“Io sono nulla”: il discorso emozionale del corpo

Negli ultimi mesi sono stata impegnata da tante cose che mi hanno visto coinvolta in primo piano e queste mi hanno portato a trascurarne delle altre, senza rendermene conto. Da poco mi sono accorta che una persona a me cara è dimagrita velocemente, senza un’apparente ragione. Sul momento ho fatto finta di niente, non gli ho dato importanza, ma, dopo aver passato del tempo con lei, mi sono accorta di un particolare dettaglio: la maggior parte del tempo il suo sguardo era rivolto nel vuoto. Allora ho compreso che c’era di più in quel suo silenzio. Nei suoi occhi non ho più visto il de-siderio di partecipare veramente alla vita, di un suo interesse in prima persona ad agire e neanche (cambiare con: o) l’impulso di esprimere il suo disagio interiore.

«La tristezza, che è lo stato d’animo (la Stimmung) a cui si collega ogni depressione (neurotica o psicotica), trascina con sé livelli diversi di sofferenza e angoscia che, nella misura in cui dilagano e si accentuano, si accompagnano a una crescente compromissione del desiderio e della possibilità di una comunicazione con gli altri-da-sé e con il mond1.

In questo estratto Eugenio Borgna2 spiega come si annulli anche la comunicazione con il mondo esterno, che viene pertanto frammentata e dunque compromessa. Il rapporto dell’Io con il mondo è in crisi: la realtà è distorta, ci sono delle ombre davanti agli occhi, visibili solo dall’interno, che appiattiscono il reale, vissuto come ripetizione e monotonia. È facile da qui cadere in una sorta di oblio e “scomparire” dal mondo, in questo caso dimagrendo drasticamente. Borgna parla di un “silenzio della parola”, capace di comunicare attraverso il corpo un disperato aiuto con il volto, con lo sguardo, con il mezzo sorriso, che chiede di essere ascoltato. Se non il linguaggio delle parole, è allora quello del corpo ad esprimersi e continua a mantenere un incessante dialogo con il mondo. Il corpo diventa quindi portatore di significati a cui è necessario porre attenzione. Entra così in gioco il discorso ermeneutico nella quotidianità: l’essere in continuo contatto con l’altro e l’interpretazione derivata dal confronto con esso. Ritengo che il problema si ponga proprio qui infatti, perché il singolo, in questo suo cieco vagare in silenzio, crede che non ci siano più sguardi che lo facciano essere nel mondo e tra gli altri. Inconsciamente diventa prigioniero di sé stesso, avendo creato un muro di silenzio che non gli permette più di relazionarsi con tutto ciò che lo circonda. Ma quest’anima (dal greco psyché – ψυχή: soffio, respiro) che vivifica nel pensiero aristotelico questo corpo che sta scomparendo e che è imprigionata nello stesso per Platone, si vuole esprimere.

«Il linguaggio dell’anima tende a nascondersi, a sottrarsi agli sguardi avidi e agli sguardi rapaci dell’indifferenza e dell’apatia, dell’ebbrezza e della gelidità del cuore, della geometria delle lacerazioni e della crudeltà»3.

Ecco quindi i segnali che bisogna cogliere, anche se intermittenti. Chiedono attenzione e che gli sia data importanza. Ma per accogliere questa richiesta di aiuto bisogna avere occhi per vedere, non solo osservare, e, forse, un cuore caldo per comprendere oltre l’evidenza. Empatia, sensibilità e presenza possono aiutare con il tempo a riportare nel mondo un’anima smarrita.

In questo promemoria filosofico, mi appello ora a te che leggi: fai più attenzione alle persone che hai accanto, cerca di averne cura. Il tempo passa, non torna più indietro, non puoi più recuperarlo, soprattutto quello che non hai passato con i tuoi cari. Ritagliatene dei frammenti da dedicare alle persone alle quali vuoi bene e non rinviare a domani anche questo impegno. Se puoi migliorare la vita di una persona solo standole più vicino, perché non farlo? È un gesto che fa bene ad entrambi. Un gesto d’affetto di reciproca risonanza. Mi ricordo spesso a riguardo questa piccola verità: ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.
Esserci può fare la differenza.

Al prossimo promemoria filosofico.

 

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli Editore, Milano 2012, pp. 103-104.

2. Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano.
3. E. Borgna, op.cit., p. 94.

[Photo credit lamenteesmaravillosa.com]

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La notte eterna di Noa: per una società della cura e del non abbandono

Noa aveva solo diciassette anni quando prese la decisione definitiva di morire, come aveva riportato nel suo ultimo post del suo profilo Instagram.

Per Noa quell’esistenza non rappresentava nemmeno più una mera sopravvivenza. La vita le era diventata tanto pesante da non poter più trovare la forza, da sola, di sostenere quel macigno che, anno dopo anno, la stava schiacciando. “Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Queste le parole che quasi tutti i quotidiani hanno riportato e che si fanno portavoce della lacerazione interiore, della profonda sofferenza che Noa si portava dentro e con cui non riusciva più a vivere.

“Respiro ma non vivo”. Un respiro dopo l’altro, nel suo processo naturale di inspirazione e espirazione. Solo ossigeno che riempie i polmoni. Un’esistenza delimitata dal suo mero decorso biologistico. Un decorso che è proseguito fino al momento in cui Noa annunciò la decisione definitiva di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi ed idratarsi. Per porre fine a quell’atto respiratorio che costituiva ormai l’unico elemento che la teneva in vita. 

Aggredita a soli undici anni e successivamente violentata a quattordici, non riusciva a sopportare tutto quel dolore che, ancora bambina, aveva travolto il suo corpo e la sua identità all’improvviso. “Mi sento ancora sporca”, diceva. Impossibile mettere un punto e ricominciare da capo. Prima la depressione. Poi l’anoressia, quel mostro che l’aveva costretta a vivere con un sondino nasogastrico durante ogni singolo giorno del suo ultimo anno di vita. Continue ricadute. Un tentativo di suicidio. Così come continui i tentativi di rivolgersi a delle strutture in grado di seguirla e di aiutarla a convivere con quell’incubo che da anni ormai non le permetteva di vivere un’adolescenza normale, fatta della spensieratezza dei ragazzi della sua età.

Molteplici le richieste di aiuto, sia da parte di Noa che da parte dei genitori. Troppe poche, forse, le risposte da parte di un entourage capace di convincerla che la vita poteva prendere una direzione diversa, che non sarebbe mai stata abbandonata, che ci sarebbe sempre stato qualcuno lì ad accarezzarla, a farle capire che era una ragazza unica, insostituibile, che la sua vita aveva una valore. Che dietro a quei respiri c’era un senso profondo. 

Da sola Noa non sarebbe mai potuta uscire da quella notte senza fine che è la vita quando viene attraversata da un dolore che frantuma in mille pezzi. Non è possibile vedere il bello in completa autonomia quando il cielo si tinge prima di grigio perla, poi fumo, tortora, ardesia, antracite; e, in fondo, quando lo sguardo si copre di grigio antracite non ha già perso quella capacità di distinguere e di discernere un punto di luce dal resto? Quando il cielo diventa come il cemento, non ha già perso tutte le sfumature del grigio? Il cielo non è forse nero?
Nessun orizzonte di luce. Nessuna sfumatura. Solo nero intenso. 

Dall’oscurità più profonda non ci si può salvare da soli, certo. Per questo abbiamo bisogno dell’altro per sopravvivere, l’altro lì a ricordarci che il nero può sbiadire, sfumare, tornare ad essere grigio, e poi bianco, e celeste. Il cielo di Noa era immerso nell’oscurità e in quello stesso cielo nero l’hanno lasciata addormentarsi.  

Dopo la morte di Noa, i giornali italiani hanno inveito contro eutanasia e suicidio assistito, focalizzando l’attenzione su una questione che con Noa c’entrava ben poco. Non solo la richiesta della ragazza di far ricorso all’eutanasia era stata rifiutata dalla clinica cui lei e i suoi genitori si erano rivolti qualche anno fa; ma un tale dibattito decentrerebbe lo sguardo pubblico dall’unica cosa che Noa voleva urlare al mondo: l’inspiegabile vuoto di senso della propria vita, l’abbandono che provava e la sostanziale incapacità – sociale e sanitaria- di aiutarla efficacemente in percorso di cura continuativo ed adeguato. Non un percorso di “guarigione”, dunque; la depressione non è come un’influenza, non c’è niente da guarire, nessuna funzione da “ripristinare”. Una ferita come quella di Noa aveva però bisogno della presenza di una cura. Un “io ci sono, tu sei qui con me?”. 

Non è forse questa la più intensa e bella pratica di cura? Una presenza insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a  cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze; il coraggio di intravedere l’azzurro del cielo attraverso le molteplici sfumature del grigio. 

La madre della ragazza comunicò inoltre la complessità di entrare in cliniche psichiatriche specializzate, le liste d’attesa infinite, l’assenza di strutture per i disturbi alimentari. La figlia passava costantemente da un ospedale all’altro, più volte indotta al coma al fine di poterla nutrire artificialmente con una sonda. 

Noa si è spenta piano piano. Forse, attraversata da un profondo senso di abbandono. 

L’hanno “lasciata andare”, senza prendersi cura di lei. Una resa sociale, confermata dalla resa personale di chi non ce la fa più e, nella disperazione, non vede altra soluzione proprio perché nessun altro riesce a farle scorgere alternative possibili, colori diversi dal nero. 

Quando in realtà, anche se talvolta è difficile ammetterlo, è solo chi resta a poter dare un senso all’esistenza di chi, quella vita, la vuole lasciare. 

 

Sara Roggi

 

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Il bisogno umano di silenzio

«Viviamo nel tempo del rumore. Il silenzio è sotto attacco»1, così scrive Erling Kagge, esploratore e scrittore norvegese nel suo ultimo lavoro intitolato Il silenzio. Uno spazio dell’anima (Einaudi, 2017). Ed è proprio questa una descrizione che tristemente si addice al tempo presente. Cifra fondamentale del nostro tempo è infatti il rumore assordante che circonda la nostra frenetica quotidianità. Un frastuono che sia fa via via insostenibile per la mente e il cuore di ciascuno. Persino quei pochi attimi di silenzio e introspezione personale che sino a qualche tempo fa erano possibili nell’arco di una giornata, negli ultimi anni vengono occupati da quei prolungamenti bionici dei nostri arti che prendono il nome di tablet e smartphone e che non abbandoniamo nemmeno ai sevizi igienici o mentre “dormiamo”. Una vera e propria dipendenza tecnologica dettata dalla paura incontrollata di rimanere sconnessi (nomofobia).

Il mito tecnologico e performativo impera sulle esistenze degli abitatori di quest’epoca ipermoderna costringendoli a ritmi serrati, frequentazioni sempre più disturbanti e scelte di massa contraddistinte da voci, parole, chiacchiere, musica rintronante, in una bulimia di rumore che spesso ha l’inconsapevole obiettivo di mettere a tacere il vuoto interiore e di aggirare il timore di accedere alla propria interiorità più intima e vulnerabile. Ecco perché l’uomo contemporaneo, occidentale in particolare, oppresso dal rumore, pur sentendolo come insostenibile continua a preferirlo al silenzio.

Nondimeno, il silenzio è un bisogno precipuamente umano che necessita di essere soddisfatto ma che per realizzarsi richiede impegno, costanza e il coraggio di scendere in se stessi, prendendo contatto con la propria interiorità, i propri pensieri, le proprie emozioni. Diversamente dalla società del consumo, dell’illusoria allegrezza, della vita ipermondana, l’uomo ha bisogno di chiudere il rumore fuori di sé, di riscoprire dunque la possibilità di fare silenzio e incontrare se stesso, nient’altro che se stesso.

I luoghi dove è possibile sperimentare il silenzio sono molteplici, montagna incontaminata, mare lontano dalle stagioni della confusione balneare, eremi, monasteri ed ora persino luoghi creati appositamente secondo i principi fisici dell’insonorizzazione. Tuttavia, il silenzio è possibile ritrovarlo in ogni momento, proprio lì dove siamo, dove ci troviamo, dentro di noi. Questo richiede la volontà di assentarsi temporaneamente, di concedersi la possibilità di una pausa dal frastuono quotidiano, immergendosi in se stessi. Fare silenzio è dunque un esercizio di ascolto interiore, dal quale possono emergere più nitidamente i contorni della nostra anima. Ecco dunque che dal silenzio può affiorare lo stupore, origine di ogni filosofare, di ogni slancio creativo e di ogni vetta dello spirito. Una volta immersi nel silenzio, che ci confronta con noi stessi, è possibile ritornare rinnovati a dialogare con l’esterno, con la natura con la quale è possibile riassaporare un’originaria comunione, simbolo di una fratellanza generatrice di inesauribile ricchezza simbolica e interiore. In questo senso l’esperienza del silenzio è del tutto personale e in quanto tale non può essere che intima e profonda. Pertanto, una volta riscoperto, il silenzio diventa una forza, un’opportunità inalienabile di rientrare in se stessi come in una fortezza inespugnabile.

Condizione essenziale per il silenzio è la solitudine. Da non confondersi con l’isolamento che chiude la soggettività in un deserto emozionale e intellettuale, la solitudine è la necessaria capacità per poter trovare il silenzio e farne esperienza. Purtroppo, la capacità di stare soli è da sempre un problema per gli esseri umani, come aveva ben intuito Blaise Pascal in uno dei suoi celebri pensieri: «ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una sola cosa: dal non saper restare tranquilli in una camera»2. La solitudine, specialmente oggigiorno, appare come un disagio da evitare e non come l’opportunità per ritrovare se stessi nel silenzio, nella benefica assenza di rumori e parole inflazionate. È proprio nella solitudine e nel silenzio che sono custoditi i più preziosi valori umani, la propria essenza di esseri finiti, perennemente attratti dall’infinito e dalla sete di senso.

Il silenzio, che emerge nella solitudine creatrice, si stacca nettamente dalla mentalità dominante, dallo status quo della superficialità poiché richiama la nostra attenzione a quanto stiamo facendo. Il silenzio ci aiuta a riportare concentrazione ad ogni piccolo gesto, ad ogni singola azione che compiamo, anche nelle più consuete e apparentemente banali pratiche quotidiane. Il silenzio ci invita ad entrarci dentro alle cose, a farne esperienza consapevole: richiama l’attenzione all’attimo, al presente, al qui e ora, libero dal rimorso del passato e dall’angoscia del futuro. Il silenzio svela in questo senso tutto il suo potenziale educativo e terapeutico, poiché per fare silenzio è necessario disinserire il pilota automatico che guida le nostre giornate scandite dal tempo finito dell’orologio (chrònos) che divora le esistenze, per prendere contatto con il tempo, eterno, dell’istante, dell’interiorità.

Il silenzio è un esercizio difficile, insidiato dal rumore che infrange le nostre esistenze facendole piombare nel conformismo consumistico dove esse stesse diventano vittime di modalità annichilenti. Altresì è l’antidoto più efficace per “chiudere momentaneamente fuori il mondo”, così da poterlo osservare e capire con maggior lucidità, consapevolezza e spirito critico. Se dunque il rumore riduce significativamente la qualità della nostra vita, il silenzio è una possibilità di recuperare il rispetto per se stessi e la cura di una vita autentica.

Al silenzio bisogna anche educarsi, in particolare nelle relazioni intersoggettive. La comunicazione satura di parole, non necessariamente risulta efficace, spesso è un ostacolo al raggiungimento dell’intimità dell’incontro. Ecco perché le pause e i silenzi che connotano la comunicazione empatica fra esseri umani, sono ricchi di significati esistenziali che possiamo cogliere solo se siamo educati e abituati a far spazio al silenzio, in noi e nell’altro. Per questo, spesso il silenzio avvicina molto di più due persone che non fiumi di parole. Queste ultime possono distruggere l’incanto dell’incontro, poiché insufficienti per esprimere l’enigmatica profondità della nostra e dell’altrui interiorità.

Le parole devono dunque arrestarsi di fronte alla presenza del mistero inesprimibile dell’esistenza, al suo senso e a quello del mondo. In questa direzione, come non ricordare le parole arcane e al contempo sfavillanti che ha scritto il filosofo Ludwig Wittgenstein, nella prefazione al proprio Tractatus logico-philosophicus: «tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»3. Il linguaggio infatti configura «come il mondo è» ma non «che esso è»4. Il che significa che il linguaggio rappresenta la totalità di ciò che accade, dei fatti del mondo, costituisce l’immagine della realtà, ma non può configurare il senso (inesprimibile) del mondo. Invero, il senso del mondo e della vita non si possono raffigurare come fatti, non sono enunciabili con il linguaggio. In quanto realtà trascendenti il linguaggio stesso, costituiscono l’ineffabile, il mistico (dal greco myein, “esser muto”). A questo s’addice il silenzio: condizione unica per pensare, sentire e sperimentare intensamente, attraverso scintillanti risonanze interiori, ciò che non si può dire, ma solamente mostrare («esso mostra sé, è il Mistico»5), ciò su cui si deve tacere: il regno dell’indicibile.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. E. Kagge, Il silenzio. Uno spazio dell’anima, Einaudi, Torino 2017, p. 27.
2. B. Pascal, Pensieri e altri scritti, Edizioni San Paolo, Milano, 198712, p. 167.
3. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, p. 23.
4 Ivi, p.108.
5. Ivi, p. 109.
[Photo credits Patrick Schneider su unsplash.com]

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Il gioco del silenzio

Parole, risate, pianti, suoni, rumori.

Siamo travolti ogni giorno dalla confusione della vita.

Con questo promemoria filosofico vorrei dare un giusto spazio a qualcosa di cui ci dimentichiamo spesso e a cui non facciamo caso: il silenzio.

Prova a chiudere gli occhi, tutto ancora non è scomparso vero? Senti ancora voci attorno a te. Allora spegni i pensieri e segui uno dopo l’altro i battiti del tuo cuore. Tum, tum, tum. Non c’è ancora silenzio.

Fermati dunque, riapri gli occhi e osserva un piccolo anche insignificante dettaglio che ti circonda, ad esempio come risplende la luce su una superficie liscia e trasparente o come è poroso il cemento sotto ai piedi. Senza utilizzare l’udito, ci sei quasi.

Concentrati ora a rimanere immobile ad ascoltare soltanto quello che ti sta intorno. Il silenzio lo puoi trovare solo dentro di te, quando ti fermi ad osservare il mondo, fuori.

I silenzi sono molti e di diverso tipo; possono essere fatti di parole trattenute, di pace o di stupore. C’è un silenzio di gioia di fronte alla meraviglia e un silenzio di dolore durante un lutto. Il silenzio dell’attesa è quando sei in tensione verso un suono che verrà, di cui non conosci ancora la natura, ma che speri sia familiare, che sia piacevole. Non c’è mai un silenzio vuoto, solo e sterile. Il silenzio, per essere tale, è sempre preceduto ed è conseguenza di una frequenza in movimento.

Tutti questi silenzi ad ogni modo te li porti dentro, tra un pensiero e l’altro, tra un respiro e l’altro.

C’è chi dice che a volte il silenzio è meglio di mille parole e a parer mio è vero: è la miglior risposta che si possa dare in certe circostanze. 

«Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» a detta del logico e filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein. Il silenzio diventa anche la sezione che limita il non conosciuto, ciò che si ignora.

È una forma di rispetto ambivalente nella comunicazione, a volte lo è per sé, per non dire parole improprie e ascoltare, altre volte lo è anche per gli altri, per lasciare libera espressione alle opinioni altrui che permettono di rivelare chi si ha davanti per quello che è. Il silenzio spesso è anche un modo per prendere del tempo e comprendersi, per capire gli sbagli, per trovare un punto in comune, per semplicemente ritrovarsi.

Il silenzio ti permette di conoscerti per quello che sei alla fine, è un sincero amico della tua coscienza che ti mette alle strette, con il quale convivi facilmente solo se non hai mostri nell’armadio.

Il silenzio ti rende solo ciò che sei, nulla di più, nulla di meno. Ti rende vulnerabile alle paure e ti lascia in balìa dei tuoi demoni, ma non lasciarti ingannare: ti tempra e ti prepara alla confusione che puoi trovare fuori da te stesso. Nel silenzio puoi trovare pace e serenità, puoi trovare te stesso e forse anche le risposte di cui hai bisogno.

Basta ascoltarlo, basta dargli il giusto tempo, basta dargli il giusto spazio e il giusto valore.

E tu sei capace di ascoltare il tuo silenzio?

Al prossimo promemoria filosofico

A presto

 

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino, 1964.

[Credit Jessica F]

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Fede e speranza: Abramo e l’eroe tragico di Kierkegaard

Osservando i libri della mia piccola biblioteca universitaria mi è caduto l’occhio in particolare su di un titolo: Timore e Tremore di Kierkegaard. Un libro in cui si può percepire la rivoluzione filosofica ed esistenziale e in particolare la paradigmatica relazione del vero credente con l’Assoluto. Protagonista è la figura biblica di Abramo che, in modo non scontato, viene confrontata ad altri modelli di rilievo: la Madonna, Agamennone, Jefte e Bruto.

Abramo è spesso indicato come il Padre della Fede e viene paragonato in primo luogo a Maria perché ciò che più li accomuna è il modo di presentarsi presso Dio. Infatti, nella Genesi, Abramo risponde alla chiamata di Dio dicendo: «Eccomi» (Gen 22,1) e Maria, allo stesso modo, dice: «Ecco, io sono l’ancella del Signore» (Lc 1,38). I due, in questo modo, si mostrano quindi umili di fronte a Dio e simili nella Fede. Non solo questo li avvicina ma anche il grande miracolo che hanno vissuto e allo stesso tempo l’angoscia, la sofferenza e il paradosso con cui l’hanno sperimentato: Maria accogliendo il messaggio portato dall’angelo del Signore e mettendo al mondo il Figlio di Dio e Abramo con Isacco e il suo sacrificio chiestogli da Dio. Come Maria non può far comprendere il messaggio affidatole dal Signore, allo stesso modo Abramo: non possono essere compresi dal resto del mondo perché in intimo rapporto con l’Assoluto. Essi non possono parlare e mediare tali parole per non cadere fuori dal rapporto personale con Dio e dunque devono mantenere il silenzio. Il silenzio è quindi l’espressione della relazione privata con la divinità.

Abramo si contraddistingue poi anche da Agamennone del ciclo omerico, da Jefte, soggetto biblico, e da Bruto, soggetto storico.

Agamennone, personaggio mitologico che compare nell’Iliade di Omero, viene ripreso da Kierkegaard in merito al sacrificio della figlia primogenita Ifigenia. In quanto re di Micene, per ospiciarsi la dea Artemide e far partire la flotta verso Troia, Agamennone deve sacrificare la figlia sull’altare. Si racconta che durante la cerimonia, mentre il sacerdote immergeva già il coltello nel petto di Ifigenia, l’altare venne circondato da una densa nebbia, e, quando questa si ritirò, invece del corpo insanguinato della giovinetta, si trovò sull’altare il corpo di una cerbiatta. Artemide aveva avuto pietà dell’intrepida ragazza e l’aveva sostituita con l’animale, portando via Ifigenia viva in Tauride, dove il re del luogo, Toante, la fece sacerdotessa della dea che l’aveva salvata.

Jefte è un personaggio biblico noto per aver fatto a Dio un voto senza riserve e che coinvolse la stessa sua unica figlia. È nel libro biblico di Giudici, dell’Antico Testamento, che vengono narrati gli avvenimenti inerenti a questo voto. Prima di intraprendere la guerra con i pagani Ammoniti, Jefte pronunciò a Dio questo voto: “Se darai nelle mie mani i figli d’Ammon, quando io ritornerò vincitore, chiunque per primo uscirà da casa mia per venirmi incontro, sarà del Signore e lo offrirò in olocausto” (Giudici 11,30-31).

Jefte combatté e vinse. Al suo ritorno a Mizpa la prima della sua casa che gli si fece incontro, danzando con un tamburello per festeggiare il padre e la sua vittoria, fu la sua unica figlia; le Sacre Scritture non citano il suo nome. Appena Jefte la vide, preso dalla disperazione, si lacerò le vesti. La fanciulla, turbata dal gesto, chiese al padre quale mai fosse il motivo di tanto turbamento. Il padre le parlò quindi del voto fatto a Dio, in tutta risposta ella gli rispose di adempiere quello che aveva promesso, ma di permetterle di trascorrere due mesi sulle montagne per piangere la sua verginità con le sue compagne. Trascorso il tempo la fanciulla fece ritorno a casa e si sottopose volontariamente al voto fatto dal padre.

Il console della Repubblica romana, Lucio Giunio Bruto (545 a.C.- 509 a.C.) venuto a sapere della congiura contro Roma dei suoi figli, li fece decapitare in sua presenza per alto tradimento.

Tali personaggi hanno in comune una cosa con Abramo: tutti seguono il rapporto padre-figlio/a/i. Agamennone, Jefte e Bruto sono eroi tragici e si contraddistinguono da Abramo per come hanno vissuto la loro vicenda: l’eroe tragico vive nella sfera dell’etica, essa stessa è il suo scopo ultimo e riduce l’espressione rapporto etico padre-figlio all’etica suprema nell’idea di Moralità. Non si può uscire dall’etica, neppure può essere sospesa perché tutto rientra in essa. Vi è una forte tensione tra desiderio e dovere: l’eroe tragico rinuncia al suo desiderio per compiere il suo dovere e trarre vantaggio dal generale, così poi da trovarne riposo. L’eroe tragico rinuncia con affanno, sofferenza e angoscia sacrificando se stesso per il generale.

Ciò che dimostrano non avere però gli eroi tragici è la Fede, la passione suprema. Se infatti “l’eroe tragico è grande per la virtù morale,  Abramo è grande per la virtù puramente personale”. Lui compie ciò che Dio gli chiede nel suo nome, poiché Dio esige da lui una prova di fede e Abramo esprime la sua umiltà eseguendo il dovere di Dio, l’espressione della sua volontà.

Ciò riscontra che Abramo e il cavaliere della fede siano in perenne tensione, poichè c’è a possibilità di pentirsi e far ritorno al generale. In questo diventa presupposto che ciò che si sacrifica non sono solo i loro desideri, ma anche i loro stessi doveri, in cui l’etica è sospesa. Abramo è il Singolo in rapporto assoluto con l’Assoluto, in continua tensione di fede e sacrifica il generale per diventare singolo.

La fede è quindi il paradosso che permette al Singolo di essere più alto del generale, in modo che sia consentito il movimento della fede stessa; il Singolo, dopo essere stato nel generale, si isola dall’etica mondana e dalla moralità umana, ottendo il suo telos superiore fuori di essa. Ma se nel generale la mediazione è concessa dalla parola, Abramo non può parlare e sta in silenzio. Il silenzio è espressione del rapporto con il divino, poichè è impossibile comprenderlo se non si ha la stessa fede di Abramo. La fede è la passione suprema che permette, nel caso di Abramo, di credere in virtù dell’assurdo, in virtù del principio che per Dio è tutto possibile, che Dio stesso non voglia questo sacricio da lui o che gli ridarà un nuovo Isacco, perchè Dio è Amore, è solo Amore con per Platone nella Repubblica. 

Abramo dunque non compie un singolo movimento verso Dio, ma due: il movimento dell’infinita rassegnazione e il movimento della Fede.

Abramo compie il primo movimento correlato al secondo. L’infinita rassegnazione è il prendere le distanze dal mondo, dal generale, rassegnadosi  all’esteriorità, trovando rifugio nell’interiorità. Nell’interiorità, il Cavaliere dell’Infinita Rassegnazione prende coscienza di avere un’anima, un’energia originaria: scopre la libertà di autodeterminarsi e per questo si riconosce come Io libertà.

In questo autodeterminarsi, l’Io si sceglie concretamente, scopre di avere una sua storia, che è essa anche in relazione con altri Io. L’Io relazionato si scopre ulteriormente in continuità con la Storia che lo ha preceduto e lo seguirà. Si scopre parte di un’unica storia e prende coscienza con coraggio di essere un Io prodotto, condizionato, perdendo la libertà astrattamente conquistata.

Questi due stadi di coscienza permettono che l’Io assuma su di sé la Storia e si penta. L’Io ha quindi compiuto una sintesi tra possibilità e necessità, si riconosce come libertà in situazione, che non è quella assoluta del Creatore. Il pentimento perciò non è che un processo a ritroso per ripercorrere tutta la storia, per tornare al sé originario pensato da Dio. Il Sé è libertà; il sé ideale è il sé che lavora su se stesso per realizzare in se stesso il proprio sé ideale. Tale movimento di infinita rassegnazione ha un aspetto aristocratico, si deve compiere in solitudine e chi lo compie trova se stesso nell’Io nel suo eterno valore con il distacco del mondo. Il Cavaliere dell’infinita rassegnazione basta a se stesso, si accontenta della quiete del mondo ideale e vive a prescindere da ogni altro, perché trova una ricchezza in sé che lo automantiene.

Abramo però non si rassegna al mondo interiore, perché ha fede e ritorna al mondo reale. Il movimento della fede è il tassello in più in cui il Singolo, preso coscienza di sé nel suo eterno valore, si rapporta in modo assoluto con l’Assoluto. Al Cavaliere della fede non basta la quiete, ma vuole essere felice qui e ora e ritorna nel finito senza svalutarlo. Il mondo è di Dio infatti e Dio lo ha benedetto. Questo suo movimento non è visibile esteriormente, così come Abramo non lo manifesta disperandosi e piangendo. Abramo è sicuro che in virtù dell’assurdo, riotterrà Isacco e ciò comprendendo il paradosso di Fede, è avvenuto. In tal modo, in questo unico modo poiché è avvenuta una sospensione teleologica dell’etica, diversamente dall’eroe tragico legato alla moralità del reale, Abramo non è un omicida, nemmeno un eroe tragico, perché con la fede è un uomo che compie solo la volontà di Dio. Abramo non è perduto.

C’è fede, c’è speranza.

Al prossimo promemoria filosofico.

 

Azzurra Gianotto

 

[Photo Credits: Milada Vigerova, via Unsplash.com]

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Elogio della (vera) solitudine

«Forse sarei più sola/senza la mia solitudine»1 recita una poesia di Emily Dickinson. I versi di questo splendido componimento, ci immergono prontamente nei fondamenti esistenziali della solitudine. La condizione ipermondana e iperteconologica dell’uomo del tempo presente, lungi dall’aver aumentato la solitudine nei singoli, ne ha aumentato l’isolamento e l’atomizzazione. L’isolamento, cifra caratteristica soprattutto delle giovani generazioni, è l’espressione di un disagio culturale, sociale, psicologico e relazionale che conduce al deserto emozionale, alla totale chiusura di se stessi, fino al disinteresse per il mondo vitale dell’altro-da-sé e, nei casi più estremi e faticosi, alla totale noncuranza di se stessi e della propria esistenza.

Diversamente dall’isolamento, la solitudine è costitutiva dell’essere umano, è una sua peculiarità positiva. Solo l’uomo infatti può, attraverso la solitudine interiore, penetrare in se stesso, conoscersi e crescere psicologicamente, intellettualmente e spiritualmente. La solitudine è la possibilità, in un mondo saturo di informazione e parole vuote, di ritrovare il silenzio dentro la propria anima. Ed è in questo silenzio che è verosimile scorgere più chiaramente la nostra condizione esistenziale che oscilla fra la finitudine e l’infinito desiderio d’infinito. Solamente nel raccoglimento e nella contemplazione possiamo cogliere che la nostra intima precarietà, è la via che apre alla conoscenza del visibile e dell’invisibile, immergendoci in una tensione dialettica, senza il cui nutrimento cadremo in un nichilismo senza possibilità e speranza. La vera solitudine ci apre al mistero indecifrabile della vita, alla possibilità di commuoverci dinanzi alla nostra essenza, di comprendere più a fondo noi stessi e l’altro-da-noi. In questo senso la contemplazione interiore, non ci chiude al mondo e agli altri, ma ci aiuta a tornare, con corpo e spirito rinnovati, verso l’esterno.

A delineare la fondamentale esperienza della solitudine per ogni esistenza che voglia definirsi creativa e generativa di profondi significati umani e spirituali, è stato Rainer Maria Rilke. Scrivendo ad un giovane poeta in merito alla solitudine egli si esprimeva così: «Perciò, caro signore, amate la vostra solitudine e sopportate il dolore che essa vi procaccia con lamento armonioso […] la vostra solitudine vi sarà sostegno e patria anche in mezzo a circostanze molto estranee, e dal suo seno troverete voi tutti i vostri cammini»2. Il poeta di origine boema sottolinea l’importanza della solitudine come approdo per l’esistenza, come possibilità sempre presente per ritrovare il contatto con se stessi, con la propria anima. Non dobbiamo lasciarci impaurire dalla solitudine crescente, essa è la preparazione del terreno dell’anima per una nuova fioritura. Sono ancora le parole di Rilke a testimoniarlo con indicibile lucidità: «Ma sono forse quelle ore in cui la solitudine cresce; che la sua crescita è dolorosa come la crescita dei fanciulli e triste come l’inizio delle primavere. Ma questo non vi deve sviare. Questo solo è che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine»3.

La solitudine è un’opportunità dell’anima dell’uomo, ma non tutti la conoscono o la vogliono conoscere. Essa è la vera alternativa all’isolamento, a cui molte persone ormeggiano in reazione al delirio mondano delle nostre città, all’iperconnessione celata dietro il falso mito delle ipocrite relazioni virtuali. Differentemente dall’isolamento, la solitudine è nello spettro della consapevolezza, della scelta autonoma del singolo che decide di intraprendere un viaggio silenzioso dentro se stesso, riflettendo sulla propria esistenza, ricercando incessantemente la verità e contemplando con occhi sempre nuovi il vivente.

Mentre l’isolamento arresta come una diga il corso dell’esistenza, ne ostruisce le sorgenti, la solitudine è la via verso la sorgente interiore alla quale sempre si può attingere. Essa è generatrice di significati profondi e di bellezza. Pensiamo alla solitudine interiore di Leopardi e del citato Rilke, fucina di versi di inenarrabile profondità e bellezza. Ricordiamo il necessario raccoglimento interiore di molti artisti, prima d’iniziare le loro entusiasmanti creazioni. Rievochiamo la solitudine che alimenta come fuoco vivo le incandescenti e luminose esperienze interiori di Etty Hillesum, che all’interno del campo di concentramento di Westerbork, in attesa di essere inviata alla morte certa di Auschwitz, riconosce la solitudine come riparo e speranza, contro ogni speranza, di poter continuare il dialogo con se stessa e con Dio, in una relazione che non è di isolamento, ma nuovamente di apertura dialettica con l’altro-da-sé. Da questa consapevolezza sono sgorgate parole che destano ammirazione e possono restituire speranza anche alle esistenze più lacerate dalle notti del corpo e dell’anima. Scrive la giovane ebrea olandese: «Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco più ‘raccolta’, concentrata e forte»4. La cella della solitudine offre confini e protezione nell’inferno dell’esistenza, in un dialogo inesauribile e nutriente con se stessi e l’invisibile.

L’elogio della vera solitudine è dunque l’espressione della possibilità di camminare per i meandri inesplorati della propria anima. Quest’ultima intesa come luogo privilegiato nel quale sempre potersi ritirare, rinnovare e dal quale poter ripartire fortificati verso gli altri e il mondo. La solitudine, che si nutre di silenzio, raccoglimento e contemplazione è dunque il respiro dell’uomo che cammina autenticamente, libero dai soffocamenti che la società contemporanea impone, per le alte vette della propria interiorità. In questo senso, come non concludere con le parole intense, indelebili e significative, che il teologo e pedagogista Rubem Alves ha scritto:

«Nella solitudine si contempla la nascita di nuovi mondi. Le montagne, le foreste, i mari: scenari dell’anima. C’è in essi una grande solitudine. E la solitudine è dolorosa. Ma c’è anche una grande bellezza, perché è solo nella solitudine che esiste la possibilità di comunione. Così non avere paura: ‘fuggi dentro la tua solitudine. Sii come un albero che ama con i suoi lunghi rami: silenziosamente ascoltando; essa rimane appesa sopra il mare’»5.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. E. Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano 2013, p. 443.
2. R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, tr. it. di L. Traverso, Adelphi, Milano, 201321, pp. 34-35.
3. Ivi, p. 41.
4. E. Hillesum, Diario 1941-1943, tr. it. di C. Passanti, Adelphi, Milano, 201217, p. 111.
5. R. Alves, La bellezza del crepuscolo, tr. it di M. Dal Corso, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2018, p. 54.

[Photo credits: Benjamin Davies via Unsplash]

 

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Il mondo è bello perché è vario

“Chi sa non parla”, diceva Lao-Tzu, e per molto tempo sono stato propenso a credere fermamente in questa asserzione. Ma come ogni altra cosa le idee sono mobili e le convinzioni sempre opinabili, giacché è difficile incontrare nel mondo terreno un essere dalla mente stolida e onnisciente. Il sapere – o almeno l’autostima che questo malleabile sistema psichico-emotivo suscita in chi crede di possederlo – si configura nel continuo e instancabile movimento delle sinapsi e della volontà, la quale orienta l’interesse della persona verso questa o quell’altra direzione a seconda delle necessità di una data coordinata spazio-temporale. In questo senso il sapere non è mai definitivo, sia perché noi per primi siamo esseri limitati da un’architettura fisiologica e culturale che rende numerabile la qualità dei nostri pensieri, sia perché una congettura non è mai separabile dall’interferenza strumentale e precritica del soggetto considerante, al punto che capita ogni tanto che qualcuno capisca solo quel che vuole capire.

Considerato ciò, diventa difficile, se non ipocrita, dogmatizzare il sapere come una competenza astratta, completa e sempre giusta, cui ci si può comodamente appellare dopo qualche anno di studio; esso è invece sempre diveniente e irrequieto, sempre curioso di scovare altre domande da porre e di scoprirne le possibili risposte, dal momento che una sola è spesso insufficiente. Ne deriva che l’essere umano, in quanto animale razionale capace di astrazione e pensiero associativo che creano almeno delle parvenze di sapere, è un essere in fieri, sempre spossato dall’incompletezza, per il quale fermarsi a venerare un unico idolo equivale in un certo senso alla morte storica e produttiva, alla stanchezza morale. L’essere umano si significa continuando a camminare, a intervenire, a indicare il proprio male per porvi rimedio, e sebbene si pensi che la saggezza più ammirabile si riscontri, ad esempio, nel raccoglimento pacifico di un tempio tibetano, in realtà la sola interiorizzazione rischia di compromettere radicalmente la propria prassi significante del mondo, quella prassi che cioè evoca sempre formule inedite per esercitare un dominio operante e partecipe della nostra civiltà.

Occorre precisare che la succitata frase di Lao-Tzu è da inserirsi nel suo particolare contesto, in quanto il silenzio del saggio è per il filosofo dovuto all’inesprimibile e parossistica dialettica di vuoto tutto e pieno nulla che da sola orchestra l’intero universo. In questo senso l’assoluto metafisico diventa solo materia di astrazione, di opinione, di filosofema insignificante, in quanto ogni tentativo di nominarlo cadrà nel fallimento. E non si può che dargli ragione su questo proposito, se non fosse per il fatto che ciò non debba comportare meccanicamente l’abbandono di qualsiasi speculazione. Lao-Tzu disse anche che “Chi non sa parla”, e pure questa è una grande verità, sebbene, lungi da quel che si può credere, è svuotata di qualsiasi carica accusatoria. Nessuno di noi sa, e tutti quanti noi parliamo per comunicare il nostro punto di vista e la nostra esperienza al fine non solo di cercare di organizzare la nostra persona, ma anche di esternarla agli altri e di accogliere in noi le altrui personalità. Se poi interpretiamo la massima nel senso di un consiglio spassionato a coloro che credono di sapere, allora questa si tinge di peccato e svogliatezza, poiché trasforma l’intelligenza in un esclusivismo auto-erotico. L’intelligenza non è premessa della propria elitarietà, bensì responsabilità continua e vacillante che deve soccorrere i naufraghi ispirando i rematori con le migliori direttive. In questo senso, il silenzio del saggio, di colui che sa e che può aiutare, diventa colpa e illusa emulazione di un egoismo divino che di per sé non esiste. Come le particelle atomiche che non sono osservabili se non durante l’interazione tra loro, così anche noi esseri umani nel nostro isolamento restiamo latenti e inconoscibili.

Si può affermare che la Via innominabile di cui parlava Lao-Tzu sia l’eternità; dunque cercare di spiegare l’eternità è cosa impossibile. In effetti non possiamo giungere a una definizione esauriente di questa poiché, di fatto, essa comprende qualsiasi tipo di spiegazione, e quindi nessuna. L’eternità diventa così una specie di noumeno kantiano mancato. Il punto è che l’eternità è l’ambizione atemporale dell’essere umano, il suo amore senza tempo, tanto platonico quanto concretamente stimolante. L’essere umano è volontà trascendentale di eternarsi, qualunque sia l’idea che un individuo si faccia di eternità, e l’impossibilità di raggiungere questo stato è ciò che gli permette di generare interi mondi culturali. L’eternità in questo senso è un cenno continuo, un tentativo tormentato di nominare l’armonia di ogni cosa, e l’afflato speranzoso che vuole solo riscattare le sue colpe, ma che invece non approda mai, definitivamente, da qualche parte. È come la caccia alla balena bianca che ci logora la vita e che può portare un individuo al suicidio qualora non fosse capace di restare coi piedi per terra.

Il cenno è la nostra realtà e la nostra condizione, e l’eternità, l’assoluto e la Via, quelle fantasmagorie fatte di sogno che in virtù di ciò non si realizzeranno mai. Ma in questa dicotomia sta anche quel che permette lo sviluppo ribelle della vita, che invece di deprimersi continua a interagire con la propria terrenità e spiritualità per imparare a conoscersi e accettarsi. Così insistendo si emancipa dalla pigrizia dei morti e debella così il rischio sgomentante di anticiparsi una insensata fine del mondo, quella fine cioè che se da una parte è morte assurda e priva di ragione che sprona seducente a negare la propria prassi domandante, dall’altra è l’apocalisse radiosa di un saggio imperturbabile che nel suo piatto e cosmico silenzio guarda la gente annegare e le stelle collidere.

 

Leonardo Albano

 

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Filosofia bambina

Mi sono ritrovata a lavorare in una scuola steineriana, quasi senza sapere come, o cosa fosse.
Catapultata in uno dei gioielli delle Fiandre, un paesino da cartolina, dove la gente è cortese anche quando non ha nessuna voglia di esserlo, il mio ruolo era quello di semplice assistente, e di non dare troppo a vedere di soffrire il freddo. Circondata da centinaia di bambini, intenta a schivare le biciclette e a incrementare le risate, un giorno mi venne assegnato un compito inaspettato: dati i miei studi in filosofia, mi chiesero di elaborare una lezione di filosofia greca per una classe di ragazzi di undici anni. Mentre la direttrice della scuola formulava la richiesta, nella mia mente emersero diverse certezze in tutta la loro naturalezza: anzitutto, non avrei mai saputo come realizzare qualcosa di simile; immediatamente dopo, sapevo che cosa avrei fatto.

Straniera ed estranea, oggetto di curiosità e diffidenza, sapevo che l’unico argomento possibile era proprio quello dell’altro non solo come diverso, ma come escluso. Decisi così, in un lampo improvviso, perché per potere insegnare bisogna scegliere un luogo, che è un po’ casa, e a cui si sente di appartenere.

Scelsi uno degli eroi greci per eccellenza, Odisseo, eternamente perduto, gettai poche linee su un foglio, come una mappa, e poi, mi diedi da fare sul come. Non sapevo bene cosa insegnare; non sapevo se qualcuno volesse davvero ascoltarmi, o verso quale luogo ci saremmo condotti a vicenda. Quindi, vi era solo un modo per iniziare: di fronte a venti ragazzini, svogliati e timidamente incuriositi, ammisi la mia ignoranza, che non avevo lezioni da impartire, non avevo verità da diffondere, che io e loro stavamo per dare vita a un esperimento, e che il risultato sarebbe stato inaspettato. La mia non era una lezione, era un viaggio, ed eravamo fortunati ad avere una cartina. Socrate sarebbe stato la mia guida immaginaria, e attraverso la mia curiosità, loro avrebbero tirato fuori certezze e perplessità.

I ragazzini mi guardavano incuriositi, non erano ben sicuri di capire. Arrancammo, io e loro, il mio olandese balbettava, le loro orecchie non erano avvezze all’inglese, e a volte ridacchiavano. Eravamo proprio preclusi gli uni agli altri, compagni perfetti per il nostro esperimento. Continuavo a porre domande, e il silenzio iniziò a tremare. Alcuni cominciavano a rispondere, a volte per impressionare il maestro che male si mescolava fra noi, a volte perché erano già saggi, e proprio non riuscivano a non dirti la verità. Guardando il pavimento, mi dissero che in nessun altro tempo il mondo fu così avido come il nostro, e Odisseo sarebbe stato lasciato per strada, e non sarebbe mai tornato a casa. La scuola li aveva protetti troppo bene, così avevano iniziato a guardare il mondo in vetrina, e a constatarlo. Mi sembravano già anziani, con queste sicurezze sugli occhi e sulla bocca, senza il bisogno di chiedere perché.

Suonò la campana, il tempo era scaduto, e io me ne andai con l’amaro in bocca, chiedendomi se non sia mai accaduto anche a Socrate; pensai di no, perché lui avrebbe avuto tutto il tempo, senza l’interruzione di una campanella.
Arrivai così a una nuova consapevolezza: la filosofia ha bisogno di un nuovo compito, che prima, nei suoi tempi idilliaci, ha trascurato. Essa può ancora guidare, ma adesso deve anche ispirare, per impedire che i ragazzini siano savi così tanto presto, affinché si sorprendano di sapere più di quanto pensano, ma non ancora tutto. La filosofia deve tornare bambina, non per guardare il mondo con ingenuità, ma per credere che si possa ancora salvare, e che Odisseo, in ogni tempo e in ogni luogo, avrebbe comunque ricevuto tutte quelle mani tese, per ritrovare la strada di casa.

 

Fabiana Castellino

Fabiana Castellino è nata nel 1990 in Sicilia.
Si è laureata in Scienze filosofiche con lode, all’Università di RomaTre, con una tesi su Arthur Schopenhauer.
Ha maturato diverse esperienze nell’educazione dei bambini, prima con disabilità, e adesso svolge un progetto di volontariato europeo presso una scuola Steineriana in Belgio.
La lettura e la scrittura le sono state compagne sin da bambina, e l’hanno sempre guidata nelle sue scelte, professionali e di vita.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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The Sound of Silence

Potrà sembrare strano parlare di silenzio alla fine della stagione più rumorosa e festaiola dell’anno, in un’epoca in cui, specie in una grande città, l’unica occasione possibile in cui riposare un po’ le orecchie è un blackout che metta a tacere condizionatori, televisori, elettrodomestici e tutto ciò che da decenni ormai compone un (quasi) inevitabile e costante rumore di fondo.

Il silenzio, però, non rappresenta solo un momento di pace per orecchie stressate e abusate, né deve essere visto come un vuoto imbarazzante (o addirittura spaventoso) da riempire a tutti i costi. Al contrario, in un’era di dispersione dell’identità personale, di avatar e di discrepanza tra profili pubblici e sé privati, il silenzio rimane tra le ultime possibilità che ci rimangono per gettare uno sguardo nella parte più profonda di noi stessi e secondo le maggiori tradizioni religiose, perfino per entrare in contatto con Dio.

Affascinante in questo senso è la narrazione biblica della storia di Elia, profeta di rilevanza centrale per ebraismo, cristianesimo e islam. Nel Primo libro dei Re, un Elia in fuga attende l’arrivo di Dio che gli ha dato appuntamento sull’Oreb, ma sta a lui discernere la Sua presenza. L’autore del libro racconta dell’arrivo di una tempesta di vento, di un terremoto, di un incendio e commenta ogni volta: «Ma Dio non era nel vento/nel terremoto/nel fuoco» (1Re 19,11-12). Dove il profeta riconosce la presenza di Dio è nel ‘mormorio di un vento leggero’, una presenza discreta e gentile, lontana dalle manifestazioni di potere precedenti, inudibile se non nel completo silenzio.

“Dio è umile”, diceva un sacerdote, “parla solo quando tutti gli altri tacciono”. Non è un caso, quindi, che nell’ebraismo la preghiera più importante della liturgia cominci col comando Shemà!, “Ascolta!” (Dt 6,4), o che la sura, L’aderenza, comandi Iqraa!, “Leggi!” (Corano 96,1), entrambe azioni che richiedono silenzio, apertura a quanto viene suggerito dall’esterno, sforzo di comprensione. Non è possibile, pare, riuscire a raggiungere una dimensione di vera spiritualità a meno di non mettere a tacere ogni voce, interiore o esteriore, che possa distogliere la nostra attenzione dalla ricerca di Assoluto, elemento che ricorre anche negli insegnamenti attribuiti al Buddha Siddhārta Gautama: “Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l’Universo”.

Rimane l’ingombrante interrogativo, però, del perché dovremmo approcciarci al silenzio per recuperare una dimensione di spiritualità che, oggi, si sta ripresentando prepotentemente e violentemente sulla scena mondiale. Tra terroristi che indicono “guerre sante” in umano appalto dell’ira di Dio, politici occidentali che rispondono rimanendo sul pezzo e invocando nuove crociate, leader religiosi che usano il proprio potere per obiettivi fin troppo mondani e fanatici di qualunque culto pronti a uccidere seguendo una sorta di moderno ‘luddismo morale’, abbiamo bisogno di tutto, sembra, tranne che di ‘più Dio’ o ‘più spiritualità’ sul panorama globale.

Forse, però, è proprio per questo che creare silenzio, rientrare in sé e riscoprire una comunicazione con l’io più profondo e con l’Altro è oggi più che mai necessario. In un mondo pieno di gente impegnata a parlare (a gridare) di Dio, ritrovare il modo di parlare con Dio sarebbe tutto sommato una piacevole e insperata novità.

 

Giacomo Mininni

 

[Immagine: Silent Music (Suspension), di Kara Smith, 2014]

 

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