Il Seicento, secolo dei dotti e dei geroglifici

Che secolo è stato, il Seicento? La domanda nasce dal fatto che delle epoche successive serbiamo un sunto mentale sufficientemente nitido e condiviso: il Settecento, si sa, fu regno dei Lumi, l’Ottocento industriale e globalizzante partorì l’ebbrezza del capitalismo, mentre del Novecento cominciato solido e terminato fluido conosciamo oramai ogni più recondito anfratto, denudato come l’abbiamo di tutti i suoi drammi e delle sue esaltazioni. Ma del Seicento, che cosa ci rimane?

A questo secolo «astruso e inabissato»1 è dedicato I geroglifici di Sir Thomas Browne (Adelphi 2018), la tesi di laurea con cui Roberto Calasso si congedò nel 1965 da una fugace e mai troppo sentimentale sortita accademica. Un manoscritto rimasto a lungo inedito, e ora riproposto da Adelphi con l’aggiunta di un saggio deuteroscopico buono a corroborare il luogo comune secondo cui «il nostro secolo e il Seicento siano [epoche] affini»2, separate soltanto dallo squarcio purulento della modernità.

Ad accomunare il pre- e il post-moderno sarebbe soprattutto la tensione ibridizzante di natura e cultura, di arte e scienza: «proprio quegli elementi che [la modernità] vorrà tenere separati con ogni cura»3. Se il Seicento è così lontano dal nostro immaginario – lo è molto di più, ad esempio, del Medioevo – è proprio per via dell’occultamento che l’illuminismo esercitò su quell’epoca anfibia, «fertile al tempo stesso di scienza ed empietà»4, come ebbe a dire uno dei suoi più eminenti rappresentanti, Gottfried Wihelm von Leibniz. «Stolidità e illuminazione vi si alternano, e non è possibile districare l’una dall’altra»5.

È Calasso a ricordare come «la forza del dimenticare [abbia] operato potentemente sulla cultura del Seicento», a lungo sommersa e approdata ai giorni nostri sotto forma di relitto esotico e indecifrabile. Eppure, questa zona franca della storia in cui «il più alto e il più basso si mescolano e si confondono»6, fu per antonomasia il «secolo dei dotti»7, dei “pansofisti” capaci di passare con disinvoltura da un ordine delle cose all’altro, per fare germinare la propria vastissima intelligenza su ogni campo del sapere possibile e immaginabile.

I giganti di quest’epoca incestuosa e meticcia di fisica e di metafisica furono il sopracitato Leibniz, il gesuita Athanasius Kircher e, appunto, l’inclassificabile Sir Thomas Browne, che per i suoi contemporanei fu «un grande antiquario, un medico illustre e, soprattutto, un wit»8, naturalista eclettico ed eccentrico. Calasso precisa che fu quest’ultimo a introdurre per primo il saggio come genere letterario e modalità di trasmissione della conoscenza, e fu sempre Browne a inventare parole come electricity e computer. Ci troviamo infatti nella fase embrionale di quell’immane mutazione storica che dal linguaggio analogico avrebbe condotto al digitale, dal reale più tellurico alla sua più astratta rappresentazione.

Una transizione di tale portata storica, ancor oggi tutta da misurare, ebbe convenzionalmente inizio quando Leibniz venne invitato in Cina per tradurre i tetragrammi dell’I Ching, il Libro dei Mutamenti. In quelle linee unite e spezzate, un tempo emblemi dell’arte divinatoria, il matematico di Lipsia lesse il primo esempio storico di numerazione binaria, di informazione linguistica sotto forma di bit. Kircher, dal canto suo, divenne esperto di alfabeti a valenza pittorica e di scritture analogiche come gli ideogrammi cinesi e i geroglifici egiziani, che per primo provò a decifrare. Anche Browne prese parte a quella che fu definita “rinascenza geroglifica”, un ritorno d’interesse delirante ed estenuato per la scrittura egizia che proprio nel Seicento raggiunse il suo acme.

In quell’epoca di “misticismo sperimentale”, infatti, andava maturando la convinzione che tutto fosse artificiale, essendo la natura stessa arte di Dio. «I primi microscopisti, ai quali apparivano regioni segrete e fino allora invisibili della natura, incontravano legioni di minuscoli automi»9, organismi cellulari che si pensava essere manovrati da un’intelligenza immateriale e superiore. L’alchimia, altra Ars Regia che nel Seicento accarezzò lo zenit, nacque proprio per rendere visibili le forze occulte della “Natura Artificiale”, mentre si pensava che la lingua geroglifica fosse il viatico espressivo più adatto a descriverle.

Dal momento che i geroglifici rappresentano le cose così come sono, e dunque «significano la loro forma»10, Kircher e Browne s’erano persuasi che essi fossero il corrispondente più approssimato alla conoscenza divina: «come gli dèi sdegnano le proposizioni e contemplano immagini, così i geroglifici si offrono immediatamente alla contemplazione, saltando la mediazione del linguaggio articolato»11. La natura parla dunque una lingua analogica, immediata, non discorsiva, che impone se stessa istantaneamente e senza ambiguità. Una lingua necessariamente muta, poiché «non si dà traduzione fonetica di quelle immagini, che si offrono solamente alla contemplazione silenziosa»12.

La rinascenza seicentesca dei geroglifici rappresentò così il momento di massima vitalità del pensiero analogico e, al tempo stesso, l’inizio della sua decadenza. Oggi diguazziamo nel guado del grande fiume digitale, attorno a noi continua senza sosta la proliferazione cieca dell’immagine, e perciò la sua più completa svalutazione. Il trionfo del polo sostitutivo su quello connettivo – etichette mai dome con cui Calasso va chiamando ormai da decenni il digitale e l’analogico – è tale che bastano due segni soltanto, lo zero e l’uno, per rendere conto della realtà in tutta la sua estensione. Il «delicato equilibrio tra occulto e manifesto»13 è tutto lì, nel potere spropositato e inesorabile della sostituzione digitale. Con buona pace dei pansofisti seicenteschi e della loro ossessione analogica per i geroglifici.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE:
1. R. Calasso, I geroglifici di Sir Thomas Browne, Adelphi, Milano 2018.
2. Ivi p. 23
3. Ivi p. 114
4. Ivi p. 41
5-6. Ivi p. 63
7. Ivi p. 182
8. Ivi p. 14
9. Ivi p. 49
10. Ivi p. 76
11. Ivi p. 79
12. Ivi p. 130
13. Ivi p. 146

[Immagine tratta da archivio personale dell’autore, dettaglio di stampa planisfero del XVII secolo]

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Anna Banti, “Artemisia”

Agosto 1944. Una donna è seduta sulla ghiaia di un viale nel giardino di Boboli, a Firenze. Come se firmasse un autoritratto, è la stessa autrice del romanzo, Anna Banti (1895-1985), che nella prima pagina si presenta al lettore in un drammatico momento della sua vita: un bombardamento alleato ha colpito la città, la sua casa è andata distrutta. Ma la sua disperazione è rivolta a un’altra perdita, molto diversa da quelle delle altre vittime che la circondano: un manoscritto al quale ha lungamente lavorato, spingendosi fino al punto in cui è difficile distinguere tra una creatura di carta e la persona (reale) che essa rappresenta: «Sotto le macerie di casa mia ho perduto Artemisia, la mia compagna di tre secoli fa, che respirava adagio, coricata da me su cento pagine di scritto».

Anna Banti, Artemisia (copertina) - La chiave di SophiaArtemisia – Gentileschi è il cognome – fu una grande pittrice dell’età barocca. Il canovaccio biografico su cui si basa il romanzo (pubblicato per la prima volta nel 1947) lo si può riferire con le stesse parole dell’autrice: «Nata nel 1598, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovanetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s’azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito tra i due sessi. Le biografie non indicano l’anno della sua morte».

Il romanzo segue l’esile traccia di queste notizie, ma le circostanze di questa sua seconda scrittura gli danno un carattere problematico. L’autrice deve ricostruire un testo sapendo che non potrà mai riuscirci al grado di perfezione che vorrebbe; affronta i dubbi della memoria, le ansie di una nuova creazione; e spesso si sofferma a dialogare con la sua protagonista, con l’opera in corso, con il lettore: «L’ostinazione di Artemisia a farsi ricordare, la mia ostinazione a ricordarla capricciosamente, a sobbalzi commossi, sta diventando un gioco e forse un gioco crudele». «Di questa sua vita di Napoli, il fulcro della sua fama, è fatta sospettosissima, incerta se ricorderò quel che avevo scritto o se batterò nuova strada».

Leggiamo un romanzo e insieme assistiamo al formarsi del suo testo, e restiamo sorpresi da questo contrasto fra l’ambientazione storica e le riflessioni metaletterarie, del tutto novecentesche. La forma che l’autrice dà al romanzo sembra debitrice della stessa pittura barocca, con lunghe scene statiche, ognuna dedicata non tanto a un fatto quanto a un’epoca della vita della protagonista: «la velocità con cui le figurazioni della sua vita si succedevano e fluivano una  nell’altra oscilla, coagulata in quadri di lanterna magica lunare, piatti e freddi». Improvvisi lampi di luce illuminano i vari ambienti e il forte carattere della protagonista: dalla sua fanciullezza e dall’amicizia con la piccola e sfortunata Cecilia Nari, al dramma del processo contro il suo stupratore Agostino Tassi, al matrimonio combinato dal padre per restituire a Artemisia la sua “onorabilità”, ai viaggi e ai soggiorni in varie città (Firenze, Napoli, Londra) dove Artemisia insegue una sofferta, tenace, inquieta vocazione artistica.

«Le sue armi furono: dipinger sempre più risentito e fiero, con ombre tenebrose, luci di temporale, pennellate come fendenti di spada. Imparino queste femminette, questi pittorelli invaghiti di delicature». Nel cuore del romanzo una scena di grande suggestione la mostra in tutta la forza del suo talento: la creazione di uno dei suoi dipinti più grandi, Giuditta e Oloferne. Artemisia è a Firenze, circondata da alcune dame sue allieve, affascinate dall’imponente fisico del modello; ma la pittrice, nella sanguinosa scena, sta consumando una tarda vendetta raffigurandosi nelle vesti dell’eroina e dando a Oloferne i lineamenti dell’uomo che l’aveva stuprata. Una scena grandiosa, che restituisce tutto il mistero di un personaggio: «non è principessa, non è pedina, non è forese né mercantessa, non è eroina, non è santa. E neppure cortigiana: anche se quel che dicono fosse vero».

Giuliano Galletti

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne (particolare)
[Immagine tratta da Google Immagini]

NOTE:
Citazioni tratte da: Anna Banti, Artemisia, Milano, SE, 2015.

I classici d’Autore: il ‘600

Se da un lato il Seicento ‘filosofico’ è caratterizzato dal rapporto della filosofia con la scienza e dal risveglio dell’interesse per lo studio dell’uomo, che portano alla formazione della scienza moderna, che si distaccherà dalla filosofia e dalla teologia permettendo la crescita della consapevolezza dell’essere ‘uomini comuni’, come invitava a fare Bacone, affermando un’idea del conoscere come fare e come costruire, nell’arte se si dice Seicento, si parla di Barocco. 

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