L’arte non ha etichette

Ciascuno di noi possiede delle nozioni che, assimilate negli ambienti scolastici in lunghi anni di studio, risultano talmente radicate nella nostra mente da ostacolare, spesso e volentieri, il nostro spirito di osservazione, che, imprigionato tra le sbarre di rigide categorie (considerate inconsciamente ed erroneamente come scientifiche), non riesce più ad imporsi con forza e farci vedere le cose come stanno.

Me ne rendo conto specie quando a una qualche forma d’arte, o ancor meglio a una specifica opera o a un dato artista, si tende ad associare un aggettivo che, fungendo da generale (e generalizzante) categoria, lo assimila a decine o centinaia di altri prodotti artistici con i quali spesso ha pochissimo in comune, se non assolutamente nulla. Questo succede per qualsiasi forma artistica e, stando a quanto più mi compete, mi limiterò a dare un’idea di quanto, nell’arte figurativa, queste “etichette” possano risultare dannose e fuorvianti, nonostante possano sembrare, in un primo momento, dei comodi punti di riferimento per inquadrare epoche e protagonisti.

Questo è più o meno il sunto di come ciascuno, secondo l’insegnamento delle scuole secondarie, vede l’evoluzione delle arti: dopo la caduta dell’impero romano in Occidente ecco un lungo periodo di barbarie in cui l’arte regredisce, passando per Longobardi e dinastie carolingie; dopo l’anno Mille troviamo prima il Romanico e poi il Gotico, che cancella (almeno in architettura) il periodo precedente; con il Quattrocento arriva (finalmente!) il Rinascimento, che recupera la bellezza dell’arte antica cancellando gli “errori” del passato; dal Seicento si sviluppa il Barocco, pomposo, esagerato e bizzarro, al servizio delle menti “malate” di sovrani assoluti senza scrupoli e pertanto deplorevole; ecco che poi, nel tardo Settecento, torna l’arte classica (il Neoclassicismo) e nasce, subito dopo, la corrente romantica; giunge infine, a Ottocento inoltrato, l’impressionismo, che apre le porte alla contemporaneità e a nuovi modi di fare arte; il Novecento, infine, viene studiato seguendo la nascita e lo sviluppo delle Avanguardie.

Ora, constatato che questo è ciò che nella maggior parte dei casi viene trasmesso, è da chiedersi se non sia il caso di eliminare almeno alcune delle “etichette” di comodo che si sono viste. Sì, alcune, perché nell’arte del Novecento quelle che, assimilate a tutte le altre, possono sembrare anch’esse etichette, sono in realtà vere e proprie correnti artistiche (note come “Avanguardie”) con delle proprie caratteristiche specifiche, con uno o più fondatori e diversi membri che vi hanno aderito consapevolmente. Basti pensare al Cubismo o al Futurismo: hanno dei fondatori, diversi artisti che ne hanno seguito i “precetti” e, talvolta, persino una dichiarazione d’intenti (per esempio il Manifesto Futurista). Ciò non basterà a comprendere le diverse contaminazioni tra le varie correnti, ma è il punto di partenza fondamentale per la loro conoscenza.

Quando invece parliamo per esempio di Barocco, cosa ci viene in mente? Ed ecco che ci accorgiamo che nel gran calderone che porta questo nome troviamo di tutto, e che l’“etichetta” non rende giustizia alla varietà formale e concettuale che ritroviamo nell’epoca cui si riferisce. Come si possono accostare due artisti antitetici come, per esempio, Rubens e Zurbaran? Oppure Caravaggio e Andrea Pozzo? La parola “barocco” è stata utilizzata per marcare negativamente le opere d’arte che mediante sfarzo e virtuosismo in eccesso miravano a colpire l’attenzione dello spettatore e a spettacolarizzare la gloria e la ricchezza dei loro committenti. Queste vistose qualità emergono nelle arti decorative attorno al 1630-1640, quando chiese e ambienti di palazzi privati cominciarono a essere riccamente decorati di stucchi e grandi affreschi dalle ardite prospettive, atte a creare mirabili illusioni ottiche. Ma la produzione artistica del Seicento è solo in parte riconducibile a queste caratteristiche, e lo stesso Caravaggio (che muore nel 1610, ben prima di questa evoluzione) ne è un esempio lampante.

Tuttavia, l’insegnamento liceale e la letteratura divulgativa tendono a semplificare (troppo) la questione e a considerare “barocco” tutto quello che è stato creato nel XVII secolo. Con uno studio più approfondito (e con l’osservazione) ci si accorge di quanto questo tipo di didattica sia sbagliata: nel Seicento troviamo architetti estrosi (Borromini e Guarini) e altri di formazione più classica (Longhena); accanto ai pittori più virtuosi nell’affresco (Pietro da Cortona e Luca Giordano) ne troviamo altri molto più legati a forme classiche e a composizioni più equilibrate (Guido Reni e Poussin) e altri ancora, pur appartenenti a scuole diverse, più legati al realismo e alla rappresentazione del quotidiano (Caravaggio, Rembrandt e Velázquez); nondimeno, assistiamo anche allo sviluppo di due generi nuovi, il paesaggio e la natura morta. Come si può raggruppare tutto ciò sotto un’unica categoria?

Ma altrettanto importante è notare come si possano ritrovare anche esperienze artistiche che hanno largamente anticipato le soluzioni e i risultati di altre, e che potrebbero essere etichettate con un termine che mai si penserebbe di attribuire loro ragionando in termini cronologici. Per fare un esempio, il grande affresco di Correggio sulla cupola del duomo di Parma, eseguito tra il 1520 e il 1530, non solo anticipa soluzioni prospettiche tipiche dei migliori affreschi “barocchi” (in senso stretto), ma risulta più ardito e qualitativamente migliore di moltissime opere simili eseguite nel Seicento. Allo stesso modo, le grandi tele di Tintoretto hanno un dinamismo e una resa drammatica che sfida e talvolta supera quelle di molti maestri dell’età che viene definita “barocca”.

Allontanarsi da queste approssimative etichette, nonostante possa sembrare difficile, è dunque uno sforzo necessario se si vuole giudicare oggettivamente un’opera d’arte, e permette anche di comprendere meglio le molte sfaccettature culturali di una data epoca, senza ridurla così a un indistinto contenitore di pensieri ed esperienze troppo omogenei per coesistere nella realtà.

Luca Sperandio

[Immagine tratta da Google Immagini]

Luca Cambiaso: un anticipatore del Cubismo nel Cinquecento

Credo che chiunque abbia una discreta conoscenza della storia dell’arte, alla lettura del titolo di questo articolo provi inizialmente la vaga impressione di essere vittima di una bufala, o quanto meno di una lettura critica volta ad esagerare alcuni aspetti artistici di un pittore antico volendoli forzatamente ricondurre ad altri appartenenti alla contemporaneità. Come è possibile che nel lontano Cinquecento, secolo del Rinascimento e della figuratività classica, un artista potesse avventurarsi a soluzioni così anticipatorie di forme artistiche fiorite nel XX secolo?

Luca Cambiaso - La chiave di Sophia

Eppure, il disegno raffigurato nell’immagine che vedete qui sopra ed in copertina è opera di un pittore genovese vissuto in pieno Cinquecento, Luca Cambiaso (1527-1585), nome non molto noto al di fuori della cerchia di studiosi e appassionati d’arte, ma importantissimo nella cultura figurativa del capoluogo ligure in età manierista. Autore caratterizzato da una ben consolidata formazione classica, i suoi grandi affreschi che decorano interni di chiese e palazzi genovesi non suggeriscono nemmeno lontanamente uno stile così essenziale e razionale nella pratica del disegno. D’altronde c’è da premettere che la storia del disegno percorre una strada che risulta in parte indipendente da quella della pittura, con la conseguenza che un suo studio approfondito può mettere in evidenza peculiarità stilistiche che rimangono ovviamente nascoste nelle grandi opere ad affresco o su tela. Infatti i disegni venivano usati, nella maggior parte dei casi, come studi di composizione, in cui l’artista sperimentava soluzioni che si adattassero a essere poi riportate, con dimensioni ampiamente maggiori, in una o più opere pittoriche finite.

Alla luce di ciò, è chiaro che ciascun autore disegnava seguendo le proprie esigenze, senza sentirsi vincolato al volere di altri e scegliendo tecniche e stile il più possibile adatti ai propri obiettivi e alle proprie abilità. Il caso di Cambiaso è senza dubbio uno dei più singolari e affascinanti: in moltissimi dei suoi disegni preparatori sceglie di rappresentare le figure mediante un susseguirsi di linee spezzate che ne definiscono in modo essenziale i volumi, evitando l’inserimento di dettagli fisici e mantenendosi su un livello raffigurativo atto solamente a costruire la futura composizione e a metterne in luce le volumetrie. Ma se, da un lato, tutta la produzione grafica di Luca Cambiaso risulta caratterizzata da una resa tendenzialmente geometrica delle figure, il disegno della foto (conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi) supera qualsiasi confronto e si impone come un unicum nella storia dell’arte, rendendo evidentissima un’anticipazione della corrente novecentesca del Cubismo.

Qualcuno potrebbe obiettare che tale anticipazione, oltre a essere un caso palesemente isolato, sia soltanto una mera questione stilistica basata su una vaga somiglianza tra il disegno stesso e i risultati pittorici di artisti quali Cézanne, Picasso e Braque. In realtà anche i presupposti teorici combaciano: non c’è dubbio che l’intento di Cézanne, nei suoi esperimenti che avrebbero influenzato la nascita del Cubismo, fosse quello di scomporre l’oggetto rappresentato presentandone l’essenza, e ciò mediante la sua riduzione a un insieme di masse volumetriche di forma geometrica. Ciò ovviamente rappresenta la base concettuale su cui si fonda anche l’opera di Picasso e degli altri pittori cubisti, ma pure il punto di partenza per l’arte grafica di Cambiaso: cos’è questa se non scomposizione della figura per ottenerne la forma pura, per studiarne le proporzioni e per ricavarne i volumi al fine di sottolinearne la massa e il suo imporsi nello spazio della composizione?

Come conseguenza di queste considerazioni, si può pertanto giungere ad affermare che il Cubismo ha avuto un precedente storico e che Cézanne e Picasso, di fatto, non hanno inventato nulla, in quanto il primo artista a utilizzare questa forma artistica fu il genovese Luca Cambiaso. Con questo, tuttavia, non si devono perdere di vista la portata dell’avanguardia di inizio Novecento, da una parte, e i limiti dell’esperimento dell’artista ligure dall’altra: i pittori cubisti hanno fatto della scomposizione geometrica dell’oggetto il manifesto della loro arte, con la quale rispondere coerentemente al bisogno di rinnovamento da parte del mondo artistico a loro contemporaneo, mentre Cambiaso ne fece uno strumento utile ai propri studi, limitato nell’uso alla pratica del disegno e perciò non destinato a essere visto dagli occhi del pubblico, che certo non avrebbe mai potuto concepire un disegno come questo come opera fine a se stessa. Ed è qui che emerge la distanza incolmabile tra le due simili esperienze artistiche: da una parte la consapevolezza e il supporto filosofico-culturale, dall’altra un atto geniale non destinato ad avere un seguito immediato, parentesi visionaria che, pur inconsapevolmente, supera la fantasia dell’arte contemporanea e ne anticipa largamente i risultati, sottraendole il primato sull’originalità e togliendole la convinzione di aver esplorato un territorio ancora vergine.

Luca Sperandio

[Immagini tratte da Google Immagini]