Filosofare con Game of Thrones: la guida di Tommaso Ariemma

Game of Thrones (targata HBO e andata in onda dal 2011 al 2019, in Italia su Sky) è una serie tv imbevuta di filosofia. Filosofia politica, ma anche sociale, o più semplicemente una filosofia sistematica sull’essere umano, sulla sua malvagità e pietà, sull’utilitarismo e sull’eterna lotta fra ragione e cieca emozione. A prescindere dal finale di serie, che ha generato polemiche che ancora non si sono placate, resta il fatto che Game of Thrones è stata rivoluzionaria, e non solo per la televisione. Lo è stata da un punto di vista culturale, è entrata nelle nostre vite e ci ha uniti in dibattiti, esortato a tifare, ci ha fatto piangere e arrabbiare.

Tutto questo Tommaso Ariemma, già autore di La filosofia spiegata con le serie tv (Mondadori, 2017) e La filosofia degli anni ’80 (Il Nuovo Melangolo, 2019), lo coglie alla perfezione nel suo ultimo libro, Game of Thrones. Imparare a stare al mondo con una serie tv (Il Nuovo Melangolo) uscito a novembre 2020. Scritto con la tecnica che lui stesso definisce la migliore in termini filosofici, ossia un misto di autobiografia e autofinzione, con una buona dose di (sempre parole sue) “immaginazione didattica” tra lui e i suoi studenti, che hanno il merito di avergli fatto scoprire la serie, il libro parla di questo enorme fenomeno mediatico da angolature insolite e inedite. Ariemma racconta la sua iniziale indifferenza nei confronti della serie (l’aveva iniziata ma non ne era rimasto colpito), per poi passare ad un vero e proprio attaccamento, quello che tutti i fan hanno provato. Un attaccamento ancestrale, che, come nota Ariemma, viene dal passato, dalla tradizione orale, da quei canti (non a caso la serie è tratta dalla saga letteraria di George R.R. Martin, intitolata A Song of Ice and Fire) dal sapore epico, dove la morte è centrale. Morti ingiuste, morti calcolate, morti machiavelliche: Ariemma nota quanto sia presente, nella serie, la filosofia di Machiavelli. La raffigurazione del potere, un potere cieco che vede e sente (e vuole) solo se stesso, proprio come Cersei Lannister sa bene. Un potere che si costruisce dietro le quinte, tramando e tradendo, come fanno Ditocorto alias Petyr Baelish e Lord Varys. Ma anche un potere arguto, tutto intellettuale: come quello incarnato da Tyrion Lannister, il nano, il mezzo-uomo che combatte con la saggezza acquisita dai libri.

Game of Thrones ha dato ad Ariemma lo spunto per una didattica diversa (finalmente!), che si serve delle serie tv per arrivare alle menti degli studenti e delle studentesse delle scuole superiori. Perché le serie tv sono per davvero “il mezzo del futuro”, un futuro che è già qui, in cui le guerre sono tante e su vari livelli, in cui il clima ci si rivolta contro, un futuro fatto di alte barriere di ghiaccio, che non si possono, però, nemmeno buttare giù a suon di fiamme. Perché il fuoco e il ghiaccio sono due estremi che in Game of Thrones portano alla morte, ma la vita sta sempre nel mezzo. Magari in una delle tante storie di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, narrate per dissipare quel caos in cui ci troviamo, come ricorda Ariemma citando il celebre dialogo tra lord Varys e Ditocorto: “Il caos è una scala” dice quest’ultimo. Un caos che non ci resta che salire: solo così possiamo abitare davvero il mondo, cercando di capirlo attraverso i tanti racconti, di finzione e non. E se saliamo, non è per ergerci sopra a quel caos, ma semplicemente per goderci meglio il suo panorama.

Per i fan di Game of Thrones il libro di Ariemma sarà una piacevole compagnia e una valida guida. Per affrontare anche le nostre sfide quotidiane — perché non è necessario essere i personaggi di una saga fantasy per ritrovarsi a combattere draghi o pericolosi non-morti: anche i professori di filosofia hanno le loro battaglie da combattere. Ma se ci sono le armi giuste, ossia la filosofia e le serie tv, allora si è in buone mani.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo credit Tommaso Ariemma]

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Mors tua, fiction mea

Inutile negarlo. Il 2014 verrà ricordato come l’anno che ha decretato l’assoluto strapotere delle serie televisive. Usando questo tema come filo conduttore, la domanda che ci poniamo oggi è questa: come si declina un tema filosofico come quello della Morte, all’interno di due serial televisivi molto simili tra loro?

Partiamo da un dato di fatto: nel Mondo, il numero di serie tv, sta superando di gran lunga quello delle tv. Si producono storie per il piccolo schermo come se non ci fosse un domani e la frenesia delle grandi case di produzione su questo tema ha raggiunto caratteri di vero e proprio isterismo. Anche voi, cari lettori, avrete di sicuro almeno un paio di fiction che seguite con attesa e costanza. Quello su cui vorrei farvi ragionare oggi però riguarda due prodotti che in Italia sono arrivati solamente quest’anno e per di più solo sulla piattaforma Sky. Si tratta di due serial alla loro prima stagione. Il primo nasce in Francia nel 2012 e porta il nome di “Les Revenants”, mentre il secondo è una produzione americana chiamata “The Leftovers”. E quindi? Direte voi, perché non ci parli di “True detective” per esempio? La risposta è presto detta. Succede infatti che le due serie che vi ho citato poco sopra sono state mandate in onda dal nuovo canale Sky Atlantic quasi in contemporanea ed è sorprendente la somiglianza e i parallelismi che possono nascere dall’analisi di questi due prodotti a prima vista molto diversi tra loro.

Vediamo però di mettere ordine e chiarire l’argomento di queste due serie. “Les revenants” e “The leftovers” sono costruite entrambe su un’assenza che improvvisamente si trasforma in ritorno e presenza. In ognuna di esse i personaggi principali spariscono o muoiono salvo poi fare ritorno e stravolgere l’esistenza di coloro che sono rimasti in vita ad aspettarli o a vivere nella rassegnazione della perdita. Il tema cardine quindi è quello profondamente filosofico della Morte ed è qui che veniamo al nocciolo della nostra questione che vuole sempre mettere al centro il rapporto che c’è tra il fare cinema e il fare filosofia. “Les revenants” è uno dei migliori prodotti televisivi mai realizzati. Otto episodi, girati con una grande tecnica stilistica, una sapiente costruzione narrativa e un’impeccabile interpretazione attoriale. Tensione, empatia, emozioni si mescolano alla perfezione in questo adattamento televisivo di un film del 2004, chiamato per l’appunto “Quelli che ritornano”. A colpire è l’originalità con cui il tema della Morte e soprattutto quello della Resurrezione vengono affrontati dall’autore Fabrice Gobert. Non c’è nessun enfatico sentimentalismo religioso, nessun ricorso a inutili violenze splatter. Il ritorno alla vita di un gruppo di persone decedute a distanza di anni nello stesso paesino delle montagne francesi, è vissuto con svariate reazioni da parte dei personaggi rimasti in vita, ma ognuna di esse è credibile e coerente e ci porta a una nuova visione ed idea del concetto di Morte. Un fenomeno che diventa sempre più oscuro da capire, perché al dolore della perdita, qui si somma anche la disgrazia di una “resurrezione selezionata” che riporta in vita alcuni e lascia nell’eterno riposo molti altri, senza un apparente criterio logico, mettendo così in crisi il raziocinio di coloro che sono rimasti in vita. A coronare il tutto c’è uno splendido accompagnamento musicale curato dalla band scozzese: Mogwai. “The Leftovers” è successivo a “Les Revenants” e risente molto dell’impronta fatalista cara all’ideatore di “Lost”. Qui la Morte si manifesta in un evento apocalittico di sparizione di massa, in cui senza un apparente motivo un terzo della popolazione mondiale sparisce dalla faccia della Terra senza lasciare alcuna traccia. Sarà compito di coloro che sono rimasti, ricordare i defunti (chiamati addirittura “eroi”) e scoprire cosa sia loro successo. Qui l’impostazione è molto più hollywoodiana e gioca molto sul fattore spettacolare e sull’ibridazione di cinema e serial (la durata di ogni episodio supera l’ora di durata, quindi quasi una serie di dieci piccoli film).
Les-Revenants-Victor
La conclusione qual’è? In uno spazio così breve sarebbe riduttivo e insensato pretendere di dare una risposta esaustiva a un tema così importante. L’intenzione era quella di segnalarvi due bei prodotti televisivi a cui potrete appassionarvi dal momento che sono in lavorazione le rispettive seconde stagioni, ma anche proporvi una riflessione per farvi capire come uno stesso argomento si possa declinare con mille sfaccettature diverse, dandogli un taglio più autoriale ed intimista, oppure scegliendo la via dell’enfasi hollywoodiana che trasforma ogni sentimento in spettacolo. Ma un tema come la Morte e la Resurrezione si può esaurire all’interno di un serial televisivo? Di sicuro non può succedere in un film cinematografico, ma grazie alla possibilità di creare più stagioni su un unico tema, la serialità non solo si pone come unico mezzo visivo pronto a spiegare in maniera molto esaustiva il tema dell’Aldilà, ma è esso stesso una forma di immortalità in cui i criteri di Spazio e Tempo diventano sempre più sfumati e in cui la storia può assumere lunghezze infinite (leggi “Beautiful”) dimenticandosi delle barriere che costringono il nostro corpo a una finitezza terrena. Le serie tv parlano di immortalità, ma in un certo senso, sono anche il modo più concreto per provare ad infrangere la nostra paura nei confronti della mortalità. Pochi temi come questo uniscono il cinema alla filosofia in maniera così stretta e ravvicinata. Due saperi che si incontrano ancora una volta dimostrandoci quanto siano estremamente connessi l’uno con l’altro.
Alvise Wollner
[Immagini tratte da Google Immaini]