Dei giovani e della voglia

Qualche settimana fa, sull’Huffington post, è uscita un’intervista a Vittorino Andreoli1, noto psichiatra e scrittore, nella quale esorta i giovani ad imparare il sacrificio. Nello specifico Andreoli parla di impegno, responsabilità e che «non guardino se possono avere il posto fisso e la macchina: devono porsi come protagonisti del futuro».
Non è la prima volta che leggo o ascolto discorsi simili, ci sono decine e decine di servizi giornalistici sul trinomio giovani-lavoro-futuro, ci sono diversi video su YouTube che propongono inchieste e interviste direttamente a datori di lavoro stanchi di non poter contare sull’assunzione di giovani perché inaffidabili, rei – a detta loro – di chiedere a quanto ammonta il compenso mensile, quand’è il riposo settimanale o per quante ore dovrebbero lavorare.

Dopo questa prima breve raccolta di “chiacchiere” incominciamo con il premettere alcune cose: il tasso di disoccupazione in Italia è uno dei più alti d’Europa2 mentre la percentuale degli inattivi – ovvero i giovani dai 25 anni in su che non stanno cercando lavoro e non stanno nemmeno affrontando un percorso di studi – è del 34,2%3.
Ad ogni modo i soli numeri non sono sufficienti ad affrontare le problematiche che si celano nel substrato sociale, la statistica non può spiegare ad esempio il concetto di sfiducia, di crisi, di insicurezza e incertezza; non racconta il contesto culturale ed economico nel quale la generazione nata tra il 1985 e il 2000 è cresciuta – e si ritrova – e non si preoccupa nemmeno di raffrontarlo con quello vissuto dalle generazioni precedenti. Ma del resto non lo fa nessuno poiché sono tutti impegnati a dire come i giovani dovrebbero comportarsi in situazioni di difficoltà mai conosciute prima.

Analizziamo assieme ciò che normalmente viene ignorato.
Per coerenza prendiamo in esame tre generazioni, oltre alla già citata ‘85-’00 troviamo quella dei loro genitori: la generazione nata all’incirca tra il 1965 e i primi anni ‘80, e quella dei loro nonni (o potenziali nonni per non offendere nessuno): nata tra il 1940 e il 1965.
Il contesto socio-economico vissuto dalla ‘generazione nonni’ e dalla ‘generazione genitori’ è quello di un’Italia uscita dalla guerra e, dopo alcuni necessari anni di assestamento, di un’Italia in forte crescita. Al miracolo economico degli anni ‘50-’60, è susseguita una breve fase di ristagno dopo la quale c’è stata una nuova ripresa economica, quella dei mitici anni ‘80 le cui felici conseguenze si sono affievolite durante il decennio successivo.

Eccettuando brevi periodi quindi, è facile capire che i nostri nonni e i nostri genitori hanno vissuto in un Paese che si stava fortemente sviluppando.

L’emigrazione dal sud verso le città industrializzate del nord, vivere all’interno di case spesso fatiscenti e prive delle più elementari norme igieniche ed altri sacrifici certamente da non sottovalutare, furono ripagati in pochi anni con l’ottenimento del posto fisso, di una casa e con la possibilità di costruire una famiglia.
La sofferenza, la gavetta, il classico “stringere denti e cintura”, era il prezzo da pagare per una concretezza più che sicura.

Guardandoci attorno possiamo tranquillamente affermare che la generazione giovani potrà, dopo qualche anno di sacrificio, contare sulle stesse sicurezze godute dalle due generazioni precedenti?
È quello che si richiede ai giovani d’oggi: pazienza, sacrificio, altra pazienza e ancora sacrificio.
Il problema è tutto qui: con la crisi economica scoppiata ufficialmente nel 2008 ma derivante da anni di stagnazione, e lungi dall’aver esaurito il suo potere con danni collaterali annessi, chiedere ai giovani di sacrificarsi equivale a chiedere loro un vero e proprio atto di fede; un salto nel buio verso un futuro molto incerto, privo – o quasi del tutto privo – dei benefici a cui siamo abituati a protendere: casa, lavoro, famiglia, pensione.
Se qualche anno fa la domanda che circolava di più tra i giovani era: “avrò un lavoro a tempo indeterminato?” ora la domanda è: “avrò un lavoro?”.

Personalmente non cerco alibi, c’è chi letteralmente cerca in tutti i modi di scansare le fatiche, ma non è una caratteristica peculiare dei giovani contemporanei, anzi è trasversale, diversamente le pagine di Storia non menzionerebbero bande e organizzazioni criminali dedite al guadagno facile con il minimo sforzo.
Esistono poi occupazioni certamente dignitose ma che hanno perso l’attrattiva occupazionale. Purtroppo l’artigianato, un settore molto vasto e variegato, un tempo fiore all’occhiello dell’italianità, oggi è finanziariamente disincentivato, le ore di lavoro non sono adeguatamente pagate – nonostante sia questa una caratteristica dipinta dai datori di lavoro come altamente pretenziosa, sebbene debba essere la normalità – e inefficaci per chi vorrebbe sistemarsi o abbandonare il tetto di mamma e papà.

Siamo davanti ad una situazione resa ancor più difficile da una pandemia di portata mondiale, che ha paralizzato diversi settori dell’economia, come già accennato, in precedenza non propriamente floridi e i cui effetti, con tutti gli scongiuri del caso, non si sono ancora del tutto conclusi.
Dipingere il tutto come la classica scarsa voglia di lavorare dei giovani, la vedo come una prospettiva poco edificante. Ci sono milioni di giovani che emigrano, proprio come nel passato, con la differenza di ritrovarsi spesso ad essere precari altrove; altrettanti milioni si ritrovano a dover cambiare lavoro ogni due o tre anni ricominciando sempre daccapo, trentenni trattati da diciottenni sia umanamente che economicamente.

Piangersi addosso non risolverà ovviamente il problema, questa è l’unica critica costruttiva che posso accettare dalle generazioni che ci hanno contribuito a far nascere e proliferare la situazione di crisi attuale. Per tutto il resto credo serva riscoprire la gigantesca virtù del rispetto.

 

Alessandro Basso

 

NOTE:
1- Qui potete leggere l’intervista.

2- La notizia è riportata tra gli altri dall’Ansa: qui.
3- Secondo dati Istat consultabili qui.

[Immagine tratta da pixabay]

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Call for papers: il Festival di Filosofia di Ischia lancia il tema ‘Valori: Continuità e cambiamento’

La Filosofia, il Castello e la Torre, Festival Internazionale di Filosofia di Ischia giunto alla sua III edizione lancia la sua Call for papers: Valori continuità e cambiamento è il tema conduttore dell’edizione 2017. Bene, Bellezza, Verità, Giustizia, Uguaglianza, Libertà, Potere, Sicurezza, Dignità, Fratellanza, questi alcuni tra i concetti chiave su cui si vuole incentrare la discussione pubblica.

Chiamati ad intervenire con una relazione dalla lunghezza massima di 500 parole non sono solo i filosofi ma chiunque senta di poter contribuire allo sviluppo del tema con una riflessione appartenenti alle quattro sezioni di intervento proposte: Ti esti? Cos’è il Valore?, Teorie dei Valori, Il valore dei valori: utilità e applicazioni, Arte e Valori. 

Ischia International Festival of Philosophy 2017 riporta la Filosofia alla sua funzione fondamentale e molto più legata alla dimensione pratica: interrogarsi sui valori.

«Affrontando il vasto campo dell’agire umano, e dunque della filosofia pratica e dell’etica, occorre adesso concentrarsi sul nesso – di continuità o discontinuità – tra teoria e prassi. L’emergere di nuove dinamiche sociali, dovuto tra l’altro ai mutamenti demografici e all’alterarsi della composizione sociale, rende necessario mettere a tema la questione della convivenza tra individui e tra popoli, soprattutto alla luce dell’ideale di un’Europa libera, unita e pacifica, in cui purtroppo le differenze culturali fanno fatica a convivere.

In quest’ottica s’intende porre un interrogativo sui valori che metta congiuntamente a tema il tratto storico del loro costituirsi e il richiamo alla trascendenza che essi sembrano costitutivamente incarnare, sia che li si concepisca come universali a priori semplicemente da riconoscere, sia che li si intenda come il segno dell’irriducibilità ultima tra epoche e culture differenti. Alla luce di queste domande potrà forse essere ripensato il senso stesso del “dare valore” tanto nella sua funzione positiva che nella sua portata critica. Allora è proprio nei valori che bisogna “custodire valore”. Nell’alterità il valore si riconosce come tale, nell’alterità di un valore non conosciuto ma riconosciuto. Ogni persona, cultura, nazione rappresenta e presenta un valore di diversità con il quale rapportarsi. Considerare queste diversità e rendere degno lo spazio dell’ascolto e della coesistenza è forse l’unico gesto che ci porterà alla condivisione più armoniosa. L’appartenenza è unica, l’essere umano è unico perché abitante di un unico spazio.»

Come partecipare? Inviando la propria proposta di relazione a ischiafilosofest@gmail.com, con una breve biografia; potrete essere selezionati per intervenire direttamente durante il Festival. 

Per scaricare la Call for Papers integrale clicca qui 

Per scaricare l’approfondimento sul tema Valori, continuità e cambiamento clicca qui

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Chiamati ad intervenire sul tema sono anche i giovani pensatori tra i 16 e i 23 anni: nasce la call Young Thinkers Festival, Become a Philosopher!

Per tutti i giovani con una forte attitudine al pensiero filosofico, quest’anno il Festival di Ischia vuole lanciare delle sessioni intere di intervento ai ragazzi e ai giovanissimi filosofi. È sufficiente presentare una proposta di relazione, da soli o in gruppo, per poi discuterne con i coetanei e adulti durante le giornate del Festival. Un modo nuovo e dinamico per permette a giovani studenti di filosofia e non solo di intervenire con una propria riflessione davanti al pubblico, riportando così la Filosofia alle sue origini: in piazza. 

Per scaricare la Call Young Thinker Festival, Become a Philosopher clicca qui

Per maggiori informazioni visita il sito La Filosofia, il Castello e la Torre

Elena Casagrande

[Immagini di proprietà di Ischia International Festival of Philosophy]

“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”

Ecco quella che forse è la citazione più conosciuta dell’opera teatrale di Bertolt Brecht Vita di Galileo. Quando ho letto per la prima volta questa pièce pensavo significasse che una terra è sventurata e che pertanto avesse bisogno di un eroe in grado salvarla. Altrimenti, colpita dalla cattiva sorte, come avrebbe potuto risollevarsi da sé?Recentemente però mi è capitato di rileggere questo libro e mi sono resa conto che la citazione – che mi ha sempre colpita in modo particolare – aveva assunto un significato ben diverso.

Mi sono chiesta infatti perché dovesse essere sventurata una terra che ha bisogno di degli eroi ed ho pensato al fatto che aver bisogno di eroi significa ricercare un Altro che possa sciogliere una situazione per noi. In questo fatidico Altro ci troviamo a riversare una serie di caratteristiche positive che lo rendono in grado di ergersi al di sopra delle difficoltà.
In altre parole se attendiamo la venuta di un eroe, stiamo aspettando un deus ex machina che si cali in una situazione e la riesca ad ordinare. Un po’ come quando Gotham City in preda alle rapine o al Joker invoca Batman affinché possa ristabilire l’ordine.
Riconoscendo di non essere in grado di salvarsi da sola decide di abbandonarsi totalmente ad esso.

Non avrebbe nemmeno senso per un cittadino qualunque provare ad avanzare una soluzione; comparandosi infatti all’eroe di turno si renderebbe conto di essere imperfetto e limitato sia nelle risorse che fisicamente. Come può anche solo pensare dunque di essere in grado di proporre una soluzione efficacie al problema? Di certo risulterà fallace, momentanea e forse potrà persino fallire.

In una situazione del genere si crea anche una sorta di dipendenza. Consideriamo sempre l’esempio di Batman: dopo momenti di relativa tranquillità sopraggiunge una crisi che le istituzioni esistenti non sono in grado di affrontare. A questo punto piomba il panico, nessuno sembra sapere come comportarsi o come reagire, e la cosa veramente interessante è che non bisogna saperlo fare dal momento in cui si è certi arriverà un terzo a ristabilire l’ordine. La cosa più razionale da fare a questo punto, si rivela gettare la spugna e smettere di lottare.

È a questo punto che appare lampante il perché non bisogna voler costruire degli eroi. In questo modo il singolo si trova ad annullarsi, smette di considerarsi un soggetto attivo ed in grado di elaborare delle soluzioni; si sente abbandonato a se stesso e si lascia andare alla deriva, attendendo qualcuno che lo riporti sulla retta via.

Sperare in una nuova figura politica che riesca a portare dei cambiamenti radicali oppure attendere una svolta nella nostra vita sono atteggiamenti diffusi, assimilabili all’attesa della venuta millenaristica di un eroe. Questi però alienano il singolo e lo spogliano dalla sua capacità creativa di trovare nuove soluzioni e di analizzare le situazioni, rendendolo costantemente dipendente da terzi. A questo punto − riprendendo Albert Camus quando nel suo saggio L’uomo in rivolta scriveva: «La vera passione del ventesimo secolo è la servitù» − è opportuno chiederci se siamo sicuri di volere sia anche quella del nostro secolo.

Lisa Bin

Lisa Bin, 1996. Studentessa presso l’Università di Trieste iscritta al secondo anno di Storia e Filosofia. Ama il judo e lo pratica da una vita. Tra le sue passioni c’è sicuramente la lettura, anche se la sua passione più grande al momento è la filosofia.

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La fallacia del bravo cittadino

Da qualche anno l’attenzione pubblica ha volto lo sguardo all’ambiguo rapporto tra internet e la privacy di chi internet lo utilizza. Si è discusso molto, e si continua a discutere, in che misura sia legittima la mercificazione delle nostre informazioni più intime, così come dei nostri vissuti. Termini come Big Data, pubblicità mirata, marketing personalizzato sono stati sulla bocca di tutti. La personalizzazione dell’esperienza online, avvicinando domanda e offerta, non fa di per sé alcun danno, e − se pur qualcuno può sentirsi violato − non è l’unico modo in cui la pubblicità entra prepotentemente nella vita quotidiana. Basti pensare alla 5th Avenue a New York così come al caso tipicamente americano dei naming rights, per cui una società può comprare per un certo numero di anni il diritto a dare il proprio nome ad edifici o luoghi pubblici. L’utilizzo di big Data, così come di ogni medium in generale, è di per sé moralmente neutro.

I governi hanno preso lentamente nota del fenomeno, hanno cercato di regolamentarlo dove possibile e dove necessario. Obama nel 2014 ha richiesto che fosse fatto un report sui Big Data, ma per ora nulla di efficace e decisivo è stato fatto in questa direzione, e nulla sembra annunciare un prossimo cambiamento. Molti avvenimenti importanti hanno attirato l’attenzione pubblica e questi temi sono passati in secondo piano. L’elezione di Trump, la Brexit, la fragile situazione politica italiana hanno ricevuto giustamente più attenzione, spostando il dibattito ai margini. Eppure nulla di ciò che in un primo momento aveva suscitato il problema della privacy è cambiato. La necessità di una regolamentazione rimane.

Dato questo sfondo ciò che mi interessa trattare è un argomento che si sente spesso ogni volta che il diritto alla privacy viene in qualche modo violato. Il problema che sorge dalla collezione e dall’uso di Big Data introduce un problema più ampio. Si sente dire:

Non mi riguarda se vengo “spiato”, perché non ho niente da nascondere. Al contrario, se ciò serve per aumentare la sicurezza di tutti, ben venga.

Questo ragionamento suona subito in modo strano e al contempo è abbastanza di buon senso da essersi diffuso a macchia d’olio. Ma se è vero che ogni discorso vive di presupposti, vediamo quali sono quelli del caso. Prima di tutto è evidente che l’argomentazione sottende una disequazione: la sicurezza è un valore più importante della libertà. Ciò è discutibile, ma si può legittimamente sostenere e con motivazioni valide. Ciò che squalifica veramente tale discorso è un altro presupposto: chi argomenta in questo modo ammette implicitamente e per principio che qualunque soggetto possa violare la sua privacy, siano esse corporazioni, governi o hackers, sia in sostanza buono e saggio. Egli fa ciò che fa per il bene comune, ed essendo io buono non ho nulla da temere.

Non c’è bisogno di richiamarsi al fantasma di Antigone per ricordare che la norma del singolo non è la norma del Potere. Le due volontà non solo possono divergere, ma anche confliggere; e ciò significa che il presupposto non regge, l’argomento è fallace.

La logica seguita dai privati è il profitto, l’aumento di capitale; la logica seguita dai governi è invece il controllo. Entrambi possono spingersi oltre ciò che è avvertito dall’individuo come proprio bene. Questi casi critici, di cui non si parla e di cui non ci interessa, sono esattamente ciò che fa implodere l’argomento del bravo cittadino. Essere “spiati” riguarda tutti e rimettere il problema alla bontà di chi trae vantaggio da ciò non è la soluzione. La soluzione, che in questo caso non può che avere la forma del compromesso, emerge dal confronto critico con il problema, dalla consapevolezza che bisogna essere coscienti di quanto accade e di quanto velocemente muta la realtà con cui ci relazioniamo, in modo di evitare in futuro errori simili alla fallacia del bravo cittadino.

Francesco Fanti Rovetta

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Uscire di casa solo con noi stessi

Non vi è mai una sola volta in cui io riesca a varcare in modo deciso il portone di casa mia. Vi capita mai? Io proprio non ci riesco. Non è il mio forte la sicurezza, la decisione nel fare le cose. A chi mi sta leggendo devo anche confessare che persino queste parole di questo breve testo provengono dalla stessa fonte di insicurezza, dal mio fare lento e macchinoso, a tratti contemplativo, forse per guadagnare un po’ di tempo. Anche questo ennesimo punto conclude una frase e mi fa pensare a cosa scrivere, quasi come a tenermi a metà strada, proprio lì nell’uscio della mia abitazione. Ora voi vi chiederete come io possa aver pensato di catturare il vostro interesse con una partenza del genere e con un tale atteggiamento. Alle persone, in genere, non piace esser tenute così in sospeso, rimanere a galla tra le interminabili esitazioni dei propri interlocutori, si perde appunto l’interesse e l’attenzione per quello che magari voleva essere un argomento valido. È così che muoiono molte conversazioni, seppellite in un abisso di occasioni mai realizzate, mai sbocciate ed espresse, dunque perdute.

C’è da pensarci tanto, da riflettere sulle infinite “dynamis”, ossia possibilità, le stesse che perdiamo attimo dopo attimo, in uno scorrere inesorabile. Noi comunque abbiamo poco tempo, ci siamo lavati e vestiti per andare al lavoro o a scuola, o semplicemente per uscire con gli amici. Svago o no, siamo tutti ancora immobili su quell’uscio, facendo fluire e scivolar via tutti quegli istanti che sono pronti a diventare passato, sono pronti a perdersi e noi acconsentiamo a perderli a nostra volta. Che fare? Continuiamo a temporeggiare con la paura e l’ansia in corpo, mille preoccupazioni ed indecisioni che non ci fanno abbandonare il quartier generale , dove tutto è a nostra disposizione e nessuno può coglierci impreparati. Fosse per noi staremmo lì dentro per sempre, protetti e a nostro agio nella maniera più completa, accontentati dalle mura della nostra casa d’atarassia. Sarebbe bello, lo farebbero tutti, ci sarebbero milioni di prenotazioni per tale lusso. Saprete meglio di me, però, che tutto ciò è pura utopia, non vale neanche il pensiero, non dovrebbe nemmeno ritagliarsi quello spazio tra l’ansia e le preoccupazioni, poiché non risulta essere altro che l’astuta vendita di una mera illusione, forte del fatto d’esser più piacevole ed allettante del turbamento di cui siamo in realtà vittime.

Ma torniamo a pensare alla nostra situazione che intanto si è portata avanti, stiamo per chiudere la porta di casa ma il tempo è comunque passato, si sono precluse alcune delle strade che quella mattina da noi condivisa ci aveva offerto. Non siamo ancora sicuri, e preferiamo rinunciare ad altre possibilità per pensare a cosa ci dovrebbe servire una volta usciti. Se prima stavamo pensando in modo più esistenziale volgendo l’attenzione su noi stessi, ora siamo giunti al momento della materialità, da noi ritenuta essenziale. Proprio qui ci perdiamo in un bicchier d’acqua ed evidenziamo i nostri limiti. Stiamo perdendo l’autobus ormai, poiché sganciati dalla vita, che ci ha fatti schiavi attraverso la materia che è essa stessa a possedere noi. L’esistenziale che ci blocca in quel preciso momento, alla fine, ci riduce a questa condizione di pochezza nei confronti di noi stessi, andando a ritenere essenziali degli indumenti che essenziali non sono, facendoci credere di dover portare fin troppe cose appresso, facendoci credere di essere qualcosa in più. In tal maniera siamo più forniti, siamo sagome più imponenti, più preparati per affrontare il mondo pronto a colpirci. Pure convinzioni che a mio parere non sono così determinanti, almeno non in questa forma. Lo dico perché forse vi è un modo più semplice e meno travagliato per poter chiudere quella porta senza particolari pensieri, non credete? Certo che lo credete anche voi, cari lettori che poco avete da imparare da me e dalla mia insicurezza, davvero poco o nulla.

Forse per voi valeva solo la pena seguire questa mia contemplazione, questo mio aspetto malato che mi fa temporeggiare pure adesso, mettendo in luce il problema e dandone un possibile principio di cura. Anche la vostra lettura di queste mie parole può esser stata in un qualche modo catartica, o utile per una breve riflessione sul quotidiano, in altre parole potrebbe non essere stata soltanto una perdita di tempo, potrebbe non essere l’ennesima esitazione a vuoto, bensì la promessa da parte di tutti d’essere un po’ più sicuri davanti alla vita e di non aver paura di chiudere quelle porte dietro di noi, accettando di poter uscire con anche solo noi stessi.

Alvise Gasparini

 

Sotto il mantello dell’invisibilità

La vita spesso mi sembra incredibilmente densa di problemi e complicazioni – anzi, sicuramente lo è. Nel mio presente ci sono la ricerca affannosa di tema e relatore per la tesi, la prospettiva dei numerosi esami spalmati nelle ultime due sessioni, il continuo paterno reminder che suona in mille varianti del “Quando ti trovi un lavoro?”, ma anche il lavorio logorante della mia coscienza, che mi ricorda tutte le altre cose che vorrei fare ma che non faccio per pigrizia. Insieme a tutto questo misuro quotidianamente la frustrazione derivante dalla mia incessante percezione di totale inadeguatezza. Per intenderci, quella che di fronte a questi problemi ti spingerebbe piuttosto ad avvolgerti nel piumone ignorando la sveglia e a chiuderti in un bozzo isolato dal mondo.

Naturalmente da quel bozzo tocca sempre uscire, allora ecco che il piumone diventa pret-à-porter: un mantello dell’invisibilità. Nel meraviglioso mondo di Harry Potter questo viene usato in “missioni segrete” a servizio del bene, io invece ho cominciato a servirmene per scopi probabilmente meno nobili e sensati, ormai addirittura dalla fine delle medie, quando ero già troppo alta e troppo tonda per non essere notata e per questo cercavo in ogni modo di non esserlo. Non volevo che vedessero quello che vedevo io.

Da quel momento il mantello mi è rimasto incollato addosso per tutta l’adolescenza, cosa che comunque non mi ha impedito di farmi degli amici – insomma, non sono né sono stata un caso disperato, però è vero che ci sono persone i cui occhi sembrano vedere attraverso un velo di apparenze e di solitudine, persone che inspiegabilmente riescono a trovarti in quell’angolino in cui ti sei asserragliato. Lasciandomi il liceo alle spalle ho cercato di liberarmi anche del mantello, eppure spesso me lo ritrovo ancora inconsapevolmente adagiato sulla testa – che è anche il motivo per cui spesso esco di casa con i capelli davvero mal raccolti e tute da ginnastica sbrindellate, convinta che facendo una così rapida apparizione nella società nessuno possa realmente vedermi.

Invece un giorno, come diversi altri giorni, sono andata a fare il pieno alla macchina nella solita stazione di servizio vicino casa. Ci trovo quasi sempre un ragazzo (tra l’altro piuttosto carino), probabilmente di qualche anno più grande di me, che lavora lì insieme ad altri due signori. Nonostante ovviamente ci abbia sempre parlato, per lo meno a livello di saluti, ovvie richieste e ringraziamenti, non credevo mi vedessero davvero. Invece quel giorno il ragazzo mi guarda e dice “Ti sei tagliata i capelli!”.
SBAM.
Così, “Ti sei tagliata i capelli”. Nemmeno una domanda, era una sicura affermazione. E’ stato come se mi avesse strappato il mantello di dosso e mi fossi ritrovata nuda di fronte a lui.

Ci sono così tante, così tante persone che pascolano in questo mondo che uno davvero comincia a perdere coscienza del proprio significato di individuo; così tante persone che nascono e muoiono ogni giorno nell’anonimato che alle volte devi proprio sforzarti per credere di fare la differenza, d’essere seriamente speciale. Perciò uno non si aspetta di essere riconosciuto come individuo in mezzo ad una moltitudine del tutto indistinta (per esempio i clienti di una stazione di servizio). Eppure, a quanto pare, alcune volte può succedere – infatti quel giorno è successo: il mantello è volato via con un gesto talmente improvviso e violento da lasciarmi stordita per almeno un paio di secondi e solo poi è arrivata quella sensazione di… direi di calore, come qualcosa che lentamente si scioglie al sole. E’ come quando per una volta la compagna di corso non ti dice “Non ti ho vista ieri a lezione”, invece con aria quasi di rimprovero commenta “Ieri ti ho vista a lezione ma sei scappata via subito”. Oppure come quando qualcuno che ti è stato appena presentato, dopo svariati minuti riesce ancora a ricordarsi il tuo nome. Piccole cose, ma che ti ricordano che nonostante tutto (il timore, il senso d’inadeguatezza, la moltitudine di anime) sei ancora collegato a questo mondo, sei una tessera del puzzle incastrata al suo posto, concavo con convesso e dritto con dritto, ed anche se il puzzle ha più di sette miliardi di pezzi e a guardarlo non si riesce ad avere la percezione della mancanza di qualcosa, comunque quel buco ci sarebbe, esisterebbe.

Perché esistere, nonostante tutto, non può essere una cosa da poco. Sono sempre stata convinta che in un certo senso dobbiamo meritarci il nostro stare in vita su questa terra: essere gentili e disponibili con il prossimo, comportarsi secondo i dettami della società civile, magari fare qualcosa di concreto per arginare le ferite di questo mondo malato; ma la verità è che non facciamo cose buone 24 ore su 24, giorno dopo giorno: ecco perché è piacevole a volte essere riconosciuti e notati solo per il fatto che esistiamo, indipendentemente da quello che facciamo in quel momento, io e proprio io, io così come sono, io e basta. Ci sono delle volte in cui essere visti fa la differenza, semplicemente riscalda il cuore. Quel mantello infatti, nonostante spesso nasca come forma di protezione, silenziosamente può diventare una gabbia. Quei piccoli sciocchi momenti sono come l’apertura dello sportello: mi rendo conto che posso uscire, se lo voglio. Eppure, la consolazione di quel minimo riconoscimento vale più di mille parole, più di mille sogni: “So che esisti. Non per uno scopo, non per una qualche necessità, semplicemente: so che esisti. Dunque, cerca di ricordarti sempre che tu esisti”.

Giorgia Favero

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Siamo tutti universalisti, con noi stessi

Uno dei fenomeni sociali più importanti, se non il più importante, con cui ci confrontiamo oggi e che le prossime generazioni studieranno sui libri di storia, è quello delle migrazioni di massa. È un tema estremamente complesso da affrontare e sul quale esiste una nutrita bibliografia internazionale; a tal proposito si potrebbe iniziare ad approcciarlo tramite il libro di J. Carens, Ethics of Immigration, 2013, già un classico in materia, o quello di E. Greblo, Etica dell’immigrazione, 2015, densa introduzione al dibattito internazionale.

Non è mia intenzione in questa sede riassumere i termini del tema e del dibattito intorno ad esso, per farlo anche solo maniera sintetica occorrerebbe molto spazio. Vorrei invece proporre qui delle considerazioni che si possono intendere come preliminari, un modo per rimuovere dal tema stesso possibili fraintendimenti che lo falserebbero in partenza, e che si sentono con una certa frequenza nei discorsi politici. La convinzione di chi scrive è che solo nelle interazioni, negli “inquinamenti” interculturali vi sia un potenziale arricchimento e progresso umano (insomma, così come la saggezza popolare sa, ci sarà pure un motivo se i cani meticci sono sempre più svegli di quelli di “razza pura”). Certamente queste interazioni culturali necessitano di una supervisione, che non sia però finalizzata a limitarle ma a permetterle in maniera ragionevole. Passiamo allora in rassegna, in maniera sintetica e schematizzandoli in 4 tipologie, i più popolari motivi immotivati della paura del meticciato e dell’apertura alla diversità, in base ai quali si predicano e attuano politiche di chiusura, più o meno netta, dei confini statali.

I. Ci si deve chiudere per questioni di sicurezza interna.
I, a. Innanzi tutto, generalizzare criminalizzando gruppi a priori anziché individuare singoli responsabili a posteriori è un po’ come dire che poiché in Italia (o in qualsiasi altro Paese) ci sono criminali allora tutti gli italiani sono preventivamente criminali potenziali, e sta a loro l’onere della prova di dimostrare il contrario. Inoltre, il modo migliore per superare criminalità e terrorismo, non è con stereotipi razzisti di criminalizzazioni di gruppi e con bunkerizzazioni, ma attraverso l’integrazione che, sia chiaro, non è quella cosa che dice “ti accolgo ma fai quello che dico io”, quello è dominio, ma è una guida consapevole dell’ineludibile cambiamento reciproco, di tutto e tutti, ossia del divenire. In altre parole, lo scontro di civiltà esiste solo se e quando qualcuno pensa che esista.

II. Va difesa l’economia e il welfare locale.
II, a. A parte il fatto che una simile affermazione può essere pronunciata solo da uno Stato, o una comunità, che abbia già fatto tutto quanto è in suo potere fare per alleviare le sofferenze dei bisognosi, nativi o meno che siano, fino al limite del collasso del proprio welfare, altrimenti non sarebbe (come di fatto spesso non è) un’affermazione credibile, ci sono almeno due considerazioni da fare su questo punto. Primo, si può benissimo immaginare un sistema di accesso progressivo al welfare, proporzionale al contributo dato dall’individuo. Secondo, e soprattutto, se il welfare è uno strumento di giustizia sociale, per chi è allora la giustizia se non per i più deboli, i più poveri, i più disperati? Se il welfare si riduce ad un servizio in cambio di un contributo non è una faccenda di giustizia ma un bene di commercio e/o un privilegio.

III. Vanno tutelati in primis i propri connazionali.
III, a. A parte l’immediato problema pratico che si pone, ossia come fare con i connazionali all’estero, sottoposti ad un’altra sovranità, il punto cruciale è qui il seguente.

Viviamo in un’epoca che ha codificato i cosiddetti diritti umani, la cui esistenza è ormai accettata da tutti, intendendoli come universali. Eppure, quando si deve passare dalle formule alle azioni, l’accesso a questi diritti (per inciso, formalizzare un diritto senza garantirne l’accesso significa di fatto negarlo) è riservato agli appartenenti a specifici club (tribù?) e quello che oggi va populisticamente per la maggiore è quello dei connazionali; i diritti umani sono così (ancora) legati alla cittadinanza, il possesso di un passaporto “che conta” è quindi un privilegio, e quella sedicente universalità si trasforma in particolarismo. Si svela così anche lo scomodo sottointeso dell’origine, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, infatti, così come scritto da L. Ferrajoli, quando «i rivoluzionari dell’89 parlavano di hommes pensavano evidentemente ai citoyens francesi e declamavano i diritti fondamentali come droits de l’homme anziché come droits du citoyen per conferire a essi, a parole, una più solenne universalità»; lo stesso autore nello stesso libro (Dai diritti del cittadino ai diritti della persona) afferma come questo imbarazzante non detto che persiste a tutt’oggi possa essere superato solo trasformando «in diritti della persona i due soli diritti di libertà oggi riservati ai cittadini: il diritto di residenza e il diritto di circolazione nei nostri privilegiati paesi». Insomma, predicare l’universalità dei diritti rendendoli però disponibili solo per alcuni, è ipocrisia e frode.
E allora, delle due l’una. O si dichiara esplicitamente che l’autodeterminazione (della quale i diritti umani dovrebbero essere la chiave) non è cosa per tutti ma solo per alcuni, e quindi si rifiuta l’universalismo dei diritti umani e dell’egalitarismo e il cosmopolitismo, e conseguentemente si dice a chi, e perché, l’autodeterminazione va concessa e a chi, e perché, no. Oppure, si ammette una possibile limitazione all’universalismo dei diritti umani solo come ultima ratio, ma intendendo sempre tale limitazione come un fallimento per tutti che deve quindi essere superato il più velocemente e il più radicalmente possibile. Il che non significa che un soggetto (ad es. un individuo o uno Stato) debba necessariamente andare a portare i diritti umani in giro per il mondo (quante strumentalizzazioni abbiamo già visto in tal senso), ma che debba operare per garantirli a chi viene a bussare alla sua porta. E in un’ottica universalistica solo un soggetto globale può assolvere questo compito. Esempi di soggetti del genere già esistono, dalla UE all’ONU, e il fatto che siano ampiamente perfettibili non significa che debbano essere abbandonati ma, appunto, perfezionati.

IV. Va difesa la propria identità, specificità culturale.
IV, a. A codificare in cosa consista tale identità culturale è sempre un potere, pertanto difendere quell’identità significa in realtà difendere il potere che la pone; si badi inoltre che il potere può difendere se stesso non solo vietando l’ingresso sul suo territorio a chi identifica come minaccia, ma anche espellendo le minacce dal suo territorio. Quindi, indipendentemente dalla provenienza, solo chi farà parte di un certo discorso culturale istituito da un certo potere sarà accettato.
Si potrebbe qui forse ammettere che gli Stati che più si adoperano per garantire condizioni di vita dignitose ovunque nel mondo siano quelli più legittimati a potersi chiudere. E tuttavia, da una parte, anche quando cose del genere avvengono, si riducono a mere operazioni di facciata che non cambiano l’andamento delle cose, dall’altra, e soprattutto, anche qualora tutto questo avvenisse in maniera seria, non spiegherebbe né perché il diritto di avere una vita dignitosa da parte di chi nasce nel Paese X dovrebbe essere superiore a quello di cercare una vita migliore per chi nasce nel Paese Y, né perché, anche a parità di condizioni di vita tra i Paesi X e Y, a qualcuno dovrebbe essere impedito di andare a respirare l’aria che più gli piace. In questi termini, l’unico modo per decidere su ciò diventa la violenza, quella della spada così come quella della Legge.

Ma c’è soprattutto una ragione, filosofica, per cui la difesa dell’identità culturale ha lo stesso spessore intellettuale di una barzelletta: il divenire. I paladini dell’identità culturale pensano di vivere in una dimensione culturale uguale a quella del passato o del futuro? O ritengono di vivere alla fine della storia? Vivendo (e addirittura anche morendo) non si può non divenire. Quando A incontra B, il che avviene ad ogni istante su diverse scale, non ne deriva una loro mera somma aritmetica o il primato dell’uno sull’altro, ne deriva C. Il punto non è quindi arrestare il divenire, pretesa teoreticamente assurda e, per fortuna, praticamente irrealizzabile, ma guidarlo in forme che ci sembrino ragionevoli, altrimenti se ne viene semplicemente travolti, senza neanche capire da cosa.

Federico Sollazzo

[Immagine realizzata dall’autore]

Il gioco dell’abitudine

Sembra che tutto si giochi sul l’abitudine: abituarsi al cambiamento, abituarsi alla presenza o assenza di una persona, abituarsi ad un nuovo luogo, a nuove attività o a nuove persone.
Abitudine come sinonimo di routine, non rimane il tempo per abituarci a un qualcosa che subito siamo chiamati a disabituarci a qualcos’altro. Può considerarsi questo l’effetto del nostro desiderio di regolarità? Della nostra tendenza ad aver tutto sotto controllo? Può l’abitudine essere la nostra risposta ad un profondo desiderio di sicurezza?

Tutti noi abbiamo delle abitudini e siamo abituati ad averne, il solo fatto di essere abituati a qualcosa comporta il non prestarci attenzione o addirittura a non farci caso. Molto spesso riteniamo che l’abitudine e l’abituarci a sia la soluzione perfetta di fronte a dei cambiamenti non voluti, a delle novità che difficilmente accettiamo, alla perdita di tua persona o di qualcosa a noi caro; “l’abitudine rende sopportabili anche le cose spaventose” direbbe Esopo.

Siamo convinti che questa possa ridurre il rischio di eventi accidentali, la possibilità di incontrare ostacoli insormontabili o di vivere situazioni a noi estranee e ingestibili. Sembra che la vita sia il grande gioco delle abitudini, sia buone e cattive che siano.

Il termine abitudine deriva dal latino habitudo, da habitus che indica una nostra qualità o una caratteristica e che deriva a sua volta dal verbo habere, possedere. Abitudine quindi come il possesso di una caratteristica o comportamento stabile, acquisito attraverso la ripetitività o la consuetudine ad essere o agire in un determinato modo. Aristotele definiva l’abitudine

 come una cosa che somiglia alla natura: la natura è ciò che si fa sempre, l’abitudine ciò che si fa spesso Metafisica

Se da un lato è evidente il ruolo fondamentale dell’acquisizione di abitudini all’interno del processo di sviluppo della persona, pensiamo alle conoscenze di tipo pratico-procedurale (saper fare) dall’altro non ci rendiamo conto di quanto l’abitudine spesso diventi una vera e propria strategia di vita. L’abitudine sembra essere la nostra risposta alle sfide che la vita quotidianamente ci pone, il miglior modo per economizzare le nostre energie fisiche e mentali, il mezzo più semplice per reagire a diverse situazioni.

Forse confondiamo troppo spesso l’abitudine con l’avere tutto sotto controllo, emozioni e sentimenti compresi, cerchiamo l’abitudinarietà delle cose perché cerchiamo fondamentalmente la regolarità, la sicurezza, il controllo; vediamo l’abitudine quale luogo sicuro e protetto, attraverso l’abitudine ci sentiamo meno vulnerabili e più forti e con essa teniamo lontano l’ignoto.

Da grandi abitudinari che siamo ci dimentichiamo di apprezzare e riconoscere il valore di tutte le nostre azioni, anche di quelle più semplici, di provare sempre lo stesso entusiasmo delle prime volte; schiavi dell’abitudine ci dimentichiamo di rinnovare ogni giorno l’amore, l’amicizia e l’affetto che ci lega alle persone care della nostre vita e troppo spesso, offuscati dalla routine della nostra vita non riconosciamo più l’importanza della spontaneità, del mettersi in gioco e del rischiare.

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine: chi non rischia la certezza per l’incertezza nel seguire un sogno”Pablo Neruda

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini]