Riflessioni del gesto quotidiano: uno sguardo alla finestra

Affacciati alla finestra, osserviamo il mondo. Volgiamo il nostro sguardo al di là del vetro in cerca di immagini, proiettandovi pensieri, sogni e desideri. Un gesto semplice, usuale, comune, che reca con sé la storia di un’intera cultura.

Lo “sguardo dalla finestra”, intrecciandosi a concetti quali l’immagine, la soggettività, il punto di vista, ha tracciato – e continua a tracciare – la storia della nostra civiltà occidentale come civiltà dell’immagine. Palomar, celebre personaggio calviniano, giunge immediatamente al cuore di questo intreccio, identificando l’Io con il concetto di finestra: «Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale di una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui […] forse l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo» (I. Calvino, Palomar, 1983).

Secondo Palomar, i nostri occhi non sono altro che finestre che intrecciano mondi differenti ed eterogenei, così come il nostro sguardo è luogo in cui la vita acquisisce senso come immagine, permeandosi nelle sue forme visibili e invisibili. A livello iconografico, tali riflessioni sono richiamate dalla celebre xilografia di Albrecht Dürer intitolata Disegnatore della donna coricata, scelta da Calvino come immagine di copertina del libro, dove un pittore-osservatore ritrae un nudo femminile seguendo i canoni della prospettiva lineare. Con la nascita del metodo prospettico nel Rinascimento, infatti, l’immagine della finestra si afferma come forma simbolica del mondo occidentale moderno. La stessa etimologia della parola “prospettiva” ne è testimone: essa deriva dal latino perspicio o prospicio che significa “guardare attraverso”. Il quadro, così come recita la celeberrima formulazione di Leon Battista Alberti, diviene «una finestra aperta sul mondo dalla quale si abbia a veder l’istoria» (L.B. Alberti, De Pictura, 1435).

Tuttavia, la finestra, lo sguardo e l’immagine furono una questione essenzialmente occidentale: una questione occidentale con origini mediorientali.

Nella cultura araba, infatti, la visione della luce senza immagini godeva di assoluto monopolio: essa risultava essere un processo dall’esito sempre aperto e incerto e le immagini erano circoscritte all’ambito interno del mentale. Testimone di tale diversità era la differente funzione assunta dalle finestre in Medio Oriente: le Mashrabiyya erano grate di legno intrecciato utilizzate per schermare la luce dall’esterno verso l’interno. Sciogliendo ogni alleanza tra raggi luminosi e visivi, tali antiche forme di finestre lasciavano penetrare la luce “purificandola” da ogni immagine, invertendo il rapporto dentro-fuori tipico del mondo occidentale moderno. Nel corso del Rinascimento, l’Occidente fece propri gli strumenti arabi – la geometria dei raggi visivi e la misurazione della luce – per elaborare una teoria dell’immagine e della visione del tutto estranea a quella da cui era scaturita.

Alla base delle due culture, pertanto, due «visioni del mondo differenti, che assegnano anche al soggetto un ruolo diverso» (H. Belting, op. cit): da un lato, lo sguardo occidentale, iconico, rivelava il proprio impulso di controllo sul mondo, andando alla ricerca di immagini oltre la soglia della finestra; dall’altro lo sguardo mediorientale era rivolto all’intimità dell’immaginazione, domato attraverso la luce e le sue geometrie.

Nel corso del tempo, il modello occidentale dello sguardo si diffuse ampiamente e globalmente. Ad oggi, noi tutti ci troviamo nell’epoca della produzione, condivisione e archiviazione di immagini, in cui il potere dell’immaginazione sembra non trovare spazio, e i nostri occhi, oltrepassando la soglia delle finestre-schermi, non smettono di desiderare ardentemente il dominio sul mondo come totalità di immagini. Appare chiaro, pertanto, poiché tra le molteplici sfide del contemporaneo vi sia anche quella di riflettere circa la natura di tali sguardi, cercando di metterne in cortocircuito le forme più violente e pervasive.

In questo contesto, conviene chiedersi se non abbia senso provare ad adottare prospettive differenti – di cui quella mediorientale ne è solo un esempio – che possano porre in crisi quell’ingombrante “Io-finestra” tanto caro alla Filosofia quanto sofferto dal signor Palomar. Nel nostro quotidiano, ciò significa provare a esercitare nuovi tipi di sguardi che considerino il mondo non come mera immagine da possedere, ma come luogo da esplorare, inesauribile nelle sue forme e dimensioni. Significa, in altre parole, acquisire nuova consapevolezza di tutti quei gesti tanto più rivoluzionari quanto più usuali e quotidiani, tra i quali il “guardare attraverso la finestra” si colloca sicuramente in prima linea.

 

Benedetta Carraro

 

Benedetta Carraro nasce a Milano nel 1998, frequenta il Liceo Classico A. Manzoni e consegue a pieni voti il titolo di Laurea magistrale in Filosofia del mondo contemporaneo nel luglio 2021, con una tesi dedicata ai concetti di sguardo, immagine e visione. Da un anno svolge attività di ricerca per un progetto basato sulla convergenza tra arti visive, tecnologie avanzate e neuroscienze.

 [Photo credit unsplash.com]la chiave di sophia 2022

Come trovare la totale libertà nella più assoluta solitudine

«Ci troviamo così bene nella libera natura perché essa non ha alcuna opinione su di noi»1 scriveva Friedrich Nietzsche, riferendosi a quel tipo di bene che l’uomo prova nel momento in cui riesce ad allontanarsi dagli altri, cioè coloro che ci giudicano e ci guardano, poiché, nel momento in cui veniamo guardati, noi non riusciamo più a essere noi stessi ma riusciamo a vederci solo attraverso le lenti, la prospettiva e le considerazioni altrui.

Quando gli altri ci guardano, non possiamo sottrarci, ma dobbiamo sottostare e ci sentiamo feriti nel nostro essere. Nel sentirsi oggetto dello sguardo altrui l’uomo prova vergogna, si sente vulnerabile, in quanto l’altro scopre la nudità del nostro essere. La vergogna, il pudore e la timidezza sono i mezzi con i quali gli altri ci danno forma, i mezzi con cui noi riusciamo a uniformarci alla comunità, sacrificando di fatto il nostro vero io e i nostri veri desideri. Bisogna ammettere che nel momento in cui gli altri decidessero di ignorarci noi non esisteremmo più come membri della società, dunque bisogna riuscire ad ottenere una posizione di non vergogna dallo sguardo altrui, comprendendo che il pregiudizio, purtroppo, sarà sempre nell’altro. L’unica via per sfuggire da esso sarebbe cercare rimedio nella solitudine, ma noi sappiamo che non potremmo sopravvivere nel momento in cui sfuggiamo dall’altro: la nostra ricerca allora sarà giungere all’equilibrio tra la socialità e la solitudine.

Comprendendo quanto sia deleterio il sentirsi osservati, giudicati, in modo negativo, possiamo comprendere appieno il significato di quell’inferno di cui parla Sartre, alla fine di Huis clos, in italiano A porte chiuse (1944). La sua frase, significativa, «L’inferno sono gli altri2» non mira a negare il carattere sociale dell’uomo, anzi, secondo Sartre l’uomo può conoscere se stesso solo mediante gli altri, perché essi hanno una specifica rappresentazione di noi. Solo che non potremmo mai sentirci veramente bene con il nostro essere in società, perché, appunto, siamo giudicati: noi dunque desideriamo, ricerchiamo la solitudine in un mondo in cui è necessaria, invece, la collettività. Si desidera la solitudine perché solo quando si è soli si può manifestare davvero il proprio essere.

Potremmo giungere a una differenza sostanziale tra Sartre e Kant. Secondo il sistema kantiano la comunità rappresenta un luogo sereno, dove l’individuo può pienamente realizzarsi. Ma davvero l’individuo può realmente realizzarsi se deve uniformarsi alla collettività? Forse l’uomo non sarà completamente libero assieme all’altro uomo, ma escludendo dalla sua vita l’uomo in sé, l’altro che cosa sarebbe? Il nulla. L’equilibrio risulta fondamentale per abitare assieme all’altro, ma non solo, anche per comprendere il motivo per cui ci troviamo all’interno di una comunità, giungendo a cogliere il giudizio dell’altro, valutandolo e ripudiandolo in caso non si mostrasse veritiero.

L’uomo dunque è condannato, secondo Sartre, alla libertà. La totale libertà disorienta l’individuo, poiché esso è fragile a causa dell’accadere del mondo; per sfuggire al senso di panico, all’angoscia, comincia a costruire credenze: possiamo spiegare da qui la nascita delle religioni o dei sistemi deterministici. L’uomo, in sostanza, è alla ricerca di un punto di riferimento in un universo scarno: proprio questo intende dire Sartre quando afferma che l’uomo si affida volontariamente a certi concetti che mirano a dare un ordine a tale esistenza caotica, che non prevede nulla di ordinario.

A questo punto si potrebbe pensare che per sfuggire all’incertezza del vivere la soluzione sia il suicidio fisico. Ma non è forse l’opzione più semplice? Sartre non la considera nemmeno una opzione concepibile, in quanto il suicidarsi significa perdere la propria libertà, cioè negare la propria esistenza divenendo mera cosa. Morire non ha senso alcuno, perché scomparsi noi, scomparsa la nostra coscienza, scompare il mondo intero: «la morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato3».

 

Marco Catania

Marco Catania, classe 2000. Studia attualmente storia e filosofia presso l’università di Palermo, impegnandosi nel mentre a scrivere su temi filosofici riguardanti l’esistenza, l’etica e la religione.
Interessato soprattutto ad autori francesi come Sartre e Camus, ma anche a tanti autori fondamentali della storia della filosofia, quali Spinoza, Nietzsche e Kant.
Amante del pensiero critico, del dialogo costruttivo e della chiarezza ritiene indispensabile un corretto uso della facoltà di giudizio per potere vivere al meglio all’interno della realtà sociale.

 

NOTE:
1. Cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano, 1878
2. Cfr. J-P. Sartre, A porte chiuse, 1944
3. Cfr. J-P. Sartre, L’essere e il nulla, 1943

[Photo credit Elton Yung su unsplash.com]

“Io sono nulla”: il discorso emozionale del corpo

Negli ultimi mesi sono stata impegnata da tante cose che mi hanno visto coinvolta in primo piano e queste mi hanno portato a trascurarne delle altre, senza rendermene conto. Da poco mi sono accorta che una persona a me cara è dimagrita velocemente, senza un’apparente ragione. Sul momento ho fatto finta di niente, non gli ho dato importanza, ma, dopo aver passato del tempo con lei, mi sono accorta di un particolare dettaglio: la maggior parte del tempo il suo sguardo era rivolto nel vuoto. Allora ho compreso che c’era di più in quel suo silenzio. Nei suoi occhi non ho più visto il de-siderio di partecipare veramente alla vita, di un suo interesse in prima persona ad agire e neanche (cambiare con: o) l’impulso di esprimere il suo disagio interiore.

«La tristezza, che è lo stato d’animo (la Stimmung) a cui si collega ogni depressione (neurotica o psicotica), trascina con sé livelli diversi di sofferenza e angoscia che, nella misura in cui dilagano e si accentuano, si accompagnano a una crescente compromissione del desiderio e della possibilità di una comunicazione con gli altri-da-sé e con il mond1.

In questo estratto Eugenio Borgna2 spiega come si annulli anche la comunicazione con il mondo esterno, che viene pertanto frammentata e dunque compromessa. Il rapporto dell’Io con il mondo è in crisi: la realtà è distorta, ci sono delle ombre davanti agli occhi, visibili solo dall’interno, che appiattiscono il reale, vissuto come ripetizione e monotonia. È facile da qui cadere in una sorta di oblio e “scomparire” dal mondo, in questo caso dimagrendo drasticamente. Borgna parla di un “silenzio della parola”, capace di comunicare attraverso il corpo un disperato aiuto con il volto, con lo sguardo, con il mezzo sorriso, che chiede di essere ascoltato. Se non il linguaggio delle parole, è allora quello del corpo ad esprimersi e continua a mantenere un incessante dialogo con il mondo. Il corpo diventa quindi portatore di significati a cui è necessario porre attenzione. Entra così in gioco il discorso ermeneutico nella quotidianità: l’essere in continuo contatto con l’altro e l’interpretazione derivata dal confronto con esso. Ritengo che il problema si ponga proprio qui infatti, perché il singolo, in questo suo cieco vagare in silenzio, crede che non ci siano più sguardi che lo facciano essere nel mondo e tra gli altri. Inconsciamente diventa prigioniero di sé stesso, avendo creato un muro di silenzio che non gli permette più di relazionarsi con tutto ciò che lo circonda. Ma quest’anima (dal greco psyché – ψυχή: soffio, respiro) che vivifica nel pensiero aristotelico questo corpo che sta scomparendo e che è imprigionata nello stesso per Platone, si vuole esprimere.

«Il linguaggio dell’anima tende a nascondersi, a sottrarsi agli sguardi avidi e agli sguardi rapaci dell’indifferenza e dell’apatia, dell’ebbrezza e della gelidità del cuore, della geometria delle lacerazioni e della crudeltà»3.

Ecco quindi i segnali che bisogna cogliere, anche se intermittenti. Chiedono attenzione e che gli sia data importanza. Ma per accogliere questa richiesta di aiuto bisogna avere occhi per vedere, non solo osservare, e, forse, un cuore caldo per comprendere oltre l’evidenza. Empatia, sensibilità e presenza possono aiutare con il tempo a riportare nel mondo un’anima smarrita.

In questo promemoria filosofico, mi appello ora a te che leggi: fai più attenzione alle persone che hai accanto, cerca di averne cura. Il tempo passa, non torna più indietro, non puoi più recuperarlo, soprattutto quello che non hai passato con i tuoi cari. Ritagliatene dei frammenti da dedicare alle persone alle quali vuoi bene e non rinviare a domani anche questo impegno. Se puoi migliorare la vita di una persona solo standole più vicino, perché non farlo? È un gesto che fa bene ad entrambi. Un gesto d’affetto di reciproca risonanza. Mi ricordo spesso a riguardo questa piccola verità: ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.
Esserci può fare la differenza.

Al prossimo promemoria filosofico.

 

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli Editore, Milano 2012, pp. 103-104.

2. Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano.
3. E. Borgna, op.cit., p. 94.

[Photo credit lamenteesmaravillosa.com]

copabb2019_set

La verità della bellezza

Spesso, quando parliamo di bellezza, facciamo un errore: ci fermiamo alla sua dimensione statica. Nel giudicare una bella donna, ad esempio, consideriamo aspetti precisi come gli occhi, le labbra, i seni; ma questi elementi, visti nella loro staticità, sono sufficienti a dare un giudizio completo?

Questa domanda ha senso anche riguardo alle rappresentazioni mediatiche della bellezza: pensiamo alle pose dei modelli, che mettono in risalto alcune parti del corpo (spesso quelle erogene) ma peccano di artificiosità, tanto che il docente di semiotica Alessandro Zinna le ha definite falso dinamismo1.

Se quelle pose sono artificiose, se quel dinamismo è falso, dove possiamo trovare la verità della bellezza? Nel suo linguaggio, consiglia il filosofo Franco Bolelli2. La bellezza, infatti, non è tale secondo elementi statici, ma in relazione ai contesti: gli occhi non sono banali occhi, ma sguardi che indagano gli spazi; le labbra non sono semplici labbra, ma parti dei discorsi che le attraversano; i seni sono curve tra le curve del mondo, movimenti della realtà.

Allo stesso tempo la bellezza non si cura di coloro che la guardano: come ha scritto Roland Barthes, essa «è una sagoma intenta al lavoro»3. Quale lavoro? Quello della vita, della sua manifestazione in situazioni quotidiane, libere dalla staticità. Sembra di sentire le parole di Leonard Shelby – protagonista del film Memento di Christopher Nolan (2000) – quando ricorda la moglie, brutalmente uccisa, recuperando «frammenti che si fanno sentire anche se non vorresti»: il suo lavarsi le mani, il suo maneggiare una forchetta, il suo lasciarsi sorprendere da un raggio di sole che entra dalla finestra.05

Momenti cui solitamente non prestiamo attenzione, ma che, nel loro fondere corpi e contesti, si rivelano gravidi di bellezza. Eventi, come li definisce il fisico Carlo Rovelli; perché se il cinema, la filosofia e la semiotica non ci bastassero, entrerebbe in gioco la scienza affermando che «la migliore grammatica per pensare il mondo è quella del cambiamento, non quella della permanenza»4. Allo stesso modo, la migliore grammatica per parlare della bellezza non è quella degli occhi da cerbiatto, delle labbra carnose e dei seni prosperosi che aspettano di essere notati, ma quella di uno sguardo che, mosso dalla curiosità, incontra una fonte di luce e, come per magia, comincia a brillare.

 

Stefano Cazzaro

 

NOTE
1. A. Zinna, Unico. Eliana Lorena. A cura di Marta Carboni, 2009
2. F. Bolelli, Si fa così. 171 suggestioni su crescita ed evoluzione, Add editore, 2013
3. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2014
4. C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017

[Photo credit: Amy Luo via Unsplash.com]

 

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6

Falsità cosciente e sincerità incosciente

La filosofia e l’indagine filosofica ad essa collegata si prefiggono di giungere, mediante dialogo, ragionamento e logica, ad aletheia, ovverosia verità. Si può pensare a ciò come un traguardo oltre le nostre umane capacità, magari neanche possibile poiché una verità epistemica ultima capace di racchiuderne ogni altra si potrebbe non dare a noi.

Per verità si richiama inevitabilmente al concetto di indubitabilità, ad una dimensione ontologicamente completa e quindi al massimo grado di perfezione, non mancando di nessun attributo. Se fosse manchevole di anche solo una particolarità verrebbe a mancare la pienezza del tutto, si toglierebbe il tutto perché non più fedele al suo nome e sarebbe un tutto senza davvero tutto, privo di qualcosa. Quel qualcosa è un dato non da poco che fa acquisire indeterminatezza e imprecisione all’analisi filosofica volta ad una conoscenza epistemica, dunque rigorosa e incontrovertibile. In tale logica probabilistica ci si può avvicinare con un variabile grado d’approssimazione ad una conclusione, ad una tesi convincente ma falsificabile in futuro. Popper diceva che una teoria scientifica per essere tale deve correre il rischio di essere falsificata. Anche la filosofia, a mio modesto parere, compie questo processo in una successione di tesi approssimative che indagano l’animo umano, inseguendo un senso rappresentato come una continua tendenza alla verità senza mai raggiungerla. Più accurata sarà l’argomentazione più la tesi sarà solida, o meglio tenderà alla solidità e convincerà nel tempo. La convinzione, la persuasione sono elementi che contraddistinguono il dialogo umano, lo scambio di opinioni e tesi tra interlocutori che vogliono giungere ad un risultato dialettico. Cercare la verità mediante il confronto, dire la verità potrebbe essere il mezzo eppure un dialogo non sempre è composto dalla veridicità delle proposizioni degli interlocutori. Il presupposto, spesso, è già permeato da falsità, da intenti diversi da quelli che potrebbero essere quelli della ricerca di cui stiamo parlando.

I sofisti tanto condannati da Socrate sono ancora tra noi e nel loro argomentare per ottenere ragione ad ogni costo sacrificano una base veritativa fondamentale per la ricerca stessa. Viviamo in una società in cui l’inganno è una base piacevole e favorevole per il singolo che vuole emergere, avere la meglio su altre soggettività – magari annientandole – per potersi garantire il proprio benessere. L’inganno è sui volti illusori che abitano il mondo, un fiume di maschere pirandelliane che inonda le strade, le scuole, i ristoranti, le banche, gli uffici. La menzogna parte dal singolo a beneficio del singolo ma contemporaneamente preclude il benessere dei molti. Il paradosso di siffatta società consiste nell’essere composta da individui che pensano a loro stessi e la decostruiscono togliendosi, togliendo la loro funzionalità sociale, annichilendo la forma complessiva che il castello di sabbia dovrebbe avere nel suo essere realizzato dagli svariati granellini.

Se ne conviene che forse Pirandello aveva ragione quando scriveva «imparerai a tue spese che nella vita incontrerai tante maschere e pochi volti»1. Ebbene è in un volto che si può insediare la verità, o almeno il presupposto sincero per favorire il dialogo. Far cadere la maschera svela il vero volto di un individuo, ne mostra gli occhi, lo sguardo che attua già una comunicazione, fa trasparire emozioni e pensieri. La falsità cosciente della maschera può essere combattuta e abolita anche solo da uno scambio di sguardi, un’azione di riconoscimento tra soggettività che non si ignorano, bensì si scoprono, si cercano senza cedere a piegarsi all’altro. L’occhio umano è sottovalutato, è uno specchio che riflette l’interiorità dell’osservatore e svela, anzi disvela l’aletheia personale, quasi inconsciamente. Proprio l’inconscio, come ampiamente studiato e teorizzato dalla psicoanalisi da Freud in poi, pare proporsi come unica via veritativa, come espressione ed esplosione irrazionale di ciò che durante il giorno è velato da un super-io capace di diffondere e incentivare la menzogna.

In tal senso il sogno, la dimensione onirica si fa maestra ed ente esplicito dell’interiorità celata, di quello sguardo che ogni tanto desidera porsi una maschera per la vergogna, per l’imbarazzo e il conformismo sociale o adeguamento alla massa. Solo in quel momento, in quella vita notturna troviamo conforto e libera espressione, riscoprendo l’inconsistenza della libertà che tanto professiamo d’avere nella vita diurna. Anche in questo caso siamo i coscienti fautori della menzogna che in tal dimensione diviene una bugia riguardo la libertà, un’autonegazione posta da noi stessi e con altrettanta ed ingenua maestria puntiamo l’indice accusatorio verso altro da noi, verso un ente che dovrà essere colpevole di un nostro e solo nostro atto…

…quello di avere mentito.

 

Alvise Gasparini

NOTE:
1. L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Einaudi 2005

 

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Nessuno si salva in compagnia

Alors, c’est ça l’enfer. Je n’aurais jamais cru. Vous vous rappelez: le soufre, le bûcher, le gril … ah.
Quelle plaisanterie. Pas besoin de gril: l’enfer, c’est les Autres.
(J.P. Sartre, Huis Clos, scène V) .

 

Ho pensato spesso all’inferno. A dire il vero, c’ho scritto sopra una tesi di laurea.
Ero arrivato a dire che l’inferno non esiste.

Ti svegli ogni mattina e capisci che hai ragione.
La tua anima (indubitabilmente peccatrice) non finirà perseguitata dai demòni.

Mi sveglio ogni mattina e capisco che ho torto.
L’inferno forse non esiste, ma esiste questo mondo.

E questo mondo è peggiore dei gironi danteschi o miltoniani, lo sai.

Leggo il giornale. Povertà, omicidi, attentati islamisti, carestie, guerre dimenticate, morte.

È questo l’inferno? È il mondo che ti attornia?

E se fosse la stessa mia vita?
La solitudine, l’imponderabile pesantezza dell’esistere, l’aridità del sentire, l’invisibile desiderio di avere?

Forse … ma se fosse tutto più semplice?
Se l’inferno fosse qualcosa di più banale, una persecuzione eterna e corporea …

Il fatto che mi sono alzato e ho gettato via le coperte, il caldo della camera, il rumore del mio respiro?

Perché no?
Guardati allo specchio: l’immagine che ti rimanda è sconfortante. Scendi, è finito il caffè. Macchina, viaggio, lavoro, traffico, burocrazia.
È questo l’inferno?

Attorno a me l’alito dell’esistenza: momenti incartapecoriti, consunti, mai vissuti, intonsi.
Non ho trovato la verità, né la risposta alla mia domanda fondamentale: “Chi sono io?”.
E sono qui, a cercare ancora: è questo l’inferno? Un costante bisogno che mi dilania …

Ricordati quel libro: Porta Chiusa; è di Sartre. L’hai letto e riletto, lo conosci a memoria.
Cos’è l’inferno? Solo lui lo sa perfettamente. L’inferno sono gli altri.

I diavoli sono costoro.
Li vedo. Mi attorniano, mi toccano, respirano la mia aria, sfiorano la mia carne.
Ma ben peggio, guardano. Ecco il loro forcone: lo sguardo.

Bravo! Pretendono di dirti chi sei e tu non hai altro modo di capirlo, se non facendoti guardare.

Sono i miei Minosse: giudicano, spogliano delle certezze.

Il mondo ti perseguita, gli altri sono male.

Sto in coda alla posta, ho una macchia sulla camicia: se nessuno guardasse, non ne sarei cosciente.
Arriva quella vecchia, mi fissa, vede, mi giudica.

Capito cosa intendevo? Eccoti, nudo nella vergogna, punito per una disattenzione originale!

Sono solo una cosa!

Ma certo! Credi d’apparir agli altri ciò che sei? Di mostrarti come fascio di sentimenti, pretese, ideali, sogni e speranze? Questi son solo fiori d’un ossario maleodorante di putredine!
Tu, amico, per altri, sei solo una carcassa che cammina.

È dunque questo l’inferno – esistere-a-causa-degli-altri. Reificarmi!
Esisto perché sono giudicato, consapevole che persino ogni più piccolo sforzo per apparire diverso, sarebbe vanità, se altri non approvassero …

Ah!, se solo decidessero di ignorarti o dimenticarti, allora saresti in paradiso!

Mi sveglio ogni mattina, e so che mi giudicheranno!

E che non ti resta nulla, se non la possibilità di adattarti oppure resistere al verdetto!

I mei diavoli … posso amarli oppure odiarli; accettarli oppure ricusarli.

Non dimenticartene: in fondo, anche tu puoi guardare!

Sì: anche io sono altro per altri!

Giusto! Anche tu hai occhi per pungere oppure accarezzare, benvolere oppure maledire!

E ci sarà sempre qualcuno che vorrà adoperarsi per migliorare l’opinione che io ho di lui.

Qualcuno sì, ci sarà, che dipenderà dal tuo sguardo, in questo mondo.

Sono vittima, ma anche giudice, giuria, giustiziere e ghigliottina.

E il tuo sguardo: deciderai tu se sarà di condanna o assoluzione … sei libero, perché sei vivo.
E soprattutto perché sei solo – libertà e solitudine son veli che s’intrecciano in un’unica cortina.

E quando qualcuno mi guarderà con amore … che farò?

Accade così di rado che faresti bene a non chiedertelo.
Ma − se proprio vuoi saperlo − è questo il senso della pesantezza dell’esistere. Restituire quanto s’è ricevuto.
Giudizio per giudizio, odio per odio, bene per bene.

Ed è anche il senso dell’inferno: la libertà è il mio inferno.

Ma è anche tribunale che tu, quotidianamente, presiedi!

E quelli che diranno che la vita è bella? Che si può essere felici? Che l’esistenza può esser leggera?

Allontanali, poichè mentono. Sono in malafede.
Nulla è leggero: tutto è vanità di pietra.

Ah, come li odio quelli che ti dicono che la vita è bella, che tutto andrà bene! Sono più irritanti di una suite dodecafonica e più stomachevoli d’una curva glicemica.
Ma, infine, mi sveglio ogni mattina, e ringrazio Dio di vivere nell’inferno della libertà.

Sì, amico mio. Tanto t’ha amato Dio, da mandarti all’inferno.

 

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Lo Sguardo

<p>Lo Sguardo</p>

Taluni dicono che le persone cambiano, altri che non cambiano mai, si dice anche che non si può conoscere a fondo una persona… e sono tutte verità grossolane. La verità, quella stretta stretta1, è che tutti gli aspetti e le caratteristiche di una persona, ritornano. Una persona che abbiamo conosciuto diversi anni fa, cambia e non cambia, rimane celata seppur in bella mostra. Ciò che abbiamo conosciuto non è altro che una porzione del suo tempo irrimediabilmente passata. Questo suo passato, nel suo agire pratico e mentale, non è altro che una tendenza al futuro, una fuga dal presente verso il futuro. In questa fuga, una persona è tutto ciò che è stata e tutto ciò che pensa di essere in futuro: entro il corpo di questa fantomatica persona ci sono tutti i propositi e gli auspici del suo essere al passato. Nel mezzo ci stanno tutti i sotterfugi per fuggire dagli Altri, dal loro sguardo che ci rende ciò che siamo stati a noi stessi e che pregiudica ciò che saremo; nel mezzo ci sta una nudità scomoda dalla quale fuggire. Le persone sono sostanzialmente nostalgia di ciò che sono stati e di ciò che ancora non sono.

Lo sguardo nasconde gli occhi, sembra mettersi davanti a essi2. È il testimonio della presenza della Libertà degli Altri; la prova tangibile che la Libertà è de facto un concetto che limita il soggetto mettendo a nudo la sua indecifrabilità. Ogni uomo libero ha un solo limite e lo si ha nel momento in cui il suo sguardo incrocia quello dell’Altro. In questo scambio di sguardi si è utopia per sé stessi e per l’Altro. Lo sguardo plasma le nostre pratiche e condiziona il nostro pensare; la libertà condensata in quello sguardo limita e ingabbia il mio cuore in una maschera di continenza3. Vengono a mancare le emozioni che danno misura, frenano l’analisi, legittimano l’arbitrio e creano il dinamismo. Per compiacere lo Sguardo sacrifichiamo tutte le abilità del mestiere4.

Lo sguardo è un legame senza distanza5; un atto di trascendenza, ed al contempo è l’atto che smaschera questa trascendenza: lo sguardo degli altri ci rende ciò che siamo ai nostri occhi. Essere visti ci fa esistere agli occhi degli altri ma, cosa più importante, ci fa essere ai nostri occhi; ci permette di percepirci, ci fa sentire esistere. Ci limita. Per questo agli uomini che vivono ed impersonano i contrasti del loro tempo e del loro essere si deve più di quanto si immagini: essi, più d’altri, sono l’allegoria più riuscita ed universale della vita umana6.

Tutti i nostri cattivi pensieri vogliono diventare santi e giusti7 agli occhi dell’Altro e così si falsano. Il pensiero si libera dalla custodia che le cinge la bocca, spalanca la porta della continenza e si riversa8 mondo esterno, si trasvaluta, si maschera davanti allo sguardo. Tutto ciò che appare non è, mentre tutto ciò che è non appare. Quindi Io come concetto irrisolvibile ma al contempo indissolubile; formato da cumuli di segni, gesti ed espressioni in tecnica mista in continua e perenne riformulazione, o meglio come una sorta di ‘Impossibile a divenire’. Innervato in ogni pennellata, come nel sangue che gocciola, nella forma, nel sole, luce, colore. Tuttavia in accordo, i modelli, i colori ed il mio Io9. Sentiamo il pensiero nascere in bocca10 e la potenza dalle mani e dall’intelletto e gli occhi sono al contempo limite ed infinito. Io come estensione e contrasto di natura e caos, sempre al di là della mia esistenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto; sono libero11.

Salvatore Musumarra

Riferimenti e citazioni:
1. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Canto della Notte.
2. Jean-Paul Sartre, Essere e Nulla, Lo Sguardo.
3. S. Agostino da Ippona, La Continenza, La bocca interiore del cuore.
4. Umberto Boccioni.
5. Jean-Paul Sartre, Essere e Nulla, Lo Sguardo.
6. Johann Wolfgang von Goethe, La teoria dei colori.
7. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Dell’Uomo superiore
8. Libro Dei Salmi, Salmo 140, 3.
9. Paul Cézanne.
10. Tristan Tzara, Manifesto del Dadaismo.
11. Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo.

Attimi di fotografia di strada: intervista a Umberto Verdoliva

Spesso si dice che uno sguardo vale più di mille parole. Nonostante io gareggi nel team delle parole, finisco col convincermi della verità di questa massima mentre osservo in anteprima le fotografie in allestimento alla mostra che presto inaugurerà presso Ca’ dei Carraresi a Treviso, 100 attimi. Fotografia di strada. Certo, bisogna che questo sguardo sia sapiente, riflessivo, incessantemente indagatore – come quello di un bravo fotografo. Incontro allora Umberto Verdoliva, fotografo e curatore della mostra (visitabile dal 2 al 13 settembre 2016 nel capoluogo veneto), e cerco di scoprire da lui che cosa si celi dietro quello sguardo così prodigioso, ma anche qualche prospettiva su quello che gli sta davanti: l’umana realtà quotidiana.

100 attimi poster - La chiave di Sophia

1) La fotografia è nata nella prima metà dell’Ottocento quando si ricercava una più rapida e più fedele riproduzione della realtà, apparentemente possibile soltanto attraverso la scienza e la tecnica; solo in un secondo momento è diventata un’arte. Con la tecnologia di cui ciascuno dispone oggi, chiunque può scattare una foto, mentre naturalmente cala il numero di persone che può progettare e realizzare un’architettura oppure una composizione musicale. Che cosa dunque contraddistingue la fotografia “da album delle vacanze” da un oggetto d’arte?

La fotografia oggi è alla portata di tutti e ciò comporta una continua produzione d’immagini al punto tale che potremmo parlare di un vero e proprio spreco di fotografie. Il processo in atto è talmente ampio e complesso che è difficile per me immaginarne il futuro. La massificazione della fotografia ha trasformato quest’ultima in continui appunti visivi da utilizzare nei social, dei veri e propri “post it” che vengono in breve tempo accantonati e dimenticati negli hard disk e nelle diverse memorie di smartphone e pc; invece, se la fotografia è supportata da un’idea, da una visione personale, da un progetto, continua ad essere quella che era un tempo cioè uno strumento di documentazione, racconto, mezzo di espressione, testimonianza, memoria storica, occasione di aggregazione e socializzazione. In questo senso la fotocamera è uno strumento che potrebbe dar vita a dei veri e propri “oggetti d’arte”; di conseguenza ha molta importanza il pensiero di chi si approccia alla fotografia e il senso che vuole attribuire ad essa.

2) L’immagine del fotografo è spesso quella di una persona sola e attenta dietro al suo obiettivo mentre è a caccia… di cosa è a caccia? Perché si diventa fotografi e perché lei è diventato fotografo?

Ogni fotografo ha un suo percorso personale. Ho scoperto la fotografia per caso, in età matura e con una professione diversa già avviata e consolidata. E’ iniziato un percorso che mi ha portato a scoprire non solo la bellezza del quotidiano e a collezionare momenti che assumono un significato particolare, ma a partecipare alle vicende umane restandone inevitabilmente contaminato. E’ questa la bellezza della fotografia di strada: l’incontro con l’umanità; un incontro che non si riduce a un catturare un istante ma è un entrare in contatto con la dimensione esistenziale più profonda, quella nascosta nei piccoli gesti e/o nelle espressioni di un volto o di una situazione particolare.
Non mi sento un fotografo ma un uomo che utilizza la fotografia per mostrare agli altri oltre alla quotidianità anche se stesso; è un modo per comunicare la mia visione delle cose, del mondo e la mia sensibilità.

3) A parte in alcuni casi (quasi ovvi) o per specifiche “serie”,  le sue foto sono in bianco e nero: che cosa offre in più la mancanza dei colori?

La maggior parte delle mie foto sono in BN, ma non perché ci sia una chiusura verso il colore, anzi, ho serie nate e pensate a colori ed amo moltissimi fotografi che lo sanno utilizzare al meglio.
L’uso del BN deriva essenzialmente dal fatto che sono portato più a “celebrare” la vita e ad enfatizzare il lato emotivo della memoria e il BN mi sembra più adatto rispetto a quello della cruda realtà che attribuisco maggiormente al colore. Il BN, come del resto anche il colore, fanno parte entrambi della mia visione della realtà e li scelgo ogni qualvolta li reputo più adatti a rappresentarla; fotografare in BN o a colori non ha molta importanza, dipende cosa meglio si adatta a ciò che voglio mostrare.

Intervista Verdoliva colori - La chiave di Sophia

 

4) Il suo lavoro come fotografo si ascrive a quel genere denominato “street photography”, mentre quotidianamente veste i panni dell’architetto-urbanista. Quanto i suoi studi e il suo lavoro hanno influito sul suo sguardo da fotografo? E come può descrivere, a me neofita, la street photography?

Molti attribuiscono la pulizia compositiva e le geometrie spesso presenti nelle mie fotografie al fatto che abbia studiato materie come disegno tecnico o progettazione architettonica. Probabilmente ha influito, ma avere cura della composizione fotografica è stato assolutamente naturale. Compongo l’inquadratura velocemente e quasi sempre in maniera pulita e lineare.
Descrivere adeguatamente la street photography è molto difficile, ogni definizione ha i suoi limiti. I confini sono talmente labili da confondere spesso anche chi la pratica da anni. Una definizione di Luciano Marino descrive bene che cosa rappresenta  per me: «La street photography è la fotografia che fa dell’inquietudine il motore per la ricerca dell’umano e delle sue rappresentazioni. E’ quindi un intenso atto di scoperta, di avvicinamento, di contaminazione. Diventa il mezzo per partecipare alla vicenda umana, cogliendone la raffigurazione quotidiana, la sua messa in scena».
La parola “street photography” è solo un termine che identifica una certa attività, come esiste il fotografo di moda o il fotografo di matrimoni o il fotografo paesaggista e così via, essa identifica l’attività di un fotografo che sceglie di raccontare il quotidiano e le infinite interazioni tra genti in spazi di condivisione comune seguendo determinati approcci essenzialmente personali, pertanto molto variabili. Le diatribe infinite e le tante polemiche orientate a una ricerca di regole o definizioni le trovo inutili e destabilizzano la considerazione di chi ha scelto questa attività con consapevolezza.

5) Quando penso alla strada ed alla sua vitalità mi appare sempre alla mente una delle prime scene de Il favoloso mondo di Amelie, quando la protagonista aiuta il vecchio signore cieco ad attraversare la strada e gli racconta ciò che vede, gli descrive gli odori che sente, raffigura ciò che succede. La strada è un microcosmo di attività e di sensazioni di cui facciamo esperienza più o meno tutti i giorni, ma ad una tale velocità e con tanti pensieri nella testa che ci impediscono di vedere veramente qualcosa. Si può dire che la street photography aiuta noi, nuovi ciechi distratti, a notare tutto quello che ci perdiamo?

Nella domanda credo ci sia implicitamente anche la risposta. Infatti, è la dimostrazione di quante possibili descrizioni/definizioni può avere la street photography. Attraverso l’occhio di chi fotografa si possono vedere cose che non vedi o a cui non fai caso; camminando per le strade puoi sentire, spesso distrattamente, senza esserne consapevole, gli odori e le atmosfere di una città, ma la fotografia, se praticata consapevolmente, ti porta all’incontro con l’altro. Un incontro a volte sfuggevole, altre volte vissuto e condiviso, ma che quasi sempre lascia un segno: sia nell’osservatore, che può restare colpito, affascinato, sconcertato e sorpreso da come mostri il quotidiano e dalla tua idea, sia in chi fotografa. Più l’osservatore ne resta coinvolto e più hai raggiunto il tuo scopo e tutto questo diventa linfa continua per il tuo cercare.

6) Parliamo ancora un po’ di questo specialissimo set. Lei vive a Treviso, che oltretutto è molto vicina ad una città completamente sui generis come Venezia, ma ha avuto modo di visitare e vivere anche altre città italiane, nonché all’estero. Come cambia la vita della strada e la visione che si può avere di essa di Paese in Paese? Che cosa si cerca nelle strade di New York che è diverso (o magari che è uguale) rispetto a ciò che si ricerca a Treviso o a Praga? C’è poi un’altra città, che esiste e che non esiste, che lei definisce “Mental City”: cos’è e che cosa ha di così peculiare?

Mental city è un progetto fotografico che rappresenta una mia visione di Treviso. Ci vivevo da poco e la prima impressione è stata quella di una città elegante, discreta, che ti permette di isolarti e di perderti tra i portici e per le sue strade silenziose. Era una città che non conoscevo ancora e quella è una sintesi mentale dell’idea che avevo di essa e la realtà conosciuta nel tempo; ne sono rimasto molto colpito ed è stato naturale per me rappresentarla fotograficamente così.

Intervista Verdoliva Città mentale - La chiave di Sophia

Da “Mental city”

Un buon fotografo di strada è un attento osservatore e le sue ricerche e riflessioni spesso dipendono anche dal luogo in cui vive, pertanto quello che cerchi e trovi può variare da città a città e condiziona inevitabilmente la fotografia. Una foto scattata a New York è molto diversa da una foto scattata a Firenze, e non solo per il differente impianto urbanistico, ma soprattutto perché entrambe esprimono una propria essenza totalmente diversa e caratterizzante. Una delle sfide di chi fotografa è riuscire a cogliere questa essenza e saper raccontare attraverso le immagini uno dei tanti volti di una città.
Così descrivere una città come Napoli, partendo dalla stessa idea che mi ha spinto a fotografare, ad esempio Treviso, porta ad un risultato diverso, perché l’anima della città è diversa; ma allo stesso tempo fotografare la stessa città da un’altra prospettiva e con un’idea differente, la stessa risulta originale e nuova. L’idea dell’autore e quello che vuole mostrare è sempre determinante. La fotografia di strada è versatile e se devo parlare di una regola importante, dico che, in spazi pubblici e d’interazione tra le persone, la spontaneità del momento e la non costruzione della scena sono degli elementi fondamentali per cogliere aspetti peculiari di un vivere quotidiano; anche lì però possono esserci delle deroghe, per me è importante il cammino che nel tempo fa l’autore con la sua fotografia al di là di regole e consuetudini.

7) Ogni giorno e ad ogni ora, decine, centinaia, migliaia di persone brulicano nelle strade, di tutti i tipi i colori e gli scopi; le sue fotografie ne hanno colto aspetti intensi, casuali, divertenti – basti pensare alla sua serie Sex and the City o Prisoner of the Privacy. Pensa di aver imparato qualcosa di più sul genere umano guardandolo attraverso il suo obiettivo?

Sicuramente sì. La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro: ho imparato a capire e prevedere le reazioni, a essere discreto e allo stesso tempo furtivo per cogliere espressioni oggettivamente difficili da prendere in posa; cerco di mostrare le persone come se fotografassi la mia famiglia, con amore e rispetto, pertanto non ho timore di loro. Inoltre, con la fotografia mi diverto tantissimo e il mio senso ironico emerge spesso. Chi guarda le mie immagini percepisce immediatamente la grande passione che mi anima e quanto mi diverto per strada: la passione è contagiosa e la trasferisco con piacere.

Intervista Verdoliva sexandthecity - La chiave di Sophia

Da “Sex and the city”

Intervista Verdoliva Privacy - La chiave di Sophia

Da “Prisoner of the privacy”

8) Non posso fare a meno di cogliere alcuni aspetti di irrealtà nelle sue foto: in alcune di esse infatti, attraverso sovraesposizioni, riflessi fortuiti e fortunate casualità, riesce in qualche modo a cristallizzare una realtà parallela, spesso ironica oppure onirica. Quale significato ha dunque per lei il concetto di “realtà”?

Quando per anni sei in strada a fotografare l’umanità, l’ambiente e le relazioni, sviluppi delle visioni sempre più complesse, vai oltre il semplice sguardo su ciò che c’è intorno a te. Approfondisci, entri nella realtà a tal punto che puoi riuscire anche a stravolgerla. La fotografia dà questa possibilità e personalmente questo mi attira particolarmente; la complessità degli sguardi, la reinterpretazione della realtà attraverso punti di vista o prospettive inusuali, far soffermare l’osservatore rendendolo instabile nelle sue certezze, mostrare cose non intuibili a prima vista ma che sono davanti ai nostri occhi è il mio principale obiettivo. La realtà la puoi immortalare e la puoi ricreare, non è per me una dimensione stabile e univoca.

9) Il 2 settembre presso Ca’ dei Carraresi a Treviso verrà inaugurata la mostra 100 attimi. Fotografia di strada, di cui lei è il curatore e che resterà allestita fino al 13 settembre. Essa raccoglie cento fotografie, da qui al titolo il passo pare breve. Che cosa rende questi attimi così speciali? Perché questa mostra?

Se sono attimi effettivamente speciali lo lascerei dire ai visitatori, la mia speranza è attirare interesse, incuriosire e avvicinare il pubblico al tipo di fotografia, dare una risposta esclusivamente con le immagini a chi cerca di capire cosa è la street photography. Sono cento istantanee che rappresentano, per me, il buon livello raggiunto oggi dalla fotografia di strada italiana. È un confronto e una presa di coscienza anche rispetto alla street photography internazionale che fino ad oggi ha dettato i tempi, le mode e le tendenze. Ho scelto le fotografie attingendo dai lavori di autori che fanno parte di collettivi fotografici tra i più stimolanti in Italia, focalizzando l’attenzione verso questa forma di aggregazione inusuale per il genere, anche se non nuovo nella storia della fotografia: dal gruppo Mignon, collettivo storico padovano, a Spontanea, InQuadra e EyeGoBananas, collettivi giovani e con autori interessanti che si mettono in gioco continuamente per migliorarsi, formatisi in questi ultimi anni sull’interesse di massa verso il genere. Insieme a loro esporranno sei autori veneti di cui apprezzo il talento e la passione per questo tipo di fotografia.
Una mostra che ha il compito di presentare, a chi non conosce ancora la street photography, quanti possibili approcci e visioni possono esserci nel praticarla, quanto sia difficile e non banale cogliere attimi significativi, di quanto lavoro in termini di tempo e di confronto ci sia alle spalle ma soprattutto del legame sempre presente con la Fotografia e i grandi maestri di un tempo. Il mio intento è che essa riveli non solo qualità – molte delle foto presentate sono state selezionate e riconosciute valide in numerose manifestazioni internazionali importanti – ma, lontano da termini e definizioni, i tanti possibili volti della fotografia di strada. Un piccolo tributo a quanti la praticano con passione e una occasione per stabilire un punto d’incontro fisico e non virtuale tra noi.
Vorrei inoltre lasciare un consiglio a chi vuole avvicinarsi alla street photography o la pratica da poco, di farlo con grande umiltà evitando quei processi autoreferenziali che mistificano qualsiasi riconoscimento che credo debba arrivare da più parti nel tempo e in maniera assolutamente naturale. Viceversa, non si aiuta la fotografia di strada ad essere presa seriamente in considerazione.

10) Per noi la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno. Che cos’è invece per lei la filosofia?

Se la filosofia descrive il mondo in cui viviamo ogni giorno, allora ci sono tanti punti in comune con la fotografia, che attraverso gli occhi di qualcuno continuamente indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana. La realtà e la verità sono due parole chiave della filosofia, così come anche della fotografia, poiché entrambe le ricercano incessantemente.

 

Osservazione della realtà e ricerca della verità (o di una verità) sono dunque due punti di contatto tra fotografia e filosofia, entrambe sono degli strumenti che ci aiutano a trovare delle risposte – la prima tramite l’estetica e l’immagine, la seconda attraverso la sfera razionale e la parola. Entrambe indagano l’uomo e ne fanno anche la storia. Sono personalmente molto affascinata da queste fotografie, forse proprio perché me ne vado per il mondo il più delle volte distratta dalla mia interiorità e dalle mie domande, senza accorgermi dei dettagli visivi in cui si trovano alcune risposte. Per esempio, che la vita va presa anche con una buona dose d’ironia, o semplicemente con più leggerezza. Penso ai versi immortali di Shakespeare, “Il mondo è un palcoscenico, / e tutti gli uomini e le donne sono soltanto attori”; in queste foto però non ci sono quasi mai attori. E’ un po’ come il Gengè Moscarda di Pirandello che vuole vedersi vivere, perché appena si vede riflesso non riconosce più se stesso, si scopre inevitabilmente a recitare. In un certo senso in queste fotografie vediamo noi stessi, come siamo quando pensiamo che nessuno ci stia guardando o giudicando – forse allora solo la fotografia, l’occhio di qualcun altro, è capace di mostrarci come siamo. Nonché di mostrare nero (o colori) su bianco le nostre invariabili incomprensibilità e le nostre innate contraddizioni, il nostro voler stare insieme pur richiudendoci a volte in noi stessi, dentro e fuori, definiti o evanescenti. Delle realtà multiformi che si cristallizzano nel momento dello scatto, e che così diventano memoria di noi per i posteri, ma anche per noi stessi. «La cosa più importante è stata quella di vedere me stesso nelle persone che incontro», ha detto Umberto; ciò che trovo incredibilmente sorprendente è proprio che anche io, io del tutto ignorante in materia di fotografia, osservando queste immagini, all’improvviso mi scopro a capire qualcosa di più di me stessa.

Giorgia Favero

Per approfondire il lavoro di Umberto Verdoliva: sito ufficiale, flickr, Facebook.

Qui tutte le informazioni relative alla mostra.

Tutte le immagini sono di proprietà di Umberto Verdoliva.