro di catalogazione, non avrei detto nulla di stupefacente.
Ad un certo punto decise di esportare un modello di società ben preciso, quello Occidentale appunto e con esso anche la Democrazia.
Se vivi in una società senza strade, scuole, ospedali e altre infrastrutture che all’Occidente hanno portato al contempo benessere e complicazioni, sei automaticamente retrogrado.
All’esportatore di progresso non interessa sapere che la tua cultura ha raggiunto il suo equilibrio adattandosi all’ambiente circostante e alle tradizioni, mutabili, della propria Storia.

Non gli interessa nemmeno sapere che la via intrapresa da questa o da quell’altra società è solo una delle tante possibili, perché la migliore è quella in cui lavora, e l’ha deciso da solo.
Un po’ come autodefinirsi belli perché l’ha detto mamma.

La Democrazia invece pare sia improvvisamente diventata il migliore dei sistemi politici.
A contendersi la supremazia però sono state svariate forme di governo, tutte puntualmente esportate dal progressista e ognuna spacciata come ‘la migliore’: inizialmente fu la Monarchica assoluta retta da un sovrano despota ed illuminato, seduto sul trono per volere di Dio; poi fu il turno del Parlamento e successivamente toccò alla Repubblica borghese che pochi potevano governare…

Infine in Occidente crearono la Democrazia e decisero che tutti potevano partecipare alla Cosa Pubblica, ma non solo gli occidentali, qualsiasi persona compresa nel raggio dei quattro angoli del Mondo, e chi era rimasto ai re, ai sacerdoti e ai rituali arcaici avrebbe dovuto adeguarsi.

L’esportatore di progresso si diede molto da fare, fondò nuovi Stati, tracciò nuovi confini studiati a tavolino unendo sotto la stessa bandiera società in conflitto tra loro e separandone altre di affini; portò l’Occidente in territori non occidentali, anche appoggiando spietati dittatori, decidendo di volta in volta quale fosse ‘buono’ e quale ‘cattivo’.

Nel 2015 l’esportatore di progresso esiste ancora, vive cibandosi delle nostre incomprensioni, di tutto ciò che appare assurdo ai nostri occhi, vive delle aspre critiche che lanciamo a chi mangia cibi diversi dai nostri, a chi tratta la donna in un modo che a noi appare antiquato, a chi segue i dettami di una religione che non è la nostra, a chi abita in capanne fatte di paglia e sterco, a chiunque non indossi giacca e cravatta ma abiti ‘strani’ o ‘bizzarri’.
L’esportatore di progresso respira l’aria della superiorità che ci siamo attribuiti e dell’auto incoronazione di noi stessi.

Ci aiuta, giorno dopo giorno, a trasportare il masso lasciato in eredità da un Sisifo stanco, e questo masso serve a rinfacciare la fatica – non richiesta – spesa per la costruzione di una visione soggettiva non traducibile in altre declinazioni culturali.
Si veste di arroganza e troppo spesso applaudiamo compiacenti la sua eleganza così conforme alla nostra.
Rende assurda persino l’ovvietà fatta di numeri, quei sette miliardi di uomini e le centinaia di culture annesse che sussurrano di non sentirci troppo soli.

Che la vanagloria è un labirinto dal quale si esce solamente mettendosi in discussione.

 Alessandro Basso

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Mancinismo, la malattia dimenticata

«Su 1029 operai e soldati ho rilevato una proporzione di mancini del 4% tra gli uomini e dall’8 al 5% tra le donne. Tra i pazzi le proporzioni non sono molto diverse. D’altro canto, studiando un certo numero di criminali, la quota di mancinismo riscontrata risulta più che triplicata tra gli uomini (13%), e quasi quintuplicata tra le donne (22%). Tuttavia, alcuni tipi di criminali, come, per esempio, i truffatori, fanno registrare percentuali molto superiori (33%), mentre assassini e stupratori fanno registrare percentuali del 9-10%»

Cesare Lombroso, articolo per la rivista North American Review, 1903.

Questa volta esordiamo così, con uno stralcio di articolo scritto dal celebre padre dell’antropologia criminale, su un tema ormai dimenticato ma che tuttavia si nasconde tra gli anfratti più oscuri della nostra società: il mancinismo, ovvero l’abitudine di adoperare la mano sinistra per compiere gesti quotidiani come scrivere, pettinarsi o afferrare oggetti.

Mi sono chiesto se fosse giusto gettare una secchiata d’acqua gelata sopra le coscienze decadute del nostro tempo e sopra l’abitudine che rende “normale” ciò che per molti secoli − va detto: in modo altalenante − è stato ritenuto malato, distorto, contrario, deviato.

Fortunatamente esiste una moralità superiore che mi spinge a denunciare l’indifferenza che ci circonda attraverso le opinioni di un solo uomo di scienza, che tuttavia possono anche essere messe in discussione, e dato che la scienza spesso non giunge a toccare i sentimenti degli uomini, ricorrerò alla religione cristiana per avvalorare la mia tesi, per dare cioè voce ad un fondamento assolutamente imprescindibile dalla nostra italianità.

«La mente del sapiente si dirige a destra e quella dello stolto a sinistra» (Ecclesiaste X,2)
«Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio» ( Marco: 16,19)

In mezzo a questi due passi, uno biblico l’altro evangelico, è bene ricordare che la mano sinistra fu considerata a lungo il prolungamento di quella del diavolo.
Eva colse il frutto proibito con la mano sinistra e sempre con la mano sinistra Adamo la afferrò per compiere il peccato originale. Gestas, il ladrone che fu crocifisso alla sinistra di Gesù, rifiutò il perdono deridendo il Figlio di Dio, mentre Disma, quello posto a destra, divenne il ‘Buon Ladrone’ addirittura Santo per la Chiesa cattolica e per quella ortodossa.
In altre religioni, la mano sinistra è impura, proibita e inevitabilmente secondaria o inferiore rispetto alla prima.

Non bastassero le ammonizioni cristiane sull’uso nefasto dell’arto sinistro, entrano in gioco fattori di origine popolare e folklorica.
Alcuni anni fa conobbi un ragazzo pugliese e mi spiegò che versare il vino con la mano sinistra era sinonimo di tradimento.

Tradimento confermato dalla tradizione dei convenevoli: forse, quando stringiamo la mano di un’altra persona in segno di saluto, non sappiamo che dietro si cela un linguaggio guerriero piuttosto antico secondo il quale esprimiamo fiducia e allo stesso tempo ci dimostriamo amichevoli, sinceri; al contrario la mano sinistra avrebbe un secondo fine, è la serpe che trae d’inganno il malcapitato ingenuo e permette al malvagio di afferrare la spada − normalmente alla destra − per ferire o uccidere.

Ma diamo un’occhiata anche all’etimologia legata al termine mancino: “azione sleale o insidiosa, compiuta con astuzia e in modo imprevedibile”.
“Persona infida, disonesta”.
Deriva dal latino mancus: “mutilato, storpio”.
Sinistro invece è sinonimo di incidente, sventura, sciagura.

Dopo aver raccolto prove di carattere scientifico-antropologico, religioso, tradizionale ed etimologico, riporto un esempio pratico di come il mancinismo fosse scoraggiato.

Per farlo bisogna entrare in una scuola primaria di circa ottant’anni fa, quando gli insegnanti usavano metodi sbrigativi per insegnare ai pargoli a far di conto e a scrivere. Il più delle volte ci si fermava alla terza elementare, ma in quei tre anni chi era mancino diventava destrimano grazie al delicato e discreto metodo del braccio sinistro legato alla sedia.

Le usanze secolari scemarono via via nel tempo, specialmente con l’avanzare di nuove frontiere nella ricerca psicologica e comportamentale; in pochi anni furono scardinate le certezze che reggevano la volta razionale e spirituale della società equilibrata.
Ci hanno convinti dell’assoluta parità tra un mancino e un destrimano, hanno parlato di scelta, altri di naturalità; insomma, hanno negato la devianza mentale e soprattutto la tesi religiosa legata ad essa, dicendo persino che i testi sacri andavano interpretati e non presi alla lettera.

La gente si è quindi assuefatta all’interno della visione bucolica e negazionista di chi brama spiegare logicamente le cose? Ha smesso di credere a regole considerate immobili dalla notte dei tempi? Se i mancini sono sostanzialmente deviati, perché hanno i nostri stessi diritti? Se alla base della nostra amatissima Italia ci sono radici cristiane, perché permettiamo al diavolo di aggirarsi tra noi?

Attendendo la risposta a queste domande che probabilmente non arriverà mai, qualcuno di voi si sarà già adeguatamente indignato − magari proprio perché mancino − leggendo la progressiva degenerazione delle mie argomentazioni antiquate e attualmente ridicole.
Ma il mio intento era proprio quello di trascinarvi in un breve tratto d’oblio non così distante da una realtà quotidiana nota per riesumare, esattamente allo stesso modo con cui l’ho fatto io, tematiche per la difesa di antichi retaggi… cercando di oscurare i diritti che le persone dovrebbero poter godere indipendentemente dalle scelte di vita.

Scelte che assecondano solamente la propria natura, sia essa incline a preferire la mano sinistra alla destra, la solitudine alla compagnia, il modo di provare piacere guardando una donna o un uomo adulto e consenziente.

Quando sentirete dire che una cosa è malata e innaturale solo perché non conforme alle scelte compiute da molti, ricordatevi dei mancini, e cercate di capire se vale davvero la pena ritornare a passeggiare nell’oblio.

Alessandro Basso

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Avanti verso il passato?

Molte volte mi imbatto in persone attaccate ad un filo, più o meno grosso, che riconduce tutto ad un presunto passato ‘migliore’.

Avete presente le frasi fatte che utilizzano i nostri nonni, i nostri genitori, ma anche semplicemente i nostri fratelli maggiori per vantarsi di qualcosa che hanno vissuto meglio di noi, durante il loro periodo d’oro?

Oppure le frasi che auspicano un ritorno alle origini, pur non avendole mai vissute, pronunciate da un giovane convinto della saggezza insita nel conservatorismo più intransigente.

Se anche voi le avete udite non allarmatevi, è la normalità.

Sembra che l’essere umano viva il suo presente posto in riflesso alla gloria che fu.

Il passato naufraga in un ricordo malinconico e riemerge senza nessun danno, intatto, come se la ruggine del tempo non lo avesse minimamente intaccato; eppure quante pagine nere abbiamo vissuto, quanti giorni oscuri dimenticati nel guizzo orgoglioso del racconto semi leggendario pontificato ai posteri.

Avanti verso il passato, direbbe qualcuno, perché non torniamo a com’era una volta?

Il progresso è diventato un demone da combattere, accusato dai più unicamente alla stregua di distruttore della morale che reggeva l’arco della pace tra gli uomini.

Ma quale pace, quale morale?

Guerre dimenticate e problemi inesistenti: si stava meglio quando si stava peggio.

Anche no.

Eraclito ci ha lasciato in eredità un ‘tutto scorre’ che pare sia scivolato lontano dagli occhi, dalle menti e dal modo di prendere la vita.

Lungi dal voler abbattere a colpi d’ascia le radici della nostra tradizione, dovremmo rimetterle in gioco davanti alle sfide future, all’oggi e al domani, ai noi stessi e ai nostri figli.

La tradizione davanti ad un nuovo modo di amare, sebbene sempre esistito ma tornato alla ribalta negli ultimi vent’anni; davanti ad un mondo globalizzato per arginare la sua tendenza all’anarchia; una tradizione da conservare e da brandire contro l’ignoranza dei nostalgici di un perfetto che non c’è mai stato.

Una tradizione che ci insegni anche la presenza di altre tradizioni, di altre culture.

Comprendere di non essere i soli a vivere in questo strano mondo, potrebbe essere un punto d’ormeggio nei mari della nostra presunzione di ‘unici eletti’.

Il passato allora può essere ricordato, amato e ripercorso nei suoi anfratti, chi studia la Storia, la Letteratura, l’Arte, la Filosofia e la Musica sa quanto tutto questo possa essere affascinante, ma esso diventa tale solo attraverso la comprensione dell’imperfezione figlia di noi esseri imperfetti.

Noi, abitanti del presente in cui tutto diviene.

Alessandro Basso

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