L’amore e l’uomo: l’ultima lotta tra Nolan e la scienza

Approcciarsi alla filosofia non è impresa facile. Si può facilmente incappare in stati di confusione e perplessità quando si affrontano parole come l’Essere, il Soggetto, l’Ermeneutica, l’Infinito; espressioni nella qualità di Per sé, In sé; oppure contrapposizioni in termini di Realtà/Apparenza, Immaginazione/Meraviglia, Origine/Provenienza, Metafora/Teoria. Per fortuna, però, esistono molteplici strade per impedire qualsivoglia scoraggiamento e il cinema è una di quelle. Molto spesso infatti, e soprattutto negli ultimi decenni, l’arte cinematografica ha cercato l’origine e il senso del tutto tramite immagini e suoni grazie al lavoro di grandi cineasti che hanno offerto un alternativo approccio alla filosofia per il grande pubblico. Pionieri del calibro di Hitchcock, Bergman, Fellini, Kubrick e i più contemporanei da Anderson a Lars Von Trier, da Sorrentino ai Fratelli Coen hanno tentato l’impresa. E forse ci sono anche riusciti, come piccoli filosofi del grande schermo, tratteggiando le loro opere con temi fondativi della vita umana.

Tra i tanti autori che si potrebbero aggiungere alla lista ce n’è uno che ha fatto del proprio lavoro e del cinema un mezzo di riflessione: Christopher Nolan, l’amante del tempo per eccellenza. Infatti l’inesorabilità del passato, il contorcersi degli attimi e l’orologio impazzito e molleggiante sono i suoi cavalli di battaglia e Interstellar (2014) può rappresentare un punto cruciale del suo percorso speculativo.

È innanzitutto un film di fantascienza: un miscuglio tra fisica quantistica e passioni umane, nell’apparente caos di un tempo capriccioso e mutevole; un legame tra soggetto individuale e un’umanità che deve essere salvata; un amore tra un padre e una figlia, forte abbastanza da condurre l’intera trama in una missione quasi senza speranza. Non sorprende, dunque, che Nolan abbia ricevuto molteplici critiche: molti fisici, infatti, hanno storto il naso, soprattutto tenendo presente come dalla nascita della teoria della relatività di Einstein la stessa comunità scientifica viaggi su binari opposti, ma contemporaneamente confermati nella loro veridicità da complesse proporzioni matematiche.

Polemiche scientifiche a parte, non possiamo ignorare il fulcro della trama cioè l’amore. La passione più complessa dell’essere umano, infatti, rappresenta nell’opera il filo conduttore tra tempo e spazio apparentemente infiniti e così strettamente legati. Un amore che cerca di divincolarsi tra l’individuale e l’assoluto e anzi, che si propone esso stesso il collante per entrambe le dimensioni. Un amore come unico mezzo di comunicazione.

Nell’ottica di Nolan quest’idea è possibile e la storia della filosofia, forse, potrebbe dargli ragione. Già agli albori della cultura greca, infatti, l’amore ebbe un forte rilievo poiché assunse la mansione di intermediario tra l’uomo e gli dèi. Una passione non propriamente divina, come invece fu sottolineato dai posteri medievali, ma piuttosto un dono concesso all’uomo dall’Olimpo. Un dono capace di sancire un importante canale di comunicazione. Perché, di partecipazione si parla in Interstellar e di parola come ricerca del sapere nel Simposio. Potremmo interpretarlo in questi termini come una sorta di purgatorio a un passo dall’unità dell’essere, a un passo dal dipanarsi del tutto. Tutto questo però sembra non bastare: il bottino è troppo grande per l’uomo, il suo respiro sembra affannarsi durante il cammino, i sensi si affievoliscono, la ragione via a via leggermente si appanna.

Nolan, infatti, cerca di andare oltre. Vuole che l’amore oltrepassi l’ultimo scoglio, che esso possa, sfruttando l’infinità del tempo e dello spazio, unire la soggettività dei protagonisti al futuro dell’umanità nell’oggettività ancora troppo oscura dello spazio. Continuando nell’itinerario offertoci dalla filosofia, è nell’Ottocento che possiamo intravedere un’alternativa: con il lavoro di Hegel, infatti, il soggetto non è solo in grado di sposarsi con l’Assoluto oggettivo, ma esso stesso nel proprio dipanarsi, si scopre alla base di esso. È questa l’illuminazione che il regista cerca: scoprendosi, scontrandosi, liberandosi, infatti, la soggettività dell’uomo capisce di essere essa stessa il fulcro del tutto. Un soggetto che non si sacrifica per una causa esterna a sé, come vorrebbe la metafisica classica, ma che tramite l’amore sacrifichi sé stesso per sé stesso e per l’altro come Gesù Cristo sulla croce. È in questo modo che il Soggetto si propaga come Amore. Un amore che parte dal limite dell’individuo e che si libera esponenzialmente verso ciò che gli era ignoto.

Basta avere il coraggio di prenderlo, il bisogno di possederlo, l’affetto nel sacrificarlo. Insomma, un amore che si fa Uomo, che si scopre come tale nel momento in cui ottiene la responsabilità della libertà, il rischio della perdita, la consapevolezza di non potersi più tirare indietro davanti sé stesso e all’Assoluto che rappresenta.

 

Simone Pederzolli

 

[Photo credit space.com]

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L’insostenibile leggerezza dell’essere e il passato che non ritorna

«L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?»1.

In questo modo Kundera si presenta ai lettori. Con parole quasi agghiaccianti, avvalendosi del pensatore tedesco, introduce nella sua opera principale, L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), l’idea del passato che ritorna. 

Lo stesso ispiratore, Nietzsche, ne era terrorizzato. «Il pensiero più abissale»2 così definiva l’eterno ritorno dell’identico. Un’idea che è tanto complessa quanto antica. Il filosofo tedesco, infatti, in terre svizzere davanti al comparire di quel così strano ammasso di pietra, rischiarì una concezione presente già nell’antica Grecia, prima che il “tafanod’Atene, Socrate, comparse nei pensieri e nelle opere di Platone.

La differenza tra Nietzsche e i Presocratici, messi a confronto nella concezione del tempo, non si limita solo ai duemila anni di distanza dal loro umile comparire in «quest’atomo opaco del male»3Infatti, se per gli antichi greci l’eterno ritorno presupponeva una concezione ciclica del tempo, una ciclicità puntuale nella natura, per il pensatore tedesco anche il più insignificante evento è destinato a ripresentarsi all’infinito come a un succedersi di mondi perfettamente identici nei minimi particolari, separati gli uni dagli altri da periodiche conflagrazioni universali. 

«Il mito dell’eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto […] Cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte? Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio»4.

Le cose «appaiono prive della circostante attenuante della loro fugacità»5. L’effimero scompare e con esso il fascino della nostalgia. In questi termini, l’idea dell’eterno ritorno dell’identico è capace di spaventare anche il più temerario degli uomini, consapevole del peso ineluttabile che dovrà sopportare. In confronto le sette fatiche di Ercole appaiono come una scampagnata in collina. Infatti, se ogni cosa è destinata a ripersi all’infinito «siamo inchiodati all’eternità come Gesù Cristo sulla croce»6. Il peso della responsabilità come un fiume che separa due regni, la vita e la morte, insorge come un macigno difficile da sviare; «il fardello più pesante che ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo»7.

In sintesi, indagare sulle conseguenze di questo concetto non è impresa facile. Troppi pensatori si sono imbattuti tra follia e risentimento nelle parole di Nietzsche, finendo poi per perirne: Deleuze, Löwith, Ferraris per fare qualche esempio. Possiamo però affermare con più sicurezza che in un mondo incompleto, mancando del ritorno del passato, eventi cruciali come il tramontare d’imperi, le innumerevoli guerre fratricide, o il comparire della ghigliottina francese in nome della Dea Ragione; tutto ciò ci può apparire come un umile comparsa nella Grande Marcia della storia tanto da lasciar perdere, quasi con ignoranza, perché non vissute in prima persona. In questo modo ci raccontiamo «è andata così, è il destino; non c’è nulla da farci»8Ci dimentichiamo, cioè, della profonda perversione morale che appartiene all’anima capace di tutto ciò. Scordiamo cosa significhi vivere un espediente, soccombere ai riflessi delle nostre azioni belle o angosciose che siano

Meglio dimenticare, girare le spalle al passato che tinto di porpora sembra svanire nel futuro prossimo che ci prestiamo a compiacere; cancelliamo connessioni celebrali, che potrebbero chiarirci chi siamo veramente; affoghiamo nel vino dell’ignoranza per poter andare avanti. Così che il masso dell’eterno ritorno si fa misero sassolino dentro le nostre tasche bucate e così passiamo la nostra esistenza. 

Impossibile poter biasimare questa scelta. Dopotutto, lo stesso Nietzsche una volta scrisse «L’uomo si meraviglia di sé stesso, di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato: per quanto possa correre lontano o velocemente, la catena corre con lui. […] Allora l’uomo dice: “Mi ricordo” e invidia l’animale che dimentica immediatamente»9.

Perciò, dimentichiamo. Anche quello che abbiamo appena letto: non era importante, «non occorre tenerne conto come una guerra fra due Stati africani del XIV secolo»10.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1.M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984 
2.F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1883-85 
3.G. Pascoli, Myricae, 1897
4.M. Kundera, op.cit.
5.Ibidem.
6.Ibidem.
7.Ibidem.
8.G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 1837 
9.F. Nietzsche, Considerazioni Inattuali, 1876 
10.M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984

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Alla (ri)conquista della contemporaneità tra Sorrentino e Cioran

Il cinema italiano può considerarsi orgoglioso di cineasti come Paolo SorrentinoIl regista, infatti, è riuscito a rinnovare con le sue eccentricità e spinte esistenziali al limite del drammatico corso umano, quello che abbiamo perso da ormai molto tempo: la sfumatura nei riguardi della contemporaneità. 

Nondimeno, la capacità d’interpretare il presente è riservata a pochi eletti. Tutto quel susseguirsi d’istanti, uno dietro l’altro, senza scopo alcuno; serve più di un muro per poterne rallentare il corso e capirne qualcosa che abbia almeno un minimo di significato. Come scrisse il filosofo francese per adozione Emil Cioran nell’opera Sommario di decomposizione, «gli istanti si susseguono gli uni agli altri: nulla conferisce loro l’illusione di un contenuto o la parvenza di un significato; si svolgono; il loro corso non è il nostro; prigionieri di una percezione inebetita, li guardiamo passare; il vuoto del cuore dinanzi al vuoto del tempo […]»1

Volendo riassumere il passaggio appena citato, si potrebbe usare una sola parola: tragicità. Abbiamo paura del tragico, forse, perché non può essere modificato o perché piomba all’improvviso. Comunque sia, è la nostra percezione del contemporaneo che ne paga le conseguenze.

Evocando uno dei monologhi migliori che il cinema ci abbia regalato negli ultimi anni, tratto dal film di Giuseppe Tornatore, La leggenda del pianista sull’oceano, il giovane Novecento affronta la morte del tempo, del suo tempo. Rimprovera la nostra incapacità di comprendere la moltitudine di esperienze, attimi, luoghi, scelte che compiamo e compiacciamo di cogliere e sfruttare nell’atto presente. 

«Non è quello che vidi Max che mi fermò. È quello che non vidi. C’era tutto in quella città, ma non c’era una fine. La fine del mondo. Cristo! Anche, soltanto le strade ce ne erano a migliaia! Ma dimmelo, come fate voialtri laggiù a sceglierne una. A scegliere una donna. Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire»

Ciononostante, non è una novità se ci dicessero che siamo costantemente sovrastati da espedienti e distrazioni. 

Però, se qualcuno ci imputasse colpevoli di negligenza, di menefreghismo o persino d’accidia? Come potremmo anche solo difenderci con parole sensate sopra il chiacchiericcio di sottofondo. 

In altre parole, dove abbiamo potuto nascondere l’interpretazione della vita, la sfumatura senza fondo del mondo? Infine, cosa può farci (ri)piombare nella consapevolezza del nostro tempo? 

Cioran e Sorrentino senza mezzi termini ribatterebbero con la noia. Anche Novecento lo aveva compreso su quella nave. Dopotutto, anche lì il mondo passava ma non più di duemila persone per volta. «La rivelazione del vuoto»2, infatti come Cioran la descrive, appare il filo d’Arianna nelle varie opere del regista campano, sembra cambiare muta di tanto in tanto: nella Grande Bellezza è rappresentata dalla Costa Concordia arenata sullo scoglio del Giglio, in This must be the place è la piscina inservibile nel bel mezzo degli Stati Uniti, l’insonnia di Servillo nelle Conseguenze dell’amore o le sigarette del Pio XIII in The Young Pope e così via. 

È grazie a quell’«esaurirsi, di quel delirio che sostiene – o inventa – la vita»3 riprendendo nuovamente il filosofo francese, che possiamo avere una speranza contro l’oscurantismo e l’ignoranza del nostro tempo. Peccato che l’inedia non sia contemplata all’interno del sistema educativo. Magari tra l’ora persa nello spogliatoio e in quella per la conoscenza dei tre Magi, ci sarebbe spazio per l’insegnamento del nulla. Dopotutto, non servirebbe neppure dover assumere molto personale. Basterebbe il silenzio interrotto dalla campanella e un pugno di pensieri. 

Non è un caso che l’artista se ne serva costantemente come uno dei tanti strumenti del proprio scrigno. Senza l’impiccio, forse, oggi dovremmo togliere dal mobiletto dei trofei personaggi come Michelangelo, Fontana, Leopardi, Montale. Insomma, non avremmo neppure più lo scaffale. 

«Chi non conosce la noia si trova ancora nell’infanzia del mondo, quando le epoche erano di là da venire; rimane chiuso a questo tempo stanco che si sopravvive, che ride delle sue dimensioni, e soccombe sulla soglia del suo stesso avvenire»4.

Vogliamo veramente rimanere chiusi nelle «nostre dismisure e nelle nostre sregolatezze»5, mirare alla sola nuda sopravvivenza? Oppure, prima di puntare il dito al prossimo capro espiatorio per insabbiare la nostra disattenzione nei confronti della realtà che si svolge, cogliamo l’attimo in compagnia del tedio, magari riscoprendo la vita e aprendoci al mondo che rappresentiamo. Non quello d’ieri o di domani ma del hic et nunc prima della nostra prossima scelta e dopo la lettura di questo scarabocchio.  

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1.E.M. Cioran, Sommario di Decomposizione, 1949.
2.Ibidem.
3.Ibidem.
4.Ibidem. 
5.Ibidem. 

[immagine tratta da Unsplash]

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La comunicazione che cambia e con essa i concetti: due parole con Giulio Azzolini

Partendo della sua pubblicazione La metamorfosi delle oligarchie nell’era globale (Laterza 2017), Giulio Azzolini, professore di filosofia politica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ci invita a riflettere su temi di carattere storico-politico molto rilevanti nella nostra epoca. Con un occhio di riguardo al fenomeno della globalizzazione, nonché del mutamento nella prassi comunicativa, Azzolini cerca di indagare la genealogia di concetti come élite, oligarchia, leadership, opinione pubblica e democrazia rappresentativa.

Il Professore nel corso dei suoi lunghi studi si è focalizzato soprattutto sulla teoria del sistema mondo, che cercherà nell’intervista di approfondire; sul pensiero politico italiano tra il XIX e XX secolo; sulla globalizzazione e sulla democrazia nel XX secolo. Nulla di più semplice e per questo di alto interesse, considerando la crisi che negli ultimi anni ha investito le maggiori democrazie e i loro sistemi di rappresentanza.

 

Nella sua opera Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale lei sostiene come negli ultimi anni nel dibattito politico contemporaneo si faccia sempre più confusione nel determinare la classe dirigente. La politica, come l’opinione pubblica, confondono i termini categoriali, banalizzando la funzione che esse svolgono. Per quali motivi si è arrivati a questo punto?

Certo non si può pretendere dalla comunicazione di massa il rigore dell’accademia. Ma spesso sono gli stessi studiosi a non andare per il sottile quando si tratta di nominare il potere, impiegando come sinonimi termini che invece dovrebbero tenersi distinti, come ad esempio classe dirigente ed élite. Tuttavia, se oggi il grado di confusione terminologica è cresciuto, a mio avviso, ciò dipende anche dall’effettiva metamorfosi delle realtà di potere che quelle categorie intendevano descrivere.

Riprendendo il discorso dell’ex amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne, in occasione del conferimento della Laurea magistrale honoris causa in Ingegneria gestionale conferita dal Politecnico di Torino nel 2007, Marchionne disse «La realtà di oggi richiede che il concetto di leadership venga ricalibrato. La leadership non è solo questione di processi e di misure; la leadership è una vocazione nobile che arricchisce la vita delle persone. E quello che molti trascurano è che la leadership è privilegio. Le organizzazioni create negli ultimi duecento anni sono state il prodotto di questo: senza regole le persone reagiscono in modo irresponsabile e il miglior metodo di organizzare è ideare semplici lavori in meccanismi complessi. La prima distrugge la fiducia, la seconda ruba la percezione personale. Ciò non è leadership e la percentuale che il futuro sia come il passato è nulla». In riferimento ai suoi studi sulla teoria dell’élite possiamo ritenere questo discorso affidabile?

Il sostantivo leadership deriva dal verbo inglese to lead, che significa guidare. Che alcuni guidino e altri siano guidati è un fatto e, come tale, non va né esaltato né demonizzato. Max Weber, nelle prime pagine del suo saggio su La politica come professione (1919), definisce la politica proprio come «attività direttiva autonoma». Io ho l’impressione che, anche per effetto dei processi di globalizzazione, le leadership politiche attuali risultino sempre più fragili. Sono aumentati coloro che aspirano a guidare, e d’altra parte si è fortemente ridotta la disponibilità a essere guidati.

Ritornando al suo saggio, lei rapporta élite e globalizzazione. Ne parla come due fattori interconnessi, affinché l’uno senza l’altro possano avere possibilità di sopravvivenza pari a zero. La differenza è che l’élite c’è sempre stata, mentre la logica globale è un fenomeno recente quanto destabilizzante. Come è possibile metterle in condizione di una comunicazione e interscambio efficiente, sapendo del ruolo decisivo e avverso allo stesso tempo dell’opinione pubblica?

In un certo senso, dai tempi di Cristoforo Colombo in avanti, la modernità è fin dall’inizio una storia di globalizzazione. Io ho cercato di comprendere come la globalizzazione degli ultimi quarant’anni abbia trasformato le oligarchie. Ho concluso che l’idea di classe dirigente non indica più l’identità collettiva di oligarchie pubbliche e private. Quanto al concetto di élite, ben consapevole che la mia è una difesa delle cause perse, ritengo che quel concetto, se riscoperto come indicatore di una vocazione a migliorare la qualità della rappresentanza, rimane necessario, ancorché naturalmente non sufficiente, per pensare la politica contemporanea in un’ottica democratica e realistica.

Professore, i suoi studi comprendono principalmente il pensiero politico italiano tra il XIX e XX secolo, teorie della globalizzazione, riflessioni critiche contemporanee e l’analisi dei sistemi-mondo. Quest’ultima ha attirato la nostra attenzione. Lei la definisce più che una analisi dei sistemi-mondo, «approccio dei sistemi-mondo». Ci vuole dire qualcosa in più sull’argomento?

L’analisi dei sistemi-mondo non è una dottrina univoca. I suoi principali interpreti – Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, Ander Gunder Frank – condividono però un approccio di fondo: guardano alle dinamiche dell’economia-mondo capitalistica in relazione alle logiche di un sistema sociale funzionalmente gerarchizzato. Il risultato, a mio parere, è una delle più penetranti letture della modernità offerte dalle recenti teorie di ispirazione marxista.

Parlando invece di democrazia, è innegabile che negli ultimi anni l’intero sistema democratico rappresentativo, che tanto ha dato all’Europa e al mondo, sia entrato in crisi. Molti intellettuali e politici di diversa estrazione hanno cercato di individuarne le cause e i prossimi effetti. Lei che idea si è fatto di questo? Ritiene che una delle cause principali possa essere identificata nella crisi finanziaria e successivamente economica del 2008?

La cosiddetta crisi della democrazia rappresentativa assume forme diverse a seconda dei tempi e dei paesi: a volte il populismo, altre il sovranismo, altre ancora regimi schiettamente illiberali. In generale si può dire che, in Europa, essa derivi da una complessa molteplicità di fattori, tra i quali: l’aumento delle disuguaglianze; la crescita non governata dei flussi migratori; l’invecchiamento della popolazione; l’irruzione di Internet; la progressiva burocratizzazione e oligarchizzazione dei partiti politici e in generale degli corpi di rappresentanza; il declino delle culture politiche tradizionali; lo scivolamento del potere decisionale dall’arena nazionale a organismi sovranazionali, recepiti come distanti e opachi.

Anche Platone affrontò il tema della democrazia nella sua opera politica principale La Repubblica, usando parole molto dure e considerandola una forma degenerata della politica. Si oppose là dove nacque – nella polis – definendola «quando i poveri, usciti vincitori del conflitto, uccidono alcuni degli avversari, altri ne esiliano, e a chi resta distribuiscono in modo egualitario l’accesso della cittadinanza e alle cariche di potere; queste sono per lo più assegnate per sorteggio». È realmente così?

La storia della democrazia è lunga e complicata. Nell’Atene classica, il termine indica per lo più il potere immediato, violento, esercitato dalla massa rancorosa dei non abbienti. Non bisogna quindi dimenticare come per secoli la democrazia sia stata considerata la forma di governo peggiore. Nell’epoca moderna la democrazia diventa rappresentativa e conosce un progressivo allargamento del suffragio elettorale. Oggi, dopo la crisi dei socialismi, dei comunismi, dei liberalismi, la democrazia indica un valore quasi universalmente riconosciuto, malgrado troppo spesso calpestato nei fatti.

Hannah Arendt sostiene che l’agire è la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini, e corrisponde alla condizione umana della pluralità, «al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo»; la pluralità è la condizione preliminare di ogni vita politica ed è «il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà». Quindi possiamo dire che l’azione politica è l’attività specificamente umana, il luogo dell’esistenza autentica dove all’uomo è dato di realizzarsi come uomo e che scaturisce dalla libertà come potere di intraprendere qualcosa di nuovo. Ritiene che tale visione possa essere oggi recuperata?

La politica ha certamente a che fare con la pluralità e con la capacità di innovazione, ed entrambi questi aspetti sono importanti per intendere l’esperienza umana. Ma non bisogna scordare che la politica implica insieme il conflitto per il potere, la ricerca dell’utile e della gloria, la paura dell’avversario, dinamiche di potenza e corruzione. Arendt presenta una visione a tratti edulcorata, oltre che destoricizzata.

Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta, il motore di ogni nostra azione e quindi di ogni professione, essendo riflessione e ricerca di senso. Che cos’è per lei Filosofia?

Da parte mia, cerco per lo più di affrontare, con metodo storico-critico, questioni che riguardano sia l’orientamento della prassi sia la comprensione della realtà.

 

Simone Pederzolli

 

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Le “Lezioni americane” di Calvino sono la porta alla contemporaneità

Il XXI secolo è sinonimo di complessità: negli ultimi vent’anni, infatti, la realtà si sta palesando attraverso molteplici aspetti e sfumature e la velocità d’esecuzione dei processi in atto è maggiore rispetto al passato. Basti pensare alla globalizzazione, che ha portato radicali cambiamenti e nuovi rapporti di forza, a livello economico, culturale e sociale, all’interno dei singoli stati nazionali. Una trasformazione che oggi la politica come le grandi corporazioni economiche fanno fatica a gestire. Per questo occorre essere sempre più lesti di fronte alle opportunità che ci vengono offerte e d’altro canto sempre più flessibili alle problematiche vigenti: dal riscaldamento globale fino al disgregamento delle strutture sociali. È come se ci trovassimo nella più moderna stazione ferroviaria della storia, con infiniti treni in partenza, uno dietro l’altro: perderne alcuni può essere fatale come ugualmente prenderne altri.

Calvino ne era consapevole, quando scrisse le Lezioni Americane. Sei proposte per il nuovo millennio. Con lungimiranza ci offrì una sintetica, e non per questo banale, sintesi di quello che sarebbe avvenuto. Siamo nel 1985, in vista del ciclo di sei lezioni che Calvino fu invitato a tenere all’Università di Harvard, peraltro il primo italiano a partecipare come professore estero dalla fondazione della scuola americana. All’invito non seguì la presenza dello scrittore a causa della sua improvvisa morte; per questo l’opera rimase incompiuta, mancante del capitolo sulla Coerenza.

Calvino volle esporre delle lezioni sulla leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la velocità e la molteplicità nei riguardi nel futuro prossimo, partendo da famosi frammenti letterari. In seguito, come completamento dell’opera, volle racchiudere gli auspici per il nuovo millennio in nome della coerenza. Come a dire: vi insegno cosa avverrà ma anche come prestarvi al nuovo mondo.
Le due lezioni che credo rappresentino al meglio la nostra vita alla luce del nuovo millennio sono quelle sulla Rapidità e Molteplicità.

«Nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo avari; in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco»1.

Così scrive Calvino nella lezione sulla rapidità: ci vuole far riflettere sul rapporto che intercorre tra la velocità fisica e la velocità mentale, cioè tra tempo reale e tempo immaginario. Tutto, «in un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano d’appiattire ogni comunicazione»2, sembra scivolarci tutto dalle mani, mostrando la nostra incapacità di poter comprendere veramente ciò che accade. E, forse, ebbe ragione Umberto Eco quando scrisse che «la cultura [e saggezza potremmo aggiungere] è la capacità di filtrare le informazioni»3. Nell’ ottica di Calvino, quella si identifica con la capacità di porre un giusto equilibrio tra il tempo reale e il tempo della mente. Infatti, continua Calvino, «il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile […] ma la velocità mentale non può essere misurata e non permette confronti o gare»4.

È però importante fare molta attenzione: lo scrittore dà immenso valore alla velocità, come fece a sua volta per la leggerezza nella prima lezione dell’opera. Le sue conferenze, infatti, non vogliono in nessun modo screditare i dettami contemporanei, in quanto li reputa, per l’appunto, fondamentali. L’insegnamento non si ferma, dunque, alla critica o alla divisione di concetti, bensì mira alla consapevolezza dell’uomo contemporaneo in riferimento al rapporto tra sé e il mondo.

Sulla molteplicità, invece, Calvino scrive:

«La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati […]. Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima»5.

Questo è il rapporto che dobbiamo avere nei confronti della molteplicità del mondo: «tessere insieme i diversi saperi»; in altre parole, saper convivere con innumerevoli e differenti esperienze, spesso in contrasto tra loro. Utile in tal senso può risultare l’intervento di Giorgio Colli – filologo e filosofo italiano – che scrisse che «il mondo moderno è una molteplicità frantumata»e con esso dobbiamo confrontarci.       

In conclusione, Calvino cerca di instaurare un nesso forte tra il libro, la persona e il mondo: «il self di chi scrive […] è ciascuno di noi come combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letteratura e d’immaginazione»7.  Ogni vita è, dunque, un’enciclopedia che deve misurarsi con altre biblioteche immaginative e pratiche: gli altri. La realtà, dopotutto, è in noi e per noi. Saremo in grado di preservarla?

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. I. Calvino, Lezioni Americane, Milano, Mondadori, 1985, p. 53.

2. Ivi, p. 57.
3. U. Eco, cit. da una lezione tenutasi all’Università di Pisa il 16 settembre del 2004.
4. I. Calvino, op. cit., p. 61.
5. Ivi, p. 112.
6. G. Colli, Presentazione, in B. Spinoza, Etica, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 89.
7. I. Calvino, op. cit., p. 121.

[Photo credit XVIIIZZ via Unsplash]

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“Il Muro” di Jean-Paul Sartre e la sua esistenza scostante

Pochi mesi dopo la pubblicazione de La nausea, nel 1939 esce l’altra celebre opera narrativa di Jean-Paul Sartre: la raccolta di racconti Il muro. I cinque racconti sono narrazioni profondamente inquietanti e nelle quali i personaggi vengono scavati dall’interno, mettendo a nudo vergogne, velleità e viltà, che per il pensatore francese tutti noi condividiamo. Il Muro protagonista supremo è il simbolo d’impotenza e d’ostacolo, capace di chiudere all’uomo ogni possibilità di riscatto. Parliamo, quindi, di cinque piccole disfatte.

L’esistenzialismo sartriano può essere definito una filosofia della libertà, della scelta e della responsabilità. L’uomo deve inventare la propria vita e il proprio destino, deve costruire i propri valori. Non c’è un’essenza dell’uomo che prefiguri la sua esistenza, non ci sono norme, leggi, autorità che predeterminano il suo comportamento.
Infatti, soltanto coloro che rifiutano la responsabilità di un’esistenza libera, che credono in una necessità esterna all’uomo, in una stabilità delle cose, in un ordine metafisico che presiede alla vita della natura e della società, possono essere considerati non uomini.

Nel regno di Sartre, dunque, non di rado vige il caos; il nulla ne è l’ospite consueto, l’uomo la vittima. Lo possiamo già intuire leggendo le prime pagine dell’opera «Mi sentivo stanco ed eccitato a un tempo. Non volevo più pensare a ciò che sarebbe successo all’alba, alla morte. Questo non concludeva nulla, non m’imbattevo che in parole e nel vuoto. Ma non appena cercavo di pensare a qualcos’altro, vedevo delle canne di fucile spianate contro di me. Venti volte di seguito, forse, ho vissuto la mia esecuzione»1. Pablo, il protagonista del primo racconto, vede la sua morte «In quel momento ebbi l’impressione che tutta la mia vita mi fosse davanti e pensai: “È una sporca menzogna”. Essa non valeva nulla dal momento che era finita. Mi chiedevo come avessi potuto andare in giro, scherzare con le ragazze […] La mia vita era davanti a me, chiusa, sigillata come una borsa, eppure tutto ciò che vi era dentro era incompiuto»2.
Pablo però si salva per un colpo di fortuna e la prima cosa che fa è ridere. Ride, non solo perché è ancora vivo ma piuttosto per il paradosso al quale è stato sottoposto. Il dubbio esistenziale non può cessare d’esistere e il cruccio viene così irrimediabilmente rimandato. È un riso emblematico, reazione al paradosso al quale Pablo è stato sottoposto. Già Umberto Eco nel proprio capolavoro Il nome della rosa del 1980 ci propose questo concetto: il riso è critica e ironia, è decostruzione, magari per costruire ancora meglio. Il riso si presenta, così, profondamente diabolico e quindi umano.

Dietro alla nauseante precarietà dell’uomo però risiede la libertà: quasi paradossalmente l’effetto di disgusto dipana la libertà stessa come se fossero incatenati a vicenda. Per Sartre infatti il singolo è condannato ad essere libero per il fatto stesso di trovarsi gettato in un mondo senza senso. Nel racconto Pablo stava per essere condannato a morte e invece come d’incanto fu risparmiato: paradosso, non-senso, libertà inattesa.
Ed è ora che ci dovremmo chiedere se la fortuna basti. O meglio: è solo fortuna? Se noi stessi, senza eventi casuali, non riuscissimo a salvarci? Se non riuscissimo a trovare un senso ai nostri accadimenti, come ci comporteremmo? Come potremmo essere risparmiati? Insomma, com’è che si vive?

Forse faremmo come il protagonista dell’ultimo racconto di Sartre intitolato Infanzia di un capo. Luciano Fleurier rampollo di una ricca famiglia di provincia, che produce capi d’industria da quattro generazioni, è destinato ad essere un capo, e così sarà. Prima però Luciano passerà tra mille dubbi tra i quali la propria inesistenza.
Passa alla psicoanalisi freudiana dopo essere divenuto partner sessuale di un poeta pederasta, a far parte di un’organizzazione fascista giovanile e pestare brutalmente un ebreo. I dubbi su sé stesso lo spingeranno, dunque, a una perenne mutazione, passando da un interesse all’altro e da un’identità all’altra. Nulla di più caotico.
Finiti gli studi, passata l’adolescenza, non ha però più scuse: deve prestarsi a diventare uomo, prendendosi tutte le responsabilità e le libertà connesse. Leggiamo «La sua esistenza era uno scandalo e le responsabilità che avrebbe assunto più tardi a malapena sarebbero bastate a giustificarlo. […] Dopo tutto, non ho chiesto di nascere, si disse, ed ebbe un moto di pietà verso sé stesso. […] in fondo, non aveva mai smesso di sentirsi impacciato dal peso della vita, da questo dono voluminoso e inutile, e l’aveva portato fra le braccia senza sapere che farne né dove deporlo»3.

Non è pronto, e chi lo è in fondo?, si chiede Sartre. Decide allora un rifugio ultimo, prima di iniziare a vivere. «”Là dove mi cercavo” pensò, “non potevo trovarmi” […] Il vero Luciano, adesso lo sapeva. […] Tanta gente l’aspettava al varco: ed gli era, lo sarebbe stato, quest’immensa attesa degli altri. “È questo un capo” pensò»4. Sartre conclude l’opera quasi negando quanto scritto fino a quel momento. Così leggiamo infatti: «Esisto […] perché ho il diritto d’esistere»5. Svanisce ogni dubbio, ogni esitazione. Luciano ora è a tutti gli effetti un uomo-capo; ancora una volta come per magia.
È questo l’ultimo dubbio che ci rimane (è l’intero romanzo che ce lo impone nella propria costituzione): Luciano si salva perché si immette dentro a delle massime convenzionali, cioè all’interno di categorie d’essere più che d’esistere? Cioè: devo perché non voglio. Nulla di più lontano dallo stesso autore. Sembra rinunciare, potremmo dire, illudendosi in nome della serenità.

È difficile poter dare una conclusione esaustiva dell’articolo qui proposto. Forse perché ancora oggi non abbiamo compreso Il Muro fino in fondo. Sartre lo sapeva e forse l’intento era proprio questo. Non ci rimane che domandarci: esiste oppure no una via d’uscita al muro che ci sta dinnanzi?

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. J-P. Sartre, Il Muro, Oscar Mondadori, Verona 1980, p. 40.
2. Ivi, p. 41.
3. Ivi, p. 169.
4. Ivi, p. 295.
5. Ivi, p. 295.

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“Timore e Tremore” di Kierkegaard: salvezza umana e individualità

Timore e Tremore (1843) di Kierkegaard è un’opera magistrale perché offre una delle più interessanti considerazioni filosofiche su che cosa sia la fede in relazione alla ragione e alla morale. Lo scrittore in questione è il padre ante litteram dell’esistenzialismo e l’opera affronta in maniera dettagliata il sacrificio a Dio da parte di Abramo del suo unico figlio Isacco, descritto nell’Antico Testamento e rappresentante una delle massime religiose più influenti del credo cristiano. Kierkegaard con quest’opera cercò, inoltre, di opporsi alla chiesa danese, cercando di riportare il culto cattolico alle origini. Non a caso il titolo dell’opera riprende una frase tratta dalla Seconda lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo: l’individuo deve affrontare da sé Dio, riflettendosi in esso e passando attraverso laceranti passioni. Timore e Tremore rappresenta perciò un nuovo modo di intendere il sentimento in relazione al rapporto con l’altro e ai propri desideri.

 «”E Dio mise alla prova Abramo e gli disse: Prendi Isacco, il tuo unico figlio che tu ami, e va’ nella terra di Moria e sacrificalo ivi in olocausto sul monte che ti mostrerò” [Gen, 22, 1-2] camminando tre giorni in silenzio [scrive Kierkegaard nell’opera] la mattina del quarto giorno, Abramo non disse parola ma, alzando gli occhi vide in lontananza i monti di Moria. […] Si fermò, pose la sua mano sul capo del figlio in segno di benedizione […] ma Isacco non riusciva a capirlo, la sua anima non poteva elevarsi tanto»1.

In parallelo alla descrizione del sacrificio di Abramo a tratti romanzata dal filosofo, c’è anche una lucidissima e profondissima analisi sul valore e il significato di questo sacrificio, sulle conseguenze che da esso scaturirono, sull’immensa angoscia che questa scelta ha generato, ma soprattutto sullinaudito paradosso della fede. Il sentimento religioso emerge così in tutta la sua forza ed evidenzia in prima battuta due concetti molto chiari. Il primo consiste nella libertà di scelta che l’uomo possiede e in secondo luogo affronta la terribile angoscia che può scaturire da questa grandissima libertà. Abramo personifica entrambi gli aspetti, tra ragione e fede.

Dopo il comando di Dio, Abramo obbedì. Pose sull’altare Isacco e mentre si apprestava a compiere l’azione sente la voce di un angelo che lo intima a fermarsi, mentre la sua mano stringe ancora saldamente il pugnale, esattamente un attimo prima che lo stesso ricada su Isacco. Questi non viene dunque sacrificato e Abramo ha superato la prova: riavrà così suo figlio per la seconda volta.
Qui s’innesca il primo terribile paradosso: egli è un omicida mancato oppure il migliore dei figli di Dio?
La questione è basilare ma viene liquidata facilmente tanto dagli atei quanto dai credenti, sostiene Kierkegaard. Il pensatore tuttavia non ha dubbi. Ammira il gesto di Abramo, lo esalta, lo capisce, non lo condanna e scrive: «io non sono in grado di fare il movimento della fede: non posso chiudere gli occhi e precipitarmi fiducioso nelle braccia dell’assurdo, questo è per me impossibile ma non me ne vanto»2.

Il paradosso della fede si racchiude «in questa in virtù dell’assurdo, poiché qui non potrebbe esserci un calcolo umano, e l’assurdo è che Dio, il quale esigeva quel sacrificio, un istante dopo avrebbe revocato la richiesta […] credette che Dio non avrebbe preteso Isacco. Egli fu sicuramente sospeso dall’esito […] e così egli ricevette con una gioia maggiore Isacco rispetto alla prima volta»3. Ogni calcolo umano deve essere abbandonato e il Singolo deve rifiutare la mediazione e trovarsi davanti a Dio con la sola fede senza l’appoggio di istituzioni come la Chiesa. È qui che può avvenire la sua perdizione o la sua salvezza. In questo modo Kierkegaard cerca con tutte le sue forze di salvare il Singolo, vedendo nell’individualità la risposta ai dilemmi del mondo. Il Singolo, infatti, una volta entrato nel paradosso verrà a toccare l’affanno e l’angoscia per diventare veramente individuo. Ciò traccia le linee del Cavaliere della Fede: una figura quasi mitologica. Abramo dopo la prova lo diventa, rappresentando così l’uomo più divino di tutti.

«Lui sa della sicurezza ch’è data dal generale. Sa quanto è bello nascere come Singolo che ha nel generale la sua patria […]. Ma sa anche che al di sopra di questo si snoda una vita solitaria, stretta e dirupata; sa com’è terribile esser nato solitario fuori dal generale, e dover camminare senza incontrare nessun compagno di viaggio»4.

Concludendo, la strada romantica indicata da Kiekregaad in Timore e Tremore presuppone la salvezza dell’uomo, che paga però a caro prezzo. L’individuo, infatti, non solo deve passare per passioni destabilizzanti che minano la propria identità, ma dovrà anche accettare la solitudine nei confronti del mondo. La realtà però non viene sacrificata dal filosofo in nome dell’isolamento individuale perché se siamo qui, qui dobbiamo restare. In tal senso la fede non è una mera promessa d’eternità dopo la morte ma la prova continua dell’uomo su questa terra.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. S. Kierkegaard, Timore e Tremore, Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 2011, p. 7.

2. Ivi, p. 25.
3. Ivi, p. 27.
4. Ivi, p. 62.

[Photo credit Josh Boot via Unsplash]

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Linguaggio e realtà: due dimensioni, un unico significato

Soli tra tutti gli animali, gli esseri umani hanno la capacità di capire, di parlare e di servirsi del linguaggio in infiniti modi. Non ci stupisce quindi che l’esplorazione sistematica del linguaggio sia un’impresa a cui partecipa una moltitudine di studiosi – lessicografi, grammatici, glottologi, psicolinguistici, neuroscienziati – e di discipline: la fonetica, la fonologia, la filologia, la sociolinguistica, fino alla filosofia del linguaggio.

La riflessione filosofica riguardante il linguaggio percorre oramai duemila anni di storia: pensiamo al Logos (discorso), tema fondante nella ricerca fisico-speculativa, quando ancora la filosofia si esplicava in frammenti e trasmissioni orali. Termine che possiamo intendere come un contenitore di concetti dal linguaggio al ragionamento, dal pensiero al metodo.

In un passo famoso delle Confessioni, Agostino nel V sec d.C. espone, a differenza dei suoi precursori, un’immagine per quanto possibile sistematica del processo di apprendimento del linguaggio. Quando gli adulti “nominavano qualche oggetto e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavano e ritenevano che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla1“.  Pur senza essere una vera e propria teoria del significato, questo passo delinea chiaramente una possibile soluzione al problema: le parole del linguaggio denotano oggetti e gli enunciati sono connessioni di tali denotazioni. Il significato di una parola è dunque l’oggetto per il quale la parola sta.

Per milletrecento anni la filosofia sembrò che avesse dimenticato la riflessione sul linguaggio, relegandola a discapito dell’essere, della teologia e nel Seicento del metodo scientifico. Solo a partire dall’Ottocento con il lavoro di Gottlob Frege, logico e matematico noto all’epoca, si inaugurò la filosofia del linguaggio contemporanea. Con il suo lavoro Agostino fu superato: se infatti il rapporto con l’oggetto denotato esaurisse il significato di una parola, allora non riusciremmo a spiegare certe differenze evidenti tra enunciati con diverso valore informativo. Di qui la necessità di riconoscere che le parole non hanno solo un rapporto di denotazione, denominazione e riferimento. Frege si chiederà se davvero il valore delle parole si riduca al loro significato, inteso come rapporto con l’oggetto denominato o se, al contrario, non sia indispensabile tenere conto anche del senso che esse esprimono.

La stessa concezione freghiana risulterà però non priva di problemi: da Russell a Quine, da Carnap a Wittgenstein, da Putnam a Kripke, essa sarà al centro di una serrata critica volta per alcuni a riconquistare la semplicità dell’immagine agostiniana, per altri a elaborare una visione nuova del rapporto tra linguaggio e realtà. Uno fra tutti fu Wittgenstein, presentato di solito come l’iniziatore di due importanti correnti della filosofia del Novecento: il Neopositivismo e la Filosofia del linguaggio ordinario. Ironia della sorte sia Wittgenstein che Agostino furono due figure di spicco della filosofia del linguaggio, senza definirsi tali.

L’obiettivo da Frege in avanti fu la ricerca di una teoria del significato che potesse allontanare l’uomo da errori e imperfezioni del linguaggio comune, cercando di unirlo alla realtà in un’unica dimensione. Così pure Russell, forte critico di Frege ma a lui legato dalla rinnegazione dell’immagine agostiniana del linguaggio.

Wittgenstein invece provò un’altra via: senza rifiuto o accettazione mise Agostino come sfondo e non cercò una teoria del significato bensì un metodo d’indagine (anche se non sempre la pensò così). Possiamo infatti parlare di due Wittgenstein: uno del Tractatus Logico Philosoficus (1921) e un secondo delle Ricerche filosofiche (1956). Quest’ultima opera rappresenta la summa dei concetti qui esposti.

Nelle Ricerche filosofiche cercherà di mettere in discussione certe assunzioni generali che, a suo giudizio sottostanno a un’unica famiglia di teorie di significato. Nel linguaggio esistono diverse funzioni delle parole, svariati modi d’impiego delle espressioni, e mostra come esse non possono essere classificabili sotto un’unica rubrica onnicomprensiva. Nel tentativo di dissipare queste tendenze generalizzanti, Wittgenstein conia l’espressione gioco linguistico e forma di vita. Esistono molteplici impieghi delle frasi, ossia varietà di atti linguistici.

Una volta affrontato il tema del proferimento, discusso da molteplici pensatori nei modi più svariati, è importante anche chiedersi come possa avvenire la comprensione del linguaggio e come essa dovrebbe essere descritta. Il comprendere andrebbe concepito – secondo Wittgenstein – come un’abilità, un saper fare, la padronanza di una tecnica che presupponga l’esistenza di una pratica sociale, addestramento ed esercizio. Ha in sé dunque il suo funzionamento.

Wittgenstein cercherà quindi, tramite una contorta rete di somiglianze, di individuare l’elemento di identicità nella differenza all’interno dell’atto linguistico. Ad esempio, tanti sono i giochi con diverse regole e funzioni, ma cos’è che li rendono giochi? Qual è il loro rapporto di condivisione? Bisogna, sostiene Wittgenstein, stabilire un equilibrio nel funzionamento della lingua, verificare con il mondo la veridicità del riferimento e dell’uso dell’atto linguistico così che possano andare assieme.

Siamo distanti dalle posizioni di Frege o di Russel, abbiamo come sfondo Agostino ma siamo ancora lontani da una teoria o esplicazione di che cosa sia il linguaggio e di quale possa essere la sua funzione e condizione di verità. Gli oppositori allo stesso Wittgenstein saranno molti, primo tra tutti Chomsky.

Quello che a noi rimane è la tendenza contemporanea a unire gli sforzi, tramite la specializzazione del sapere: neurobiologia, filosofia, psicologia, sociolinguistica – tutte discipline orientate allo studio di componenti diverse, ma con un unico obiettivo: c’è unità tra realtà e linguaggio, tra l’umano e il mondo? Siamo nel vero o nel fittizio? Siamo noi a determinare le cose e non le cose a plasmare noi?

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. Agostino d’Ippona, Confessioni, BUR, Roma, 2006, p.58

[photo credit unsplash.com]

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La Filosofia degli anni ’80: intervista a Tommaso Ariemma

In occasione della sua ultima pubblicazione Filosofia degli anni ’80 (Melangolo, 2019), Tommaso Ariemma professore di liceo ci invita a riconsiderare il decennio spesso definito “senza pensiero” e “frivolo”. Il metodo non è cambiato: la filosofia e l’insegnamento possono andare sempre più a braccetto nel nome di una pedagogia “pop”. Divulgazione e pensiero non appaiono così distanti, quando con pensiero critico e contemporaneità si cerca di introdurre i maggiori filosofi e le loro idee rivoluzionarie. 

Tommaso Ariemma, già intervistato dal mio collega Giacomo dall’Ava in occasione del volume La filosofia spiegata con le serie tv pubblicato da Mondadori, nonché ospite a Treviso in compagnia di Simone Regazzoni al nostro evento “Pop Filosofia”, cerca con coinvolgimento e immediatezza di esporre idee filosofiche a volte difficili per un pubblico neofita. L’intercomunicazione tra filosofia e cinema occupa una posizione privilegiata e punto d’unione tra grande pubblico e cultura.
In attesa del suo prossimo libro, vi offriamo questo piccolo spaccato di vita quotidiana fatto di incroci, forse, inaspettati ma oggi più chiari che mai. 

 

Professore, in seguito alla pubblicazione nel 2017 del volume La filosofia spiegata con le serie tv pubblicato da Mondadori, cercò con ritrovato interesse di scovare opportune alternative all’insegnamento. Il risultato lo possiamo scrutare nel suo nuovo lavoro Filosofia degli anni ‘80 pubblicato dal Melangolo (2019). È cambiato qualcosa in questi due anni? 

In questi ultimi anni ho cercato di spingere ancora più lontano il progetto di una pedagogia “pop”, scandagliando il più possibile l’immaginario in cui sia i docenti, sia gli studenti sono immersi, e grazie al quale tutti più o meno pensiamo. L’idea di fondo – è strano sentirlo da un filosofo “pop” –  si ispira a una delle tesi più controverse del pensatore medievale Averroé. Secondo quest’ultimo l’intelletto è unico e tutti pensano “connettendosi” a questo intelletto. Basta sostituire “intelletto unico” con “immaginario” ed ecco il principio guida che sta alla base dell’indagine sulle serie tv, prima, e sull’immaginario degli anni 80, dopo.

 

Perché ha sentito l’esigenza di riflettere e scrivere sugli anni Ottanta e qual è l’elemento che l’ha spinta a concentrarsi su questa decade? In che clima culturale ci proietta l’opera?

Proprio “ascoltando” la melodia comune che molte serie tv cult stavano producendo, ho notato che l’immaginario degli anni ‘80 e le categorie storiche alla base della decade emergevano in una misura non semplicemente nostalgica, ma quasi come un vero e proprio imperativo: ricorda! Serie tv come Stranger Things, Dark, Black Mirror e la più recente, di grande successo, Chernobyl indicano questa decade come un punto di origine che non è stato adeguatamente pensato, alla base di tutto quello che ci circonda. Negli anni ’80 – gli anni che in tanti hanno considerato frivoli, se non proprio inutili, e “senza pensiero” – è celato il segreto per affrontare il presente e l’avvenire, perché molte delle categorie fondamentali come quella dell’identità, del mondo, del tempo, vengono ripensate in modo radicale.

 

Partendo da un passo del primo capitolo La morale del giocattolo, relativo alla sua ultima pubblicazione si legge «Gli anni Ottanta sono stati l’incarnazione del Bene sotto forma di merce. Un Bene, tuttavia, separato da qualsiasi forma di verità. Questo “Bene” poteva mentire, e anche molto. Perché il suo unico scopo era fare stare bene. Levi’s, Invicta, Swatch, Nike e tanti altri non erano solo marchi. Sembravano capirti, solo loro, nel momento in cui stavi crescendo, o donarti un “aura”, a te che non l’avevi mai avuta». Sembra quasi che uomo e merce diventino una cosa sola per contribuire a scopi comuni: il profitto nella vendita delle merci e l’identificazione umana con esse. Il risultato è l’edificazione collettiva di un’epoca che mai più può tornare, seppur ci accompagni ancora. Perché, secondo lei, ciò non accade per le precedenti e successive decadi? 

Non credo sia un’epoca che non possa più tornare, anzi. Gli anni ‘80 sono il vero eterno ritorno. Non cessano di ritornare (nella moda, nella riproposizione dei suoi fenomeni cult, etc.) e non cessano di rappresentare loop temporali (in capolavori di genere come Terminator, ad esempio). La merce, la nuova dimensione della merce così come emerge proprio in quegli anni, in quella decade ha un valore “affettivo”, emozionale, identitario, davvero unico, che influenzerà anche gli anni successivi. Un valore che ha a che fare con il tempo: fissa il divenire quando nient’altro sembra più in grado di farlo: un’ideologia, un atto terroristico. E ci permette di ritornarvi, quasi fosse una macchina del tempo, proprio come la merce per eccellenza degli anni ’80: la musicassetta, che non a caso è stata scelta come immagine di copertina del libro.

 

E ancora, «C’era più pensiero nella moda che nella filosofia. Il pensiero sembrava depositarsi sulla materia più leggera, con cui ognuno di noi da sempre si identifica – l’abito – e con l’aspetto a sua volta più superficiale di quest’ultimo: il colore […] La leggerezza come reazione al peso di vivere […] Un togliere (il grasso) che è al tempo stesso un mettere (muscoli)». Forse ciò fece degli anni Ottanta un propulsore fino al giorno d’oggi è stata una leggerezza capace di essere un’alternativa e non frivolezza per nuovi cosmi immaginativi. Lei pensa che il mondo – sempre più tecnologico – possa permettersi un’immaginazione senza conseguenze reali? 

Non esiste, a mio parere, un’immaginazione senza conseguenze reali, perché ciò che chiamiamo “realtà” è costituita in parte anche dal contributo dell’immaginazione. Paradossalmente, anche un’immaginazione che si vuole sganciata del tutto dalla realtà ha conseguenze reali. Gli anni ‘80 hanno creato, da questo punto di vista, un immaginario molto potente, proprio perché ha avuto ripercussioni economiche e politiche. La Guerra Fredda è stata vinta dagli Stati Uniti anche a colpi di immaginario.

 

In un libro sul passato non può mancare un riferimento anche all’antagonista per eccellenza: il futuro. A partire da Agostino gli uomini sono abituati a rapportarsi al tempo con linearità; ora la musica sembra cambiare e riscoprire sotto mentite spoglie grandi pensatori come Parmenide e Nietzsche nella concezione dello stesso. Anche lei riprende il futuro come «già stato». Pensa sia utile questo cambio di rotta?

Sì, la concezione lineare del tempo non sembra corrispondere alla sua realtà, che è sempre sfuggente e complessa. Sono allora Parmenide e Nietzsche, sostenitori di differenti e paradossali concezioni dell’eternità, a esser punti di rifermento per un ripensamento del tempo. Ma alle loro teorie vanno aggiunte le suggestioni dei film di genere proprio degli anni 80 (o di quelli che, non a caso, a questa decade si ispirano) per rende il tutto ancora più interessante.

 

Lei infine parla della contemporaneità descrivendola come una “società del sospetto”. Citando il suo libro infatti sostiene che «Dagli anni Ottanta in poi, la cultura di massa e la società tutta sono attraversate da un sospetto costante». Il sospetto in questo caso si può tradurre in dubbio. Crede forse che quest’ultimo possa da solo rappresentare l’intero flusso filosofico e dunque anche un antidoto efficace per le problematiche future?  

Paradossalmente, la filosofia ha sempre cercato di eliminare il sospetto. Di farla finita con la sua dimensione inquietante. Ma il sospetto, come sostiene anche il filosofo Boris Groys, è il soggetto per eccellenza dei media e della loro proliferazione. Da questo punto di vista, gli anni ’80 sono stati caratterizzati da una moltiplicazione mediatica senza precedenti e inarrestabile. Il sospetto sarà dunque una dimensione ineliminabile e la filosofia stessa dovrà prenderne atto.

 

Simone Pederzolli

 

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La politica incontra il male per il bene: Machiavelli e il Divo di Sorrentino

“Lei ha sei mesi di vita”, mi disse l’ufficiale sanitario alla visita di leva. Anni dopo lo cercai, volevo fargli sapere che ero sopravvissuto. Ma era morto lui. È andata sempre così: mi pronosticavano la fine, io sopravvivevo; sono morti loro.

Inizia così Il Divo, film del regista Paolo Sorrentino su la vita di Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti non era solo un politico, il Divo così soprannominato, fu l’immortale uomo di Stato, tra i maggiori esponenti della Democrazia Cristiana nel lasso 1948-1993 e pilastro indiscusso della Prima Repubblica, conclusasi in merito allo scandalo Tangentopoli.
Un uomo che ci viene raccontato magistralmente dal regista napoletano Paolo Sorrentino, in quello che lui stesso definisce il proprio capolavoro cinematografico, facendosi beffe del premio Oscar La grande bellezza.
Una pellicola dirompente tra realtà e menzogna perché tutto si è scritto sul Gobbo, ma nulla si è veramente compreso. Tutto nascosto dalla sua criptica mimetica, dall’impassibilità nel volto e dell’impenetrabilità della prassi politica. Non è bastata neppure la nota pop voluta nel film, per rendercelo familiare e neanche la maschera di Toni Servillo come interprete. Ma nei dialoghi e nelle citazioni desideranti di immedesimare l’ironia cronica del Senatore, è possibile delineare le dinamiche che lo hanno reso tale nella storia e la formazione politica che lo ha introdotto nelle istituzioni repubblicane.

Il film è ambientato tra il 1991 e il 1993, quando Giulio ancora occupava la vita politica nel Paese. Diventato per la settima volta presidente del Consiglio è in corsa per la successione a Cossiga al Quirinale. Gli ultimi ruggiti pacati del democristiano prima degli scandali giudiziari che lo videro imputato per presunte collisioni con la mafia.
Scene arricchite dai palazzi di potere, dalle correnti di partito, dalle cene e dai festini nelle più celebri palazzine di Roma. Tutto contrapposto alla perenne solitudine nella quale riversava e alle frequenti emicranie che gli impedivano lunghi periodi di lavoro.
Due soli anni per poter delineare, quello che oggi viene definito il politico di professione.
Tralasciando le sue peculiarità fisiche e intellettuali, è doveroso indagarne la formazione politica in termini di opere nelle quali è possibile collocarlo.
Uno di questi è Il Principe1 scritto da Machiavelli nel 1513 trattato di dottrina politica. Fu dedicato a Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico e duca di Urbino, allo scopo di educare il giovane esuberante e ambizioso alla vita politica, che richiedeva non solo abilità intellettuali ma astuzia, scaltrezza, virtù e resistenza. Tutto per il bene della Repubblica seppur i mezzi da utilizzare possano essere definiti poco benevoli e dall’esito incerto.
Andreotti quest’opera la conosceva bene come la maggior parte della classe dirigente non solo della Democrazia Cristiana ma di tutto il mondo politico. L’ambiente d’allora lo esigeva. Infatti nella Prima Repubblica veniva attuata una democrazia puramente rappresentativa, ancora poco soggetta alle trasformazioni odierne di sistema e ad un’opinione pubblica onnipresente.

La sezione diciottesima intitolata Quomodo fides a principibus sit servanda2, ovvero in che misura i principi debbano mantenere la parola data, è uno dei capitoli più controversi del Principe, in cui Machiavelli affronta la delicata questione della possibilità o meno per il sovrano di comportarsi con astuzia e venir meno agli impegni sottoscritti ufficialmente.
Viene descritto come il principe d’allora potesse governare servendosi della forza e come dovesse essere per metà uomo e per l’altro bestia.
Una bestialità divisa tra volpe (astuzia) e leone (violenza), entrambe necessarie all’azione di governo. L’astuzia si manifesta soprattutto nella capacità di venir meno agli impegni presi e nel non mantenere la parola data, quando ciò è necessario per conservare lo Stato. Tema che si lega strettamente a quanto affermato nel capitolo XV relativamente alla necessità per il principe di comportarsi in modo non etico perché lo Stato è un valore assoluto da preservare a ogni costo, baluardo contro il disordine e l’anarchia.
Inoltre il concetto della simulazione e della dissimulazione rappresentano i mezzi utili al sovrano per, non avendo tutte le buone qualità che ci si aspetta da lui, parere di averle. Ciò non significa che il sovrano debba necessariamente compiere il male ma non deve rifuggire dal compiere azioni delittuose se necessitato e, al contempo, badare che non gli esca mai di bocca qualcosa che contraddica le migliori qualità che normalmente ci si attende dall’uomo di governo, per cui egli deve apparire pietoso, fedele, umano, leale, religioso. Un’immagine che identifica Andreotti con tutti i suoi segreti e ben è stata rappresentata nel monologo finale del film di Sorrentino.

“(…)Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute (…) Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. (…) Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta.”

La politica così rappresentata deve includere dentro di sé il male – nella simulazione e dissimulazione – per il bene. Il fine che giustifica i mezzi3 riutilizzando le parole di Machiavelli così che il Principe possa conservare lo Stato nei momenti di crisi.
L’epoca odierna della politica al cui centro risiede la trasparenza incondizionata, ostacola tutto ciò considerando il bene per il bene. C’è da chiedersi dove stia la verità e il buon ordine di governo. Comunque sia, il primo passo è prendere consapevolezza della realtà, agendo di conseguenza, senza dimenticare che la politica prima delle sue correnti è partecipazione.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti
2. Quomodo fides a principibus sit servanda, capitolo diciottesimo del Il Principe, N. Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti p.154
3. Il Principe, Niccolò Machiavelli, Feltrinelli, 2013, a cura di Dotti, cap. XVIII p.155

Immagine di copertina tratta da una scena del film.

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