Brevemente, sull’amore

Esiste un ormone nel corpo umano definito “ormone dell’amore”. Si tratta dell’ossitocina, un ammasso di amminoacidi che permette di amplificare le esperienze emozionali che viviamo, riempendole di entusiasmo e trepidazione.

In realtà sarebbe più corretto definire questa componente dell’individuo, come “ormone dell’innamoramento”, perché è proprio questa fase dei rapporti interpersonali, che suscita fervore e passione. Si tratta di un periodo che può manifestarsi più volte nell’esistenza di una persona, ma che può durare pochi mesi o, nelle situazioni che hanno uno sviluppo più lento, fino a tre anni. La differenza tra innamorarsi e amare risiede, dunque, in questo: lasciarsi travolgere dall’istinto e, al contrario, decidere di stare accanto ad una persona. Due fasi spesso accomunate, ma in realtà opposte, che presuppongono due tipi diversi di predisposizione, che possono susseguirsi, ma mai sostituirsi.

Ci troviamo nell’epoca in cui esse vengono confuse, spesso abbandonando la nave poco prima che ci si possa ritrovare nello stadio della responsabilità, della scelta, dell’amore. Il confronto – talvolta scontro – che Hegel poneva alla base della crescita dell’Io attraverso l’altro, viene considerato come superfluo, come un qualcosa di nefasto da tenere debitamente lontano. Ci si rifugia in considerazioni, quali: “la vita è già difficile, perché dover lottare anche per amore?” Quasi come se l’amore fosse un residuo, una sorta di tertium non datur dopo il lavoro e gli impegni personali; chi me la fa fare?

La risposta la si potrebbe trovare ne L’amore ai tempi del colera, in Jane Eyre, o più semplicemente parlando con i propri nonni o i propri genitori. Tuttavia il confronto ha lasciato spazio all’individualismo, in base al quale ognuno sa badare a sé e nessuno ha bisogno di nessuno. La conseguenza non è un mondo più perfettibile, bensì una vera e propria castrazione di emozioni. Ci siamo resi fautori di strumenti e di istituti che – a guardare indietro – viene da chiedersi come si potesse vivere senza. Si pensi al divorzio, all’aborto, alla possibilità di cambiare città in pochissimo tempo; forse, però, ci siamo al contempo dimenticati della parte “positiva” della vita, laddove il termine in questione fa riferimento alla sua naturale etimologia e che – dal latino ponĕre, ci regala il significato di “porre”, “fare”, “aggiungere”. Ci siamo dimenticati di come si ama. Sono forse le priorità ad essere cambiate?

Galimberti, eccelso pensatore e scrittore, parla di questa come dell’ “epoca della revocabilità”; un’epoca in cui si «sviluppa un concetto di libertà come assoluta revocabilità di tutte le scelte, che non implicano più impegni e conseguenze perché tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, dalla scelta di una gravidanza o di una carriera, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all’apparenza più gratificanti.» Ed allora risulta più proficuo vivere il momento, cullarsi nel “qui ed ora”.
Nulla quaestio se, nel rapportarsi in tal modo ad un’altra persona, si comunica in modo diretto e trasparente questo mood prescelto di vita. Ma cosa succede se si ingenerano aspettative, se offuscati, magari da quell’ossitocina che spesso annebbia le menti, non si rende edotto l’altro, del proprio non essere capaci di amare, cioè di “desiderare in modo totale” (dal sanscrito “kama”)?

Il mondo che stiamo costruendo risulta sempre più caratterizzato da un’egosintonia dell’anaffettività, in cui ognuno trova quiete solo nel rapporto con sé stesso, nel prefiggersi continui obiettivi di formazione o di lavoro, tralasciando il lato della medaglia che attiene all’investimento nei rapporti umani. La creazione di un “nido” viene vista come anacronistica, quasi come un affronto alle tante battaglie femministe – a partire dal 1800 con il movimento delle Suffragette – verso la conquista del diritto di voto, di condizioni migliori nei luoghi di lavoro, dell’accesso all’università, dell’uguaglianza uomo – donna. Ma oggigiorno siamo molto distanti da quello che, successivamente, anche nel 1900, Simone de Beauvoir sosteneva e creava, in una Francia colpita dalla seconda guerra mondiale, iniziando dalle menti dei suoi studenti, da un mondo accademico che – nonostante le morti e la disperazione – aveva sete di rinnovamento. Una libération des femmes che chiedeva di aggiungere, di ottenere, di possedere un valore concreto all’interno di una società ancora troppo maschilista e patriarcale per poterne accettare le regole.

Oggi si chiede di poter togliere, abdicare, venir meno. L’ideale è stato per lo più sostituito da un programma giornaliero personale, che non contempla l’altro. In questo contesto, delineare un sentimento in fattezze non evanescenti, diviene un’impresa ardua, che confligge col disperato bisogno di essere protagonisti, di rivestire sempre il ruolo di “figli”, in un mondo con sempre meno genitori.

 

Chiara Savazzi

 

Classe ’93. Laureata in giurisprudenza a Bologna, è dottoranda di ricerca in diritto penale a Catanzaro, dove si occupa principalmente di neuroscienze e imputabilità. Ha un master in diritto di famiglia ed è Coordinatrice Genitoriale, perchè crede che le parole – ancor prima dei tribunali – possano molto. Pubblica su svariate riviste giuridiche e non (Pacini Giuridica, Sole 24 Ore, Il Mulino, ecc), su opere collettanee e su libri di diritto. È specializzanda in criminologia investigativa.
Il suo amore per la scrittura nasce a sei anni e mezzo con la prima poesia “Il sole ride” e, da allora, scrive sempre i suoi contributi a mano, prima di ricopiarli al computer.
Il suo cuore è costantemente diviso: fra due città; fra cane e gatto; fra diritto e letteratura. Ama: i viaggi in solitaria, le persone leali, i mercatini vintage.

 

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La battaglia per i diritti delle donne non si è mai fermata

L’istituzione dell’8 marzo come giornata simbolo della lotta per la rivendicazione dei diritti delle donne viene fatta risalire alla tragedia accaduta a New York di seguito all’incendio scoppiato nella fabbrica tessile Cotton, dove persero la vita molte lavoratrici. In realtà l’istituzione del Womens’ day risale storicamente al congresso del Partito socialista svoltosi a Chicago nel febbraio 1908 dove venne discusso di abusi sul lavoro, diritto al voto e discriminazione sessuale. Da quel giorno i movimenti di protesta non si sono mai fermati e continuano tuttora a mutare e a trasformarsi servendosi di ogni mezzo dai più moderni social alle piazze.

È fondamentale ricordare l’8 marzo come il giorno in cui le donne rivendicano una battaglia giornaliera per tutti i diritti che ancora oggi sono loro negati, perché non è bastata la grande conquista del diritto al voto, ma ciò per cui oggi si lotta sono le pari opportunità.

Troppe ancora sono le disparità salariali, troppe molestie accadono fuori e all’interno dell’ambiente lavorativo e c’è ancora troppa omertà sui femminicidi (di cui si è segnato un record assoluto pochi mesi fa, il più alto tasso degli ultimi dieci anni). Troppi ancora sono gli abusi non denunciati per paura della ritorsione sulle vittime. Sono argomenti che tutti abbiamo modo di ascoltare e molte donne purtroppo di vivere ogni giorno sulla propria pelle, ma queste non dovrebbero essere battaglie relegate solo alle donne: una società civile è quella che in toto combatte per i diritti di ogni suo cittadino, perché agli occhi della società dobbiamo essere tutti cittadini con pari diritti, opportunità e doveri. E purtroppo non lo siamo ancora.

La società deve essere educata al rispetto, all’uguaglianza e alle pari opportunità. In un contesto assai diverso, ma in cui si parlava di privazione di dignità e diritti, Primo Levi asseriva che fin quando non avremmo riconosciuto a tutti la dignità umana il ricordo e la lotta non si sarebbero potuti fermare: così fin quando all’ultima donna non sarà riconosciuta la sua libertà personale, individuale, sociale e lavorativa nessuna rivoluzione può terminare.

È curioso, asseriva Simone de Beauvoir ne Il secondo Sesso, che tutti i popoli hanno una storia fatta di tradizioni ed eventi determinanti, ma non le donne. Le donne non hanno mai avuto stato, nazionalità e storia, ma hanno vissuto come bambole di carne nella mano degli uomini, che non hanno permesso una divisione dei sessi che si ha solo biologicamente, ma non storicamente. Le donne, afferma la filosofa, si sono emancipate solo uscendo dal focolare paterno dove erano state relegate per secoli ad accudire generazioni che non gli sarebbero appartenute.

Asserisce la de Beauvoir: «C’è una strana malafede nel conciliare il disprezzo per le donne con il rispetto di cui si circondano le madri. È un paradosso criminale negare alla donna ogni attività pubblica, precluderle la carriera maschile, proclamare la sua incapacità in tutti i campi, e affidarle l’impresa più delicata e più grave: la formazione di un essere umano. Ci sono molte donne a cui i costumi, la tradizione negano ancora educazione, cultura, responsabilità, attività, che sono privilegio degli uomini e nelle cui braccia, ciò nonostante, si mettono senza scrupoli i figli, come prima le si consolava con delle bambole della loro inferiorità nei confronti dei maschi; si impedisce loro di vivere; in compenso, si permette loro di giocare con bambole di carne e d’ossa. Bisognerebbe che la donna fosse perfettamente felice o che fosse una santa per resistere alla tentazione di abusare dei suoi diritti».

Le donne si svincolano nella rivoluzione e nella lotta che dona loro l’indipendenza grazie alla quale sono capaci di educare le nuove generazioni a costruire una società civile. Oggi è quanto mai importante ricordare queste parole e farne un vessillo: non solo le donne, ma tutti dobbiamo educare al rispetto perché non basti più una scusa per uno schiaffo, non si dica più che donne “se la sono cercata” per un atteggiamento o un abito, perché nessuna donna subisca pressioni per la sua gravidanza a lavoro, perché tutte abbiano il diritto di abortire, perché nessuna donna veda negato un diritto concesso a un uomo.

Costruiamo una società di umani che rispettano umani, umani che godono di pari opportunità e che lottano perché mai più ne subiscano soprusi. L’8 marzo si faccia in modo che sia in ogni gesto, in ogni lotta quotidiana e che sia simbolo di una lotta che ha ancora molti traguardi da tagliare.

 

Francesca Peluso

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Una citazione per voi: de Beauvoir e l’essere donna

 

• NON SI NASCE DONNE, SI DIVENTA •

 

Tra le personalità e le autrici che nel Novecento hanno contribuito allo sviluppo dei movimenti femministi e delle rivendicazioni sociali e politiche delle donne è impossibile non ricordare Simone De Beauvoir. Filosofa e pensatrice controversa di estrazione alto-borghese, nasce a Parigi il 9 gennaio 1908 e si laurea alla Sorbona, dove conosce quello che diventerà il compagno e l’amico di una vita, Jean Paul Sartre. È nel 1930 che inizia ad insegnare, per poi lasciare la cattedra ed entrare nel comitato di redazione della rivista Les Temps Modernes.

È nel Secondo Sesso che Simone De Beauvoir ci lascia in eredità la sua citazione più famosa: Non si nasce donne, si diventa. Un’opera che viene pubblicata nel 1949 e concepita come una trattazione teorica, ma che presto diventò uno dei testi di riferimento per le attiviste e i primi movimenti di emancipazione femminile. L’obiettivo di Simone è chiaro: per pensare l’uguaglianza in un contesto di dominazione maschile, è necessario appellarsi all’universalità della ragione. “Diventare” donne significa che “per natura” non lo siamo: quello che ci rende tali non è una presunta essenza innata con caratteristiche e “virtù” ben definite, ma la nostra storia, l’infanzia e le cicatrici che portiamo sul corpo. E quindi quel che definiamo “natura femminile” con tutti i suoi “valori” cos’è? È una categoria che nasce in seno alla società, frutto di secoli di dominazione maschile e di una tradizione filosofica millenaria, che vede “uomo” e “donna” come due essenze radicalmente distinte. In tal senso la donna ha giocato il suo ruolo solo in relazione all’uomo, come “secondo” sesso. Così scrive Simone: «la donna si determina e si differenza in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro»1.

Non esiste quindi alcun destino biologico o psicologico che possa definire una donna in quanto tale, essa costruisce sé stessa solo attraverso la sua vita e i suoi desideri. È innegabile che ci siano delle differenze biologiche tra uomo e donna, ma ciò che afferma la filosofa è diverso: l’insistenza con cui sono state affermate queste differenze nel corso della storia ha fatto sì che elementi sociali e culturali venissero letti come qualcosa di innato da accettare solo passivamente. È su questo pretesto che si è costruita la condizione femminile nel corso dei secoli.

Se l’opera e il pensiero di Simone porterà con sé critiche, discussioni teoriche e rotture in seno ai movimenti femministi, è innegabile che il suo contributo sia stato fondamentale per ripensare la donna “libera” dalla subordinazione al “primo sesso”. La sua battaglia contro gli stereotipi di genere ha aperto la strada alla costruzione di una nuova soggettività autonoma e consapevole.

Cosa ci lascia in eredità oggi? In una conferenza del 1966 Simone sottolineava come il problema della disparità tra uomo e donna non fosse solo culturale, ma anche politico. La democrazia borghese rivela in sé una grande contraddizione che coinvolge la donna: se da una parte vuole essere un regime dove vige perfetta uguaglianza (il diritto di voto rappresenta l’espressione di questa), dall’altra l’ordine borghese si fonda sulla disuguaglianza ed è in questo senso (disparità salariale, disoccupazione femminile) che le donne vengono mantenute in uno stato di inferiorità. Il discorso aperto da Simone è più attuale che mai, basti considerare oggi l’occupazione femminile e il gender pay gap: in Italia, infatti, la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7%2.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. S. De Beauvoir, Il Secondo Sesso, p. 22
2. Analisi Eurostat che tiene conto del numero di ore lavorate sulla retribuzione mensile lorda

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Il “Secondo sesso” di Simone de Beauvoir: le origini del femminismo contemporaneo

Fino agli anni sessanta/settanta del XX secolo, salvo rare eccezioni, le donne non hanno fatto parte dei dibattiti storici, politici, filosofici o artistici, se non in qualità di esseri subordinati alla supremazia maschile, considerata un fattore naturale.
Uno dei testi principali a fondamento del femminismo contemporaneo è Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir, nel quale la filosofa francese solleva la questione dell’impossibilità delle donne di poter scegliere liberamente il proprio percorso di vita. Questo avviene perché vengono catapultate dalla nascita in una dimensione che le induce ad asservire agli obblighi di buone mogli e madri dunque prive di pensarsi come autonome sia nella vita professionale che in quella intellettuale. Tale condizione viene, secondo la de Beauvoir, accettata passivamente dalle donne, le quali sono plagiate da questi ideali che rispondono alla logica del potere maschile:

«L’umanità è maschile e l’uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso […]» (S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 2016).

Inutile affermare che questo testo, pubblicato in prima battuta nel 1948 su Le Temps Modernes, destò non poco scalpore considerando non solo i suoi contenuti, ma anche il fatto che l’autrice facesse parte del circolo degli esistenzialisti francesi, fosse una sostenitrice del libero pensiero e che intrattenesse una relazione aperta con Jean-Paul Sartre. Si pensi, infatti, che in quei tempi la maggior parte delle donne si definiva soddisfatta della propria vita e chi, al contrario, avvertiva un senso di insoddisfazione veniva additata come “isterica”.

Il libro della de Beauvoir si inserisce perfettamente nella corrente esistenzialista e appare come un riuscito esperimento di applicazione di tale corrente filosofica. Infatti, raccontando parallelamente la sua individuale esperienza e quella di altre donne affronta, di fatto, un problema dell’intera umanità, sovvertendo l’ideale comune secondo il quale il sesso potente sia quello maschile.

La scrittrice sosteneva che nella logica comune ambo i sessi tendono a porre come centro di ogni prospettiva il sesso maschile, utilizzando ad esempio la parola “uomo” come termine generico per indicare l’intero genere umano. Questo, chiaramente, fa sì che le donne guardino il mondo che le circonda attraverso la prospettiva maschile, della quale sono esse stesse oggetto e motivo per il quale esse tendono a passare ore davanti allo specchio, rendendosi un chiaro esempio di quella che Sartre definiva “malafede”, ossia oggettivando se stesse:

«Per la ragazza, la trascendenza erotica consiste nell’accettare di farsi preda. Essa diventa un oggetto; si sperimenta come oggetto […]» (ivi).

Nel mondo contemporaneo non si può certo dire che le cose siano cambiate radicalmente: per quanto siano stati fatti considerevoli passi in avanti in favore delle donne, ancora oggi si ritiene che il sesso più sensuale ed erotizzato sia da ricercarsi in quello femminile e sono spesso le donne stesse ad avallare l’idea secondo la quale il corpo femminile sarebbe più desiderabile di quello degli uomini. È importante comprendere come la cultura maschilista abbia ostacolato nel corso del tempo le donne, trasformandole in eterne seconde, ma:

«Farsi oggetto, farsi passiva, è tutt’altra cosa dall’essere un oggetto passivo» (ivi).

Si pensi alle problematiche odierne legate a tale logica e che, ad esempio, continuano a far sì che a parità di lavoro una donna guadagni meno di un uomo o che non venga rispettata la scelta di una donna in carriera di avere dei figli, senza rischiare il licenziamento o peggio la mancata assunzione.
Fortunatamente oggi sono moltissime le donne che credono fermamente nella loro individualità e nella loro assoluta indipendenza, considerandosi primariamente in funzione di se stesse. È più che mai giusto che le donne possano autodeterminarsi, senza assoggettarsi ad una figura maschile; il che non vuol dire che non si possa stare in coppia o crearsi una famiglia, ma che all’interno della coppia ci si possa esprimere non come un surrogato dell’altro, ma, per dirla con Hegel, come individualità in sé per sé.

L’esempio di Simone de Beauvoir, donna libera per eccellenza, deve riecheggiare non solo nella mente femminile odierna, che si sta muovendo sempre più verso la consapevolezza delle proprie risorse, ma ancor di più nella mente maschile, spesso ostile al pensiero che una donna possa non essergli seconda:

«La disputa continuerà finché gli uomini e le donne non si riconosceranno come simili […]» (ivi).

È quindi necessario comprendere l’importanza delle differenze che caratterizzano di natura uomini e donne, affinché si possa educare la società al rispetto e alla considerazione delle stesse come ricchezza e non come unità di misura della superiorità o inferiorità dell’uno sull’altra.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Jake Melara via Unsplash]

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Voci e immagini per l’8 marzo

Volevo scrivere qualcosa di significativo e di interessante per la giornata dedicata alle donne, ma più riflettevo, più ricordavo e leggevo, più mi rendevo conto che di parole profonde, incisive, grandi e importanti ne sono state dette davvero tante. Allora ho pensato che la cosa più giusta da fare era diffonderle ancora, trasmetterle, farvele scoprire o ricordare. È vero, di parole nuove ne servono sempre, ma ricordare quelle del passato, forse, può darci più forza e farci sentire meno sole.

Scriveva Oriana Fallaci ne Il sesso inutile (1961): «I problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo: il fatto d’essere donne. Non alludo solo a una certa differenza anatomica. Alludo ai tabù che accompagnano quella differenza anatomica e condizionano la vita delle donne nel mondo».
E poi ancora: «Per quanto possibile, evito sempre di scrivere sulle donne o sui problemi che riguardano le donne. Non so perché, la cosa mi mette a disagio, mi appare ridicola. Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire […] un argomento a parte […]. Il padreterno fabbricò uomini e donne perché stessero insieme, e dal momento che ciò può essere molto piacevole, checché ne dicano certi deviazionisti, trattare le donne come se vivessero su un altro pianeta dove si riproducono per partenogenesi mi sembra privo di senso».

Vera e propria pietra miliare del femminismo è il Secondo sesso di Simone de Beauvoir, un tomo di oltre 700 pagine dato alle stampe nel 1949 e dove si legge: «Certamente, se si mantiene una casta in stato d’inferiorità, essa rimane inferiore: ma la libertà può spezzare il cerchio […]; così gli uomini si sentono indotti, nel loro stesso interesse, a emancipare parzialmente le donne: esse non devono fare altro che seguire la loro ascesa, e i successi che ottengono le incoraggiano in questo senso; sembra più o meno certo che prima o poi raggiungeranno una perfetta eguaglianza economica e sociale che porterà con sé una metamorfosi interiore». Questo è ancora vero e va tenuto presente in una società come quella di oggi in cui, contrariamente ai nostri stessi desideri, spesso sono proprio alcune donne (e spesso per ignoranza) le peggiori nemiche della causa delle donne. A questo lego una famosa frase attribuita a Mary Wollstonecraft, filosofa settecentesca, perché stupisce come le cose a volte sembrino non cambiare: «Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse».

Tante parole e pensieri, molto profondi e molto belli, nonché storie e curiosità, le hanno condivise anche le mie colleghe de La chiave di Sophia: Sara, Greta, Pamela, Fabiana, Sonia, Francesca.

Parole sì, ma anche immagini. Forse è scontata e banale ma per me, che ho concluso il mio percorso di studi in architettura arte e design con una tesi sulla cartellonistica italiana degli anni ’50, resta ancora straordinariamente incisivo il ricordo di questo fazzoletto rosso a pois, di questo sguardo serio, di quelle semplici parole: possiamo farlo.
Restando nel mondo delle immagini, mi piace citare le opere di Anne Taintor, di cui ho già parlato anche in questo articolo, per affrontare il tema anche con un po’ di sana ironia.
Una delle immagini più potenti, ma anche un po’ inquietanti, la rilevo nella Giuditta di Gustav Klimt: ci si può vedere un urlo di guerra nei confronti degli uomini in quella testa di Oloferne, ma messa lì nell’angolino buio a me fa pensare che la cosa più importante è lei, quella donna che sfida la società, che si prende finalmente il suo spazio, e che se costretta è in grado di usare anche le maniere forti.

Per minare poi l’oggettivazione della donna nel terreno più adatto, quello del corpo, vi propongo le opere di Jenny Saville, artista classe 1970: niente corpi statuari o bellezze mozzafiato, basta modelli irraggiungibili e largo spazio invece alla totale imperfezione, alla violenza, l’obesità, la gravidanza, la carne nuda e cruda.

Tante poi sono state le donne che nel corso della storia, per quanto ad esse antagonista, sono riuscite a lasciare un segno e ad aprire uno spiraglio sempre più ampio al lavoro, al genio, alla creatività e al potere femminile. Accennerò solo ad alcuni esempi del tutto casuali, andando a cercare in ambiti diversi. Hatshepsut, sovrana (faraona? La faraone? Donna faraone?) tra i più grandi della storia dell’antico Egitto secondo gli storici ma soggetta, per motivi controversi, a damnatio memoriae dai suoi successori. Murasaki Shikibu, pseudonimo di una ignota dama di corte vissuta durante la dinastia Heian e autrice attorno all’anno Mille di uno dei capolavori della letteratura giapponese, il Genji Monogatari. Rosalba Carriera, artista e intellettuale veneziana: nella prima metà del Settecento non c’era viaggiatore che se ne andasse da Venezia senza essersi fatto fare un ritratto a pastello dalle sue mani abili. Freya Stark, viaggiatrice inglese e fondatrice del travel writing novecentesco, che nel 1927 si imbarca da sola verso il Medio Oriente per imparare l’arabo e che racconta più volte di come le persone che incontra non si capacitino del suo essere lì, non maritata, solo per interesse verso la grammatica. Amelia Earhart, aviatrice americana scomparsa nelle acque del Pacifico nel 1937 ma con il primato di prima persona ad aver sorvolato sia sull’Atlantico che sul Pacifico. E poi certo, per fortuna ce ne sono state (relativamente tante), Elisabetta d’Inghilterra, Indira Gandhi, Marie Curie, Malala Yousafzai, Florence Nightingale, Artemisia Gentileschi, Saffo, Benazir Bhutto, Maria Montessori, Emmeline Pankhurst, Anna Politkovskaja e l’elenco continua. Le “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, scritto da Elena Favilli e Francesca Cavallo è stata forse una grandissima operazione mediatica ma evidentemente ce n’era il bisogno.

Concludo con piacere con quella che a prima vista può sembrare la meno “femminista” di tutte: Jane Austen. Dal suo mondo di ricami e di carrozze, di chaperon e di matrimoni combinati, di etichetta e di costrizioni, arriva illuminante il suo monito, scivolato in una lettera alla nipote Fanny, aspirante scrittrice: «Niente donne perfette, per favore: come sai, mi danno il voltastomaco».

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits Tomoko Uji su unsplash.com]

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Seducente Madonna: pensieri e impressioni a partire da Munch

Sconvolgente.

Quando si entra nel Museo Munch di Oslo e ci si incammina verso la Madonna del pittore norvegese, acquisendo infine una posizione frontale, gli occhi si spalancano e si rimane come inebetiti. Nella più totale impossibilità di muoversi, di contrarre e rilassare i muscoli facciali, si cade in una condizione di estasi. Non si ha più percezione del proprio corpo, della pesantezza, dello spazio, delle persone circostanti e delle reciproche posizioni. È una bellezza magnetica ed angosciante quella della Madonna di Munch. Così lontana dal tradizionale canone della cristianità. Così profana. Il titolo rimanda alla madre di Cristo, concepita e da sempre rappresentata dalle mani degli artisti come pura ed eternamente vergine. La sua, invece, ha lunghi capelli corvini e un corpo seducente: incarna un modello di donna eroticamente attiva che non rinuncia alla sua sacralità. Al contrario, ella è un connubio di dimensione reale e spirituale, una dialettica tra sacro e profano che si svolge senza interruzione in un vortice dai contorni verdastri con sfumature rossastre. Quello stesso rosso che si rinviene nell’aureola di Madonna, la quale sembra voler indicare la sacralità non di una sola persona, ma di una pluralità umana deformata e al contempo sublimata dalla sofferenza e dalla passione. Quei contorni verdastri hanno la forma di onde vorticose tanto da far sembrare la donna del dipinto un’attraente creatura marina. «Like a floating body we slip out to a great sea- on swelling waves that change colours from dark purple to blood red»1, così scrive Munch. Queste onde, che nulla hanno del realistico, sono spesso descritte come una continuazione dell’aura, un suo concentrico prolungamento. Peraltro, un colore verdastro investe la parte bassa del corpo e le braccia come se fossero immerse nell’acqua, a differenza del capo e del seno che catturano la luce. Assomiglia così magnificamente ad una ninfea che si lascia trasportare dalle onde. Si abbandona ad esse come in una metamorfosi onirica. Morte e annientamento, conversione e rinascita sono solitamente associati all’acqua. Un “sentimento oceanico” fu l’espressione usata da Sigmund Freud per indicare l’esperienza mistica di unità con il cosmo. Peraltro, nella mitologia di numerose culture, l’acqua è associata di frequente alla Grande Madre, fonte della Vita.

Così interessante e innaturale è la posizione delle braccia: mentre l’una rivolge la mano e la nasconde dietro la testa, l’altra la cela dietro la schiena. Eppure nessuna madonna è mai apparsa in una posizione così scomoda ed in tensione perenne. È colta in un movimento che richiama la lotta di Laocoonte con i serpenti, una danza rituale al confine ultimo della vita che la stessa Madonna rappresenta. Ed è il medesimo confine che Munch vede nello Schiavo morente di Michelangelo, dove la testa si sporge all’indietro ed è sorretta da una mano, segno di dolore fisico. Non solo, anche lo Schiavo ribelle di Michelangelo è racchiuso in Madonna. Ella si trova in una condizione di schiavitù, costretta a fungere da collegamento che unisce generazioni passate, presenti e future. «Look at the dark, hollow pain in her Eyes, the pain of being in the grip of the great Forces, compelled to create new Life» 2. Emerge un’irrimediabile tristezza per un fato già segnato, per una funzione biologica che tanto influisce sulla vita di ogni donna. Il peso della vita e l’esserne veicoli. Eppure ella contiene un moto di ribellione che la spinge a chiudere gli occhi e a percepire altro oltre al ventre e alla sua importanza. Sottolinea dell’altro. L’espressione del suo viso ci suggerisce che c’è altro. Sembra che il corpo voglia rompere le catene della maternità, acquistare un altro valore, far emergere delle esigenze troppo a lungo inascoltate. Contro la tradizione cristiana, il corpo viene nobilitato con le sue imperfezioni, la sua tensione, le sofferte pose. Nobilitato, ma non per la funzione materna, a cui nulla si richiama nel dipinto. Viene nobilitato in sé, senza alcuna attenzione per gli aspetti funzionali. Ritornano in mente le parole di Simone de Beauvoir: “E’ in gran parte l’ansietà di essere una donna che devasta il corpo femminile” 3.

 

Sonia Cominassi

 

NOTE:

1. Breve testo scritto da Munch su uno schizzo del suo portfolio “The Tree of Knowledge”, MM T 2547-64, Munch Museum in Madonna, a cura del Munch Museum, Vigmostad&Bjørke As, Bergen (Norway), 2008, p. 47.
2. Breve impressione lasciata da Munch su una litografia dell’opera “Madonna”, MM G 194-85, in ivi, p. 50.
3. S. De Beauvoir, Una donna spezzata, Einaudi, Torino 2014, p. 166.

[Immagine tratta da Wikimedia Commons. Dettaglio opera di Munch]