Falsità cosciente e sincerità incosciente

La filosofia e l’indagine filosofica ad essa collegata si prefiggono di giungere, mediante dialogo, ragionamento e logica, ad aletheia, ovverosia verità. Si può pensare a ciò come un traguardo oltre le nostre umane capacità, magari neanche possibile poiché una verità epistemica ultima capace di racchiuderne ogni altra si potrebbe non dare a noi.

Per verità si richiama inevitabilmente al concetto di indubitabilità, ad una dimensione ontologicamente completa e quindi al massimo grado di perfezione, non mancando di nessun attributo. Se fosse manchevole di anche solo una particolarità verrebbe a mancare la pienezza del tutto, si toglierebbe il tutto perché non più fedele al suo nome e sarebbe un tutto senza davvero tutto, privo di qualcosa. Quel qualcosa è un dato non da poco che fa acquisire indeterminatezza e imprecisione all’analisi filosofica volta ad una conoscenza epistemica, dunque rigorosa e incontrovertibile. In tale logica probabilistica ci si può avvicinare con un variabile grado d’approssimazione ad una conclusione, ad una tesi convincente ma falsificabile in futuro. Popper diceva che una teoria scientifica per essere tale deve correre il rischio di essere falsificata. Anche la filosofia, a mio modesto parere, compie questo processo in una successione di tesi approssimative che indagano l’animo umano, inseguendo un senso rappresentato come una continua tendenza alla verità senza mai raggiungerla. Più accurata sarà l’argomentazione più la tesi sarà solida, o meglio tenderà alla solidità e convincerà nel tempo. La convinzione, la persuasione sono elementi che contraddistinguono il dialogo umano, lo scambio di opinioni e tesi tra interlocutori che vogliono giungere ad un risultato dialettico. Cercare la verità mediante il confronto, dire la verità potrebbe essere il mezzo eppure un dialogo non sempre è composto dalla veridicità delle proposizioni degli interlocutori. Il presupposto, spesso, è già permeato da falsità, da intenti diversi da quelli che potrebbero essere quelli della ricerca di cui stiamo parlando.

I sofisti tanto condannati da Socrate sono ancora tra noi e nel loro argomentare per ottenere ragione ad ogni costo sacrificano una base veritativa fondamentale per la ricerca stessa. Viviamo in una società in cui l’inganno è una base piacevole e favorevole per il singolo che vuole emergere, avere la meglio su altre soggettività – magari annientandole – per potersi garantire il proprio benessere. L’inganno è sui volti illusori che abitano il mondo, un fiume di maschere pirandelliane che inonda le strade, le scuole, i ristoranti, le banche, gli uffici. La menzogna parte dal singolo a beneficio del singolo ma contemporaneamente preclude il benessere dei molti. Il paradosso di siffatta società consiste nell’essere composta da individui che pensano a loro stessi e la decostruiscono togliendosi, togliendo la loro funzionalità sociale, annichilendo la forma complessiva che il castello di sabbia dovrebbe avere nel suo essere realizzato dagli svariati granellini.

Se ne conviene che forse Pirandello aveva ragione quando scriveva «imparerai a tue spese che nella vita incontrerai tante maschere e pochi volti»1. Ebbene è in un volto che si può insediare la verità, o almeno il presupposto sincero per favorire il dialogo. Far cadere la maschera svela il vero volto di un individuo, ne mostra gli occhi, lo sguardo che attua già una comunicazione, fa trasparire emozioni e pensieri. La falsità cosciente della maschera può essere combattuta e abolita anche solo da uno scambio di sguardi, un’azione di riconoscimento tra soggettività che non si ignorano, bensì si scoprono, si cercano senza cedere a piegarsi all’altro. L’occhio umano è sottovalutato, è uno specchio che riflette l’interiorità dell’osservatore e svela, anzi disvela l’aletheia personale, quasi inconsciamente. Proprio l’inconscio, come ampiamente studiato e teorizzato dalla psicoanalisi da Freud in poi, pare proporsi come unica via veritativa, come espressione ed esplosione irrazionale di ciò che durante il giorno è velato da un super-io capace di diffondere e incentivare la menzogna.

In tal senso il sogno, la dimensione onirica si fa maestra ed ente esplicito dell’interiorità celata, di quello sguardo che ogni tanto desidera porsi una maschera per la vergogna, per l’imbarazzo e il conformismo sociale o adeguamento alla massa. Solo in quel momento, in quella vita notturna troviamo conforto e libera espressione, riscoprendo l’inconsistenza della libertà che tanto professiamo d’avere nella vita diurna. Anche in questo caso siamo i coscienti fautori della menzogna che in tal dimensione diviene una bugia riguardo la libertà, un’autonegazione posta da noi stessi e con altrettanta ed ingenua maestria puntiamo l’indice accusatorio verso altro da noi, verso un ente che dovrà essere colpevole di un nostro e solo nostro atto…

…quello di avere mentito.

 

Alvise Gasparini

NOTE:
1. L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Einaudi 2005

 

 

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Feed your head, feed your head

<p>Immagina tratta da Google Immagini</p>

La psichedelia propone un gioco, le cui regole sono tanto nette quanto imprevedibili; getta i giocatori in un paradosso esistenziale che coinvolge ogni singolo aspetto della realtà. Quest’ultima viene sgretolata, dispiegata, derisa crudelmente, vi si rinuncia in virtù di una scoperta sinestetica dove ogni punto, ogni atomo, ogni fosfeno assume il significato di un’apocalisse o di un’origine primordiale. La vita prorompe aggressiva da ogni dove, in ogni tempo. Gli altri e l’altro diventano coacervo di una pluralità semantica di dimensioni, che se da una parte si differenzia radicalmente dal proprio sentire, dall’altra ci coinvolge direttamente nel suo sviluppo perché come noi partecipa delle medesime intuizioni; e ciò può tanto spaventare nell’imponderabile quantità di suggestioni che fa emergere, quanto affascinare all’inverosimile per la multivocità incalcolabile della vita attorno a noi.

Per tutto il viaggio non si comprende nulla di quel che viene detto e ci si perde nel tentativo inutile di spiegare quel che al Sé, oltre ogni altra cosa, sta accadendo. Si vuole analizzare la propria psicologia, valorizzare la propria esperienza, ma la psichedelia lo impedisce, e anzi costringe a cercare un accordo, a stipulare un contratto, a riconoscersi nell’altro e a permettere all’altro di riconoscersi nel Sé; il gioco di specchi e riflessi ininterrotti che rende evanescente ogni presunta priorità sostanziale. Quel che simula è un momento di destabilità mentale in cui ogni coordinata allude a qualsiasi altra dimensione immaginabile; si assiste alla più totale sconfitta della razionalizzazione e ci si perde in un caos magniloquente che può evocare infinite suggestioni. Nulla è più fondato, ogni oggetto è dubitabile, si vive nel costante sospetto di venir presi in giro. La psichedelia esagera ogni cosa, la eleva oltre l’assurdo, la svela in ogni verità che può rappresentare. Si continua a vagare per le stanze a caccia di fantasie, incoraggiando i fantasmi a farsi vedere, e nel frattempo tutto si distorce, si piega fino al ridicolo, al grottesco, gli oggetti assumono una configurazione caricaturale, priva di confini, di bordi, di limiti che ne chiudano il senso; anzi questo straripa da ogni dove, si diffonde come un oceano, allaga, livella e confonde, rende liquida ogni certezza, persino camminare diventa sospettoso. Sembra di vivere all’interno di un cartone animato; la casa respira, ride assieme ai viaggiatori, insiste a solleticarli, ama le loro risate sguaiate, incoscienti, folli. Uno afferra una nocciolina, la sbuccia e gli sembra di sventrare lo scafo di una nave in legno. L’altro osserva le vene del braccio, rapito dalla bellezza anatomica del corpo, e queste sbucano fuori dalle dita come un intreccio di liane che si aggrappano e si radicano negli oggetti tutt’attorno. Sovraccarico di significato, assenza di fondamenta, queste sono le regole del gioco; chi accetta la sfida viene invitato a visitare un castello delle streghe, una casa di specchi, una dimora incantata. Non gli viene detto cosa lo aspetta all’interno, e non lo saprà finché non affronta l’ignoto.

La psichedelia è un po’ come la lettura; scombussola la coscienza, le sfila via le lenzuola con prepotenza, le canta una canzone per farla alzare dal letto, che il sole splende ed è ora di sgranchirsi le ossa. Psichedelia e lettura sono entrambe psicotropie; abbattono i confini, ne ridono, ne fanno una satira, dialogano e interrogano perché cercano delle risposte, perché cercano quel barlume opalescente che rifulge tra le tenebre occulte delle nostre viscere, e così facendo nutrono un’anima che langue e deperisce. Qualcuno può dire che è tutta una finzione ma cosa non lo è a questo mondo? Se è finzione la coscienza che palpita, allora tutta la vita è una colossale perdita di tempo. Certo però è che ci vuole profondità di spirito e un certo vigore psichico per poter discernere il senso intrinseco alle infiorescenze psichedeliche della propria anima. L’inconscio viene estratto dai recessi della mente e posizionato tutt’attorno nel mondo con una irruenza selvaggia, irrefrenabile. Eppure quella stessa ombra che si ingigantisce e prende l’aspetto di un demone è in realtà un segno, un’indicazione, un’ancora o una boa che sta illuminando un itinerario salvifico. Per scorgere questo percorso occorre accettare la consapevolezza di quel che si è, interiorizzando come nuovo carattere l’aspetto traumatico che si è appena palesato. È facile finire ingarbugliati in sensazioni sgradevoli e paranoie alienanti, terribilmente confuse, e spesso ciò che ne consegue è una profonda vergogna che rischia di minare l’intero assetto della propria persona. Ma ciò accade perché la psichedelia, e quindi anche la lettura, risvegliando la vivacità dell’anima, illumina l’egoismo che albergava latente nel nostro cuore e il tono esasperato con cui indica quel cancro è un invito, non un rimprovero, a far qualcosa per debellarlo. La psichedelia è un esercizio che pone la persona di fronte a un amore indifferenziato; se non si è capaci di sincerità, se ne avrà solo che male.

Per salvarsi dai cavalloni surreali e dal marasma oceanico che ci travolge, occorre gettare ponti, sancire legami, confidenze, rapporti, ancorarsi a qualcuno, a uno sguardo, a un contatto umano che rivalorizzi un fondamento; la psichedelia distrugge ogni vanità per costringere noi in primis a fondare una sicurezza. Non dice la verità, ma ne invoca una possibile, e in tal modo incoraggia la poietica dell’immaginazione, della ricerca, del domandare, che in ultima analisi, sono le istanze principali della vita stessa. Come se facesse terra bruciata per riconsegnarci alla fine un nuovo spazio del creabile, un nuovo itinerario possibile di scrittura, spronando la vita a riconoscere i suoi difetti e a migliorarsi. L’esperienza psichedelica non ha mai senso prima del suo esaurirsi. È solo allora infatti che i fili si riannodano, che i colori recuperano chiarezza, e i significati strisciano entro i confini degli oggetti che gli sono propri. L’esistenza poi torna a tacere e ci riporta sul nostro pianeta per lasciarci il tempo di capire cosa stiamo covando dentro di noi.

Leonardo Albano

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Un mondo di maschere: Pirandello e la contemporaneità

«Fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere. […] Mattia Pascal: non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia».1

Così si conclude Il Fu Mattia Pascal (1904), celeberrimo romanzo di Luigi Pirandello, specchio di un’epoca di crisi morale, psicologica, esistenziale che mette in luce i paradossi umani, polemizza e ironizza sul sistema delle convenzioni sociali entro cui l’individuo, allora come oggi, è costretto a vivere. Mattia Pascal, così come Vitangelo Moscarda di Uno nessuno e centomila (1926), si perde nel triste e assurdo gioco delle maschere, assume identità diverse in situazioni diverse, vive vite parallele, per sperimentare sul finale l’amaro della sconfitta: l’impossibilità di comprendere fino in fondo e in maniera radicale se stesso e chi lo circonda.

A ben vedere i romanzi di Pirandello rispecchiano quello che accade all’uomo contemporaneo, spesso restio a mostrarsi per quello che è, difficilmente limpido e puro nelle relazioni con l’altro. Oggi come allora l’umanità si trova a vivere frequentemente un alto grado di menzogna, ad ideare stratagemmi macchinosi per ottenere risultati, avvalendosi di atteggiamenti fittizi che possono nascondere i veri interessi. L’onesto arriva per ultimo, è letto come ‘lo sconfitto’ dato che fatica di più per giungere a destinazione; meglio allora indossare una maschera messa a punto per la situazione che possa rendere il percorso più agevole e meno accidentato!

Così accade anche nelle relazioni interpersonali: Pirandello ci insegna che essere noi stessi implicherebbe accettare il peso del confronto, dibattere, affrontare conflitti e sperimentarne i danni, mettere in discussione le proprie idee con il pericolo che vengano demolite. Da ciò deriva che l’uomo trova più facile e meno rischioso occultare il proprio volto dietro una maschera, vivere ai margini della mediocrità, senza abbracciare apertamente alcuna posizione. Chi non si mostra non ha il pericolo di perdere, dato che appare inattaccabile su ogni fronte. Chi non si mette in gioco non può stabilire autentici legami con l’altro, ma allo stesso tempo è in grado di adagiarsi sulle piume della quiete quotidiana.

Da qui il dibattito che scaturisce dai romanzi dell’autore, la crisi che investe i personaggi, il loro essere dei ‘disadattati’, sempre alla ricerca di se stessi, imprigionati in forme e situazioni che non sentono peculiari a sé. A ben vedere la realtà attuale non sempre offre una visione più rosea: costretto e gettato in un mondo mutevole e dall’esponenziale velocità, l’uomo si trova a sottoporre sé e il prossimo a continue rivalutazioni, a mostrarsi diversamente nei vari contesti per poi chiedersi alla resa dei conti: “Chi sono io? Quale delle infinite figurazioni di me stesso? E gli altri come mi vedono?”

Si pensi anche soltanto alle circostanze che ogni persona si trova a vivere nella propria quotidianità: dall’esperienza lavorativa a quella con il/la partner alle relazioni con gli amici; è sempre sé stessa oppure si scompone, si ‘frantuma’ in un’individualità diversa, in una, cento, mille maschere difronte ad ognuno di loro? A ben vedere, la società stessa richiede questa ‘fossilizzazione’ in entità differenti che in parte sono responsabili della morte dell’individuo. In situazioni ufficiali è necessario ostentare la dovuta formalità, con i conoscenti si indossano maschere che possano risaltare i pregi caratteriali, con il/la partner ci si sforza di mostrare il lato migliore e via dicendo.

Viviamo in un mondo in cui le maschere ci appaiono quasi necessarie per fronteggiare situazioni, in una realtà in cui l’estrema labilità delle relazioni non permette facilmente di acquisire la conoscenza di chi ci sta attorno e di contro nemmeno di noi stessi. Ci illudiamo di comprendere appieno chi è di fronte a noi, fino a quando un evento casuale fa crollare immancabilmente il castello di carte che avevamo creato. Non ci resta così che raccogliere i cocci della casa, per iniziare una nuova costruzione.

Ma cosa rimane allora all’uomo se non può conoscersi e conoscere il mondo appieno? Quale via d’uscita gli si pone davanti in una realtà fatta di apparenze e finzioni?

L’ammissione e l’accettazione dei cambiamenti in sé e negli altri, la consapevolezza che «una realtà non ci fu data e non c’è […] una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile», come direbbe Pirandello, e il tentativo di essere, per quanto possibile, più sinceri con il proprio io e con chi è difronte a noi.

Insomma, è il momento di abbandonare le maschere e tentare di mostrare la nudità del proprio volto.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 2009, p. 233.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Ma che te posti.

Saranno ancora i residui del paracetamolo, ma stamattina mi sono svegliata con in mente una serie di parole in rima che manco Valerio Scanu nei suoi momenti apicali di creatività: moglie, doglie, figli, voglie, bottiglie.

Moglie. Vero è che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace.
Però. Però. Però. Se ve la siete sposati voi e non noi un motivo ci sarà. E non è sempre perché siamo arrivati tardi noi.
C’è una categoria di donne orripilanti le cui foto sono accompagnate sui social da frasi del tipo “che splendida mogliettina“, o ciò che è lo stesso “che maritino fortunato”. Poi c’è un’altra categoria. Quelli che hanno le mogli effettivamente fighe. Ma comunque non si regolano. Perché come a mare ci sarà sempre chi avrà la barca più grande della tua (che poesia eh?), così, per quanto tua moglie sia bella, arriverà sempre una foto di Belen struccata a prima mattina con i capelli arruffati e la bolla al naso che con il suo milione di like spazzerà in un “ Vuongiorno a tutti amiccci miei, ve amo” i 57 like accumulati con tanta dedizione ed attenzione dal vostro splendido maritino che avrà postato una foto  di “mia moglie a colazione” spacciata per naturale ma che nella realtà avrà avuto un backstage, trucco, parrucco, mix luci da calediario Pirelli. Alcuni poi giocano sull’ironia. Un’ironia da cui non ci vuole un corso avanzato di psicoterapia comportamentale post-razionalista per capire che è solo un modo per ostentare un trofeo, nascondendosi dietro battute o foto con il finto intento di essere buffe. Perché mia moglie è talmente bella che sulla sua bellezza ci gioca.

Doglie. Maronna mia. Mannaggia a Carla Bruni, a Belen e a tutte le gravide che hanno avuto la brillante idea di farsi ritrarre con il pancione senza immaginare dove saremmo andati a finire. E qui ritorniamo nel non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. E quindi mi ritrovo stretta tra il dirvi che così come non è vero che tutti i neonati sono belli, così non tutte le donne gravide sono belle. E quelle belle sono comunque  lontane anni luce dall’essere top model anni 90. E poi, ma porca miseria, è di un embrione/ feto che state parlando, non di una tazza di Starbucks.

Figli. Figli geni, figli che a 3 mesi già parlano tre lingue, figli che a 6 mesi si travestono da Frozen da soli e che da soli si fanno selfie perfetti che postano in contemporanea su facebook, twitter, instagram, figli che quando avranno 18 anni chiederanno, spero, dei risarcimenti consistenti per violazione della privacy.

Voglie. Ecco, questa è la categoria in cui rientrano i contatti che o ho cancellato definitivamente oppure ho zittito con quella nuova fantastica funzione del “taci”. Le frasi sono “Ho voglia di gelato”, “Che voglia di sushi”, “Ho proprio voglia di una bella lasagna”, il tutto immerso in faccine, cuoricini, trionfo di vocali, oooo, aaaa, iiiii, dittonghi. Sull‘ “Ho voglia di te” , che pure insiste, persiste e lotta con noi, non vorrei soffermarmi. Ma volevo comunicarvi soltanto che c’è gente che lo scrive ancora.

E infine: bottiglie. Bottiglie di vino da 2 euro fotografate con la stessa attenzione con cui è stata creata l’ultima campagna della Moet et Chandon. O Moet et Chandon con frasi del tipo “Noi ci trattiamo bene”. Ma che davero davero pensate che un flute, magari vuoto, possa creare invidia? E se lo pensate, la psicoanalisi costa 80 euro per 45 minuti, 120 per 90. Provatela.

Aggiungerei poi una categoria fuori concorso. Quella delle ricorrenze possibilmente tristi.
Soprassedendo sulla moria di cantanti del 2015, l’ultima triste ricorrenza celebrata sui social è stata la giornata della memoria. Ho letto degli status che a confronto il canale monotematico di Sky che trasmetteva solo film riguardanti l’Olocausto era una operazione puramente filantropica. E su questo il mio onnipresente sarcasmo lascia spazio ad un sincero fastidio. Se non sapete di cosa state parlando, non ne parlate. Se dovete scrivere “Ricordate e riflettete” pubblicando “Life is beautiful” di Noa perché è una cosa che deve essere fatta, non fatelo. E non perché non ci debba essere sempre e comunque libertà di parola. Ma perché siete falsi. Spesso anche ridicoli. E perché chi, per un motivo o per un altro sa perfettamente di cosa si sta parlando, non si sente “ricordato” da voi. Ma si sente intristito da quanta superficialità e quanto per un like in più ci si possa mettere a scrivere cose di cui non si sa nulla. Che in questo caso, sono pezzi di vita, di morte, di sopravvivenza.

Meditate gente, meditate. (Ma non ci postate la vostra foto nella posizione del loto, vi crediamo sulla fiducia).

Con Facebook si scherza, ma anche no. E’ quello che volete far vedere di essere. E’ quello che sperate di essere. Ma non è quello che siete. O almeno, lo spero per voi.

Siete delle persone. Normali. Anormali. Ordinarie. Straodinarie. Ma non siete perfetti. Godetevi le vostre imperfezioni. Non photoshoppate la vostra vita. E soprattutto godetevi la vostra vita. Non il vostro tablet.

Quanti pochi like avrà questo post. Perché la verità infastidisce.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

Intervista a David Sossella e Sara Penco: l’arte come scoperta di sè

David Sossella è Laureato con lode in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dal 2000 comincia a lavorare come illustratore e Graphic Designer. Dal 2006 svolge presso il più importante studio di cartoni animati in Italia il ruolo di responsabile dell’ufficio grafico. Affiancando a questa mansione quella di illustratore, collaborando alla realizzazione di diverse serie in animazione; questa collaborazione culmina nel 2009 con la realizzazione del lungometraggio in animazione per il cinema “Cuccioli – Il Codice di Marco Polo” con il ruolo di artdirector e responsabile texturing dei personaggi. Negli anni collabora come illustratore con diverse agenzie negli Stati Uniti (San Francisco, New York) ed Europa (Monaco, Barcellona). Una proficua carriera artistica lo porta a diverse pubblicazioni e mostre (collettive e personali) in Italia e all’estero.

Sara Penco  dal 2004 lavora nel più importante studios di cartoni animati in Italia svolgendo incarichi di Pre-produzione, sia organizzativi che artistici, accumulando così una conoscenza completa dell’intero ciclo di realizzazione del cartone animato (dal character design, allo storyboard, fino al doppiaggio).Dal 2006 collabora con David Sossella, affiancandolo nello studio di character design e nella produzione di illustrazioni, sia vettoriali che bitmap, realizzando lavori per agenzie a livello internazionale.

Puoi presentarti ai nostri lettori?

SARA: Ciao, sono Sara, socia e illustratrice dell’agenzia Manifactory e del progetto Gusto Robusto.

DAVID: Mi chiamo David Sossella, sono nato a Mestre nel ’76. Sono un pittore, illustratore e Graphic Designer. Sono socio dell’agenzia Manifactory e ideatore di Gusto Robusto.

In che modo l’illustrazione è entrata a far parte della tua vita? Come si è sviluppata la tua tecnica nel tempo?

SARA: Il disegno è la modalità con cui mi viene spontaneo esprimere le mie idee e sensazioni. L’illustrazione è un mondo che mi ha attirata e stimolata sin da piccola. Essendo autodidatta, la mia tecnica si è sviluppata inizialmente guardando i lavori dei disegnatori che seguivo cercando di copiare le immagini che mi piacevano. Poi, lavorando in uno studio di cartoni animati, ho cercato il più possibile di carpire suggerimenti e spunti dai miei colleghi disegnatori. Infine, negli ultimi quattro anni, sto lavorando sempre più a fondo sulla tecnica per essere una professionista dell’illustrazione che si distingue per il suo stile… ce la sto mettendo tutta 

DAVID: Ho cominciato a disegnare come tutti, da bambino. Mio padre era un lettore di fumetti, e io guardavo e riguardavo gli albi che giravano per casa. Quando è stato chiaro che per me il disegno stava diventando una passione, un amico di mio padre mi ha regalato la sua collezione di fumetti e albi di illustrazione. In quel momento ho cominciato a studiare pagina per pagina tutto il materiale che avevo, copiando qui e sbirciando là. Poi ho svolto gli studi artistici canonici (Liceo Artistico e Accademia di Belle Arti) questo mi ha permesso di sperimentare tantissimi mezzi di espressione, dalla pittura alla fotografia, dall’incisione alla grafica. In quel periodo mi sono allontanato e riavvicinato all’illustrazione più volte, a periodi alterni. Ogni volta che tornavo a illustrare il mio stile era in qualche modo cambiato. La mia tecnica si è molto stratificata, e tutte le esperienze che ho fatto mi hanno arricchito e mostrato punti di vista diversi, unendosi infine in una sintesi che mi permette di usare e sperimentare stili e tecniche diverse a seconda del progetto. Forse l’eclettismo è il mio tratto distintivo.

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Come definiresti il tuo stile? Hai avuto qualche maestro di riferimento o qualcuno a cui spirarti?

SARA: Penso che il mio stile si possa definire fumettistico. Da piccola ho letto molti manga e guardato tanti cartoni animati giapponesi. Crescendo ho cercato di lasciare il più possibile lo stile giapponese per occidentalizzare il mio tratto, cercando di inquadrare un mio personale modo di rappresentare i miei personaggi. Comunque tuttora amo Akira Toriyama e Hayao Miyazaki.

DAVID: In parte ho già anticipato questo nella risposta precedente. Non penso di avere un unico stile di disegno, e tanto meno di averne inseguito uno unico durante gli anni. Il passare da uno stile ad un altro, da una tecnica all’altra, forse è la cosa che più mi contraddistingue: dalla pittura informale al fumetto, dalla grafica alla pittura figurativa, alla fotografia. Adesso sto cercando, (con la massima umiltà) di trasformare l’illustrazione in arte con la “A” maiuscola, riposizionandola e cambiandone le regole base, per esempio, trasportandola su tele di grandi dimensioni, oppure lavorando su tirature limitate, o ancora rendendone criptico il messaggio (in contro tendenza con l’illustrazione contemporanea che sembra propensa a “semplificare” linguaggi alti rendendoli accessibili e comprensibili a tutti con il rischio però di banalizzarli). Il risultato finale è tutto da verificare. In passato ho guardato tantissimi artisti, ora lo faccio pochissimo, sopratutto se sono in fase creativa.

Come nasce e si sviluppa un tuo disegno?

SARA: A volte nasce da input esterni come la televisione, un libro, un cartone animato, o anche solo da una risata con gli amici. Dalla vita quotidiana si possono estrarre spunti divertenti per storielle e illustrazioni, basta affinare l’arte di riconoscerli!

DAVID: Il più delle volte nasce in doccia! O comunque nei momenti in cui non sono focalizzato su qualcosa in particolare, la mente è libera e aperta. Poi spesso nel processo di realizzazione tutto cambia, l’opera prende forma un poco per volta. Adoro sovrapporre significati, citazioni, stratificando i livelli di lettura di una singola opera. Il caso ha comunque una grandissima componente nei miei lavori, cosa vedo o ascolto in un certo momento, può cambiare il risultato finale anche di molto.

Cornice_orizzontaleDavid Sossella

Quale definizione attribuiresti all’ARTE? Che cos’è per te arte?

SARA: Per me l’arte è qualcosa che lascia allo spettatore un sentimento di positivo stupore. È un’emozione scaturita da qualcosa di bello o di profondo che colpisce l’occhio e il cuore. Tale bellezza può nascere da un’illustrazione, ma anche da un oggetto o un gesto.

DAVID: Non mi azzarderei a definire l’ARTE, nel periodo in cui viviamo una definizione univoca è impossibile. Per quanto riguarda la mia personale esperienza, l’arte è l’esteriorizzazione del proprio spazio interiore. Il più grande problema nell’arte è la sincerità, profonda e assoluta. Essere pienamente sinceri, da un lato obbliga a scoprirsi, dall’altro a esporsi con gli altri. Un foglio bianco è come uno specchio, ti mostra ciò che sei in quel momento, e non fa nessuno sconto.

Molti teorici dell’arte ritengono che non tutto ciò che è frutto di creatività può considerarsi un’ Opera d’arte. Athur Coleman Danto filosofo analitico e artista afferma che ciò che determina la differenza tra un semplice oggetto e un’opera d’arte è quel mondo dell’arte fatto di istituzioni, teorie e regole. Concordi con questa considerazione nel definire che cos’è un’opera d’arte?

SARA: È cosa comune che un oggetto venga considerato all’unanime opera d’arte quando è qualcuno del mondo della critica dell’arte a definirlo tale. Cosa molto limitativa, talvolta assurda. Mi riferisco ai casi in cui sono le fantasie di un critico o magnate a sovraccaricare di significato un’opera per cavalcare il mercato.

DAVID: Più che una discriminante mi sembra una regola per dar ordine e creare un mercato.  Personalmente lo trovo piuttosto autoreferenziale. E proprio perché penso sia “schizofrenico”, non ho mai sentito la frenesia di proporre i miei schizzi, le miei pazzie, le mie opere.

Maurizio Ferraris afferma che “avere rappresentazioni è la condizione dell’agire e del pensare, che sono le caratteristiche generalmente attribuite ai soggetti. […] così pure il desiderio o il timore, l’amore o l’odio, e insomma tutta la gamma dei sentimenti hanno bisogno di immagini“. Sei d’accordo con questa affermazione? Qual è per te il ruolo dell’immagine oggi?

SARA: Le immagini posso rappresentare i sentimenti meglio di quanto le parole possano esprimere perché non ci sono barriere linguistiche o temporali. Attraverso l’illustrazione l’empatia tra illustratore e spettatore è totale; inoltre possono essere un mezzo per tramandare insegnamenti.

DAVID: Siamo tutti produttori di immagini, ognuno produce le proprie, e le sovrappone alla realtà. Quando da illustratore mostro una mia opera a qualcuno mi accorgo che questi vi sovrappone le proprie immagini, dettate dalle idee, dai condizionamenti, dalla memoria. Questo penso spieghi perché davanti ad un’opera ognuno reagisce in maniera diversa e, addirittura, se la ricorda diversa da com’è. La realtà intanto resta sempre nascosta.

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Aristotele diceva che “l’anima non pensa mai senza immagini, e che pensare è come disegnare una figura”, cioè registrare e iscrivere, non si tratta solo del pensare per immagini, bensì di adoperare consapevolmente immagini e schemi per facilitare il pensiero. A tuo parere perché è così efficace la comunicazione visiva? Le immagini/illustrazioni possono essere informazioni visive tanto quanto un testo scritto o un documento?

SARA: Come dicevo le immagini sono ancora meglio di un testo perché riescono a comunicare i messaggi senza usare una lingua comune. In più possono raffigurare l’impossibile (ad esempio Escher), anticipare il futuro, cambiare le scale, le proporzioni. 
Se è impossibile “non pensare a un elefante” credo che potrei “non disegnarlo” pur suggerendolo!

DAVID: La comunicazione visiva, se usata bene, è una tecnica efficace per innestare nello spettatore idee per mezzo di immagini. Questo perché il senso delegato a percepire le immagini è la vista, il più connesso con l’intelletto, mentre udito, tatto e olfatto sono più vicine all’istinto o all’emozione. L’immagine di per se è sempre innocente, la sua manipolazione può esserlo meno: se usata con sincerità può permettere un racconto da cuore a cuore, diversamente diviene un mezzo di strumentalizzazione per generare bisogni.

Cornice_verticaleSara Penco

L’illustrazione veniva definita come “l’immagine che accompagna un testo”. L’illustrazione oggi è qualcosa di molto di più, ha superato il suo significato originale. L’illustratore non è più soltanto un “figurinaio” ovvero un artista che descrive un testo con un’immagine, ma è un autore egli stesso: costruisce immagini. Che cosa puoi dire degli illustratori d’oggi? L’illustrazione ha forse nuove finalità?

SARA: L’illustrazione oggigiorno ha decisamente nuove finalità. Sempre più spesso viene usata senza essere accompagnata dal testo anche in ambiti delicati e con missioni importati: dalla campagna pubblicitaria, alle copertine delle riviste, dei cd musicali, ai siti internet e alle applicazioni per smartphone e tablet. Non ha solo lo scopo di attirare l’attenzione in una frazione di secondo ma anche di raccontare una storia della quale è lei stessa protagonista.

DAVID: L’illustrazione oggi è sicuramente cambiata, come del resto è completamente cambiato il mondo della comunicazione. Personalmente sento che il passo successivo è cercare di trasformare l’illustrazione in Arte. I tempi credo siano maturi e così ho deciso di provarci. Per poter però cambiare la finalità di un medium bisogna per forza cambiare alcune delle sue regole. Quali cambiare e quali no, fa parte della sperimentazione. Se l’esperimento riuscirà non mi è dato saperlo.

A tuo parere l’illustrazione con l’avvento della tecnologia , del computer e delle immagini digitali è cambiata?

SARA: Molti illustratori utilizzano la tecnologia del computer per colorare le proprie illustrazioni ottenendo lavorazioni molto belle e complesse. È solo un altro modo di rappresentare le proprie opere. Certo, in certi casi la tecnologia agevola a livello tecnico, ma ci sono tuttora illustratori che lavorano comunque a mano con tecnica “classica”.

DAVID: Come dicevo tutta la comunicazione è cambiata. Il modo di fruirla è cambiato e sopratutto il modo di produrla. Moltissimi artisti producono esclusivamente illustrazioni digitali, e non conoscono le tecniche classiche. Del resto, i brand stessi richiedono per lo più illustrazioni digitali, in particolare vettoriali, questo per squisiti motivi tecnici, di riproducibilità e utilizzo. Il computer con l’avvento del “ctrl+z” ha comunque completamente cambiato il modo di produrre immagini.Sa

GR_gloriaPERDAVIDSara Penco

Cosa puoi dire della figura dell’illustratore oggi?

SARA: All’estero, già da un po’ di anni, la figura dell’illustratore è tornata ad avere più appeal perché per le campagne pubblicitarie è stata messa da parte la fotografia in favore dell’illustrazione. In Italia si sta seguendo sempre di più questa scia.

DAVID: Qui in Italia capita spesso che quando dici che per lavoro fai l’illustratore le persone ti guardino con sguardo vacuo, a cui segue un “eh?” interrogativo. Oppure capita che se dici che fai il disegnatore ti rispondano ”sì ho capito, ma di lavoro cosa fai?”. Per fortuna qualcosa sta cambiando e pian piano anche il disegnatore sta arrivando ad avere una dignità professionale, anche se a mio avviso insufficiente, rispetto alla preparazione, al talento e alla costante ricerca che ci vuole per fare questo lavoro. All’estero le cose vanno meglio, con le dovute eccezioni, c’è una cultura più formata nell’ambito dell’illustrazione.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

SARA: Lavorare sulla mia tecnica per migliorare sempre di più e contribuire al proseguo del progetto Gusto Robusto.

DAVID: Non faccio grossi progetti a lungo termine, le cose cambiano troppo in fretta. Però ci sono molte cose che bollono in pentola per quanto riguarda il prossimo anno, staremo a vedere.

Ultima domanda dedicata ai nostri lettori, che cosa pensi della Filosofia?

SARA: Ho studiato filosofia al liceo. Mi è piaciuto studiare i filosofi delle varie epoche e come hanno cercato di dare delle spiegazioni al comportamento umano o al senso della vita. La filosofia è affascinante.

DAVID: Mi piace la filosofia, quando mira al proprio significato etimologico. Trovo che la ricerca della conoscenza dovrebbe essere la prima priorità dell’uomo, questo lo libererebbe da qualunque altro problema gli si possa presentare.GR_gloriaPERDAVIDDavid Sossella

L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.
Paul Klee

L’arte può dirsi anche atto di totale sincerità nei confronti di se stessi, come se non esistesse nessun tipo di filtro tra l’opera prodotta e l’artista produttore, non esiste schermo che tenga tra le due parti, l’una è lo specchio dell’altra.

L’arte è espressione di una delle potenzialità che possiede l’essere umano, che possiede ogni persona, quella di elaborare in modo creativo tutto quel magma di sensazioni ed emozioni che altrimenti non riusciamo a far emergere con parole, ragionamenti e concetti.

L’arte, così come ogni altra attività creativa, ci mette a nudo, ci obbliga a scoprire noi stessi e così ad esporci, ci richiede un atto di estrema sincerità e trasparenza, di coraggio e apertura; non c’è maschera che tenga nel momento in cui l’artista dà forma alla materia. Attraverso l’azione creativa l’immagine interna diventa immagine esterna, e dunque visibile e forse anche condivisibile.

Tramite forme, disegni, colori, suoni e movimenti possiamo comunicare ciò che la nostra interiorità nasconde e che timidamente tiene per sè; così l’arte diviene espressione immediata, diretta, spontanea ma anche arcaica e istintiva di noi stessi, senza dover passare necessariamente attraverso l’intelletto.

L’arte è anche questo, il richiamo a guardare, scoprire, osservare anche in modo critico ciò che siamo, è la chiamata a riflettere, interrogare e valutare ciò che più di profondo ci appartiene, sia che siamo artisti sia fruitori.

Elena Casagrande 

www.manifactory.com

www.gustorobusto.com

[Immagini concesse da Sara Penco e David Sossella ]