La tua casa in noi. Il divino che ci salva dal non senso

Durante le nostre intense giornate può capitare di avere dei momenti in cui ci si ferma a pensare a quale sia lo scopo di quello che si fa. Ci alziamo, ci vestiamo, lavoriamo, studiamo… ma facendo tutto questo cosa facciamo in fondo? Dove andiamo? Siamo solo marchingegni di una ruota che viene chiamata società, che dobbiamo mandare avanti? Siamo solo chiamati a questo o esiste una dimensione più grande nella quale ci possiamo raccogliere? C’è un fine, una meta, un senso?
Riconoscendosi in questo sentire, ma non sapendo come definire la sofferenza che si sente, il dilemma che si vive, possiamo individuare che la ferita è molto antica ed è il problema con cui l’umanità fa i conti praticamente da secoli: il problema del senso della vita. E, ovviamente, del suo non senso.

Oggi, in un momento in cui sono sicuramente molti i motivi per odiare la specie umana – pensiamo solo a quello che stiamo facendo al nostro Pianeta e alle numerose guerre nel mondo – al non senso della vita si è sommata anche un’importante deriva pessimistica nei confronti dell’uomo, che rischia di farci sentire ancora di più disorientati e in balia della paura.
C’è, però, un grande insegnamento, un’ispirazione luminosa che ci arriva in aiuto. Sono pagine di un diario scritto in anni davvero bui, quelli del 1941-1943: gli anni della Germania nazista e dello sterminio degli ebrei. È il Diario di Etty Hillesum, un classico a cui il tempo non ha tolto la sua forza e la sua energia curativa.

Etty Hillesum morì ad Auschwitz per sua scelta nel novembre del 1943. Nel luglio 1942, mese ed anno in cui ad Amsterdam ebbe luogo la prima grande retata, decise spontaneamente di andare a Westerbork con gli ebrei prigionieri. Non voleva sottrarsi al destino del popolo ebraico. Scrive J.G. Gaarland nell’introduzione al Diario edita da Adelphi:

« [Etty Hillesum] era convinta che l’unico modo di rendere giustizia alla vita fosse quello di non abbandonare degli esseri in pericolo, e di usare la propria forza per portare la luce nella vita altrui. I sopravvissuti del campo hanno confermato che Etty fu, fino all’ultimo, una personalità “luminosa”».

Il diario, scampato allo sterminio della famiglia e poi passato di mano in mano, apparve finalmente nel 1981 presso l’editore De Haan ed ebbe un immenso successo. Quella luce di cui parlavano i sopravvissuti è custodita in ogni singola parola che lei ha scritto. E in particolare la si può ritrovare in una pagina intitolata Preghiera della domenica mattina, che la Hillesum scrive nel 1942, quando i tempi sono ormai bui e angosciosi: «L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Si, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi» (E. Hillesum, Diario 1941-1943, 1985).

Forse, nell’espressione «la tua casa in noi», Etty Hillesum vuole ricordare quella luce, quella luminosità che alberga in ogni uomo, quella sorgente profonda, quella scintilla divina, quella Natura, quel Dio. Non importa che nome gli diamo. Anche altri grandi filosofi e pensatori possono essere avvicinati a questo sentire. Socrate, ad esempio, parlava spesso di qualcosa di divino e demonico in lui; Seneca, nelle sue lettere, scrive a Lucilio «Dio è vicino a te»; Marco Aurelio parla di un demone che risiede nel petto e Agostino, nelle Confessioni, si rivolge a Dio dicendo: «Tu eri dentro di me nel mio intimo».

Quel piccolo pezzo di divino in noi potrebbe essere l’unica cosa che vale davvero la pena salvare e difendere fino all’ultimo. Lo si può coltivare passando del tempo nella natura, leggendo i classici, meditando, ascoltando della musica. Lo si può coltivare accettando noi stessi, accettando la vita, portando la nostra luce nella vita degli altri.
Ognuno di noi può scegliere il modo tramite il quale riconnettersi alla sua casa, l’importante è restare con se stessi, perché in noi si cela l’unico balsamo che può guarire la ferita del non senso, che ci salva dal nulla, dal nichilismo, dal male di vivere del nostro tempo.

Martina Notari

[Photo credits Benjamin Davies via Unsplash]

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Tutto, ovunque, nello stesso momento: il multiverso

Il fisico americano Hugh Everett III, nel 1957, azzardò un’interpretazione della meccanica quantistica che lui definiva “a molti mondi” (e che chiamiamo multiverso). Riassunta in modo il più possibile chiaro (e perciò impreciso), Everett pensava che l’unico modo per confermare la contemporaneità di stati diversi previsto dalla fisica quantistica fosse contemplare l’esistenza di più mondi paralleli, uno per ogni possibilità.
Considerata più che altro un esempio di fringe science (a metà con la fantascienza), la teoria ha ottenuto popolarità negli anni, sia in campo scientifico, dove una minoranza di fisici la postula come conseguenza della teoria delle stringhe e della teoria delle bolle, sia soprattutto in campo di cultura pop. Romanzi, fumetti, film, videogame e serie tv si sono buttati sul concetto di mondi paralleli come nuova miniera d’oro di idee e trovate narrative.

Quello che viene spesso trascurato, però, è la risultante filosofica della teoria del multiverso, che può rappresentare il colpo di grazia definitivo a un antropocentrismo agonizzante fin dalla rivoluzione copernicana. Col progresso scientifico, l’uomo al centro del mondo e signore della creazione si è scoperto una specie tra tante, abitante di un pianeta minuscolo e marginale che orbita intorno a una stella che è una su miliardi, galleggiante in un universo sterminato, vuoto, oscuro, minaccioso e indifferente. La fisica quantistica toglie anche l’ultimo supporto metafisico alla vita umana: la sua unicità, e quindi il suo senso. Se esiste un universo in cui si realizza ogni mia possibile scelta, che senso ha la mia decisione qui e ora? Se esistono miliardi di miliardi di “me”, che importanza posso avere io come individuo?

A sorpresa, questo è il punto centrale di Everything Everywhere All at Once, il film dei The Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert) che ha sbancato all’ultima edizione degli Oscar. Il nodo centrale è uno scontro generazionale, quello tra l’iperattiva, stressata e infelice Michelle Yeoh (Evelyn) e sua figlia in cerca di attenzione e affetto Stephanie Hsu (Joy).
Quest’ultima, o meglio una sua versione alternativa, ha una visione d’insieme sul multiverso che la porta a un disperato e assoluto nichilismo. Ogni cosa e ogni persona, ripetute quantisticamente all’infinito, non hanno valore, e il risultato è un panorama mortificante, un nulla pieno di tutto, un crudele gioco di insensatezza cosmica. In preda a una simile angoscia esistenziale, comprensibilmente, la ragazza cerca conforto dalla mamma.

A Evelyn è chiesto di trovare una risposta impossibile, un barlume di senso in un multiverso spaventoso, sempre più complesso, sempre più oscuro e terrificante… e in qualche modo la trova, complice la natura di fabbrica dei sogni che è il cinema. Tra esplosioni di puro dadaismo e psichedelie surreali, trovate piacevolmente folli che fanno apparire il film come un trip acido particolarmente strutturato, si scava disperatamente alla ricerca di qualcosa da salvare in un cosmo alla deriva. In orizzonti di senso svaniti che portano inevitabilmente all'(auto)annientamento, di fronte all’abisso del nulla, la risposta si trova, nascosta, umile e sofferta, in una quotidianità di affetti che si concretizza nelle relazioni. Di fronte all’abisso, l’amore eroico e ostinato che insiste a valorizzare contro ogni evidenza l’oggetto del proprio affetto è l’unico argine possibile alla disperazione.

Tra le pieghe di citazioni dei Wachowski, Satoshi Kon e Kubrick, parodie di Ratatouille e scene sentimentali tra sassi, dita di wurstel e improbabili inserzioni anali, Everything Everywhere All at Once dimostra un’inaspettata profondità, una consapevolezza acuta e dolorosa di una generazione che chiede alla precedente una sola cosa: di esserci, di condividere per quanto possibile tempo, esperienze, emozioni… e magari di trovare proprio in questo una singola scintilla di senso persa nella sterminata oscurità di un multiverso che non offre alcun punto di riferimento.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Greg Rakozy via Unsplash]

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Intervista a Marta Celio: tra filosofia e poesia.

Marta Celio, nata nella Svizzera romancia nel 1976, si è laureata in filosofia teoretica a Padova con una tesi su Hans Jonas. Costantemente esposta alla letteratura contemporanea e assorbita dalla meraviglia dei classici, viaggia nel mondo della filosofia, della narrativa, ma soprattutto della poesia. Già nel 1995 pubblica La nuvola nel bicchiere (Il club degli autori, Melegnano). I rinomati Taccuini (Prose liriche, Poligrafo Padova 2006); poi Stanze (Poesie, Poligrafo Padova 2009); Autunno (Penzo+Fiore, Murano 2015); Dediche (Penzo+Fiore, Murano 2017); senza considerare le copiose pubblicazioni collettanee. 

Nella presente intervista, parleremo del connubio di poesia e filosofia che accompagna non soltanto la sua produzione, bensì la sua intera esistenza. Lasciamoci travolgere dalla sua passione: buona lettura!

 

Giorgia Favero – Cara Marta, la tua produzione letteraria alterna quasi ritmicamente il saggio filosofico alla raccolta di poesie. In che modo si affiancano queste due tipologie di scrittura nella tua vita quotidiana?

Marta Celio – Cara Giorgia, grazie per l’attenzione posta alla mia attività febbrile e gratificante che vede, come tu stessa dici, alternarsi queste due forme di scrittura. In realtà la mia risposta riconduce due “apparenti” contrapposizioni (poesia e saggio filosofico) a un’unità. Infatti, scrivevo, in esergo a Diario di tutte le assenze (Nodo editore) e traslitterando un passaggio del filosofo Jean-Luc Nancy, che filosofia e poesia non sono in opposizione. Ciascuna fa la difficoltà dell’altra. Insieme esse sono la difficoltà stessa: il fare senso. Dunque, la mia vita quotidiana (che si caratterizza per una forma rigorosa di “apparente” chiusura in una turris eburnea, la mia casa, la mia stanza da lavoro, dove però – e qui svelo il senso di quella solo “apparente” chiusura – sono in contatto con il mondo più disparato, con autori, narratori, poeti (scomparsi e viventi) attraverso la lettura che mi apre a orizzonti di senso. Con gli scomparsi (un esempio tra tutti e mio prediletto, il poeta, critico, e traduttore Francesco Scarabicchi) sono legata da un filo di com-partecipazione emotiva ed intellettuale a quell’universale che ci hanno donato con la loro inquietante, disarmante bravura. Con i viventi (un altro esempio tra tutti, la poetessa Giovanna Rosadini, con la quale vi è una corrispondenza e un imminente lavoro sulla sua intera poetica, nella collana Percorsi, edita da Macabor, che dedica un monografico ai maggiori poeti contemporanei; poetessa, lei, di grande spessore e che gode di tutta la mia stima, umana e poetica). Tra i filosofi ovviamente non cito gli scomparsi, perché tutti presenti a circondarmi nel mio soggiorno, dove insieme ai libri d’arte, si dispiegano, in ordine rigorosamente alfabetico, i filosofi dalla A di Aristotele, alla Z di Zellini (ecco fatti due nomi). Tra i viventi, Marcello Barison, Luca Bianchin – con i quali ho anche il piacere di una collaborazione attiva – Curi e Cacciari, che spiccano per la loro produzione e per la mia stima nella mia biblioteca.

Questa è una breve parentesi toponomastica ma per arrivare alla tua domanda, circa la mia scrittura (tra il saggio filosofico e la poesia): ebbene, snodandosi la mia giornata, soprattutto per alcuni lavori commissionati, diciamo che essa comincia con la teoresi, con l’analisi testuale di scritti poetici o narrativi con l’approccio ascrivibile alla mia formazione, dunque filosofico.  Di qui momenti di “stacco”, di respiro, quali sono i momenti che dedico alla poesia. Non senza, tuttavia, rigoroso impegno e attenzione alla forma e ai contenuti, che spesso vengono a configurarsi proprio come l’esito delle suddette note filosofiche critico- letterarie e dunque ancora, con Jean-Luc Nancy, poesia e filosofia non sono in opposizione, ma insieme sono il fare senso.

 

Giorgia Favero –Una piccola curiosità: ci sono, che tu sappia, dei filosofi che si sono cimentati con la poesia? Avresti qualche lettura da consigliarci in proposito?

Marta Celio – Certo, l’ho appena citato, e gode della mia massima stima. È Marcello Barison docente di filosofia a Bolzano. Già docente a Chicago, si è cimentato con l’arte pittorica (con notevoli esiti), con la prosa e la poesia, raggiungendo vette insperate (www.marcellobarison.com).

 

Giorgia Favero – Il tema del tempo sembra ricorrere spesso nelle tue riflessioni, in particolare sotto la forma di distanza e di assenza (ricordiamo in questo proposito le due raccolte di Diario di tutte le assenze che assolvendomi – mi salvano per Nodo Edizioni). Ritieni che i tuoi studi di filosofia abbiano in qualche modo influenzato il tuo modo di osservare e percepire questi temi?

Marta Celio – Certamente, ricordo forse la prima lettura, risalente alla terza liceo, delle Confessioni di Sant’Agostino, dove egli analizza il problema del tempo nell’ XI libro.
Sant’Agostino diceva: «Io so che cos’è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo». Il punto di partenza è dato dal racconto biblico che presenta la creazione come una successione di operazioni e di eventi. Da questo racconto sembra risultare che la creazione avvenga nel tempo, che sia frutto di una decisione da parte di Dio e comporti dunque un mutamento nella sua volontà. In particolare, ci si può anche chiedere che cosa facesse Dio prima della creazione. Questa domanda presuppone che anche Dio sia nel tempo.
Ma non è il solo, ovviamente; lui è stato per me il primo passo all’interno di quella dimensione (il tempo) che, come sottolinei tu, in me prende la forma della distanza e assenza. Che però – lo sottolineo – viene subito a coincidere con il suo opposto (ovvero “la presenza”) e aggiungo “la presenza più salda e certa della mia vita”.

Ecco che il tempo si prefigura, attraverso gli studi (Zellini, Elemire Zolla, Essere e Tempo di Martin Heidegger, Hans Jonas, Borges e molti altri) e attraverso la mia percezione della vita e del mondo, come infinito ed eterno. Ricordo, fra i tanti, un esempio di questa circolarità del tempo: L’eterno racconto, saggio monografico sulla poesia del vicentino Alessandro Cabianca, nel quale ho ritrovato tanto di quell’infinità, propria del mio medesimo mondo. Infatti, l’intera produzione poetica di Cabianca, oltre ad essere minuzioso oggetto del mio studio, si è rivelata anche il pre-testo per il mio personale (infinito) viaggio, nel mondo della poesia. Un altro esempio mi arriva da un mio saggio pubblicato sulla rivista cartacea La Nuova Tribuna Letteraria di Stefano Valentini e Natale Luzzaggni, intitolato, significativamente, L’infinita finzione (ntL Anno XXXI, numero 141 primo trimestre 2021) a dire come l’infinito (spazio-temporale) sia il leitmotiv della mia scrittura e il generale della mia esistenza.

 

Giorgia Favero – Diario di tutte le assenze che assolvendomi – mi salvano (Nodo edizioni 2020) si dichiara, appunto, un diario ma nelle tue due plaquettes che compongono il volume non ci sono indicazioni di data e le poesie sono numerate. In che modo la poesia si configura come diario personale?

Marta Celio – “Diario” è un’espressione del quotidiano, e ho voluto chiamare così la mia raccolta per testimoniare una cadenza giornaliera e per molti versi esistenziale. La mia non è una dichiarazione di “esistenza” bensì di “lotta, militanza”. Forse alla fine ha vinto la parola Diario quale captatio benevolentiae, ed excusatio non petita. Mi spiego: non voleva essere una testimonianza del quotidiano – e infatti non lo è – voleva essere, e si manifesta, quale lotta per vedere oltre quella patina di perenne assenza quello che al di là di quell’apparente assenza c’era e c’è. Ovvero: le presenze più salde e vere della mia vita.
Nella lettura di Enzo Melandri, la coazione a ripetere di Sisifo è un’“illazione mitologica”: il suo senso mitopoietico è che vale la pena ritentare ancora daccapo, poiché ogni vissuto della speranza è intrinsecamente più forte, più affidabile di ogni disillusione di cui sino ad ora si è avuta esperienza. Dunque, un diario di lotta a partire da una fondamentale spinta data dalla speranza.

La scelta della numerazione nasce da un cammino diaristico (questo sì) che ha inizio nel 2018 da quello che ho chiamato primo canto e che vede un continuum narrativo-poetico che arriva ai nostri giorni. La numerazione da 1 a 370 è la numerazione dei canti che mi hanno (quotidianamente) accompagnato in questi anni. Di imminente pubblicazione il resto delle “numerazioni”, una con Proget editore e una con Valentina editrice che vanno a “svelare” il mistero di quei “numeri” sospesi nel Diario, e che hanno invece un prima e un dopo.

 

Giorgia Favero – «Sarai pace a quel che resta» e «Di te l’amore / di me, l’errore» sono i titoli delle due plaquettes che dividono la raccolta sopracitata. Come affronti nella tua poesia il tema – per altro estremamente filosofico – dell’Altro, dell’alterità? Chi sono veramente l’Io e il Tu ricorrenti nei componimenti che danno corpo alla raccolta?

Marta Celio – Il tema dell’Altro è certamente altamente filosofico; penso a xenoi (in greco antico gli “stranieri”) e mi viene in mente Curi («stranieri a noi stessi, altri nella nostra identità, identici nella nostra alterità») dove solo riconoscendo l’altro, l’identico può esprimere la sua identità; solo conservando la propria identità, l’altro può affermare la propria alterità. Di qui, si vede la dialettica intrinseca al rapporto tra Io e Tu.
L’Io-Tu della raccolta sono l’Io-Tu del Noi, dove ciascun lettore può identificarsi, dove si sente investito di quel “senso universale” che vorrebbe raggiungere; a partire, certo, da realtà particolari ma evocatrici di una Universalità trans-individuale.

 

Giorgia Favero – Poesia e filosofia: due grandi bistrattate – anche se in modi diversi – del nostro mondo contemporaneo, persino di quello culturale. Come porvi rimedio secondo te?

Marta Celio – Confermo quanto da te detto, sia la poesia che la filosofia sono entrambe, seppur in diverso modo, due grandi “bistrattate”. Come porvi rimedio? La mia risposta è chiara e perentoria: occuparsene, perseverare, con la passione e con la forza generativa dello studio che caratterizza entrambe.
Io collaboro con la casa editrice Macabor di Cosenza dal 2018 e non ho smesso un solo secondo di credere fortemente sia nella poesia (della quale, pur con taglio filosofico mi sono occupata e mi occupo tutt’ora) sia nella filosofia: essa, come detto prima, si è rivelato strumento prezioso e – per tornare ciclicamente a Jean Luc Nancy – poesia e filosofia insieme, sono il fare senso.

 

Giorgia Favero – Concludiamo con una domanda che poniamo spesso ai nostri intervistati: che cos’è per te la filosofia?

Marta Celio – Altra risposta chiara e perentoria: per me filosofia e vita coincidono. Ho scelto filosofia (o lei ha scelto me) in terza liceo scientifico, alla prima ora della prima lezione, tenuta da una professoressa che ha segnato per sempre la mia vita, Domenica Giusto, che non insegnava la filosofia come una materia scolastica da leggere sui libri, ma la trasmetteva. Con la passione e il trasporto, trasmetteva il senso vero, autentico, il fare senso che essa stessa (filosofia) portava in grembo e che – guarda caso negli stessi anni stesso liceo – si è accostata naturaliter alla poesia. Scrivo infatti da quando ho la penna in mano, ma è grazie a Gian Mario Villalta che sono entrata, allora appena sedicenne, in contatto con le penne più significative della poesia contemporanea: sono nati dai banchi del Liceo gli scambi epistolari e gli incontri con poeti come Andrea Zanzotto, Pierluigi Cappello, Claudio Damiani, seguiti da numerosi altri nel corso della mio cammino. Questa è filosofia per me: il fare senso che nasce da un incontro tra filosofia e poesia.

 

[Immagine tratta da Unsplash]la chiave di sophia 2022

 

(A) cosa serve?

Nei Frammenti postumi1 di Nietzsche, tra i numerosissimi aforismi che vertono sui temi più disparati, è presente un testo in cui è possibile individuare quelli che ci sembrano essere gli elementi costitutivi del nichilismo: mancanza del fine, mancanza del perché e svalutazione dei valori. Volendo disporli secondo un ordine logico, potremmo enunciarli piuttosto così: 1) tutti i valori si svalutano, 2) manca il fine, 3) manca la risposta al perché.

Venendo meno il valore come entità portatrice di senso, vengono meno anche i fini delle nostre azioni. Iniziamo così a domandarci: «perché dovrei agire in questo modo?», ed è quando questa domanda manca di una risposta che la nostra quotidianità diventa piatta e insipida. Ma che cosa può muoverci all’azione, una volta che la giustizia, la bellezza, la generosità, la tradizione ecc. non sono più sentiti da noi come degni di essere perseguiti?

L’unico motivo che rimane è di ottenere qualche cosa in cambio: se infatti agire in virtù della bontà (nel senso più generale di questo termine) dell’azione non ha più senso, per portarci ad investire dell’energia nel mondo non resta che la certezza, o almeno la probabilità, che i nostri sforzi ci faranno ottenere in cambio qualche cosa di concreto. Si innesca così una dialettica del do ut des che pone l’utilità come unico fine dell’azione, fino a farla diventare un surrogato dei valori e a farle riempire il vuoto lasciato dalla morte [scomparsa] di questi. In questo modo, la domanda «perché dovrei agire in questo modo?» diventa «a cosa serve che io compia questa azione?», sostituendo una mera valutazione dei possibili vantaggi materiali alla ricerca di senso sottesa dalla prima domanda.

Questa maniera di pensare è molto radicata in noi, ed è un approccio alle cose che comporta parecchi problemi relativi al nostro modo di stare al mondo. Ci poniamo come centro dell’esistenza, la nostra attenzione è sempre rivolta verso di noi. Ciò produce senso di isolamento, frustrazione, stress: tutto è amplificato nella nostra testa, che lavora ripiegata su sé stessa, senza che niente possa apportare degli elementi di novità, mostrarci le cose sotto un’altra prospettiva, mitigare il travaglio delle nostre coscienze. Ma cosa possiamo fare? Esistono delle soluzioni? Magari dovremmo cercare un modo di rapportarci al mondo che rimetta al centro delle nostre vite l’importanza dell’attività in sé, e che non dia al risultato più spazio di quello che gli è dovuto. Potremmo per esempio chiederci non tanto a cosa serva agire in un certo modo, bensì cosa serva la nostra azione, cioè al servizio di che cosa essa si ponga, e di conseguenza al servizio di che cosa ci poniamo noi agendo in un certo modo, quale atteggiamento incarniamo. Le due espressioni sembrano simili, ma in realtà sono profondamente diverse.

Supponiamo di voler fare l’orto questa primavera. Se ci chiediamo a cosa serve fare l’orto, la risposta immediata è: ad avere verdure fresche e salutari. L’attenzione è rivolta al risultato materiale. Ma proviamo invece a chiederci: cosa serve fare l’orto? Cioè: l’attività di coltivare delle piante nel nostro giardino, a che cosa dà importanza? In questo caso le risposte sono molteplici e di più ampio respiro: coltivare l’orto serve un avvicinamento alla natura, ci mette in una relazione più intima con un aspetto del mondo che abitiamo.

La domanda «cosa serve?» non si interroga sul risultato, ma sul valore dell’azione stessa. Essa aspira a prendere parte a qualcosa di più grande. Incarna un atteggiamento diverso, che proietta verso il fuori e in questo modo scardina la dialettica dell’individualismo e schiude la coscienza ad un mondo di relazioni, di risonanze con le altre coscienze e con il mondo. Entriamo nella concretezza della vita uscendo dall’astrazione solipsista in cui ci eravamo posti. Chiedersi «cosa serve?» è forse anche un allenamento: aiuta ad allargare il proprio sguardo, a prendere in considerazione altri aspetti oltre alla propria individualità, cercando qualche cosa più grande di noi per cui valga la pena agire e a cui prendere parte.

Spesso sentiamo che i valori hanno perduto la loro forza, constatiamo che il fine delle nostre azioni non sempre è facile da individuare ed il senso delle cose sembra scivolarci tra le dita. Forse uno dei sentieri che possono aiutarci ad uscire dallo sconforto che a volte ci prende è capire che il senso non va cercato, ma va prodotto. Questo atteggiamento può aiutare ad aprirci alla rete infinita di relazioni di cui è costituito il mondo.

 

Pietro Bogo

 

Nato a Belluno nel 1994, Pietro Bogo ha conseguito una laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli studi di Trieste. Ha poi continuato i suoi studi presso l’Université d’Aix-Marseille, dove ha ottenuto nel 2019 una laurea magistrale discutendo una tesi sulla relazione tra la sostanza e l’attributo nel pensiero di Spinoza. Ora insegna lettere presso una scuola media di Belluno, continuando a coltivare la sua passione per la filosofia. Nel tempo libero pratica il judo a livello amatoriale ed ama dilettarsi in cucina.

 

NOTE:
1. Nietzsche, Frammenti postumi, 2, 126, 127

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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La questione del senso e la logica della gratuità

L’essere umano non può non domandare il senso della sua esistenza. Non a caso Martin Heidegger in Concetti fondamentali della metafisica afferma che “la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo”, proprio per sottolineare quanto l’essere umano sia capace di dare significato alla sua esistenza.

Siamo animali che si rendono conto della propria finitezza, ed è proprio comprendendo la preziosità del tempo che possiamo rispondere responsabilmente alla chiamata della vita. Savater ne La vita senza perché sostiene che il mondo in cui ci muoviamo noi esseri umani manca di senso e significato, siamo noi ad attribuirgliene uno. Ma perché dovremmo porci il problema del senso?

È soltanto indagando il perché del nostro esistere, attribuendo senso alle nostre azioni, che possiamo progettare la quotidianità, dandole forma. Ciascuno di noi porta dentro di sé il profondo desiderio di dare un senso al suo esistere e di assumere positivamente la condizione di gettatezza a cui è assegnato.

Non possiamo esimerci da tale ricerca, facendo trionfare la condizione di insecuritas tipica del postmoderno. Ed è soltanto mediante la riflessione che possiamo trovare risposta al quesito più grande che può porsi l’umano. Non appena ci saremo dati risposta scorgendo il progetto autentico del nostro esistere, comprenderemo anche che in questa superficie terrestre non siamo soltanto catapultati, ma sostenuti mediante la logica della gratuità.

La bellezza dell’abitare il mondo sta nel fatto che tantissime cose provocano sgomento al nostro animo, ma altrettante cose sono capaci di offrire quella leggerezza che tanto desideriamo. Ed è proprio nella quotidianità che si cela la ricchezza dell’umano. Nel sorriso di un bambino, nella contemplazione di un tramonto, nel tendere la mano all’Altro possiamo scoprire il “senso” del reale e quella logica che non si identifica con lo strumentale.

Non appena avremo raggiunto la consapevolezza del nostro trovarci nel mondo e appreso l’importanza della gratuità e del donarsi si comprenderà qual è il vero compito di coloro che partecipano alla chiamata della vita, ovvero fare del bene perché lo si sente dentro di sé, perché, in fondo, si sa che è ciò che conta di più.

 

Alessio Marsala

Alessio Marsala, classe 1998. Studia Scienze filosofiche presso l’università di Palermo e nel tempo libero si diletta a scrivere su temi strettamente filosofici che riguardano la sfera della quotidianità.
Amante della chiarezza, della riflessione critica e, soprattutto, del dialogo autentico. Ritiene indispensabile affinare le proprie idee grazie al contributo dell’altro che è diverso, strutturalmente, da noi e, di conseguenza, arricchisce la nostra visione della realtà sociale.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Non filosofi, ma filosofagi: dialogo all’ombra del Santo

Padova significa filosofia. Le strade, le vetrine, gli intonaci scrostati dei muri profumano di incontri, di giornate trascorse a districare ragionamenti nei trafficati caffè di piazza delle Erbe. Anche i panni che svolazzano nelle bancarelle del mercato sanno di passeggiate mattutine e di discorsi mai conclusi, di conversazioni ancora sospese.

Padova, città giovane e nostalgica, luogo ideale per una prima uscita, dopo un anno di chiusure. I biglietti della mostra di Van Gogh erano ormai scomparsi nei nostri portafogli, sommersi da scontrini e post-it inutilizzati. Un appuntamento con quella parte di noi che ancora ci tiene vivi, quella fame di senso che neppure il Covid ha spazzato via.

Seduti a un tavolo sotto i portici sgranocchiamo pane e pomodorini, bevendo un Valpolicella che profuma di novità.

– Ha ragione Wittgenstein – dico io a un certo punto – ci sono questioni che non possono essere spiegate, c’è un altro che può solo essere vissuto; nessuna logica, nessuna razionalità. È il senso di ciò che facciamo, il piacere di essere qui ora e in nessun altro luogo.

– “Su ciò, di cui non si può parlare, bisogna tacere“¹ – afferma Simone.

– Cosa intendi dire? – chiede Jessica.

– Dico che non esiste solo ciò che può essere espresso in modo logico e razionale, come le leggi della scienza. Esistono realtà che il nostro linguaggio neppure sfiora.

– In che senso, Simone? – continua Jessica.

– Nel senso che le lingue degli uomini possono parlare solo dei fatti del mondo, di essi si può dire se sono veri o se sono falsi in quanto esterni all’uomo e a lui evidenti; quando si tratta di esprimere il senso della vita, di parlare di questioni metafisiche la parola fallisce.

– Ma non è un fallimento vero e proprio – riprendo io – l’uomo può conoscere razionalmente i singoli fatti che gli si pongono davanti, può fare esperienza diretta di essi. Ma quando ascende al senso, al sentimento, ai valori, egli ha a che fare con la totalità di cui è partecipe, non la può vedere perché egli stesso ne è parte; deve, per così dire, “gettar via la scala dopo che v’è salito”² e fermarsi a contemplare ciò che ha davanti.

– Un silenzio mistico – continua Simone – noi possiamo ragionare su tutti i problemi che le scienze ci pongono e magari trovare delle risposte sensate; ma anche in quel caso i nostri problemi vitali non verrebbero neppure sfiorati. Non ci sono parole adatte a spiegare il senso della vita.

– Se ho capito bene – riprende Jessica – dell’Amore, della Bellezza, di Dio non bisogna parlare perché essi non possono essere circoscritti all’interno del linguaggio. Potremmo dire che lo trascendono. Ma è lecito viverli, senza per forza definirli o dar loro una forma, come stiamo vivendo l’amicizia che c’è fra noi.

– Intuire l’essenza – aggiungo io – credo che la filosofia debba fare questo; al ‘problema’ della vita non possiamo dare una risposta perché non riusciremmo neppure a formulare, in proposito, una domanda sensata. A volte noi stessi avvertiamo che le parole tolgono senso a ciò che si palesa in modo naturale. Davanti a un’opera d’arte, nell’assistere a un atto d’amore noi sentiamo il bisogno di 

– Sono d’accordo – afferma Simone – tacere per attivare altre facoltà, per sincronizzarci con la totalità che ci circonda.

E così, nel tragitto verso casa, il silenzio in macchina mi sembra perfetto mentre ripenso a questa giornata. Noi mangiamo spuntini, ma ci nutriamo del nostro esserci; sorseggiamo il vino, ma a dissetarci sono le domande senza risposta, indispensabili.
Non filosofi, ma filosofagi, persone affamate di senso che si nutrono dell’Amore per la conoscenza. Non sapienti, non edotti. Anime che fanno della ricerca continua il proprio nutrimento.

 

Erica Pradal

 

NOTE:
¹ L. Wittgenstein , Tractatus logico-philosophicus, 1964
² Ibidem

[Photo credits Stefano Segato su unsplash.com]

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Lettera alla vita

«Vedere il mondo, attraversare i pericoli, guardare oltre
i muri, avvicinarsi, trovarsi l’un l’altro e sentirsi»
(slogan rivista Life).

Cara Vita,
a sedici anni affrontai la mia prima interrogazione di filosofia. Ero molto teso, non ho mai avuto una gran memoria, dopotutto. Il prof. M. mi  guardava di sfuggita. Mi agitavo sulla sedia pronto ad essere inchiodato  dalle sue domande: per quanto il suo atteggiamento fosse in qualche modo affabile, lo temevo. 

“Lei cosa pensa di Platone?” 

Il mio cervello non recepì immediatamente la domanda, tant’è che involontariamente mi uscì un flebile: “Eh?”. Il professor M. mi guardava senza cambiare espressione. Ripeté, esortandomi: “Lei cosa ne pensa di  Platone?” La mia mente era pura entropia: era davvero la mia personale opinione ad essere richiesta? La risposta fu tanto timida quanto sincera: “Non sono molto d’accordo”. Il prof. M. incalzò: “Bene. E perché non sei  d’accordo?” 

Presi sei e mezzo, ma quel giorno cara Vita ho capito che tu, come la Filosofia, non sei fatta di soli dati fissati sulla pagina di un manuale: sei piuttosto un velo mutevole in perenne movimento, difficile e allo stesso tempo importante da interpretare. D’altronde i più recenti studi fisici sulla materia, come le più antiche intuizioni filosofiche e mistiche dell’Oriente1 supportano questa ‘traduzione’: ogni minuscola trama del tuo tessuto cela i paradossi e le incongruenze contro i quali noi sbattiamo la testa ogni giorno. Tuttavia credo non ti si debba riconoscere alcuna volontà malefica – come il Fuoco eracliteo che crea e distrugge – ma solo la difficoltà di  districare le tue trame e diventare protagonisti del tuo fluire. Sei l’unità e la completezza: cos’altro potresti fare se non esserci perché noi ci siamo

La chiave per un buon rapporto con te risiede nello sforzo – mentale e  corporeo – di creare e mettere in atto il senso di ciò che si manifesta. Lo Streben – lo chiamerebbe Fichte nella propria dottrina morale – di un Io2 che ‘sbatte’ contro i limiti di se stesso, forzandoli e creando così il proprio Mondo. Perché noi siamo, fino a un certo punto, il nostro Mondo. Causa l’ignoranza della realtà fuori da noi e l’esser sommersi dai ripetitivi accadimenti quotidiani – tratti che contraddistinguono in modo particolare questa nostra epoca – spesso dimentichiamo che siamo noi a dover creare il senso e il fine; noi che dobbiamo tracciare il sentiero che si dipana di fronte a noi. 

“Scegliere la Vita, momento per momento” è l’atto che ci permette di farci strada nel gioco del Mondo. Se mai decidessimo di non osare nei tuoi confronti, o Vita, non saremmo diversi da un uomo che vede fuggir via la donna che ama senza farsi nemmeno notare. Scivoleresti via anche tu, un po’ alla volta, con la medesima nonchalance di un parigino; a noi resterebbe solo il rimpianto di non aver assaggiato il tuo latte. I tuoi frutti sono per chi vuole trovarli non per chi li attende: dopotutto cosa c’è di più soddisfacente dell’orgoglio che ci lega ad un obiettivo raggiunto, ad una scelta difficile di cui ci siamo resi partigiani, finanche un fallimento di cui siamo gli unici responsabili? 

«Un bravo allievo si concentra sull’emissione della Vita» ed è caparbio (A. Astolfi, Lezioni di musica). In quanto parte delle trame del Mondo, l’uomo è mutevole con esso e mette in atto le variazioni che lo fecondano (il Mondo). Siamo fatti della stessa materia delle stelle, dopotutto: noi siamo parte di ciò che ci circonda. Guai a pensare che la Vita non ci riguardi: guai ad alzare le spalle di fronte agli eventi che invocano la nostra attuale presenza. 

Lode, dunque, a chi riesce a scegliere il sentiero della propria vita, perché proprio da te, o Vita, non avrà altro che questa grande possibilità per plasmarti. La grandiosità del proprio vissuto richiede fatica e prontezza di spirito: la Vita si dice sia una guerra; ciò che non si dice è che è una guerra contro noi stessi per non rimanere inermi. La sostanza del nostro vivere sta nelle scelte di senso, nelle conseguenti divaricazioni delle nostre strade e negli incontri/scontri con gli altri.

«Non volevo vivere con quella che non era una vita, a
meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo
vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di
essa […]» (H.D. Thoreau, Vita nel bosco, 1854).

 

Matteo Astolfi

 

NOTE
1. J.R. Oppenheimer, N. Bohr e W. Heisenberg sono tre esempi di rinomati fisici che citarono in tal senso la vicinanza tra la fisica e il filosofico-orientale.
2. G. Fichte, Fondamenti sull’intera dottrina della scienza, Bompiani 2003.

[Photo credit Aziz Acharki via Unsplash]

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Scrittura di sé come cura di sé

In un libro di alcuni anni fa, che nulla ha perso della sua carica simbolica, dell’accuratezza intellettuale e del calore umano che lo caratterizzava, il filosofo Duccio Demetrio scriveva: «C’è un momento, nel corso della nostra vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal solito»1. Tale esigenza può affiorare in ciascuno di noi e assume i contorni di una sensazione, di un bisogno urgente, che emerge dall’interiorità e che ci invita a dare ascolto alla parte più profonda di noi stessi. È il bisogno umano di raccontarsi attraverso la scrittura, di accedere alla propria intimità più profonda e resistere strenuamente «all’oblio della memoria»2. Proprio in questo consiste il pensiero autobiografico, «quell’insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e si è fatto, è quindi una presenza che da un certo momento in poi accompagna il resto della nostra vita»3. Il desiderio di raccontarsi, di narrarsi, di scrivere la propria storia assume i contorni di un’esperienza umana fra le più nobili ed esaltanti per il suo valore intrinseco di cura di sé.

Chi sono stato? Chi sono ora? Queste le domande di partenza di ogni racconto autobiografico, che è dunque l’inizio di un viaggio etico, psicologico, spirituale che non ha fra le sue motivazioni primarie quello di essere scritto per altri, ma anzitutto per se stessi. Il fine è dare unità alla propria frammentazione interiore per ritrovare il senso della propria storia di vita, spesso lacerata, sconnessa e scollegata nei suo connotati così articolati, umbratili e camaleontici.

Il desiderio di raccontarsi, lungi dall’essere un ripiegamento su se stessi e una chiusura solipsistica è il segno di una nuova tappa della maturità dell’anima e se, come sosteneva Shakespeare: «quando l’anima è pronta, allora anche le cose sono pronte», questo segnala che il tempo è maturo per ricomporre i tasselli, sparsi, della propria vita e ritrovarsi attraverso la scrittura. Narrare la propria storia di vita significa ripercorrerla, elaborarla, riconfigurarla donandole un senso, rilevando luci e ombre che l’hanno accompagnata e che altresì abitano nell’abisso arcano e misterioso di ciascuno di noi. Scrivere di sé implica riprendere contatto con se stessi e conduce a sentire di esserci, a ritrovare i propri confini, non solo fisici, ma soprattutto psicologici, che spesso si smarriscono nel flusso inarrestabile di vite trascorse ma vissute inconsapevolmente.

Fare autobiografia, implica fare silenzio in se stessi, astrarsi momentaneamente dal rumore del mondo, per ascoltare la melodia dell’anima, con le sue variegate tonalità affettive. Significa rimettere ordine nei ricordi, riannodarli coerentemente con la trama e l’ordito dell’interiorità, con la quale è necessario sintonizzarci per ogni esercizio di scrittura che voglia esprimere significati profondi che oscillano fra il visibile e l’invisibile, fra il dicibile e l’indicibile.

Stendere la propria autobiografia dà inoltre la possibilità di mettere ordine al caos che ci abita e che spesso è fonte di inquietudine, angoscia e talora disperazione. Scrivere infatti permette di verbalizzare pensieri e stati emotivi, estrapolarli, concedere loro una via d’uscita costruttiva, che consente di scorgere sempre bagliori di speranza e senso anche all’interno di esistenze lacerate che talvolta paiono avvolte nelle tenebre di una notte senza fine. Narrarsi è un conforto dell’anima, accompagna alla pace interiore, aiuta ad affrontare l’inquietudine e la nostalgia dei ricordi, induce a venire a patti con la propria storia di vita. Attraverso la scrittura di sé è possibile riconoscersi attori della propria biografia e non semplici spettatori passivi di un’esistenza che spesso non è andata o non è come si vorrebbe. Il valore della scrittura riposa anche in questo: ridare a colui che scrive quel sano ‘potere’ di dominare la propria storia, per lo meno scrivendola. La naturale conseguenza è quella di risignificare il passato, sentirsi maggiormente propensi ad affrontare il presente e progettare il futuro con serenità poiché in contatto con la sorgente interiore.

Lo spazio dell’autobiografia è apertura all’autoriflessività, al pensiero di sé che si rivela in tal modo dialogo personale, conversazione intima con la parte più celata di se stessi, colloquio interminabile. In questo senso la scrittura si configura come un vero e proprio medicamento dell’anima. È questa la tradizione che va dalle Confessioni e i Soliloqui di Agostino, passando per i Saggi di Montaigne sino agli scritti di Rousseau e più recentemente di Etty Hillesum, solo per citarne alcuni. In ciascuno di questi autori il pensiero autobiografico è primariamente un bisogno esistenziale, che solo in un secondo momento rivela le fertili conseguenze intellettuali di cui oggi godiamo. L’esigenza iniziale è quella di indagare se stessi, conoscersi, tenere insieme i pezzi della propria vita o meglio del proprio Io, così mutevole e così difficilmente decifrabile. Questi autori hanno inaugurato un genere letterario, filosofico e con esso hanno raggiunto profondità psicologiche e vette spirituali raramente avvicinabili. Tuttavia, il messaggio implicito che da essi abbiamo ereditato è il potere terapeutico della narrazione autobiografica. La forza insita nella scrittura di sé è la capacità di ri-orientarci nell’arcipelago dell’Io perché, come scriveva Herman Hesse: «come corpo ogni uomo è uno, come anima mai»4. Ecco che, astraendo dagli scritti degli autori citati, l’autobiografia non ha bisogno di cercare la forma migliore. In questo senso si addice a tutti e proprio per questo non abbiamo bisogno di inventare niente di ciò che scriviamo. La nostra storia di vita è la materia prima dalla quale partire e raccontarsi significa comprendere la struttura essenziale di questa materia che non è altro se non la nostra esistenza.

Narrarsi è un’opportunità a disposizione di chiunque desideri riprendere i fili della propria esistenza attraverso uno strumento benefico che si rivela essere un balsamo per le più diverse ferite dell’anima e una possibilità per sfuggire all’oblio sancito dal dio Chrònos. Invero, noi siamo una storia che può trascendere il tempo proprio perché può essere raccontata e scritta, prima di tutto a noi stessi e per noi stessi. E questo scrivere, questo raccontare, «ben lungi dall’appesantire il senso della vita, la alleggerisce; poiché ne mostra e dimostra di continuo l’imprendibilità»5. A ragione, è possibile asserire che la narrazione di sé è una delle espressioni più elevate dell’animo umano, un trionfo delle sue possibilità interiori, via verso la consapevolezza, cura di sé e maturazione di un’indelebile saggezza esistenziale.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
[1] D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996, p. 9
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 10.
[4] H. HESSE, Il lupo della steppa, tr. it., Mondadori, Milano, 1978, p. 25.
[5] Ivi, p. 169.

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Riscoprire il senso della cura

Come spesso mi capita in quest’ultimo periodo sono in videochiamata con un’infermiera – da oltre due mesi impegnata in un cosiddetto Covid-Hospital – alla quale chiedo puntualmente di condividere la propria esperienza in questo contesto di lavoro così complesso e così tragico, anche per una professionista esperta e competente qual è. Nel corso della narrazione – a tratti interrotta dalle lacrime che solcano il volto e che interrompono il flusso delle parole – rimango particolarmente colpito da un tema, fra i molti, del quale mi rende partecipe. Un aspetto che percepisce come particolarmente faticoso nei pazienti ricoverati in condizioni critiche presso il reparto in cui opera, è legato alla difficoltà che questi hanno nel riconoscere il volto di medici ed infermieri che, per ovvia necessità di tutela reciproca, sono costretti in una “bardatura” che ne maschera i lineamenti e le più autentiche espressioni. Mi confida quanto per lei questo aspetto renda il lavoro emotivamente ancora più difficile e, per i pazienti, il dolore ancor più straziante. Le persone malate, fiaccate nel corpo da un nemico invisibile, impossibilitate nel vedere i propri cari nel periodo di malattia e persino nell’ora ultima della vita, sono marchiate da un’ulteriore ferita, l’impossibilità di riconoscere il volto di coloro che, con paziente dedizione e professionalità di loro si occupano nel momento dell’estrema vulnerabilità, negli istanti in cui rimangono vestite, come ebbe a dire Etty Hillesum, “dell’ultima camicia della loro umanità”. L’infermiera prosegue riferendomi di un paziente, da tempo ricoverato, che pur non potendo distinguere l’aspetto celato dalla divisa, riconosce la sua voce nel momento in cui lei lo chiama dolcemente per nome per chiedergli come si senta. Mi racconta di come sul volto del paziente si dipinga un’espressione di serenità e dalle labbra emerga una luminosa espressione di sincera gratitudine.

L’esperienza che mi è stata narrata e che qui ho parzialmente riportato, fa emergere con forza il tema della cura in tempo di crisi. Indubitabilmente la necessità di una cura farmacologica il più possibile adatta ed efficace, ma pure l’esigenza del prendersi cura, in senso olistico, della sofferenza dell’altro che non è mai solo fisica, ma pure psicologica e spirituale. Aver cura dell’unicità e irripetibilità della persona vulnerabile, della singolarità umana che esige di essere riconosciuta, accolta, chiamata con il nome proprio. Così intesa, la cura richiama da vicino la capacità di fare spazio all’altro nella sua unicità ed è questa una caratteristica tipica della dimensione materna. Invero, se ci pensiamo – come sostiene Recalcati1 – per ogni madre, ogni figlio è sempre figlio unico e la cura che ha per lui è sempre cura della sua unicità, cura particolarizzata.

Nell’ora più buia della propria vita e spesso nei momenti che precedono la morte, sentirsi chiamare per nome significa avvertire che la propria esistenza ha valore per qualcun altro, ha senso anche nell’estrema fragilità e che l’amore, pur non potendo impedire la morte, consente di attutirne l’impatto angosciante avvolgendola in un abbraccio che impedisca il dilagare della disperazione. Per questo aver cura dell’altro ci chiama a coltivare in noi la speranza, a non lasciarla morire, poiché, come sosteneva Benjamin, soltanto per chi non ha più speranza ci è data la speranza. La cura è dunque la più alta forma di attenzione e s’innesta nel punto di incontro fra due fragilità che si riconoscono reciprocamente, si rispettano e si sostengono. È questo l’amore che sostiene e dà senso alla vita anche nei momenti nei quali essa sembra precipitare nella notte oscura del non senso.

Se c’è una lezione, non solo in ambito sanitario, ma a livello collettivo, che questa tragica pandemia può lasciarci è recuperare il senso della cura di sé e dell’altro. Di una possibilità che ci è stata affidata dalla vita come compito e opportunità di significato. La necessità della cura, come dimostra questo sventurato periodo, scardina ogni paradigma performativo, ogni delirio di efficienza, ogni spinta a consumare il tempo, a sfruttare l’altro da noi come mezzo per raggiungere scopi individuali in un’ottica utilitaristica. La cura esige un’interruzione della accelerazione maniacale che divora le nostre esistenze, consumandole senza portarle a compimento. Il senso della cura riposa infatti nel tempo, senza tempo, dell’interiorità, che nella relazione attenta espande la propria e l’altrui umanità. L’incontro intersoggettivo è la misura, senza misura, della cura. La speranza – come una fiamma fioca ma pur sempre ardente – è quella che questo virus sconosciuto e la sofferenza che ha causato siano occasione di maturazione, di sviluppo delle risorse individuali e relazionali. Che la nostra epoca, priva di attenzione per il particolare, riscopra il senso profondo e autentico della cura così ben rappresentata dall’amore materno che non è mai anonimo ma sempre riferito ad un nome proprio. Un amore generoso che solo è capace di sostenere, riparare e dare senso alla vita nella sua insondabile complessità e nel suo inesauribile mistero.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Feltrinelli, Milano, 2015.

[Photo credits Lina Troches su unsplash.com]

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L’evento Coronavirus: sfida per il pensiero e l’esistenza

I giorni difficili e convulsi della pandemia da Coronavirus che stiamo attraversando si ergono come una sfida non solo dal punto di vista sanitario (il più urgente) e dal punto di vista socio-economico dai quali dipendiamo, ma pure come una sfida per il pensiero.

Nel momento in cui personale sanitario, ricercatori, amministratori e politici, sono impegnati per la gestione di questo vulnus, il Coronavirus, che flagella il nostro paese, non può venire meno l’esercizio del pensiero come interrogazione sul mondo e su se stessi, proprio alla luce di quanto stiamo vivendo. Se dunque, come sosteneva Hegel, la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero è quanto mai necessario esercitarsi in quanto vi è di più nobile e caratteristico nell’essere umano: pensare. La filosofia non può retrocedere dinanzi a questa sfida, non può starsene a guardare, non può esimersi dal prendere seriamente in considerazione quanto sta avvenendo. Deve farsi interprete della crisi del proprio tempo che, investendo la struttura del paese e l’intero sistema mondo, lascerà inevitabilmente delle cicatrici, più o meno profonde, non solo alla collettività ma a ciascun singolo nel suo modo di stare al mondo. L’evento, così per come si sta mostrando, non può essere ridotto solamente ad un episodio parentetico, la cui conclusione – che tutti auspichiamo essere il più vicina possibile – debba riportarci esattamente al precedente status quo. L’evento, infatti, così come lo aveva lucidamente descritto Hannah Arendt, è tutto ciò che accade e che ci riguarda in prima persona, che ci attraversa e talvolta ci sconvolge. L’evento sfida l’individualità e in questo caso l’intera collettività, costringendoci a pensare in modo differente noi stessi, gli altri e il mondo. Lungi dall’essere un accadere solamente negativo, l’evento può essere l’occasione di un’esperienza trasformativa per ciascun singolo.

L’esperienza può essere quella di un rinnovato modo di stare al mondo. Per questo, la particolare situazione che stiamo vivendo, di un mondo in preda alla paura e che sembra essersi fermato dinanzi ad un nemico invisibile, ci invita a non attendere passivamente il tramonto di questo periodo, ma a renderlo occasione di riscoperta di valori, modalità di vivere e assaporare il quotidiano, in particolare la relazione con se stessi – «ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene dal non saper restare tranquilli in una camera», scriveva Pascal –, con gli altri, in particolare i più prossimi, di affrontare quanto del mondo della vita sino a questo momento si era dato per scontato e sul quale ci si era adagiati. A questo si collega la riscoperta dell’essenziale per la vita, al fine di ripulire l’interiorità da quanto la soffoca e ne impedisce l’espressione e il nutrimento. Il tempo sospeso può essere favorevole a bilanci esistenziali, alla riscoperta di quei valori che animano l’esistenza e la muovono verso obiettivi ancora da realizzare nel futuro, facendo emergere le risorse migliori di ciascuno di noi, oltre le sovrastrutture conformistiche che uniformano le esistenze distruggendone le peculiarità. Il tempo che stiamo vivendo può essere inoltre occasione per affrancarci dal superfluo prodotto dall’industria dei bisogni e dei consumi, che in ultima analisi conduce a sentire persino la vita e le relazioni come oggetti da consumare, a discapito della bellezza dell’incontro fra soggetti umani che si riconoscono e si rispettano.

L’evento non va dunque rinchiuso sbrigativamente nei meandri della storia – se non per quanto riguarda i suoi effetti nefasti che ci auguriamo di neutralizzare al più presto –, ma è necessario lasciarlo parlare affinché interroghi le nostre coscienze. Quanto sta accadendo non è solo una sfida scientifica prima ed economica poi, ma pure un appello per il pensiero che si riflette nel nostro modo di essere e stare al mondo. Rispetto a questo è però importante vigilare sulla superficialità, nemica acerrima del pensiero, capace di catapultarci nuovamente nell’ordinario, pieno di oggetti e scelte di massa ma vuoto di senso.

Ingenui e incapaci di cogliere la lezione di questo tempo se, non appena terminata l’emergenza, torneremo alla vita precedente non trasformati e cresciuti interiormente. Riflettere, nel qui ed ora, può aiutarci a tornare alla quotidianità, con nuove consapevolezze oltre gli automatismi usuali, per molti versi inautentici sul piano esistenziale. Dal mondo della scuola a quello del lavoro, l’evento epocale che stiamo attraversando può ricondurci ad un modo di essere differente, trasformati interiormente da quanto accaduto, a condizione che si riesca a pensare questo presente, a riflettere intorno al proprio tempo. Chiediamoci: dopo questo evento Coronavirus, come tornerò alla mia quotidianità? Questo dipenderà non solo dai risvolti socio-economici, ma pure dall’approccio di pensiero che nel momento della prova abbiamo esercitato.

In questo senso – e con le dovute distinzioni – può essere utile richiamare alla memoria le parole che Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943, ebbe a scrivere nel proprio Diario nel bel mezzo della persecuzione nazista in Olanda: «Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile»2. Se dunque, da questa situazione, oltre a salvaguardare la nostra salute, i nostri corpi, non avremmo acquisito un «nuovo senso delle cose attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione –, allora non basterà»3.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1.B. Pascal, Pensieri e altri scritti, Edizioni San Paolo, Milano 1987, p. 167.
2.E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 2012, p. 185.
3.E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano, 2012, p. 45.

[Photo credits Eduard Militaru su unsplash.com]

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