Colpa di Rossi? Chiediamolo alla filosofia

Appassionati o meno di motociclismo, da un po’ di tempo siamo stati costretti dai media (o da chi a sua volta ha costretto i media) a diventare esperti di qualcosa che fino a qualche settimana fa non ci interessava minimamente. Bandiere a mezz’asta in giro per l’Italia per un evento così lontano dalle nostre vite, dalle nostre precedenti passioni. Eppure sono state sentite persino signore dal parrucchiere che commentavano la vicenda di Rossi, di un certo Rossi che ha spinto o non ha spinto un tale Marquez.

L’epilogo lo conosciamo tutti: penalizzazione per il pilota italiano, che si è visto scivolare dalle mani un titolo mondiale all’ultima gara della stagione.

Una volta spogliati del patriottismo in stile bar sport, l’interesse per la faccenda tornerà al livello che gli compete e riprenderemo a commentare le partite di calcio.

Ma per una volta potremmo invece soffermarci su questo fatto qualunque, un episodio noto ai più, che fa ancora tribolare gli animi di molte persone: Valentino Rossi è colpevole della caduta dell’avversario? La sua azione è stata intenzionale? Ha meritato la penalizzazione e la pressoché matematica certezza di non vincere il mondiale?

Lontani dal volerci porre a giudici di un fatto sportivo, possiamo però valutare filosoficamente l’operato del pilota italiano. Reato colposo o doloso?

Per poter valutare come intenzionale un’azione bisogna che il soggetto decida di agire per  raggiungere uno scopo. C’è bisogno del desiderio di arrivare a un obiettivo, indipendentemente dalle azioni che saranno compiute (tutte comunque intenzionali). Non si  tratta di  alcun giustificazionismo tra mezzi e fine (non ce ne voglia Machiavelli), dato che ogni azione che concorre allo scopo prefissato sarà giudicata intenzionale, come fosse un tassello del grande mosaico che raffigura il nostro obiettivo: ne saremo quindi pienamente responsabili.

L’intenzione di fare qualcosa coordina tutte le azioni necessarie per raggiungere  l’oggetto  del  nostro  desiderio e ne facilita il verificarsi, come spiega  Searle. L’intenzione è il collante che tiene assieme ogni nostro movimento, anche quelli più immediati e apparentemente privi di pianificazione. È il denominatore comune a cui sono ricondotti pensieri, pulsioni, agiti e azioni. Il nostro cervello è in grado  di elaborare ciò che desideriamo e intendiamo perseguire, riuscendo a farci produrre una serie di  comportamenti che a noi sembreranno istintivi, fuori dal  controllo della nostra volontà, ma che sono in realtà frutto della nostra più profonda intenzionalità.

Qual era dunque l’intenzione di Rossi? Certo è difficile fosse quella di far cadere  avversari e speranze di trionfo. Credenze, desideri, aspettative, intenzioni e volontà: tutto era volto ad altro, ogni singola azione era messa in armonia con lo scopo finale. Punti in classifica, un podio e un titolo a qualche giro di pista da lì.

Che dire quindi di quella colpevole gamba, che si sporge oltre il dovuto e fa precipitare al suolo Marquez? Fa tutto parte del potenziale motivazionale, ovvero di quelle azioni incondizionate, che però ci garantiscono di essere impegnati nell’adempimento dell’intenzione prefissata.

Di certo Rossi dirà che non aveva intenzione di far cadere l’avversario, e noi gli crediamo in virtù di un regolamento che consoce meglio di noi. Tuttavia, per fare intenzionalmente un’azione, non è necessario che il soggetto abbia intenzione di fare quella azione precisa, ma è sufficiente che abbia intenzione di fare qualcosa che gli  permetta di ottenere lo scopo finale (Bratman). Ogni  azione di questo tipo  sarà intenzionale, di qualunque cosa si tratti, anche  di una spintina, se dovesse servire.

Tra corse e ricorsi, i tifosi (perlopiù improvvisati) sono gli unici delusi: sponsor e sportivi hanno fatto il loro dovere e ricevuto i relativi incassi dalla sconfinata pubblicità derivata. A soffrirne – senza intenzione alcuna –  rimangono soltanto migliaia di persone, che pensano ancora alla filosofia come a un’illazione che non ci fornisce risposte soddisfacenti.

Fortunatamente ci pensa  il diritto, così caro agli italiani, a condannare definitivamente Rossi per un delitto preterintenzionale, un’azione le cui conseguenze sono state più gravi di quanto previsto, dato che nessuno si sarebbe forse aspettato di perdere tutto all’ultima corsa, ma nemmeno che milioni di persone si sarebbero poi disperate intenzionalmente per una gara di motoGP.

Telepatia? No, neuroni specchio

Pausa pranzo, prima di tornare in ufficio o di rimetterci a studiare, entriamo in un bar per prendere un gelato. Ci cade però l’occhio su una persona impegnata proprio nell’azione che, per colpa di quella dannata gastrite, abbiamo scelto di non fare più: prendere un caffè, corretto o liscio che sia.

Anche se attribuissimo la colpa al clima avvolgente del dopopranzo, che potrebbe farci sentire già ingaggiati nel gesto che altri attorno a noi stanno compiendo, questo non è forse l’unico fattore che ha contribuito al nostro coinvolgimento. C’è qualcosa di più cerebrale che si innesca nel momento in cui osserviamo il braccio di quello sconosciuto muoversi verso il bancone, la mano puntare la tazzina ancora fumante e le dita stringersi adeguatamente sul manico.
Eravamo così fedeli alla nostra disintossicazione, eppure il nostro cervello ha in parte vissuto l’esperienza di quel dannato caffè, l’ha afferrato e l’ha portato alla bocca, proprio come ha fatto contemporaneamente quella persona di fronte a noi.

Ne rimaniamo increduli, ma cos’è accaduto nella nostra testa in quel momento? Cosa accade costantemente quando osserviamo azioni di cui non siamo gli artefici, ma solo “passivi” spettatori? Al nostro cervello è bastato un input visivo, vedere cioè un’azione eseguita da qualcun altro, per innescare il processo sinaptico di alcuni neuroni sensorimotori (deputati al movimento in relazione a stimoli sensoriali): i neuroni specchio. Solo guardando quel movimento, si sono attivati in noi gli stessi neuroni, che si sarebbero innescati se avessimo compiuto personalmente quell’azione.

Cosa vuol dire questo? Osservare equivale ad agire? Il solo fatto di aver guardato compiere un’azione fa sì che il mio cervello registri l’esperienza di quell’attività, che non avevo nemmeno l’intenzione di fare? Teoricamente sì: le neuroscienze, a partire dalle scoperte del team di Rizzolatti, ci spiegano che in noi si attivano alcuni neuroni della corteccia pre-motoria e del lobo parietale, aree deputate al movimento e prive di funzioni cognitive. Le cellule in questione sono neuroni bi-modali, si attivano cioè non solo quando compiamo effettivamente un’azione, ma anche quando guardiamo qualcuno compierla: lavorano quindi sia quando afferriamo la tazzina del caffè, sia nel caso in cui tale movimento venga soltanto osservato.

Tuttavia, questo particolare fenomeno sembra non accadere in ogni circostanza: si pensa invece che i neuroni specchio si attivino in fase di osservazione, quando l’azione dell’altro ha un significato per noi, quando guardiamo un movimento che conosciamo, che è presente nel nostro repertorio di significati. Non si instaura infatti una speciale telepatia con l’altro, ma, dato che non siamo immersi in un mondo sterile e oggettivo, la nostra esperienza si plasma in un contesto che prende forma nella nostra mente nel momento in cui lo guardiamo e siamo in grado di attribuire ad esso un significato.

Ma il caffè noi non lo volevamo più prendere, volevamo smettere con le tentazioni e con ogni esperienza di assunzione della bevanda, cerebrale o effettiva che fosse!

Allora perché questi neuroni si attivano involontariamente, anzi anche contro la nostra volontà? L’ipotesi più plausibile sulla loro funzione è che essi contribuiscano a creare nella nostra mente un’idea di movimento, anche tramite un’azione soltanto vista e svincolata da qualsiasi possibile esecuzione. Nel cervello dell’osservatore prende forma un atto motorio in potenza, che va a creare un personale serbatoio di esperienze, guardate e riconosciute, anche se non eseguite. In tal modo possiamo arricchire il nostro vocabolario motorio con una serie di simulazioni mentali, anche mentre qualcun altro afferra una tazzina di cui non desideriamo il contenuto,

Il caffè non l’abbiamo preso, certo, né siamo più caduti in tentazione di berlo, infatti la nostra volontà e il nostro pensiero regnano ancora sovrani sulla nostra esperienza. Quella del cervello invece è una lettura di movimenti a cui diamo un significato, un incremento di esperienza motoria, per cui non possiamo affermare (per ora) che i neuroni specchio influenzino sovrastrutture personali quali la morale, l’attività cognitiva del pensiero e la capacità di prendere decisioni. Ma le neuroscienze hanno iniziato da poco a studiare questi fenomeni e i filosofi si stanno scatenando sulla loro interpretazione.

Per sicurezza, comunque, ci conviene mantenere puro lo sguardo e dedicare la nostra attenzione ai soli gesti e alle circostanze che reputiamo inclini alle nostre credenze. In pausa pranzo, domani, sarà meglio andare in gelateria.

 

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]