Trapianto e donazione d’organi: dialogo aperto sull’anonimato

Marco Galbiati è il papà di Riccardo, un ragazzo di 15 anni, morto per un arresto cardiaco nel gennaio 2017. Da allora questo padre, assieme a tanti altri genitori, mariti, mogli, figli, fratelli e sorelle di donatori d’organi, si batte per derogare all’obbligo di anonimato del donatore o del ricevente qualora entrambe le parti lo desiderino, nonostante il divieto delle norme in vigore nel nostro Paese.

Infatti, in Italia, la legge n. 91 dell’1 aprile 1999 (art.18, comma 2) sancisce che “il personale sanitario e amministrativo impegnato nelle attività di prelievo e di trapianto è tenuto a garantire l’anonimato dei dati relativi al donatore ed al ricevente”.

Tale norma, in linea con la deontologia medica, sancisce un divieto che fa riferimento solo al personale sanitario, ma non si esprime circa eventuali contatti tra i familiari dei donatori e i riceventi.

Chi ha ricevuto gli organi, da chi li ha ricevuti? Si tratta di una domanda legittima e comprensibile tipica sia di chi acconsente alla donazione dopo la perdita di un familiare, sia di chi grazie a quell’organo donato torna a vivere.

A questo livello la medicina, la psicologia e la bioetica, però si dividono: chi ritiene che la condivisione tra familiari del donatore e trapiantato possa essere un aiuto per le persone che lo hanno vissuto, e chi ritiene che in realtà quello che accade nella psicologia delle famiglie coinvolte sia molto più complesso e problematico.

A tal proposito, il Centro Nazionale Trapianti di fronte alle richieste di deroga dell’anonimato insiste sul fatto che quest’ultimo sia, invece, elemento necessario tanto per la tutela dei familiari del donatore, soprattutto per evitare la comparsa di proiezioni distorte nei confronti di chi ha ricevuto gli organi del proprio caro, quanto per chi ha ricevuto l’organo.

Infatti, il trapiantato è una persona che ha la possibilità di ritornare al vita e che inevitabilmente sviluppa un profondo sentimento di gratitudine nei confronti del donatore che gli psicologi chiamano vincolo di riconoscenza. Ecco perché il principio dell’anonimato si pone a tutela del ricevente, il quale potrebbe sviluppare dipendenze nei confronti di chi gli ha permesso di continuare a vivere oppure subire pressioni di diversa natura (relazionali, economiche ecc).

Di conseguenza la rete trapiantologica italiana, ad oggi, si “limita” a mettere a disposizione un’equipe di psicologi a sostegno nell’elaborazione del lutto e un servizio informativo per rendere noto ai familiari del donatore quali organi sono funzionanti e, nei casi in cui lo si richieda, le caratteristiche generali del ricevente (età e sesso).

In ogni caso, a fronte delle petizioni lanciate sul tema, il Centro Nazionale Trapianti ha ritenuto necessario analizzare la questione non solo dal punto di vista strettamente medico-psicologico, formulando un quesito al Comitato Nazionale di Bioetica circa l’opportunità di superare l’anonimato delle famiglie di chi dona e chi riceve gli organi. 

A tale riguardo, infatti, lo stesso Comitato il 27 settembre 2018 ha pubblicato un nuovo parere dedicato al tema della “Conservazione dell’anonimato del donatore e del ricevente nel trapianto di organi”. Il Comitato ritiene necessario mantenere il principio dell’anonimato nella fase precedente al trapianto degli organi al fine di conservare i requisiti di equità basati su: criteri clinici, priorità nella lista d’attesa ecc, e nell’intento di impedire eventuali ricatti, manipolazioni o coercizioni.

Nelle fasi successive alla donazione, a differenza di quanto previsto dalla legge 91/1999, il  Comitato si esprime positivamente rispetto alla possibilità di eliminare l’obbligatorietà dell’anonimato, a condizione però che entrambe le parti siano d’accordo, che sia stato firmato un consenso informato valido e che sia passato un tempo sufficiente per compiere delle scelte ponderate da parte di tutti i soggetti coinvolti.

Il Comitato individua inoltre la necessità di una struttura terza, nell’ambito del sistema sanitario, responsabile della valutazione e della gestione del contatto tra donatore e ricevente in modo tale che sia assicurato il rispetto dei principi cardine della medicina dei trapianti (privacy, gratuità, giustizia).

Successivamente e in conseguenza al parere formulato dal Comitato Nazionale di Bioetica, il Centro Nazionale Trapianti ha fornito disponibilità e supporto tecnico nell’intraprendere un eventuale iter legislativo volto alla modifica della Legge 91/1999.

Personalmente ritengo che la rimozione dell’anonimato sia una possibilità eticamente giustificata. Reputo inoltre che la conoscenza dell’identità dei donatori e dei trapiantati debba avvenire in presenza di determinate condizioni, la condizione fondamentale essendo quella relativa al riscontro di un equilibrio psicologico degli interessati tale da permettere loro di interpretare ed assimilare in maniera obiettiva il significato che il trapianto può acquisire dal punto di vista della continuità dell’identità personale.

Infatti, nel caso specifico della donazione di organi, può risultare complesso discernere in modo netto l’identità di un “tutto” (inteso come “persona” o “corpo”) da quella di una sua “parte” (nel caso specifico un “organo”). Si consideri, ad esempio, il caso in cui il cuore appartenuto a un ragazzo morto venga trapiantato in un’altra persona, salvandole la vita: è plausibile che la famiglia del donatore ritenga che una “parte” del proprio figlio continui a vivere in un’altra persona.

Allo stesso modo, la persona che ha ricevuto l’organo in dono potrebbe pensare che, in seguito al trapianto, la sua identità (biologica) sia stata “modificata”, in quanto “integrata” da una parte (organo) precedentemente appartenuta a qualcun altro.

Detto ciò, dunque, credo che debba essere possibile talvolta fare in modo che il desiderio da parte della famiglia di un donatore di incontrare la persona in cui, in qualche modo, continua a vivere una parte della propria persona cara, possa essere perseguito. Ritengo tuttavia indispensabile gestire e prevenire, all’interno della pratica clinica di sostegno psicologico, il rischio di sviluppare, dall’una o dall’altra parte, da donatori e da riceventi, aspettative e proiezioni deviate così come logiche identitarie distorte o patologiche.

 

Silvia Pennisi

 

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Il mondo infestato: sull’esistenza dei fantasmi

Il fantasma è un segreto. Segreto celato, segreto di sangue, segreto inconfessato, segreto di rimorso, segreto d’oltretomba. Una questione irrisolta che continua a infestare il mondo, in attesa che qualche riflessione la sblocchi per renderla libera. Il fantasma è agitato e per questo ulula. È spaventato dall’incredulità dei vivi e per questo si nasconde. Ma insieme conosce il suo potere perché proviene da quelle dimensioni che i vivi temono di più. Il segreto che incarna si riferisce anche a questo, alla conoscenza che ha dell’Erebo, il regno dello Spirito; e poiché lo manifesta, costringe chi testimonia a elaborare una realtà cui non sapeva di appartenere.

Tuttavia, credo che parlare di fantasma in sé sia sbagliato, perché è difficile che un fantasma si manifesti senza un osservatore che ne permetta la sorgenza. Il fantasma è più un’esperienza, nel senso che si genera in un incontro tra due volontà: l’una concreta e agentiva, l’altra ambigua e immateriale. Nell’intreccio di due mondi consanguinei, si aprono le soglie che permettono uno scambio di immagini e aspettative. Da una parte vi è il polo del visitatore, che mosso dall’interesse di un incontro col fantasma cerca di mettersi nelle condizioni ideali per suscitarlo, e così si addentra in case abbandonate, predilige le ore notturne, invoca quei nomi che dovrebbero provocare l’apparizione; e vi è poi il polo del visitato, che invece non vuole farsi scoprire in senso stretto, ma si manifesta gradualmente, attingendo dall’ambiente in cui avviene l’incontro. Non sono ruoli fissi, perché un visitatore può venire visitato dal fantasma senza che si sposti di casa, o senza che si addentri direttamente in luoghi infestati. Ciò che conta è il fatto che il fantasma deve essere il tormento di qualcuno, o non potrà mai apparire. In questo senso il visitatore e il visitato fanno parte di una medesima volontà: quella dello Spirito.

Questo ci porta a dire che il fantasma è una ricomposizione. Cioè un’immagine corale, astratta da una serie di oggetti che testimoniano un passato e scatenano i ricordi. Poniamo caso di esserci addentrati in una casa infestata e che troviamo una foto su un comodino: è la foto della famiglia che un tempo abitava lì? O è la foto di una famiglia di parenti o di amici? Una risposta permette di comprendere qualcosa circa gli affetti e le priorità degli ex-abitanti, e già qualcosa può emergere sussurrando. Guardiamo poi le espressioni delle persone ritratte: perché lui ha uno sguardo tanto serio? Perché lei sembra assente e intristita? Perché la figlia osserva oltre la cellulosa con inquietante fissità? L’essenza che permea questi oggetti, per quanto confusa ci possa apparire, rievoca le voci del passato, ovattate dal tempo trascorso, dalla nostra ignoranza, dal loro oggettivo silenzio, dalla soggezione che incute nei vivi il rapporto coi morti. Il visitato (cioè il fantasma) si presenta attraverso ciò che gli oggetti suggeriscono a chi si pone nelle condizioni di ascoltarli. E quei suggerimenti sono la storia, il racconto e il sogno di una persona che un tempo abitava il nostro stesso mondo – che ha partecipato cioè dello Spirito. Questo è il fantasma: la reliquia di una persona, l’impressione che ha lasciato nel mondo umano, e per questo è riconoscibile. Ma ancora di più, è l’impressione che ha lasciato uno spirito in generale, giacché lo spirito si scopre come traccia. Il fantasma è l’intelligenza versata negli oggetti del mondo che emerge non appena qualcuno si pone in ascolto.   

Il segreto, una volta scoperto, tenterà di difendersi, perché in quanto segreto vorrà mantenersi tale. Come un sogno che per rimanere sogno non si fa realizzare. E il segreto si difende riemergendo prepotente, perché afflitto dalle ingiurie del tempo e dalla sua stessa segretezza. Mentre ci addentriamo nella casa e scorriamo il mobilio e le stanze, quel segreto acquista sempre più potere e intensità, generando i vapori spettrali, le visioni, le sensazioni agghiaccianti, la paura di essere tanto osservati da un’entità intangibile quanto odiati dalla stessa, sino a quando o scoppia, rivelandoci la presenza di uno spettro iracondo e minaccioso che noi non riusciamo ad affrontare, o si risolve in un momento di fortissima catarsi in cui lo spettro, per quanto ostile, ottiene finalmente la sua redenzione.

Sorrido riflettendo su quanto dico, perché immagino il provocatore di turno che bonariamente mi invita ad affrontare per una notte una casa infestata, dato che posso argomentare contro l’esistenza degli spettri in maniera tanto ragionevole. Ma appunto sorrido, perché mi rifiuterei di farlo quantomeno da solo, e farei così la figura del vigliacco, perché in realtà, a conti fatti, non ho dimostrato l’inesistenza degli spettri, ma ne ho invece dichiarato l’esistenza. I fantasmi esistono e a pensarci bene infestano l’interezza del nostro mondo. Fantasma non è semplicemente emersione del passato, ma è carica spirituale, emotiva e umana compressa all’interno di un oggetto. Le nostre città sono colme di spirito, le abitazioni, gli oggetti, le stesse parole che sentiamo sono cariche di spettri, di sussurri che annunciano mondi più ampi e irriducibili. Basta interrogare la maglietta che si indossa e subito emergono i volti contraffatti di chi l’ha cucita.

Fantasma è dunque eidolon (είδολον), immagine, simulacro nel senso greco del termine; è la traccia grazie alla quale scopriamo il passaggio dello Spirito e la sua continua presenza. Il mondo umano è un mondo infestato; la mente è mente estesa. La Storia stessa è un immenso fantasma perché è l’immagine pervasiva e polifonica dello Spirito che si argomenta. I libri evocano fantasmi; il telegiornale vomita fantasmi; l’immaginazione dà loro un volto. Lo Spirito insomma, che figlia fantasmi dovunque posa mani e sguardo, è qualcosa che è immanente al mondo, al mondo come artefatto della narrazione umana e delle sue conquiste, e in nessun modo può esistere al di fuori dei confini che questo ha per sé istituito. I fantasmi sono prodotti dello Spirito e per questo rimarranno qui con noi per sempre, fino a quando lo Spirito non cesserà di sapersi.

 

Leonardo Albano

 

[Photo credit Erik Müller su unsplash.com]

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All’essere speciale che mi ha fatto conoscere la vulnerabilità

Nonno mi ha fatto esplorare la vita, facendomi sentire speciale ogni giorno.

Nonno mi portava in panificio su un Ciao bianco e voleva che mi tenessi stretta ai suoi fianchi fragili affinché potessi sentirmi protetta, anche se ero io a volerlo proteggere da tutta quella sofferenza che l’avrebbe risucchiato e che stava logorando piano piano il suo fisico, le sue emozioni, così come stava spegnendo la sua voglia di prendersi cura dell’orto di casa e di giocare a carte, raccontarmi une storia e seguirmi da una piscina all’altra, ogni settimana.

Nonno mi ha fatto conoscere e toccare con mano il corpo sterile e freddo della morte, quel respiro sussurrato quando il cuore non ce la faceva davvero più, le mani gelide e giallognole, gli occhi incavati di una persona che, a suo malgrado, ha appeso l’armatura della vita al muro perché era diventato tutto troppo faticoso, troppo doloroso. Come i suoi respiri, quei respiri pesanti che talvolta diventavano sospiri senza più alcuna traccia di speranza, sospiri di non-desiderio, sospiri di un lasciatemi-andare.

È con nonno che ho imparato a conoscere la più profonda delicatezza del corpo umano, quella vulnerabilità che, come sostiene Habermas, costituisce “l’estrema fragilità della condizione umana”. Una fragilità che si descrive attraverso il corpo, ma che si inscrive al contempo nella dimensione più profonda del nostro essere-al-mondo.

La vulnerabilità incrementa in noi il timore rispetto a quei pericoli che potrebbero sconvolgere e mettere in pericolo le nostre vite. Pericoli imprevedibili, eppure così vicini. Talvolta silenziosi.

A tutto ciò è possibile tuttavia contrapporre il sublime, descritto bene dal filosofo Emmanuel Kant[1] come quell’esperienza che proviamo di fronte a degli avvenimenti naturali molto violenti ed intensi ad esempio, “frane, il frantumarsi delle pareti rocciose, la minaccia dei temporali, i vulcani in tutta la loro potenza devastatrice, gli uragani cui segue la desolazione, l’immenso oceano nel suo furore, le cascate di un fiume etc.”, in seguito ai quali dovremmo sentirci perduti, impauriti.

Al contrario, nella nostra piccolezza, fragilità e finitudine, siamo coscienti dell’esistenza di una realtà esperibile unicamente sul piano emotivo, in quanto rivolta ad una realtà altra, superiore.

Una tale descrizione, paradossalmente, invece di far nascere in noi il sentimento di paura e di smarrimento, incrementa una sorta di superiorità, di dominio sulla natura, nonostante la forza inarrestabile di questi episodi[2].Infatti, a tale proposito, Kant sostiene che, rispetto a questi accadimenti, “ci sentiamo protetti”: tale esperienza del sublime, che ha origine dalle diverse manifestazioni dalla natura, contribuisce ad alimentare in noi una sensazione di sicurezza, quasi di controllo rispetto a ciò che è più grande di noi e che potrebbe perfino distruggerci.

La vulnerabilità umana, invece, ci intimorisce poiché ci costituisce profondamente dall’interno. Una vulnerabilità che annienta, se non accettata.

Ed è per proteggersi da essa che usufruiamo della corazza dell’autonomia e dell’iper-controllo, così come quella del distacco emotivo e dell’isolamento, permettendo a ciascuno di sentirsi al sicuro rispetto ai rischi del lasciarsi andare a quelle crepe che, inevitabilmente, ci apparterranno sempre. Una vulnerabilità dunque non sempre accolta, abbracciata. Piuttosto, una vulnerabilità ostile, negata.

Fin tanto che la vulnerabilità continuerà a sembrarci una dimensione a noi lontana, quasi straniera, un orizzonte inesistente, sarà la paura a incrementare e a costituire quella salda barriera tra noi e noi, tra noi e il mondo, separandoci da esso, allontanandoci da quella verità che vogliamo a tutti i costi nascondere e che solo all’interno di noi possiamo far risorgere, trasformandola in un punto di forza.

La pretesa di essere indistruttibili segna il terreno della paura. La paura delle ferite. Delle debolezze. Delle fragilità. Del vuoto e delle perdite.

La paura può paralizzare, bloccare la parola. Ma può anche dare la possibilità di raccogliere le risorse interiori necessarie per reagire, per non subire passivamente la vita.

La paura, dunque, «tantôt elle nous donne des ailes aux talons, tantôt elle nous cloue les pieds et les entrave[3] » (« tanto ci da delle ali ai talloni, tanto inchioda i piedi a terra e li ostacola »), scrisse Michel de Montaigne nei suoi Essais.

Quando il nonno ci lasciò, conobbi al contempo la vulnerabilità e la paura.

Entrambe, tuttavia, liberatrici perché attraverso di esse ho iniziato a capire che cosa significa esplorarsi e conoscersi. Osservare dall’alto quelle contraddizioni che però rendono ognuno speciale e unico. Accompaganta dalla mia vulnerabilità e dalla mia paura.

La vulnerabilità, in quanto manifestazione di quel segreto che mi porto dentro, e la paura, in quanto emozione che mi ha dato quelle ali ai piedi, indispensabili per esprimere ogni giorno la libertà di essere me stessa, abbandonando la corazza, contemplando quel sublime in cui un giorno vorrei trovare una casa.

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

 

NOTE

[1] KANT E., Critique de la faculté de juger, trad. fr. A Philonenko, Paris, Virin, 1989.

[2] GALLIE M., “Vulnérabilité”, p. 1440, in M. MARZANO (dir)Dictionnaire de la violence, PUF, 2011, p. 1546.

[3] MONTAIGNE. M., Les essais, “De la Peur”, p. 214,tanto Paris, FOLIO Classique, Editions Gallimard, 2009.

Il nostro piccolo segreto

 

2014 – New York – ore 02.45

“Preferirei se ora tornassi a casa tua… non mi piace dormire in compagnia.” Si gira su un fianco per non far vedere il volto rigato di lacrime, si copre il corpo ancora nudo e chiude gli occhi. Vittoria se ne sta così, nel buio della stanza, trattenendo quasi il respiro, mentre ascolta paziente i movimenti dell’uomo che si riveste. Lo ascolta andare in bagno. Lo ascolta mettersi le scarpe. Lo ascolta mentre beve un sorso d’acqua dalla bottiglia lasciata sul comodino accanto al letto. Lo ascolta anche mentre le dà un bacio delicato sulla guancia sussurrandole un saluto. Lo ascolta chiudersi la porta alle spalle. Non resiste un solo minuto in più su quel letto, Vittoria. Rimasta finalmente sola va in bagno e lascia scorrere l’acqua della doccia, aspettando che il vapore inondi la stanza. Si ferma per un momento, lì, appoggiata sullo stipite della porta, tra la camera da letto e il bagno, ancora nuda, con lo sguardo perso. Il pensiero torna a Lui, come ogni volta. La camera ancora calda, umida, odora ancora dei loro corpi mischiati. Il suono di una sirena giù in strada la distoglie dai suoi pensieri. Si passa veloce una mano tra i suoi corti capelli corvini e, svelta, inizia a togliere le lenzuola. Quando il letto rimane spoglio, finalmente, si lascia andare in una lunga, depurante, doccia bollente.

Era sempre stato così, per Vittoria.

Sarebbe sempre stato così, per lei.

Anche dall’altra parte del mondo.

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