La follia abita l’amore: spunti dal mondo antico

Un passo del Simposio di Platone recita così: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime  con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Ogni giorno vediamo coppie innamorate tenersi per mano, scambiarsi baci, dirsi “ti amo”, ma ci sfugge la vera essenza dell’amore. Cosa vuol dire “ti amo”? Cosa significa parlare d’amore?

Io non possiedo l’altro, l’altro è qualcosa di estraneo a me da cui non si dipende perché l’incontro è tra due unità e non tra due metà. Questa è la premessa dell’amore e di una relazione sana: accettare che l’altro è qualcosa che sta ed esiste oltre e al di fuori di me. Il secondo passo è non idealizzare l’altro e non plasmarlo secondo le proprie aspettative. Ci illudiamo di amare l’altra persona per quella che è ma in realtà amiamo l’immagine che ci siamo creati nella nostra mente proiettandola all’esterno e privando l’altro della libertà di esprimersi per quello che autenticamente è.

Si tende spesso a creare ciò che si ama. «Diventa così evidente quello che la nostra storia ha sempre saputo e taciuto, e cioè che anche nelle cose d’amore l’uomo ama solo la sua creazione, quindi non la natura, ma quella natura coltivata che siamo soliti chiamare cultura» (U. Galimberti, Le cose dell’amore, 2004).

Umberto Galimberti ha fatto una ricca riflessione a proposito, e mette in luce come l’amore sia quando l’altro ti disarma, ti toglie le difese e ti mostra la tua fragilità e quella parte di te che tu non hai ancora riconosciuto.  Di conseguenza ci innamoriamo dell’altro perché cattura la nostra intima essenza prima che noi ci mettiamo a nudo. È un disvelamento dell’anima che richiede il collasso dell’Io. Non bisogna mantenere le difese, non ci deve essere controllo. L’amore non è faccenda dell’Io, ma piuttosto dell’Es: infatti è da lì che scaturiscono le scelte razionalmente inspiegabili.

L’amore mette in crisi le nostre certezze, crediamo di avere il controllo su noi stessi e sulla nostra emotività fino a quando non arriva l’amore a svegliarci dal torpore dell’illusione in cui dormivamo. La condizione sine qua non, secondo il mio punto di vista, per amare ed essere amati, è accettare di non avere il pieno controllo del proprio inconscio e soprattutto di non avere il controllo dell’altro. L’anima di una persona innamorata vive una continua tensione tra forza e fragilità, una continua lacerazione dell’Io.  

Spesso, erroneamente, si fa coincidere l’amore con la passione e l’uomo moderno, alla ricerca perpetua di emozioni forti per sentirsi vivo, non appena il fuoco della passione è meno ardente mette fine ad una storia d’amore. Si continua a desiderare, sempre di più, in una corsa senza meta. L’amore invece è figlio della stabilità e dell’eternità, il contrario del desiderio che richiede continui stimoli e novità. Amore non è fuoco che brucia in un istante fulmineo, ma luce che dura e che abita la durata.

Penso che l’amore faccia paura a molti perché non è facile entrare in contatto con la parte di sé più autentica che spesse volte è anche quella più vulnerabile e più facilmente feribile. Amare è un atto di volontà che richiede impegno, dedizione, fiducia, reciprocità, affidamento. Si sa che non è semplice perché l’amore è una minaccia all’integrità del proprio Io ed è per questo che bisogna avere il coraggio (etimologicamente “avere cuore”) di perdersi per ritrovarsi riflessi negli occhi dell’altro che ci mostra per quello che siamo. Socrate ha descritto l’amore come una relazione con l’altra parte di noi stessi e non tanto come rapporto con l’altro. Per questo motivo affidarsi all’altro ha a che fare più con una scommessa che con una vittoria certa, ma vale la pena giocarla perché in fondo l’amore è abitato dalla follia e tutti noi siamo un po’ folli.

 

Matilde Zerman

 

Sono Matilde Zerman, laureata magistrale in Psicologia. Amo leggere, stare all’aria aperta e stare in compagnia delle persone per me importanti. Mi pongo tante domande e per la maggior parte non ho risposte, ma è questo che mi affascina della vita, che tutto sia un mistero da scoprire e conoscere.

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Non c’è amore che non sia naturale: l’omosessualità nel “Simposio” di Platone

Tutti noi conosciamo, almeno per sentito dire, l’espressione amore platonico, talvolta abusata ma comunque divenuta parte del linguaggio ordinario anche di chi non sa cosa significhi e da dove provenga. Essa trova la sua massima formulazione nel Simposio1, un dialogo di Platone tra i più noti, sul quale si è detto e teorizzato tanto. Ha attraversato in lungo e in largo i secoli, imbevendo delle sue magnifiche parole sull’Amore pagine e pagine di filosofi, pittori e letterati. Eppure non sempre ha trovato spazio un momento specifico del Simposio: il discorso di Aristofane.

Conosciamo molto bene il punto più alto dell’opera, il grande discorso di Socrate che, riportando le parole della sacerdotessa Diotima, ci racconta della natura doppia di Eros, figlio di Poros (espediente) e Penìa (povertà). Questi si troverebbe a metà tra il mortale e il divino, sarebbe cioè un daimon, e consisterebbe nel desiderio di qualcosa di bello e buono che ancora non si possiede. Ma che dire di quanto vien detto prima di questa perspicua sezione del dialogo? Tra i tanti partecipanti del convivio dedicato all’Amore in occasione dei festeggiamenti della vittoria del poeta tragico Agatone, prende infatti parola Aristofane, il commediografo noto per la sua avversione nei confronti di Socrate.

Ed in effetti le sue parole son tutto meno che insignificanti. Nell’arco testuale 189A-193E si parlerà di Eros con una bellezza ed una salienza che verrà eguagliata solo dalle parole di Socrate. Per parlarci dell’Amore, Aristofane si avvale di un mito noto come mito degli androgini. In origine – ci dice il commediografo – esistevano tre sessi di uomini: i maschi, le femmine e gli androgini, composti per metà dal maschio e per metà dalla femmina. Del tutto autosufficienti e a sé bastanti, tali uomini erano così pieni di sé da sfidare gli dei, peccando di hybris e portando Zeus all’estrema decisione di folgorarli e scinderli in due individui destinati a un agognato destino: cercare in lungo e in largo la propria metà. Eros diviene così una tensione all’Unità, la nostalgia di un’interezza perduta e mai più ritrovabile, giacché, anche se in comunione, le due parti non produrranno mai un intero indissolubile, essendo il Tutto maggiore della somma delle parti.

«Dunque, da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore del uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura» (191D).

Non solo il mito degli androgini si rivela stimolante e suggestivo, ma ci permette di fare un passo in avanti verso un’altra considerazione. Per la prima volta nella storia della filosofia, infatti, Platone sembra offrire una legittimazione all’omosessualità senza che questa passi per promiscuità, disadattamento o deviazione. Anzi, è lo stesso Platone a parlare dell’amore come ricerca dalla propria originaria natura: non c’è nulla di più normale dell’uomo che cerca il suo uomo o della donna che cerca la sua donna. È vero, d’altra parte, che il mito degli androgini si chiude alla possibilità della bisessualità, non contemplando un soggetto che tenda a due nature, a due generi. Non è tanto interessante la centralità dell’amore omosessuale, che in Platone, coerentemente con l’ethos greco classico, trova spazio in svariati scritti (compreso lo stesso Simposio, se pensiamo alle parole messe in bocca a Pausania, che fa un elogio dell’amore tra uomini dello stesso sesso e un’apologia della pederastia, altra pratica amorosa tipica dell’antica Grecia). Semmai è interessante la razionalizzazione filosofica, la volontà di legittimare sia in forma mitica che in forma teorica l’unione omosessuale come sana, naturale e principio di felicità. Addirittura leggiamo, a proposito dell’amore tra uomini dello stesso sesso:

«In verità, alcuni sostengono che sono degli impudenti. Ma mentono, perché essi non fanno questo per impudenza, ma per arditezza, per fortezza e per virilità, in quanto hanno inclinazione verso ciò che è simile a loro. […] E quando siano diventati uomini si innamorano dei ragazzi e non si preoccupano delle nozze e della procreazione dei figli per loro natura, ma sono costretti a far questo dalla legge» (192B).

Stupisce, insomma, che non è tanto una necessità naturale, quella dell’unione eterosessuale, né lo è la procreazione, quanto una norma giuridica, un prodotto dell’ethos della polis, in altre parole una convenzione. Insomma, nel Simposio e nelle parole di Aristofane, l’omosessuale trova una prima illuminante illustrazione della sua normalità. È reso ordinario, naturalizzato e, soprattutto, ospitato dal discorso filosofico. Perché che si sia uomini o donne, il risultato non cambia, l’Amore rimane tensione all’Unità, desiderio, da due, di diventare uno solo, al di là di ogni tabù.

 

Nicholas Loru

 

NOTE
1. L’edizione adottata è: Platone, Simposio, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2017.

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L’amore, un vincolo tra due libertà

Quando si pensa all’idea di libertà si è soliti associarla ad una forma di assolutismo (dal latino absolutus), ovvero ad una situazione totalmente sciolta da qualsiasi vincolo o legame.
Spesso si fa riferimento alla libertà di poter fare qualsiasi cosa – desiderio spesso presente in una fase adolescenziale della vita – di poter prendere decisioni nuove, di non avere limiti. Questa è la libertà intesa in senso positivo, e si concentra sull’affermazione di qualcosa, sia sul piano personale che su quello morale e sociale. Poi c’è un altro tipo di libertà, la libertà da, quella che somiglia ad una “liberazione”, e cioè la libertà “negativa” intesa come assenza di qualsiasi ostacolo all’affermazione del proprio io.

A volte la nostra vita si ferma qui, tentando di trovare un importante equilibrio tra queste due tipologie di libertà, attorno a cui cerchiamo di far ruotare la nostra vita. Non sempre questo risulta sufficiente, specie quando si entra all’interno della sfera relazionale e, più precisamente, nel tema dell’amore.
L’amore è espressione di complessità e semplicità allo stesso tempo e, come si direbbe in una delle opere più famose della filosofia antica, che si riconduce al mito di Eros, «la sua natura non è né immortale né mortale ma, allo stesso tempo, fiorisce e vive» (Platone, Simposio, 203c, 2013).

Amore è mancanza e coraggio, è fragilità e passione, è spontaneità e ingegno. Esso risulta essere un’armonia di opposti, un ossimoro esistenziale che determina la vita di ogni individuo.

Riflettendo un po’ sull’essenza di tali concetti ed applicandoli alla nostra vita quotidiana, potremmo dire che in ogni relazione tra due amanti c’è una forma di questo amore che necessita di equilibrio e che genera diversi sentimenti.
A volte, l’amore prende la forma dalla mancanza, che non sempre coincide però con l’assenza. C’è, infatti, una mancanza che genera fervida attesa, che rafforza i legami e che lascia il passo alla certezza che l’amore – o l’amato, più nello specifico, ovvero colui che è portatore di amore – stia per arrivare, ritornerà. In questo tipo di mancanza, l’assenza non è mai davvero assenza, poiché essa è piena di quell’amore che non muore, che non scompare, ma che semmai cambia aspetto, forma, in base alle diverse stagioni della vita. La vera assenza che determina il vuoto, invece, è quella in cui si soffre per ciò che non si può vivere e che pure si vorrebbe; è il rifiuto, la negazione ma anche l’accettazione piena di un amore che non c’è. E la differenza tra la mancanza e l’assenza è spesso data dalle persone in relazione. In una relazione non si può amare da soli, bisogna che ci si ami reciprocamente, altrimenti non è più amore, ma altro.

Allo stesso tempo, per amare bisogna che le fragilità si incontrino, senza paura, e che insieme si prendano per mano senza lasciarsi travolgere ma bensì sorreggendosi vicendevolmente attraverso la passione, che se inizialmente coincide con un imponente trasporto emotivo, gradualmente diventa un sapersi stare accanto in quei momenti di sofferenza che le proprie fragilità, inevitabilmente, comportano.
Amare è crescere insieme, nel tempo e, come dice Socrate nel Simposio, saper passare dall’amore per ciò che sembriamo – soprattutto dal punto di vista estetico – all’amore per ciò che siamo davvero dentro, con i nostri difetti, con le nostre paure e con tutto ciò che non piace forse neanche a noi stessi.
Per fare tutto questo, non basta concepire la libertà solo in termini di positività o negatività. È necessaria anche la libertà per, quella che sa andare oltre le affermazioni e gli ostacoli – che non sempre possono essere eliminati in modo semplice – e sa scegliere nonostante tutto. L’amore è la risposta alla domanda: “Per chi sono io?”.

Oltre ogni concezione romantica, per amare bisogna davvero aspirare ad Eros, che unisce povertà e coraggio e che sa dosare, di volta in volta, ciò di cui è portatore. Non a caso, l’amore è da sempre la denominazione di tutto ciò che supera la concezione di ciò che vediamo, che sentiamo ma che si avvicina al divino. E, proprio come fa Dio, per amare davvero bisogna imparare a non arrendersi alla morte ma senza mai violare la libertà dell’altro. E, forse, potrebbe essere proprio la libertà l’espressione più autentica dell’equilibrio dell’amore. Che si tratti di amore divino o terreno, solo chi ama davvero conosce il vero valore della libertà, spada di Damocle di ogni autentica relazione.
Attraversando silenzi, deserti, ma anche percorrendo sentieri sorprendenti, oggi come allora, l’amore resta sempre un’avventura che vale la pena vivere. Insieme.

 

Agnese Giannino

 

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Il “Simposio”: definire l’amore con Platone tra spirituale e materiale

Sul tema dell’amore si è dibattuto molto nei secoli e ne sono state date differenti definizioni. Ma diciamocelo, è sempre molto complicato rispondere alla domanda: “cos’è l’amore?”. Forse non esiste una risposta corretta, o semplicemente per ognuno l’amore è qualcosa di diverso.

I greci furono tra i primi a interrogarsi sulla questione e pagine significative ci sono giunte da Platone con il Simposio e il Fedro. Ciò che rende particolare il Simposio, potrebbe essere riconducibile al fatto che ci si possa rispecchiare nelle diversità dei vari commensali che inscenano dei monologhi durante il banchetto. La vicenda si svolge a casa del tragediografo Agatone e sono vari i personaggi che intervengono sul tema dell’Eros, dandone ognuno una propria definizione, per giungere infine al discorso socratico.
Coloro che parlano prima di Socrate, si preoccupano di attribuire ad Eros i più grandi pregi in maniera indiscriminata, collocandosi fuori dalla dimensione veritativa – e dunque nella doxa. Socrate, invece, è del parere che un vero elogio necessiti di dire la verità, andandosi a collocare nella dimensione epistemica:

«Io infatti, nella mia ingenuità, credevo che sulla cosa da lodare [l’amore] bisognasse dire la verità, e che questa dovesse restare a fondamento […]» (Platone, Simposio, 1996).

Come in tutti i dialoghi platonici, Socrate rovescia le posizioni degli altri dialoganti, ma in questo caso, per farlo, decide di inscenare un dialogo con un personaggio da lui immaginato: la sacerdotessa Diotima, che lo istruirà sulle cose dell’amore.

Eros, tra le altre cose, era stato presentato come mancante delle cose belle e buone, che proprio a causa di tale mancanza egli desidera. Nel dialogo tra Diotima e Socrate, invece, Eros assume la forma di intermedio tra il bello e il brutto, tra il buono e il cattivo. Tale caratteristica viene sviluppata da Platone in una duplice direzione: Eros è intermedio in senso “verticale” – in quanto non identificabile con un dio immortale, ma neppure con qualcosa facente parte della dimensione sensibile: 

     «Ma allora, dissi, che mai sarebbe Amore? un mortale?
     – Niente affatto.
     – E allora che cosa?
     – Come prima, rispose: qualcosa di mezzo fra il mortale e l’immortale.
     – E cioè, Diotima?
     – Un gran demone, o Socrate; infatti ogni natura demoniaca sta nel mezzo fra il divino e il    mortale» (ivi).

Ma la posizione probabilmente più vicina al nostro attuale modo di considerare l’amore, è la visione di Eros come intermedio in senso “orizzontale”, ossia come qualcosa che unisce caratteri opposti, come la privazione e l’acquisizione. È infatti interessante paragonare tale posizione platonica con la psicanalisi che vede nell’amante colui che ricerca nell’amato l’oggetto della propria mancanza. Tale visione dell’amore come intermedio in senso orizzontale deriva dalla natura di Eros, che Platone fa nascere dalla sintesi di due forze opposte, quella della madre Penia (Povertà) e quella del padre Poros (Ingegno). Secondo Platone, Eros avrebbe ereditato l’indigenza, il bisogno e dunque la mancanza, dalla madre Penia; mentre avrebbe ereditato la bramosia di cercare ciò che desidera con tutte le sue forze, dal padre Poros. In quanto generato durante la festa della nascita di Afrodite, massima rappresentante della bellezza, Eros sarebbe amante del bello, pertanto Platone afferma che l’amore sia il tendere al Bene, anche nel suo manifestarsi come bellezza.

«In occasione della nascita di Afrodite, […] Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Ingegno, gli si sdraia accanto [mentre dormiva ubriaco] e concepisce Amore. Ecco perché Amore […] è, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo anche Afrodite» (ivi).

Tale concezione può risultare complessa, ma è facilmente spiegabile se si comprende che l’Eros realizza la sua tendenza al Bene mediante la procreazione del Bello, dal quale è attratto per sua natura. La bellezza, a sua volta, stimola il desiderio di procreare portando la natura all’immortalità, ma sulla questione della procreazione Platone non si limita ad alludere alla dimensione materiale. Egli afferma che tale processo avvenga anche per l’anima; infatti il Bello porterebbe l’anima a generare le sue migliori virtù e dunque ad essere sempre alla ricerca di nuove acquisizioni del sapere.

La conclusione platonica può apparire aulica e apparentemente poco pratica, tuttavia passi avanti sono stati fatti ragionando sull’amore, proprio a partire da Platone, come dimostrano le tesi freudiane sulla libido e sulla sublimazione. La mancanza che caratterizza l’amore attua il desiderio nei confronti dell’amato e su questo notiamo come convergano sia Platone che Freud. Infatti, in Platone l’amore non fa altro che spingere l’individuo oltre la morte, attraverso la procreazione che serve a mantenere nel tempo ciò che “manca” a livello corporeo, ossia l’immortalità materiale. Freud parlerà di Eros e Thanatos, rispettivamente pulsione di vita e di morte, arrivando ad affermare che Eros si ponga al servizio della pulsione di morte.
Notiamo dunque come in Freud venga ripreso il tema della mancanza e la teoria platonica dell’Eros, fino ad arrivare alla sublimazione dell’amore, secondo cui la spinta verso la meta sessuale si sublima, cioè si trasmuta in un’altra tensione nei confronti di una meta che non è più sessuale.

La teoria platonica dell’Eros risulta quindi molto più concreta di quanto non sembri, sintetizzando perfettamente la dimensione materiale e quella spirituale, impossibili da considerarsi separatamente quando si parla di amore, a prescindere dall’opinione che si abbia riguardo al tema, che ancora oggi rimane di complessa definizione.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Tim Marshall via Unsplash]

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L’amore e l’uomo: l’ultima lotta tra Nolan e la scienza

Approcciarsi alla filosofia non è impresa facile. Si può facilmente incappare in stati di confusione e perplessità quando si affrontano parole come l’Essere, il Soggetto, l’Ermeneutica, l’Infinito; espressioni nella qualità di Per sé, In sé; oppure contrapposizioni in termini di Realtà/Apparenza, Immaginazione/Meraviglia, Origine/Provenienza, Metafora/Teoria. Per fortuna, però, esistono molteplici strade per impedire qualsivoglia scoraggiamento e il cinema è una di quelle. Molto spesso infatti, e soprattutto negli ultimi decenni, l’arte cinematografica ha cercato l’origine e il senso del tutto tramite immagini e suoni grazie al lavoro di grandi cineasti che hanno offerto un alternativo approccio alla filosofia per il grande pubblico. Pionieri del calibro di Hitchcock, Bergman, Fellini, Kubrick e i più contemporanei da Anderson a Lars Von Trier, da Sorrentino ai Fratelli Coen hanno tentato l’impresa. E forse ci sono anche riusciti, come piccoli filosofi del grande schermo, tratteggiando le loro opere con temi fondativi della vita umana.

Tra i tanti autori che si potrebbero aggiungere alla lista ce n’è uno che ha fatto del proprio lavoro e del cinema un mezzo di riflessione: Christopher Nolan, l’amante del tempo per eccellenza. Infatti l’inesorabilità del passato, il contorcersi degli attimi e l’orologio impazzito e molleggiante sono i suoi cavalli di battaglia e Interstellar (2014) può rappresentare un punto cruciale del suo percorso speculativo.

È innanzitutto un film di fantascienza: un miscuglio tra fisica quantistica e passioni umane, nell’apparente caos di un tempo capriccioso e mutevole; un legame tra soggetto individuale e un’umanità che deve essere salvata; un amore tra un padre e una figlia, forte abbastanza da condurre l’intera trama in una missione quasi senza speranza. Non sorprende, dunque, che Nolan abbia ricevuto molteplici critiche: molti fisici, infatti, hanno storto il naso, soprattutto tenendo presente come dalla nascita della teoria della relatività di Einstein la stessa comunità scientifica viaggi su binari opposti, ma contemporaneamente confermati nella loro veridicità da complesse proporzioni matematiche.

Polemiche scientifiche a parte, non possiamo ignorare il fulcro della trama cioè l’amore. La passione più complessa dell’essere umano, infatti, rappresenta nell’opera il filo conduttore tra tempo e spazio apparentemente infiniti e così strettamente legati. Un amore che cerca di divincolarsi tra l’individuale e l’assoluto e anzi, che si propone esso stesso il collante per entrambe le dimensioni. Un amore come unico mezzo di comunicazione.

Nell’ottica di Nolan quest’idea è possibile e la storia della filosofia, forse, potrebbe dargli ragione. Già agli albori della cultura greca, infatti, l’amore ebbe un forte rilievo poiché assunse la mansione di intermediario tra l’uomo e gli dèi. Una passione non propriamente divina, come invece fu sottolineato dai posteri medievali, ma piuttosto un dono concesso all’uomo dall’Olimpo. Un dono capace di sancire un importante canale di comunicazione. Perché, di partecipazione si parla in Interstellar e di parola come ricerca del sapere nel Simposio. Potremmo interpretarlo in questi termini come una sorta di purgatorio a un passo dall’unità dell’essere, a un passo dal dipanarsi del tutto. Tutto questo però sembra non bastare: il bottino è troppo grande per l’uomo, il suo respiro sembra affannarsi durante il cammino, i sensi si affievoliscono, la ragione via a via leggermente si appanna.

Nolan, infatti, cerca di andare oltre. Vuole che l’amore oltrepassi l’ultimo scoglio, che esso possa, sfruttando l’infinità del tempo e dello spazio, unire la soggettività dei protagonisti al futuro dell’umanità nell’oggettività ancora troppo oscura dello spazio. Continuando nell’itinerario offertoci dalla filosofia, è nell’Ottocento che possiamo intravedere un’alternativa: con il lavoro di Hegel, infatti, il soggetto non è solo in grado di sposarsi con l’Assoluto oggettivo, ma esso stesso nel proprio dipanarsi, si scopre alla base di esso. È questa l’illuminazione che il regista cerca: scoprendosi, scontrandosi, liberandosi, infatti, la soggettività dell’uomo capisce di essere essa stessa il fulcro del tutto. Un soggetto che non si sacrifica per una causa esterna a sé, come vorrebbe la metafisica classica, ma che tramite l’amore sacrifichi sé stesso per sé stesso e per l’altro come Gesù Cristo sulla croce. È in questo modo che il Soggetto si propaga come Amore. Un amore che parte dal limite dell’individuo e che si libera esponenzialmente verso ciò che gli era ignoto.

Basta avere il coraggio di prenderlo, il bisogno di possederlo, l’affetto nel sacrificarlo. Insomma, un amore che si fa Uomo, che si scopre come tale nel momento in cui ottiene la responsabilità della libertà, il rischio della perdita, la consapevolezza di non potersi più tirare indietro davanti sé stesso e all’Assoluto che rappresenta.

 

Simone Pederzolli

 

[Photo credit space.com]

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L’uomo e le sue metà: il Visconte Dimezzato di Italo Calvino

Platone, come è noto, fa raccontare al commediografo Aristofane nel Simposio che alle origini la natura umana comprendeva tre entità: il maschile, il femminile e l’androgino, tutti dotati di quattro braccia, quattro gambe e due teste, insomma doppi rispetto a quello che siamo oggi. Proprio a causa della loro potenza gli umani tentarono di scalare l’Olimpo per spodestare gli dei e vennero puniti con lo smembramento in due pezzi: «Prima di allora, lo ripeto eravamo uno […] e c’è da temere che, se non siamo corretti verso gli dei, non si venga di nuovo spaccati e non si debba andare in giro come certe figure […] resecate a metà attraverso il naso, ridotti come mezzi dadi»1Dalla scissione, nata per ira degli dei verso gli uomini, deriva quel senso di incompletezza che spesso proviamo e quella ricerca continua e insaziabile che attrae l’umanità verso l’altro, in un perenne tentativo di reintegrare l’unità perduta. Secondo Platone, dunque, l’attrazione verso il prossimo e, in definitiva, l’amore così come lo conosciamo, nascono da un’esigenza interna, ancestrale, di riunione verso noi stessi, di recupero di una condizione a noi preesistente.

Circa due millenni dopo Platone, sia pure in contesti e con riflessioni in parte diverse, Italo Calvino riprende alcuni concetti e immagini dell’uomo dimezzato, all’interno di una delle tre opere dedicate a I nostri antenati (insieme a Il barone rampante e Il cavaliere inesistente)Nel breve romanzo Il visconte dimezzato (1952) lo scrittore narra infatti la storia di Medardo, visconte di Terralba, diviso letteralmente in due da una cannonata durante una battaglia contro i Turchi. Medardo si trova così ad avere due metà di sé che vivono indipendenti: l’una buona e caritatevole, chiamata Il Buono; l’altra cattiva e meschina: Il Malvagio o Il Gramo.  Entrambe le due parti, potremmo dire, il duplice aspetto della nostra personalità, non riescono a vivere in pace, guerreggiano tra loro, cercano di sottrarsi quanto è a loro caro, come l’amore per Pamela, fino ad arrivare addirittura ad un duello sanguinoso. Afferma infatti la voce narrante verso la fine del romanzo: «Così l’uomo si avventava contro di sé, con entrambe le mani armate d’una spada»2 colpendosi senza sosta e facendo, alla resa dei conti, del male a se stesso. Il Buono e il Malvagio faticano a vivere in equilibrio, spesso si trovano in aperto contrasto, per dirla con Calvino, “si fanno la guerra”, si giudicano per le proprie azioni senza cercare di comprendersi.

Non è difficile scorgere, al di là della descrizione fantastica messa in atto da Calvino, l’ironia sottile con cui lo scrittore colpisce le abitudini umane, che facilmente danneggiano l’altro, ma in primo luogo se stessi. Si pensi al Buono: egli fa del bene agli altri in maniera incondizionata, senza riporre ragione nelle sue azioni, ma alla resa dei conti ne esce sempre sconfitto. Analogamente Il Malvagio crede di essere più astuto, ma la furbizia e le proprie malefatte gli valgono a poco, dal momento che tutti cercano di evitarlo. Da ciò ne consegue che l’una parte non può fare a meno dell’altra, sebbene l’esperienza abbia spinto il visconte a conoscere la sua vera natura: «O Pamela, questo è il bene d’esser dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. […] Non io solo sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti»3Forse, quello che ci insegna Calvino è che la ricerca di altro all’infuori di sé, così come la presenza di bene e male sono aspetti da cui non possiamo prescindere; in quanto uomini, dunque, non ci resta dunque che accettarli, accoglierli in noi e tenerli, per quanto possibile, in equilibrio.

È umano avere entrambi gli aspetti della personalità: quella buona e quella cattiva, così come è umano sentirsi incompleti ed essere sempre alla ricerca di sé.

In definitiva ritorniamo dunque al pensiero iniziale di Platone: nonostante i millenni trascorsi, ancora ci si interroga su quel sentimento di incompletezza che ci caratterizza, su quelle domande profondamente umane relative alla nostra natura, che alla resa dei conti non sono diverse, siano esse espresse attraverso un mito antico o una fiaba di guerra e di nazioni duellanti.

 

Anna Tieppo

 

 

NOTE:
1. Platone, Simposio, in La comunicazione Filosofica, tomo 1, Trento, Paravia, 2002, pp. 236-238.
2. I. Calvino, Il visconte dimezzato, Milano, Mondadori, 2015, p.129.
3. Ivi, p.132.

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La filosofia della perla

La perla, che stranissimo elemento marino. Quanti conoscono la sua vera natura? Essa è un elemento duplice: nasconde ed è a sua volta nascosto. È contenitore e contenuto, custodisce ed è custodito. La perla, infatti, è il prodotto di reazione all’intrusione di un primitivo, semplice granello di sabbia, attorno al quale si formano strati di madreperla che lentamente, ma inesorabilmente, inglobano e isolano il granello allo scopo di proteggere la conchiglia. Di esso alla fine non si sa più nulla: il granello scompare alla vista, ma sopravvive tenacemente sotto molteplici sfere di pregiato materiale multicolore. Senza quell’intruso, questo “tesoro” di inestimabile valore non sarebbe mai stato generato. E non solo. Dalle caratteristiche di quel minuscolo granello, dipenderanno poi forma, dimensioni, peculiarità della futura perla.

Tentiamo ora un parallelo tra essa e la natura umana. Supponiamo per un attimo che la perla corrisponda alla vera natura del Sé, al nostro Io più profondo, quello che proteggiamo tenacemente. Entrambe sono accessibili solo a fatica, poiché le valve della conchiglia esercitano una fortissima resistenza; allo stesso modo le valve della nostra rassicurante ordinarietà, delle nostre certezze tendono a proteggere l’Io da tutto ciò che è altro. Ma se nella conchiglia la perla ha avuto origine proprio dall’interazione con un elemento estraneo, il medesimo processo non potrebbe valere anche per il nostro Io? La perla-Io non si impreziosisce forse grazie a strati di incontri, contrasti,  interazioni, simbiosi con ciò che è altro da noi?

Come insegnano anche i miti dell’antichità, siamo esseri incompleti. La nostra bellezza sta proprio nella capacità di aprirci e permettere all’elemento estraneo di modificarci. Penso al mito dell’androgino che Aristofane narra nel Simposio di Platone. Agli albori del tempo, oltre al sesso maschile e a quello femminile, esisteva il sesso androgino, proprio di esseri che avevano in comune caratteristiche maschili e femminili. Tutti questi individui erano di forma completamente rotonda, con quattro braccia, quattro gambe, un’unica testa con due facce opposte l’una all’altra, dotati di grande abilità motoria. Un giorno vollero sfidare gli Dei, ribellandosi a Zeus. Questi però rispose dividendoli in due esatte metà in modo tale da renderli più deboli e più numerosi. In questo modo ridimensionava la loro bramosia e al tempo stesso raddoppiava il numero dei suoi servi.

Ma le conseguenze di questa separazione forse neppure Zeus le aveva previste. Da un essere unico, completo e appagato si formò una diade, dove ciascun elemento si sentiva incompleto, sperduto e solo. Da quel momento questi esseri ricercarono la parte mancante di sé. Avvertivano l’impellente necessità di ritrovare quell’antica unità, quella completezza perduta.

Platone sostiene che l’elemento che spinge alla ricerca è l’Eros, l’Amore, anch’esso di duplice natura, non a caso! È un essere intermedio tra Dio e l’uomo. Un demone. È il desiderio di armonia, la voglia di restaurare l’antica natura, di ricostituire l’originaria interezza. Tutta la nostra vita è in qualche modo segnata da quell’antico, se pur immaginario, evento di separazione di androgino; ognuno di noi sente la necessità di unirsi a qualcuno, di ricercare l’altro, ma al contempo di proteggere la propria individualità, di rinchiudersi all’interno della conchiglia. Spesso per paura dell’ondata improvvisa, preferiamo aggrapparci tenacemente allo scoglio di ciò che è noto e che ci conforta, rinunciando più o meno consapevolmente al raggiungimento di appaganti sintesi.

D’altra parte sono convinta che una totale unilateralità non sia ipotizzabile. Concepiremmo il nostro vivere come puro e libero scorrere? Se scivolassimo liberamente come fanno i torrenti per raggiungere il mare, non desidereremmo per un po’ di tempo essere anche contenuti? E il mare e le infinite vie che ad esso conducono, non sono forse anch’essi in parte contenitori?

Il contrasto, la diversità, nel mio modo di vedere, non sono sinonimo di negatività, di annullamento, bensì di movimento, di vita. L’apertura a ciò che è altro da noi, origina un contrasto reale, vivente che di negativo non ha nulla all’infuori del giudizio che ne dà l’uomo, costantemente sottomesso alle sue categorie mentali di chiusura e delimitazione. Siamo esseri duplici, siamo esseri multicolori. Perché opporci, allora? Perché combattere questa verità cercando di appianare laddove c’è contrasto?

Che sfida. Avete presente le arpe eoliche? Differenti corde unite dalla carezza del vento. E la musica che emanano non è forse la più armoniosa del mondo?

 

Erica Pradal

 

Erica Pradal ha 46 anni e vive a Barbisano di Pieve di Soligo (TV). Laureata in Filosofia, insegna Lettere alla Scuola Secondaria di 1° grado. Da sempre coltiva la passione per la lettura espressiva e soprattutto per la scrittura, che nel tempo ha preso diverse forme. Una tra queste è stata la collaborazione nel 2018 con il settimanale L’Azione, scrivendo articoli di approfondimento sul mondo della scuola, nella rubrica ‘La Sosta’.

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