Un anno di Trump tra Twitter e fake news: verità e post-verità

Il 20 gennaio scorso si è celebrato il primo anniversario dell’insediamento di Donald J. Trump come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. I bilanci di questo primo e assurdo anno di amministrazione di The Donald si sprecano e si sprecheranno. Tra analisi sulla politica interna ed estera, Russiagate e immigrazione, sono molti i punti che meritano attenzione. I successi sono stati pochi: la nomina di un giudice della Corte Suprema e la riforma fiscale, mentre le sconfitte vanno dalla fallita abolizione dell’Obamacare alla perdita di un seggio sicuro al senato fino allo shutdown del governo. Quello che più ha stupito di Trump presidente, in questi dodici mesi, è stato però l’atteggiamento che ha quasi sempre tenuto nel dibattito politico e nei suoi rapporti con la stampa. Laddove si pensava che la comunicazione di Trump istrionica, esagerata e infarcita di bugie in campagna elettorale, potesse avere una svolta istituzionale una volta diventato presidente, si è stati ben presto smentiti dall’interessato.

Se torniamo con la memoria al giorno dell’insediamento ci potremmo ricordare che tutto cominciò con una colossale bugia. Trump e la sua amministrazione dissero che la cerimonia era stata un successo, una delle più seguite di tutti i tempi. Le foto del prato semideserto a confronto con quelle dell’insediamento di Obama smentirono quella affermazione, sebbene Trump e i suoi continuassero a proporre un altro tipo di verità.

La realtà alternativa o post verità è stata una costante prima nella campagna elettorale e poi nella presidenza Trump. Bugie dette non solo per promettere cose irrealizzabili o infuocare gli animi della base, ma per creare una narrazione del “noi” contro “voi” che ha polarizzato l’opinione pubblica e ha garantito a The Donald il sostegno di quelli che l’hanno votato. Dire la verità non è più un asset così vantaggioso, meglio costruirsene una.

Trump da quando si è candidato ha rotto costantemente le regole della dialettica tra uomini politici. Lo ha fatto un po’ consciamente e un po’ di puro istinto, quello per la battuta pesante, per la risposta arrogante e per il contrattacco come forma di difesa. Nessun presidente ha mai preso così sul personale le critiche al proprio operato o all’operato della propria amministrazione. E l’opinione pubblica americana non è stata tenera con nessun presidente, escluso forse il primo Obama.

Il presidente ha bollato ogni critica a sé e ai suoi collaboratori come fake, falsa, e ha iniziato a chiamare tutti i media critici fake news media, dalla Cnn a New York Times e Washington Post, meno il conservatore Fox News ritenuto invece affidabile. Trump ha accusato questi giornali e canali televisivi non solo di essere faziosi e schierati con i democratici, ma di inventarsi notizie con il proposito di screditarlo. Il tutto l’ha riassunto con la frase, più volte pronunciata: “You are fake news!”, riferita ai media sgraditi.

Un altro punto della presidenza Trump da sottolineare è il massiccio e sregolato uso di Twitter. Trump nel suo primo anno ha scritto 2595 tweet dal suo account personale e solo 2 da quello ufficiale @POTUS. Su Twitter Trump ha dettato l’agenda politica, ha criticato e insultato i democratici come i repubblicani non allineati e ha cercato di gettare discredito sulla stampa americana come sull’inchiesta che lo coinvolge. Il presidente è parso più volte preso da un raptus incontrollato che lo ha portato ha twittare più volte in pochi minuti, magari dopo essere venuto a conoscenza di qualcosa a lui sgradito dalla televisione.

Ha scritto ciclicamente che Hillary Clinton è corrotta e meriterebbe la galera, ha retwittato video falsi e islamofobi e un altro in cui, fuori da un ring di wrestling, mette al tappeto un uomo, che ha però il logo della Cnn sulla testa. Solo per citare alcune delle sue uscite social più famose.

L’impulsività e la litigiosità di Trump sui social, quando cioè è lasciato solo e libero di esprimersi, contrasta con i discorsi che fa invece leggendo dal gobbo. I secondi, come l’ultimo sullo stato dell’Unione, risultano molto più normali. Alla luce anche di questo, oltre che della sua e della dieta, hanno fatto dubitare a molti della salute e della stabilità mentale del presidente. Per fugare questi dubbi Trump si è fatto visitare recentemente e il suo medico ha fatto sapere che il presidente è in forma.

Esclusa per il momento l’ipotesi che il presidente degli Stati uniti d’America non sia totalmente sano di mente, resta il fatto che agendo come ha fatto nell’ultimo anno Trump ha cambiato il dibattito pubblico americano. Attaccando per non essere attaccato, insultando per primo o in risposta ad altrui offesa di certo non è riuscito a essere il presidente di tutti anzi. Forse Trump è sia la causa che l’effetto dell’odio e dell’intolleranza che vediamo riversata quotidianamente nella rete.

Di certo un presidente così, con questo modo di comunicare non si era mai visto. E anche i sondaggi che mostrano la politica Usa sempre più polarizzata tra destra e sinistra fotografano probabilmente sia la causa che l’effetto di un dibattito non sano. Sarà Trump un prodotto di questi tempi, chi lo sa. Forse non starà cambiando l’America, ma di sicuro il modo in cui si vive la politica.

Tommaso Meo

 

Letture consigliate per approfondire:
NY Daily News, Trump is a madman
Il Post, Il primo anno di Donald Trump da presidente, in cifre

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

La pragmatica come interpretazione del linguaggio dei Social Network

L’utilizzo del web 2.0 e dei Social network è sempre più massivo e le informazioni a disposizione non sono quantificabili; è una realtà disorientante, come cercare di navigare nella giusta direzione sopra una zattera in mezzo all’oceano, il rischio di sprofondarci è altissimo.

La questione di avere una bussola che ci aiuti a navigare in modo intelligente tra le mille forme di conoscenza che vi troviamo, è una necessità sulla quale si discute da qualche anno: c’è sempre più difficoltà nel distinguere una notizia falsa (bufala) da una vera, non solo da parte del singolo utente ma anche di accreditate testate giornalistiche.

La diffusione indiscriminata delle informazioni nel web ci rende sempre più difficile il lavoro di distinguere una informazione corretta da una sbagliata. Un atteggiamento critico è fondamentale, ma sembra assente in molte persone che si nascondono dietro ad un monitor e che interagiscono all’interno dei Social Networks assumendo delle vere e proprie cattive abitudini, come la mancata argomentazione, l’assenza di fonti, la pretesa di verità, insieme ad una certa aggressività.

Marina Sbisà, professoressa di Filosofia del Linguaggio all’Università di Trieste, grazie agli strumenti filosofici della pragmatica, ci offre una nuova chiave di lettura di tutti quegli enunciati che vengono formulati nei post e commenti in Facebook. Un commento diventa veicolo di conoscenza e per una grande quantità di utenti non si pone il problema di verificare la fonte o l’autorevolezza di chi promuove tale conoscenza.

Alla base della pragmatica c’è l’idea che l’uomo nel momento in cui parla non sta emettendo semplici suoni, ma agisce: il dire diventa un fare. John L. Austin, considerato tra i maggiori esponenti della pragmatica, mette in evidenza la stretta relazione tra il parlare e il contesto in cui viene fatto. L’ambiente in cui siamo immersi non è secondario in quanto influisce profondamente nel linguaggio, conferendo significati diversi a seconda della situazione in cui ci si trova a parlare.

Quando un giudice emette una sentenza, le sue parole hanno valore legislativo, possono condannare una persona a dieci anni di carcere. Si può vedere come le frasi di una persona che ha una certa carica e autorevolezza siano vincolate al contesto in cui vengono emesse. Anche l’esempio della promessa è utile per capire che quando parliamo stiamo facendo qualcosa, ad esempio prendiamo un impegno verso un’altra persona e prendere un impegno significa agire. Tutti i giorni compiamo degli atti linguistici. Austin ne distingue tre tipi: l’atto locutorio, ovvero del formulare una frase di senso; l’atto illocutorio che veicola l’intenzione della persona che parla; ed infine l’atto perlocutorio dove l’intenzione del parlante si realizza attraverso il dire. A noi interessa in particolare l’atto illocutorio.

Della teoria di Austin, Marina Sbisà pone l’attenzione sulla comunicazione implicita degli atti illocutori, ovvero tutte quelle informazioni che possiamo dedurre da una frase, parlata e scritta, già presenti in essa ma non ancora esplicitate. Ci sono due forme: la presupposizione, ad esempio dire «non pubblico più selfie», presuppone che il parlante in passato abbia pubblicato almeno un selfie; e l’implicatura, che invece suggerisce un’informazione, prendiamo l’esempio della credenza: affermare «sta bene anche se ha fatto il vaccino», suggerisce la credenza da parte dell’autore che i vaccini possano far male.

Molte delle frasi e commenti che possiamo trovare in Facebook, vengono espressi come giudizi veri, presuppongono l’autorevolezza di chi li emette e spesso implicano molte discriminazioni. L’atto di riconoscere l’autorevolezza di chi sta facendo affermazioni permette implicitamente il loro diffondersi come forme di conoscenza. I like e i followers sono gli strumenti di tale diffusione, in quanto esprimono l’assenso ad un post o un utente, e la loro quantità diventa proporzionale alla loro credibilità.

La credibilità di un’informazione dovrebbe dipendere dall’argomentazione e dalla fonte, e questo avviene solo saltuariamente nei Social, mettere in discussione l’altro significa essere in disaccordo, ed eliminare un’opinione diversa con un click è diventato facile, come scrivere un insulto e offendere senza alcuna remora.

Oltre all’aggressività, secondo la Sbisà, un altro comportamento rischioso è l’instaurarsi di relazioni affiliative. Gli utenti sono generalmente portati ad iscriversi a gruppi e pagine fan, favorendo l’esclusione di chiunque abbia un’idea diversa. Chiudersi dentro gruppi affiliati, lascia fuori punti di vista diversi che potrebbero mettere in crisi alcune conoscenze che si tende a dare per assodate a favore di un illusorio senso di sicurezza e stabilità.

L’atteggiamento critico deve mettere in crisi ciò che solitamente diamo per scontato, per aprire alla vera conoscenza, per uscire dalla caverna di Platone e vedere il mondo sotto una luce diversa.

Un suggerimento che ci proviene da Marina Sbisà è di esercitarci a riconoscere in modo consapevole tutte quelle presupposizioni e implicature che si nascondono dietro agli enunciati nel web e che favoriscono la diffusione di pregiudizi, discriminazione ed ignoranza. Insegnare ai giovani a sviluppare un atteggiamento critico potrebbe essere un primo passo verso questa direzione, per imparare in futuro a puntare la luce sulle verità e lasciare nell’ombra tute le falsità che ogni giorno minano le fondamenta del sapere.

 

Elisa Raimondi

Mi sono laureata in filosofia a Venezia, e non ancora stufa di questa meravigliosa materia ho iniziato a frequentare il Master in consulenza filosofica. Ho deciso di studiare, scrivere e lavorare con passione. Il mio obiettivo a lungo termine è diventare la versione migliore di me stessa.

BIBLIOGRAFIA
P. Labinaz, M. Sbisà, Credibilità e disseminazione di conoscenze nei Social Networks, Iride 2017
J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Milano 2012

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Licei, filosofia e serie tv: intervista a Tommaso Ariemma

L’istruzione scolastica alimenta l’ampia e delicata sfera dell’educazione dei ragazzi e rappresenta un pilastro per la crescita di una persona. Forse il pilastro più importante, assieme alla famiglia d’origine.

Eppure la scuola è bistrattata, sottovalutata, screditata. Siamo tutti reduci di brutte esperienze? Difficile fare i giudici a posteriori, lamentandoci di quello che non funziona senza mai guardare agli aspetti positivi che infuocano la passione degli studenti, la loro motivazione, le loro conoscenze.

Ce lo ricordiamo tutti in fondo il professore diverso, quello che ti rimane nel cuore per tutta la vita e che ti ha cambiato il modo di vedere la scuola e lo studio. Quel professore particolare, unico, trascinante e coinvolgente. Ecco, ne abbiamo trovato uno ancor più amato e stimato per il modo di trasmettere informazioni, cultura, riflessione e consapevolezza.

Tommaso Ariemma insegna filosofia in un liceo a Ischia, ma la sua risonanza ha ormai conquistato e appassionato tutta l’Italia. Ora è tempo che lo conosciate da vicino anche voi!

 

Insegnare filosofia sui banchi di scuola è troppo spesso diventato un modo per obbligare gli studenti a sapere a memoria una marea di nozioni. Per loro spesso il contenuto non ha importanza, basta saperle ripetere e il gioco è fatto. Ma la filosofia è questa? Qual è la situazione in Italia di come si insegna filosofia sui banchi di scuola?

La filosofia non è certo imparare a memoria delle nozioni, ma saper comprendere il proprio tempo in dialogo con i grandi pensatori, non solo del passato. I testi dei filosofi e le loro riflessioni devono essere usati come una “cassetta degli attrezzi” altrimenti è tutto inutile. Comprendere il proprio tempo significa a questo punto attraversare, con la filosofia, la cultura di massa contemporanea fatta di serie tv, abitudini sui social, svolte tecnologiche e politiche. Ai miei studenti chiedo pertanto esercizi di comprensione, meditazioni filosofiche sul presente. Dovrebbero farlo anche i miei colleghi, ma non accade spesso. Per molti ragazzi la filosofia resta una disciplina astrusa, fino a quando non capiscono come usarla: solo allora essi colgono lo straordinario aumento di percezione della realtà che dona lo studio di questa disciplina.

 

La filosofia nelle scuole viene troppo spesso presa per un calderone di concetti difficili da capire e da ripetere, eppure nasconde in sé una base per la crescita personale e intellettuale dei ragazzi. Ritieni che sia utile insegnare filosofia alle scuole superiori? Estenderesti l’insegnamento anche ad altre classi e scuole, per non lasciare ragazzi privi di questo privilegio?

La filosofia andrebbe estesa a ogni ordine e grado di istruzione. Lo si fa già, in via sperimentale, con i bambini, con un certo successo. È la disciplina che ti permette di orientarti nel mondo in modo critico e attivo. Certo, per me, l’adolescenza resta il periodo della vita migliore per apprenderla: un periodo delicato, ricco di sfide e la filosofia può diventare, se insegnata bene, una valida compagna di strada.

 

Per l’opinione pubblica, la scuola non gode purtroppo di una grande fama: si critica spesso quello che viene insegnato e il modo con cui si fa ancora didattica. Sappiamo invece che tu rappresenti una piacevole eccezione, in che modo invece ti differenzi dai consueti metodi di insegnamento?

Quando entro in classe non penso mai di “spiegare” qualcosa a qualcuno, ma di costruire un ambiente di trasformazione e di incubazione di nuove soluzioni insieme ai miei ragazzi. Lo scorso anno, per esempio, abbiamo cercato di formulare in classe una legge antiterrorismo, utilizzando il Sofista di Platone e alcune nozioni di diritto. Definire con una legge il terrorista si è rivelato alla fine molto difficile, tanto quanto per Platone lo era individuare il “sofista”, il cattivo filosofo. I ragazzi si sono misurati davvero con una difficoltà del nostro tempo. Ecco: la scuola funziona se i ragazzi vengono stimolati, sfidati, sollecitati a usare la loro intelligenza per guardare in faccia il mondo. Anche un po’ per scherzare, dico spesso che la filosofia la conosco e mi annoio a sentirmela ripetere. Mi incuriosisce di più vedere cosa sono capaci di fare in ragazzi con del materiale filosofico.

 

Dai social network vediamo che i ragazzi ti seguono appassionati e coinvolti. Da vicino, potresti raccontarci qual è la risposta sul coinvolgimento dei tuoi studenti? Ci sono influenze positive anche sull’apprendimento delle parti più nozionistiche?

Spesso circola l’idea che il docente sia una sorta di “facilitatore”, uno che semplifica le cose. È una visione per me sbagliata, perché io cerco di essere piuttosto un “attivatore” culturale. Mi piace pensare al docente, e in particolare al docente di filosofia, come a colui che “innesca” apprendimenti, che cambia il modo di vedere le cose. I miei ragazzi riescono ad avere lo stesso entusiasmo che hanno nel seguire o nel fare le loro attività preferite. E a quel punto la complessità della filosofia non li spaventa. Anche gli aspetti più nozionistici vengono visti come un mezzo per un divertimento e una soddisfazione più grande e pertanto non vengono affatto trascurati.

 

Uno dei tuoi meriti è quello di essere arrivato al cuore dei ragazzi attraverso l’utilizzo delle serie tv per spiegare la filosofia. Le serie tv e i film non sono quindi una perdita di tempo, ma sono impregnati di filosofia: ci puoi fare qualche esempio?

Va detto che sono arrivato al loro cuore, perché sono, come studioso e filosofo, un esperto del funzionamento delle nuove serie tv. Prima di insegnare a scuola ho fatto corsi universitari e  pubblicato diversi volumi accademici sul fenomeno. Questo per dire che il “metodo pop” non si improvvisa. Implica un ripensamento della didattica alla luce di nuove competenze. Non vedo una serie che mi piace e ne parlo semplicemente ai miei ragazzi: seguo da studioso il fenomeno delle nuove serie tv, che ha come caratteristica distintiva una forte componente filosofica. Per questo motivo le serie vengono impiegate nelle mie lezioni. Nella serie tv True Detective, per esempio, vengono citati Parmenide (implicitamente) e Nietzsche (esplicitamente). In Lost addirittura si esagera: alcuni protagonisti hanno il nome di celebri filosofi! Insomma, da più di un decennio la filosofia può trovare un valido alleato nella nuova serialità televisiva.

 

Senza poi dimenticarsi dei social network, vediamo che avete creato una pagina molto seguita, in cui i ragazzi possono veicolare le loro conoscenze e diffonderle in maniera virale. I social network possono aiutare la filosofia a diffondersi? In che modo?

Lo scorso anno abbiamo creato un blog, ancora attivo e ricco, che contiene gran parte dei nostri esperimenti didattici: tuttofastoria.wordpress.com. È il nostro modo di documentare e condividere in rete quanto si produce in classe. Lo ritengo fondamentale: in rete qualche collega un po’ chiacchierone critica il mio metodo senza alcuna cognizione del lavoro che faccio e allora io posso esibire con orgoglio (a differenza del collega) la mia sperimentazione.

Quest’anno al blog si è aggiunta la pagina Facebook Scuola Pop.Filosofia e cultura di massa, che in pochi mesi ha superato i 6000 followers. I miei ragazzi si sono cimentati con video performance filosofiche, la creazione di un video-dizionario filosofico e altri esperimenti che hanno raggiunto migliaia di visualizzazioni in poco tempo. La filosofia può essere al passo con i social proprio grazie all’entusiasmo dei ragazzi e alla loro energia. La pagina promuove il mio metodo secondo il principio della diffusione del sapere e delle buone pratiche. Non sopporto l’idea del professore che si chiude in classe e poi cala il buio. Tutti, invece, possono vedere (e criticare) quanto facciamo.

 

In alcuni tuoi libri analizzi il contatto tra l’arte e la filosofia: come si esprime secondo te il legame tra queste due discipline?

Entrambe si occupano di “singolarità”, ma in modo diverso: l’arte lo fa attraverso una pratica che coinvolge i media più differenti (letteratura, pittura, scultura, architettura, cinema, serie tv etc) riducendo al minimo, quasi si trattasse di una fuga, l’aspetto concettuale. La filosofia fa quasi l’opposto. Inutile dire che questa doppia fuga, dalla materia in un caso, dal concetto nell’altro, genera una grande attrazione tra le due discipline, per cui il filosofo è sedotto spesso dall’arte e viceversa. Nella mia carriera di filosofo non ho fatto altro che occuparmi di artisti e pratiche artistiche. Anche l’interesse per le serie tv viene da questa seduzione che l’arte esercita sulla filosofia.

 

In un tuo scritto, hai definito i selfie “una pratica di cura del sé”: perché credi sia scoppiata questa mania dell’esposizione di sé? Ha a che fare con la ricerca costante dell’essere umano di una forma di bellezza?

Il discorso in questo caso non è facilmente riassumibile in due righe. Certo, la pratica del selfie ha a che fare con la bellezza, e in particolare con una forma di bellezza che ha origine nel Rinascimento, ovvero con l’esaltazione dell’immagine del corpo perfezionabile. Ma haanche a che fare con una pratica di cura, di costante preoccupazione per la nostra immagine condivisa sui social che può portare all’esaurimento. Da filosofo ragiono però anche come una sorta di “farmacologo”, nel senso che, entro certi limiti, la pratica del selfie può rivelarsi importante per sviluppare un amore di sé, un narcisismo non patologico capace di contrastare il prodotto più importante dell’attuale industria della bellezza: la vergogna di sé stessi.

 

Un consiglio per i nostri lettori. Tra le tue pubblicazioni, quali ritieni che stiano aiutando maggiormente la filosofia ad essere divulgata per il grande pubblico, condividendola anche al di fuori delle scuole e delle università?

Certamente il volume La filosofia spiegata con le serie tv edito da Mondadori da qualche mese. È il risultato proprio della mia sperimentazione in classe. Anche se molto recente, sta registrando un successo inaspettato sia nei giovanissimi che negli adulti che da tempo avevano abbandonato lo studio filosofia.

 

È obiettivo de La Chiave Di Sophia mostrare come la Filosofia possa entrare in dialogo con tutto ciò che ci riguarda nella quotidianità. Per te che cosa significa Filosofia?

Lo dico in due parole, altrimenti il discorso sarebbe troppo lungo: l’esposizione del pensiero. Per me filosofia significa non aver paura di pensare.

 

 

Giacomo Dall’Ava

 

banner-pubblicitario7

Gli intellettuali oggi

Oggi l’intellettuale è una delle figure più vituperate insieme a quella dell’insegnante e del medico. Dai giornali, dai social network, dai talk televisivi si attacca sempre più spesso colui che desidera riflettere in maniera più approfondita su un certo tema poiché non sarebbe un’azione abbastanza pratica; d’altronde termini quali intellettualoide, professorone, filosofo ecc sono tra i dispregiativi più utilizzati per delegittimare chi esercita il pensiero.

Da dove deriva questo rancore?

Una delle ragioni principali deriva dal fatto che l’intellettuale non produce materialmente ricchezza. Non è dunque un lavoratore o un individuo che si mette a fare, un termine quest’ultimo talmente abusato ormai che se non si fa o non si mostra quanto si fa (in Facebook ad esempio), ci si sente colpevoli o perfettamente inutili in un mondo dove l’ordine di produrre ha esteso le sue lunghe braccia anche nel cesso di casa.

Dunque per ottenere rispetto da parte del pubblico, l’intellettuale contemporaneo è costretto a definirsi un professionista, un colletto bianco con una ventiquattrore contenente l’ultimo sensazionale libro dalla copertina dai colori sgargianti e con un titolo stampato a caratteri cubitali. Inoltre, essendo un professionista dovrà limitarsi a commentare solo ciò che è inerente al suo campo di competenza, un quadratino sempre più piccolo nell’epoca della parcellizzazione dei saperi: sei il massimo esperto delle mele, ottimo. Non azzardarti però a parlare delle pere, son troppo diverse quindi non puoi comprenderle. Oltre a limitarsi al suo campo di competenza, l’intellettuale contemporaneo per forza sarà costretto a schierarsi o tra le file dei buonisti acritici che credono in un mondo a forma di cuore, oppure fra i complottisti di mestiere che dietro a ogni zona d’ombra ricamano teorie da milioni di Like. Non ci si può astenere altrimenti sei uno della casta.

In realtà, io credo che l’intellettuale debba avere un altro profilo.

Innanzitutto dovrebbe avere fiuto, ossia la capacità di leggere e calibrare gli equilibri sociali prima degli altri. Per questo, occorre che l’intellettuale sia dotato di un senso critico estremamente sviluppato. Si può difendere una causa, si può dare voce a un punto di vista, ma la critica deve per forza venire prima della solidarietà (di fedeltà neanche parlo). Di conseguenza, l’intellettuale non potrà schierarsi apertamente prima di non avere sottoposto all’esercizio della critica questo primo legame in particolare e tutti quelli che legano le infinite componenti di una società. A tal proposito, per chi lavora con il pensiero non esistono ordini fissi, gerarchie naturali, presupposti intoccabili e verità a priori in quanto tutto è mutabile, rovesciabile e segmentato.

Insomma da questa breve descrizione l’intellettuale sembra essere un guastafeste, l’amico noioso che alle feste vuole ascoltare il vecchio e saggio Guccini al posto del giovane e superficiale Rovazzi. In realtà non è proprio così. Chi vuole partecipare ai dibattiti e alle riflessioni d’oggi non può vivere al di fuori del mondo come un eremita o provare nostalgia per quel passato della serie “si stava peggio quando si stava meglio”, ma bisogna che si immerga con tutto sé stesso nel suo tempo. Per questa ragione è impensabile non avere un account Facebook e/o Twitter dal quale commentare, anche in maniera provocatoria, ciò che succede con il pericolo di essere attaccato su tutta la linea da diversi leoni da tastiera.

Per concludere, l’intellettuale non può permettersi di essere schizzinoso di fronte agli strumenti di comunicazioni odierni e in generale di fronte alla società contemporanea. Occorre sporcarsi nello stesso fango dove nuotano gli altri, controbattere colpo su colpo senza perdere il senso critico, la vera arma di chi lavora con il pensiero. Magari insieme a un vocabolario incisivo e comprensibile da tutti.

Marco Donadon

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia

Il costo psico-sociale del progresso tecnologico

Questa riflessione nasce dopo la visione delle prime puntate di Black Mirror, una serie televisiva britannica, ideata e prodotta da Charlie Brooker per Endemol che vi consiglio di guardare se siete pronti a mettere in discussione tutto il mondo che vi circonda.
Il filo conduttore di ogni episodio sembra riguardare il progresso tecnologico, la dipendenza da esso e i danni collaterali provocati alla razza umana. Vengono immaginate e ricreate diverse situazioni del mondo moderno o futuro in cui una nuova invenzione tecnologica o un’idea paradossale ha in qualche modo destabilizzato la società e i sentimenti umani. In altre parole, parliamo di una serie-tv che mostra una visione futura della società umana basata sugli attuali trend tecnologici di socializzazione virtuale, interazione, connessione costante e gamification.

Ciò che emerge è uno scenario a dir poco devastante e stupefacente che tratteggia l’assuefazione che il progresso tecnologico sta prospettando per il futuro. Provate a pensare ad una realtà in cui verranno impiantati micro-schermi nella retina (Z-Eyes) con cui bloccare (oscurandone la visione come nei social) persone reali che vi stanno antipatiche, controllare e ricontrollare fino allo sfinimento il vostro passato alla ricerca di errori, dettagli insignificanti, ricordi struggenti e momenti intimi che dovrebbero restare irripetibili.
Pensate ad un futuro che vedrà un’integrazione completa tra la vita reale e la vita virtuale e i social, talmente tanto riuscita da dare vita a figure professionali che cureranno il vostro punteggio, i vostri follower, le vostre relazioni interpersonali in streaming grazie a chip inseriti sottopelle che registreranno tutto come una regia occulta.
Una delle prospettive più sconvolgenti che viene mostrata vede addirittura la commercializzazione di un macabro software che permette di parlare con un defunto grazie alla realtà aumentata ed alla eredità social cristallizzata sul web di tutti noi.
Guardando questa serie ho pensato che tutto ciò, sebbene assolutamente assurdo, è del tutto credibile e possibile perché alcune cose che sono diventate di uso comune oggi sarebbero state impensabili ed assurdamente inutili anni fa.

Tutto è possibile ed estremamente più vicino di quanto si pensi (Google Glass): non ci vorrà tanto, ma quale sarà il costo psicologico e sociale del progresso tecnologico? A cosa stiamo rinunciando, a cosa rinunceremo, quali danni stiamo arrecando ai nostri processi cognitivi e relazionali abusando in questo modo del virtuale a scapito del reale?
Perché il pericolo esiste: è bene che questo si sappia e che non venga sminuito. Ci troviamo di fronte ad un’evoluzione che oggi è più che esponenziale, che corre e si rincorre come nella storia non è mai avvenuto.
Da tempo sociologi e psicologi cercano di avvertirci, parlano per esempio dei quasi mitologici Hikikomori, poveri adolescenti che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, che passano la loro vita in una camera, credendo di giocare attraverso una consolle, di fare sport attraverso un avatar virtuale e di socializzare attraverso Facebook. E non sto parlando di una puntata di Black Mirror.

I danni di questo progresso sono solo minimamente immaginabili perché i risultati potremo osservarli realmente solo tra qualche generazione.
Il compianto Bauman asseriva: «Il vantaggio della rete è la possibilità di una comunicazione istantanea, ma questa possibilità ha delle conseguenze, degli svantaggi non calcolati. I social media spesso sono una via di fuga dai problemi del nostro mondo off-line, una dimensione in cui ci rifugiamo per non affrontare le difficoltà della nostra vita reale»1.
Ovviamente sarei ipocrita a dire che il progresso tecnologico, i social, il web non hanno migliorato il nostro tenore di vita. Sarei falso se volessi proporre un arretramento: grazie al web questo mio articolo raggiungerà centinaia di persone; qual è però il costo di questa di questa amplificazione? Centinaia di persone passano le giornate a confrontarsi non più fisicamente, attraverso il dibattito, ma sterilmente attraverso la tastiera: via la faccia, le anime, il pathos, via il confronto reale.
Grazie ai social network si entra in contatto con persone ormai lontane, ci si ritrova, ma in realtà la discussione si allontana fisicamente, credendo di interagire, di socializzare. A fine serata provate a fermarvi, provate a pensare a quanto hanno vibrato le vostre corde vocali, quanta aria fresca è entrata nei vostri polmoni, provate a pensare, se non ci fosse stato WhatsApp sareste usciti per parlare con quegli stessi amici? Ritenete una comodità restare in casa mentre chiacchierate della vostra giornata super-piena di lavoro? Sarà un vantaggio poter riguardare il passato coscienti di non poterlo comunque cambiare? Come vi sentireste se al centro delle recensioni non ci fossero più solo ristoranti (dietro cui ci sono comunque persone) ma voi, il vostro carattere? È un’app così assurda da immaginare?

L’obiettivo non è regredire: non si vuole perdere nulla. Io credo che l’umanità debba pensare al suo futuro proprio agendo sulla concezione di esso, calibrando attentamente la nostra concezione di progresso tecnologico, di futuro. Abbiamo bisogno di rallentare, capire che uno smartphone, l’uso indiscriminato di Facebook, potrà regalare ai nostri figli un magnifico mondo inesistente, una vita soffusa, un’economia sterile, una civiltà che non è, già ora, più interessata al bello, all’arte, alla cultura.
Credo sia necessario individuare una capacità di sviluppo tecnologico sostenibile che ci consenta di migliorare la nostra vita quel tanto che basta per non creare una perdita futura dal punto di vista sociale e lavorativo, poiché anche questo è un altro punto sensibile da trattare come si deve.
Il progresso e l’innovazione sono il motore dell’economia industriale, la scintilla che ha portato all’economia del benessere negli anni passati: oggi siamo oltre 7 miliardi di persone su questa Terra, la smaterializzazione dei lavori, la dismissione dell’uomo-operaio, dell’uomo-lavoratore a fronte dell’online distruggerà posti di lavoro e annienterà vite umane. L’economia e il lavoro si adegueranno certamente: siamo sicuri che la crescita e lo sviluppo debbano seguire una via tanto sregolata? Siamo sicuri che non sia più giusto seguire il vivere bene piuttosto che il vivere meglio?

Flavio Albano

Flavio R. Albano è docente a contratto di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università degli studi di Bari. Dal 2006 collabora con aziende di servizi turistici di tutta Italia nella selezione, formazione e gestione delle risorse umane. Ad oggi ha all’attivo diverse ricerche scientifiche, pubblicazioni e partecipazioni a conferenze internazionali, collabora con diversi enti pubblici e privati sullo sviluppo di analisi di marketing territoriale. Nel 2014 ha pubblicato il libro “Turismo & Management d’impresa” subito adottato all’Università della Basilicata. Nel tempo libero scrive romanzi di narrativa, dipinge, suona la batteria e recitare resta la sua più grande passione.

NOTE:
1. Z. Bauman, La vita tra reale e virtuale, Egea, Milano 2014.

[L’immagine, tratta da Google Immagini, è un fermo immagine di una puntata di Black Mirror]

Libertà d’opinione is not diritto alla cazzata

«Quali sono i confini dell’universo?
Avrò chiuso il portoncino?
Però i confini dell’universo esistono perché non riuscirei ad immaginare l’infinito…
Sento il mio cuore battere, non mi addormenterò prima delle tre, sicuro come la morte.
E poi sono libero di pensarla come voglio, cioè se alla fine dell’universo trovo, che so, un cartello con scritto “arrivederci” posso dirlo a voce alta no? No dai, si sente che è una cazzata…
Ma quale sarà il confine tra la libertà di opinione e il diritto a dire una cazzata?
Comunque il portoncino non l’ho chiuso…»

Questi sono i pensieri-tipo che affollano la mia mente durante una normalissima nottata in attesa di prender sonno e molto probabilmente – con leggere modifiche al contenuto – sono gli stessi pensieri di milioni e milioni di persone. Ad un certo punto succede qualcosa, scatta un meccanismo che trasporta queste elaborazioni campate in aria dal crepuscolo della notte alla realtà quotidiana; alcune diventano burle, altre diventano chiacchiere da bar, altre ancora si trasformano in scherzi più complessi, del resto con internet tutto è possibile: la cazzata diventa notizia, la notizia corre alla velocità di un click, viene condivisa, e diventa magicamente vera.

Tuttavia esistono gradazioni (o degradazioni?) molto più fosche di quelle appena descritte: sto parlando dei casi, anche recentissimi, in cui pensieri reconditi dal dubbio gusto e dalla dubbia natura, dimenticano di essere cazzate spacciandosi per oculati pareri che devono essere sempre giustificati in nome della libertà di opinione.
Nel concreto la maggior quantità di novelli pensatori gravita attorno alla galassia dell’immigrazione, un tema scottante che necessita una conoscenza adeguata per poterlo affrontare con l’efficacia che merita.
Con la scusa delle grandi fallacità organizzative, molte persone si sentono in dovere di sguazzare nella terminologia più animalesca, invocando – naturalmente con la super benedizione di Dio – la morte per delle persone che la fuggono o, nel peggiore dei casi, di esultare, di gioire quando essa effettivamente ha luogo.

È vero, esistono dinamiche che difficilmente possiamo comprendere a prima vista traendole da social, dal sentito dire, da quel famosissimo ‘cugino che dice cose‘; esistono evidenti punti oscuri in un fenomeno che tocca molti Paesi del mondo e vite di molti uomini.
Esistono problemi legati all’integrazione, alla compatibilità tra culture, alla deriva della ghettizzazione provvisoria – che poi diventa definitiva – alla creazione di due o più società parallele destinate a non incontrarsi mai.
Ma ha davvero senso rincarare la dose con atteggiamenti ostili, con commenti disgustosi volti principalmente alla speranza della morte altrui?

A metà gennaio era trapelata la notizia del licenziamento di una professoressa di Venezia che aveva espresso, sulla piazza di Facebook, la necessità di eliminare anche i bambini musulmani colpevoli di essere futuri delinquenti.
Ovviamente la maggior parte delle persone ha reagito come ci si aspetta reagiscano le persone normali, ma un nutrito manipolo di illustri, al posto di accorgersi dell’opportunità mancata dell’insegnante quindi educatrice – per dimostrare la propria adeguatezza al mestiere, fece notare di come fosse venuta meno la libertà di pensiero, la libertà di esprimere una propria opinione, e che il crudelissimo Politburo sovietico che governa le nostre menti brillanti aveva ignobilmente fatto sospendere dal lavoro una persona.

La libertà di opinione è preziosa, permette il confronto e il confronto permette la crescita, il cambiamento, oppure il rafforzamento delle proprie idee. Attualmente basta affacciarsi sui social, o per la strada, o nelle università, o in qualsiasi luogo di incontro, per poter esercitare questo diritto, ma non è sempre stato così.
Probabilmente, proprio perché non abbiamo l’esatta percezione di questo potere, abbiamo dimenticato di come esso sia stato il frutto di lotte portate avanti da chi la dittatura, intesa come pensiero unico e totalizzante, la visse e la subì davvero.

Questa notte, dopo esservi assicurati di aver chiuso il portoncino, e dopo aver finalmente deciso cosa c’è alla fine dell’universo, pensate pure a tutte le cazzate che vi vengono in mente, ma se avete dubbi sul loro gusto, se avete dubbi sull’opportunità di renderle di dominio pubblico sottoforma di commento “serio”, se avete un qualsiasi tentennamento, significa che potete tenervele per voi.
Vi assicuro che non è reato.

Alessandro Basso

[In copertina: Diego Rivera, Agitazione e confusione, 1933. Immagine tratta da Google Immagini]

Hic sunt leones: l’immunità nei social

Nel 2016 gli italiani che adoperano quotidianamente i social network sono circa 21 milioni ovvero il 35% dell’intera popolazione del Bel Paese, un dato non indifferente se consideriamo di come nell’autunno di otto anni fa si aggirava attorno al milione di utenti. Un boom che ha portato a considerare la piattaforma più usata: Facebook, come una sorta di nuova piazza, capace di far interagire tra loro persone non solo di tutta Italia, ma anche di tutto il mondo. Si tratta di un’ulteriore evoluzione della comunicazione di massa?

Guardando brevemente la storia della stessa possiamo rispondere tranquillamente che sì, i social network hanno sintetizzato le passate esperienze della radio e della televisione; dalla prima hanno ereditato l’interazione – sebbene la maggior parte degli apparecchi potesse solo ricevere, non di rado si potevano incontrare appassionati smanettoni capaci di costruirsi la propria stazione radio in grado anche di trasmettere e quindi di comunicare: da metà anni ’70 si assiste infatti alla diffusione delle “radio libere” – dalla seconda invece hanno ereditato la componente video.

Esistono dei benefici, degli aspetti positivi nell’uso di questi veri e propri strumenti, specialmente in ambito mediatico o della conoscenza, eppure sotto la superficie esiste un intricato labirinto oscuro capace di mostrare la parte più recondita – e forse più sincera – delle persone. Quello che si percepisce è un grosso divario tra ciò che si potrebbe e ciò che invece si fa con l’internet del XXI secolo; ognuno di noi per esempio potrebbe incrementare la propria capacità di critica, di analisi e di confronto, nel concreto invece si assiste ad un fenomeno diametralmente opposto: più aumentano i presupposti del progresso sociale, più le persone costruiscono un muro di ottusità oltre il quale si estendono diversi ettari di occasioni perdute.

Così i pensieri espressi si omologano al pensiero-matrice della personalità legata al mondo della politica, o dell’opinionismo spiccio, oppure del mondo fittizio della “bufala”; il risultato sono centinaia e centinaia di frasi ripetute all’infinito prive di fondamenti concreti, orfane di fonti o addirittura inserite a caso nei più svariati contesti.

Come se non bastasse, a questa babele informatica si aggiunge il fattore cattiveria.

La “cyber diffamazione” amplifica l’antica derisione all’ennesima potenza: se in passato il proprio raggio di socializzazione era limitato ad ambienti locali e quindi per ricostruire la propria reputazione, messa in pericolo da qualche buontempone, bastava semplicemente cambiare quartiere o frequentazioni, oggi la propria vita privata è esposta a rischi ben più profondi poiché il raggio di socializzazione si è prolungato a dismisura raggiungendo un numero considerevole di persone con la conseguenza evidente che i rimedi del passato risultano totalmente inefficaci. I risultati sono tristemente noti: suicidi per cyber bullismo o traumi riconducibili ad esso e ripercussioni sulla salute psicologica della vittima.

Oltre all’accanimento contro una persona specifica assistiamo sempre di più alla violenza espressa, sempre attraverso frasi di cattivo gusto, nei confronti di comunità straniere – senza risparmiare i bambini – o nei confronti di determinate categorie di persone perché non annoverabili nella “normalità”.

Sebbene venga spontaneo chiedersi se gioire della morte di qualcuno o auspicare gratuitamente stragi efferate sia il metro di giudizio della normalità, è interessante il diverso atteggiamento che gli stessi individui utilizzano nei social network e nella realtà del quotidiano. Siamo tutti affetti da una sorta di bipolarismo confuso? Più probabilmente è la diretta conseguenza del nostro snobbare le parole.

Esse infatti, come dice un antico proverbio, feriscono più della spada, ma dato che non hanno la forma di un’arma e non sono consistenti tanto quanto un’arma, vengono il più delle volte sottovalutate, non tanto da chi le legge, ma da chi le pronuncia. Lasciano segni interiori, quindi invisibili ai più, ed il confine tra invisibile ed inesistente è così labile che spesso e volentieri lo si varca senza preoccuparsi troppo.

Negli ultimi anni in particolare è proprio la piattaforma Facebook ad averci regalato punti davvero bassi per quel che concerne la qualità del dialogo tra utenti. Si è via via trasformato in un’arena dove ci sono i leoni, quelli da tastiera ovviamente, convinti di vivere in un mondo ultraterreno, dove le conseguenze – in particolare quelle penali – sono incorporee, e forse non hanno nemmeno tutti i torti.

Tirando le dovute somme la domanda si pone un dubbio fondamentale. Ripartendo dai dati forniti all’inizio, proprio perché ormai il 35% degli italiani usa i social network, proprio perché le conseguenze dell’errato uso degli stessi provocano danni spesso irreversibili alle persone, quando verrà il momento di regolamentare, anche attraverso sanzioni più concrete, il comportamento degli utenti? Quando verrà finalmente il momento in cui tutti i fruitori della rete dovranno, per legge, prendersi la responsabilità di ciò che dicono pubblicamente?

Non resta che aspettare, speriamo non troppo, ulteriori sviluppi e approfondimenti sul tema.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da Google Immagini]