La liberazione del gesto: spunti dall’arte informale ad Asolo

In questi giorni al Museo Civico di Asolo è allestita una mostra dedicata all’arte informale, ovvero quel momento artistico della seconda metà del Novecento in cui gli artisti hanno manifestato in maniera sostanzialmente concorde una medesima necessità: l’emancipazione dalla forma. Passeggiare all’interno delle sale in cui è allestita la mostra Vedova/Shimamoto. Informale da Occidente a Oriente implica la conoscenza di diverse risposte ad un’esigenza unica – risposte fatte prevalentemente di colori, di segni, di materia che si fanno guardare.

Questa distanza dalla forma era già stata inseguita da altri artisti nelle decadi precedenti, ciascuno con i propri perché a cui rispondere e con le proprie soluzioni date. Basti pensare a Kandinskij e a Malevic, a Mondrian e Klee: attraverso il rigore o l’intuizione si tentava di accedere a una dimensione artistica nuova. A questi si aggiunge la riflessione futurista sul movimento, la valorizzazione del transitorio e del dinamico, sulla velocità. Facendo tesoro di questi illustri tentativi, è infine l’evento tragico a costituire il punto di svolta: la seconda guerra mondiale. Con essa l’artista intende rinascere e cancellare il passato con un colpo di spugna, eliminare quell’arte figurativa che (a volte in modo anche palese) aveva sostenuto quei sistemi sociopolitici che avevano portato alla sciagura della guerra, dell’olocausto, dell’atomica. Si trattava dunque di operare una vera e propria decostruzione del linguaggio artistico e dunque del suo millenario punto fermo: la forma.

Reagire alla forma significò per loro, stando all’analisi di Massimo Donà, «riappropriarsi di un gesto creativo opportunamente ricondotto alla sua condizione originaria […] alla potenza generatrice che limiti e vincoli presupposti non ha […] alla esplosività di un atto che potesse essere esperito in quanto tale, a prescindere dall’ipotetica perfezione del suo risultato» (M. Donà, Filosofia dell’arte)1.

informale ad asolo

Per Shozo Shimamoto significava disporre a terra delle tele vergini, immacolate, e scagliarci contro delle bottiglie piene di colore: un po’ come la bomba atomica gettata su Hiroshima e Nagasaki, solo che questa volta dalla distruzione nasce qualcosa di nuovo, di vitale, e il gesto non è più feroce ma libero, puro. Come per gli altri componenti del gruppo giapponese Gutai (letteralmente “concreto”), artisti dell’informale, l’atto creativo è protagonista e l’artista è il veicolo attraverso il quale l’arte si crea: egli fa parte di un tutt’uno, di un flusso d’energia che unisce tutto ciò che esiste, così come teorizzato dalle diverse correnti filosofiche che animano la cultura orientale. Su questo sfondo si afferma l’idea che l’opera non è il vero fine del fare artistico ma una sua componente, uno suo momento. Un’idea questa abbracciata dai giapponesi ma ispirata da venti d’oltreoceano, quelli che hanno sospinto in Asia la rivoluzione dell’action painting. Jackson Pollock, Willem de Kooning e Paul Jenkins sono ugualmente impegnati nella loro crociata contro la forma e orientati a una decisiva liberazione del gesto, ma nascono in un contesto americano e dunque profondamente individualista. Ecco che qui allora l’informale è definibile piuttosto come espressionismo astratto e nell’opera d’arte si riversano spesso frustrazioni, dolori, disperazione, contraddizioni, violenza, facendo emergere una dirompente soggettività. Similmente il veneziano Emilio Vedova, senza la casualità (per quanto apparente) del dripping ma ragionando intensamente sul segno lasciato dal gesto sulla tela, apre nella sua arte uno spazio di «partecipazione attiva» attraverso una gestualità «articolata, tentacolare [che diventa] corpo aggressivo, provocatore»2. Un esito che non sorprende se letto alla luce dell’impegno sociopolitico dell’artista e della sua partecipazione alla resistenza partigiana.

Ecco perché parlare di arte non significa allontanarsi troppo dal tracciato di una profonda indagine sull’uomo. Da quando l’artista si emancipa la committenza, è spesso l’individuo a emergere dall’arte e la sua ricerca artistica spesso coincide con una indagine umana esistenziale. Così, passeggiando all’interno della mostra, si potranno trovare affinità con Shimamoto e la sua volontà di farsi Tutto, con Vedova e la sua violenta espressione del sé, con Fontana e la sua continua ricerca di qualcosa oltre la superficie, con Burri e il suo pessimismo esistenziale, con Afro e il suo incessante processo psicologico di elaborazione emotiva. Artisti, individui che attraverso l’arte hanno cercato risposte a domande non così diverse dalle nostre oggi, colpiti se non sfigurati dagli orrori del passato e smaniosamente proiettati al nuovo. Proprio l’informale più di qualsiasi altro ha consentito loro di cercare risposte a queste domande perché, scrive Walter Benjamin, «è solo nella parzialità dell’astratto, ossia nella parte mancante dell’intero che, all’intero, è dato mostrarsi nella propria verità. È infatti solo nell’impossibilità dell’intero che l’immediatezza si dice veramente, dicendo per ciò stesso la sostanziale astrattezza del concreto»3.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1. M. Donà, Filosofia dell’arte, Bompiani, Milano 2007, p. 321.
2. Ivi, p. 330.
3. Ivi, p. 329.

[Photo credit Giorgia Favero: in copertina, dettaglio di un’opera di Afro Basaldella esposta in mostra; nel testo, una sala del Museo civico di Asolo]

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Selezionati per voi libri: ottobre 2017!

L’autunno è arrivato: le foglie iniziano a ingiallirsi e a cadere dai rami e la nebbiolina serale comincia ad appannare i vetri delle nostre auto. Torniamo a ripararci tra le calde mura delle nostre case, magari con mestoli e mixer alla mano per preparare qualche bel dolce che possa profumare l’aria. Durante la cottura fatevi tentare dal vostro soffice divano e prendete in mano il libro che più preferite! Magari uno di questi..

 

UN ROMANZO CONTEMPORANEO

allende_il-piano-infinito_recensione_la-chiave-di-sophiaIl piano infinito – Isabel Allende

Con Il piano infinito la Allende dimostra senza dubbio alcuno di appartenere alla categoria degli scrittori e delle scrittrici che fanno dell’esistenza lo spirito del proprio romanzo. L’esistenza di cui si parla qui è quella del gringo Gregory Reeves, il quale incarna l’aspirazione umana al raggiungimento di una felicità che sembra sfuggire ad ogni passo. La sua avventura si intreccia all’eterna ricerca dell’uomo, inserendosi nei luoghi della storia del mondo, delle sue contraddizioni, dei suoi problemi sociali e della sua miseria.

UN CLASSICO

marcovaldo-la-chiave-di-sophiaMarcovaldo – Italo Calvino (1963)

Marcovaldo è una raccolta di racconti che narra le avventure dell’omonimo protagonista che dalla vita rurale si trasferisce in una città industriale, faticando ad adattarsi alla nuova realtà. Dimostrandosi ingenuo e credulone, Marcovaldo crede di poter assaporare la natura così come era propria abitudine in campagna, ma si ritrova invece a dover fare i conti con un ambiente molto diverso. Scritto con note fortemente parodiche e critiche, il libro di Calvino si fa portavoce di un’epoca in cui il rispetto per il territorio risulta carente, manchevole dei dovuti riguardi. Consigliato a tutti coloro che amano la satira dolceamara e le riflessioni sul mondo circostante, espresse in un linguaggio molto semplice, vivace e per nulla pedante.

 

SAGGISTICA

carlo-rovelli_sette-brevi-lezioni-di-fisica_recensione_la-chiave-di-sophiaSette brevi lezioni di fisica – Carlo Rovelli

Spesso e volentieri l’ambito scientifico è considerato un circolo privato accessibile a pochi. I vari fenomeni che si compiono ogni giorno, che ci circondano e ci investono costituiscono il dispiegarsi delle nostre azioni, del nostro stare al mondo. Eppure la maggior parte delle persone è esclusa dalla discussione, anzi addirittura dalla comprensione stessa. In sette lezioni su quanti, teoria della relatività, sulla probabilità e il cosmo Carlo Rovelli ci dona libertà, ci permette di accedere con leggerezza e semplicità – non ingenuità – all’informazione scientifica in tempi in cui la disinformazione è ormai una costante del quotidiano.

JUNIOR

la_mia_resistenza_182-la-chiave-di-sophiaLa mia resistenza – Roberto Denti

Un racconto autobiografico che ci riporta negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Roberto Denti, famoso libraio e scrittore, in queste pagine offre a tutti i suoi amati lettori i suoi ricordi di giovane partigiano. Il testo, al contempo semplice e profondo, è adatto a tutti: ideale tanto per una lettura in classe quanto per una lettura integrale durante le vacanze. La lettura è consigliata a tutti i ragazzi a partire dall’età della scuola media, desiderosi di conoscere il passato del nostro paese e il vissuto di tanti ragazzi che, come l’autore, dovettero confrontarsi con il peso della guerra.

 

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Alvise Gasparini, Federica Bonisiol

 

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Film selezionati per voi: agosto 2017!

Agosto è agosto. È torrido, quasi infiammato. È il mese delle ferie ma quasi quasi è meglio stare a casa, che almeno lì c’è un ventilatore o magari il condizionatore. E allora, se volete intrattenervi in un pomeriggio o in una serata tranquilla in compagnia di film di qualità, segnatevi questi titoli!

 

FILM IN USCITA

la chiave di sophia monolith-poster-locandina-2017Monolith – Ivan Silvestrini
Nel desolato panorama delle sale cinematografiche estive sono diversi i film che questo mese meritano almeno una visione in sala. Tra questi c’è un’interessante esperimento italiano che unisce tra loro thriller e dramma ispirandosi al cinema americano senza scimmiottarlo malamente. La protagonista Sandra resta chiusa fuori dalla sua Monolith, la macchina più sicura al mondo, costruita per proteggere i propri cari da qualsiasi minaccia. Suo figlio David è rimasto al suo interno, ha solo due anni e non può liberarsi da solo. Intorno a loro il deserto, per miglia e miglia. Riuscirà la donna a salvare il proprio piccolo dai pericoli di questa temibile intelligenza artificiale? Tesissimo e coinvolgente, Monolith è una riuscita sorpresa per il nostro cinema di genere. USCITA PREVISTA: 12 AGOSTO 2017

a-ciambra la chiave di sophiaA ciambra – Jonas Carpignano
Ancora cinema italiano grazie all’uscita nelle sale del bellissimo “A ciambra”, la pellicola che ha conquistato il premio come miglior film europeo alla Quinzaine des Réalisateurs nell’ultimo festival di Cannes. La storia segue la vita del quattordicenne Pio Amato, nato e cresciuto nella piccola comunità Rom nei pressi di Gioia Tauro, e del suo rapporto con il fratello Cosimo. Quando un evento tragico li dividerà, per il giovane protagonista le cose inizieranno a farsi molto complicate. Un esempio di cinema iperrealista da non perdere per scoprire le grandi potenzialità autoriali del cinema italiano d’oggi. USCITA PREVISTA: 31 AGOSTO 2017

dunkirk la chiave di sophiaDunkirk – Christopher Nolan
Inutile negarlo: il ritorno dietro alla macchina da presa del regista di “Inception” e “Intersellar” è atteso come l’evento cinematografico dell’anno. Un grandissimo film di guerra su una delle operazioni militari più incredibili della Seconda Guerra Mondiale. Una storia di coraggio e determinazione, priva di sangue e retorica. Un piacere per gli occhi da ammirare tassativamente in una sala cinematografica. Con questo film Nolan non si limita a mostrare allo spettatore le sue straordinarie conoscenze tecniche del mezzo cinematografico, ma carica la Storia di un’emozionante componente umana che rende tutto ancora più spettacolare. In una parola: imperdibile. USCITA PREVISTA: 31 AGOSTO 2017

 

UN DOCUMENTARIO

la-principessa-e-laquila la chiave di sophiaLa principessa e l’aquila – Otto Bell
La vera storia di Aisholpan, tredicenne mongola che ha il sogno di diventare la prima cacciatrice di aquile donna nella Storia, una professione che in genere, è riservata solo agli uomini del suo Paese. Il film annovera tra i suoi protagonisti anche la giovane star di “Guerre Stellari” Dasy Ridley. Bellissima storia di passaggio generazionale e affermazione del sé, “La principessa e l’aquila” sarà disponibile in dvd a partire proprio dal mese di agosto. Una pellicola da non perdere, da far vedere specialmente ai più piccoli.

 

UNA SERIE TV

Boris – boris-la-chiave-di-sophiaItalia, 2007-2010
Anche voi talvolta trovate ridicole le fiction di Rai 1 con preti investigatori, ragazze belle ma incapaci di recitare, luci sparate e una trama strappalacrime? Allora Boris è la serie tv che fa per voi. Boris mette in scena le disavventure di un regista e della sua squadra di attori e tecnici, impegnati a realizzare la fiction Gli occhi del cuore. Pur essendo ormai un po’ datata, Boris rimane una riflessione attuale e divertente sulla televisione italiana e, in fondo, sull’intero Paese.

 

Alvise Wollner & Lorenzo Gineprini

 

 

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Contro la cementificazione della Memoria

Ogni 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria, una data istituita in Italia per ricordare:

«la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Legge 211, 20 luglio 2000

Da questo momento, ogni 27 gennaio, le sale cinematografiche proiettano un film sul tema − quest’anno è la volta di Nebbia in agosto di Kai Wessel −, le biblioteche o le istituzioni culturali promuovono conferenze o spettacoli teatrali − solitamente su Hannah Arendt − e le scuole concedono il permesso a fugaci visite ai musei della Memoria, solo per obblighi istituzionali. Ed io, scrivendo un articolo sul giorno della memoria, mi cimento nel ruolo ricoperto da altri milioni di autori, che ogni anno dedicano 800 parole al 27 gennaio.
Tutto ben organizzato per trovare il tempo di ricordare. Alla fine occupa solo un giorno, o al massimo una settimana. Da domani ci si può finalmente sentire meno in colpa perché il nostro dovere di buon cittadino è stato eseguito. Anche da casa con Facebook. Da domani finalmente potremo condividere e postare a piacimento notizie riguardanti le terribili malattie portate dagli immigrati o quelle sui cani bisognosi di cura. I sommersi (nel vero senso della parola) e i salvati dei nostri tempi.

Il Giorno della Memoria è una memoria abitudinaria, ferma e passiva che sbiadisce con il tempo. Per quale motivo, allora, ci si ostina a fissarla − la memoria − in un preciso istante, quando è essa stessa un meccanismo in movimento che conserva e riformula le tracce di ciò che vediamo, sentiamo, guardiamo e tocchiamo?
Perché tendiamo a istituzionalizzarla e a monumentalizzarla in modo tale da isolarla e allontanarla dalle persone, rischiando che quest’ultime nel corso degli anni perdano la sensibilità nei confronti di ciò che è stato? Insomma, perché vogliamo mummificare la memoria delle stragi naziste?

Credo fermamente che occorra pensare a un qualcosa di permanente, al quale si possa aderire volontariamente senza l’incombenza di “dover” ricordare. Serve, dunque, un progetto che si riappropri del tempo e dello spazio, individuale e sociale, in maniera riservata e silenziosa, ma costante.
Un esempio, a mio parere, estremamente positivo è rappresentato dall’iniziativa Pietre d’inciampo1 partita da Colonia, una cittadina tedesca, grazie al genio dell’artista Gunter Demnig. Di cosa si tratta? Di un’idea semplice ed efficace: un sampietrino ricoperto da una piastra di ottone posto davanti alle abitazioni di chi venne deportato nei campi nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Una piccola targa quadrata sopra la quale è riportato il nome della vittima, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione. Se conosciuta, anche la data di morte.
Ad oggi di questi sampietrini ne son stati depositati circa 60 mila in quasi tutta Europa. Anche a Venezia se ne possono trovare alcuni2. Occorre fare attenzione però, perché le pietre d’inciampo non son semplici targhe dall’importanza irrilevante, bensì vere e proprie tracce in grado di relazionarsi con la quotidianità delle persone. In breve, le pietre d’inciampo sono vulnerabili: è possibile calpestarle inavvertitamente, o magari levarle volontariamente per negare ciò che è stato e ancora sono inermi di fronte alle intemperie e all’inquinamento urbano. Senza alcun tipo di timore reverenziale, come spesso accade davanti ai grandi monumenti ottocenteschi, si avrà qualche incontro con queste presenze permanenti e integrate nella città. Magari casualmente, ma in ogni caso si dovrà fare i conti  con questi quadratini dorati che pazientemente ricorderanno le storie delle “possibilità negate” dal nazismo.
La memoria, d’altronde, non deve essere astratta dalla vita, ma deve avere il coraggio di confrontarsi e scontrarsi con essa per tornare ad essere viva.

Marco Donadon

NOTE:
1. Per approfondire, si veda il sito dell’iniziativa.
2. Qui trovate una mappa aggiornata delle Pietre d’inciampo poste a Venezia.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Etty Hillesum: vincere l’isolamento intellettuale

In tempi difficili come quelli che stiamo attraversando, particolarmente negli uomini di pensiero si erge spesso forte e spontaneo il desiderio di “affrontare” la realtà rifugiandosi nei libri, nei poeti, nella speculazione, nel silenzio di librerie, biblioteche e scrittoi. Questo peculiare stile di vita può essere fonte di nutrimento e di elevazione interiore. Anzi, per l’intellettuale esso diviene propriamente un habitus. Ma siamo sicuri che questo, anche per il pensatore, sia il modo migliore per stare nel mondo? Siamo certi che basti a fare dell’intellettuale una persona completa? Non c’è forse il rischio di una fuga dalla realtà, in favore di un intellettualismo solipsistico?

Etty Hilleusm, giovane pensatrice olandese di origine ebraica, morta ad Auschwitz nel 1943, si pone tali domande e ad esse tenta di fornire risposte. È il 1941 quando, su consiglio del proprio psicoanalista, inizia a tenere il Diario e l’Olanda è sotto il dominio nazista da quasi un anno. Ella coglie da subito, molto lucidamente, lo scenario di morte che si delinea per gli ebrei olandesi. L’apocalittico finale inizia però con una serie di eventi via via più crudeli: arresti, privazione delle più elementari libertà, suicidi di professori universitari. Hillesum comprende che si stanno perdendo diversi punti di riferimento etici, sociali, culturali e valoriali. «È tutto un mondo che va in pezzi»[1] scrive nel proprio Diario. Una profonda e comprensibile malinconia pervade la sua giovane e debole anima. Come donna di pensiero sperimenta il forte desiderio di fuggire questa tragica situazione rifugiandosi nella filosofia, nella letteratura, nella psicologia, nella sapienza religiosa, circondandosi della compagnia di Kierkegaard, Rilke, Jung, Freud, Hegel, Agostino, Tolstoj, Dostoevskij, l’evangelista Matteo e l’apostolo Paolo. Lo comprendiamo quando scrive:

«A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza di secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri e con la vista che spazia su campi di grano, devono proprio essere campi di grano, e devono anche ondeggiare al vento. Lì vorrei sprofondarmi nei secoli in me stessa. E alla lunga troverei pace e chiarezza»[2].

Come biasimare la volontà di crearsi un’oasi di serenità dimenticandosi del mondo esterno, della realtà, dell’avverso destino che l’attende?

Tuttavia, Etty Hillesum ci stupisce. Vuole vincere l’isolamento intellettuale e di seguito afferma:

«Ma questo non è poi tanto difficile. È qui, ora, in questo luogo e in questo mondo, che devo trovare chiarezza e pace e equilibrio. Devo buttarmi e ributtarmi nella realtà, devo confrontarmi con tutto ciò che incontro sul mio cammino, devo accogliere e nutrire il mondo esterno col mio mondo interno e viceversa» [3].

Sente di dover e di poter vivere a diretto contatto con il mondo esterno, con la tragica storia che la attraversa, dispensando nel mondo la saggezza e l’amore che vibrano nel profondo della sua giovane anima.

Il rapporto fra interiorità ed esteriorità è centrale nel percorso personale e intellettuale della ragazza di Amsterdam. La massima esistenziale che guida la sua vita sino alla morte, sono le parole che scolpisce nel Diario il 25 marzo 1941: «vivere pienamente, verso l’esterno come verso l’interno, non sacrificare nulla della realtà esterna a beneficio di quella interna, e viceversa: considera tutto ciò come un bel compito per te stessa» [4]. E’ dunque un “bel compito” il saper utilizzare la sapienza letteraria, filosofica e spirituale per esistere e trovare un senso alla vita, nel pezzo di storia che ci è toccato in sorte. Anche, come per la giovane ebrea olandese, nel profondo dell’inferno umano rappresentato prima dal campo di smistamento di Westerbork e successivamente dal campo di sterminio di Auschwitz.

Mentre l’isolamento è pensiero cieco ed esistenza incompiuta, la vita e le parole di Etty Hillesum sono testimoni di una sapienza incarnata, di una vita alimentata dal pensiero e di un pensiero reso fertile dalla vita. La filosofia, sin dalle sue origini, non ha a che fare con una riflessione astratta e lontana dalla quotidianità, bensì, come sostiene Hadot, con un «saper vivere […] con un certo modo di essere» [5]. La modernità di Etty consiste propriamente nell’aver riportato l’esercizio del pensiero a concreta pratica di vita e nell’aver dimostrato, come gli antichi sapienti, che la bellezza della saggezza si esprime solo quando essa incontra la realtà e con essa dialoga ininterrottamente. In effetti «la verità della “teoria” filosofica dipende dal modo in cui il discorso filosofico si realizza» [6].

Il messaggio forte e profondo che l’anima libera di Etty Hillesum ci ha trasmesso, è espresso nelle incisive parole che scrive nel Diario il 30 settembre 1942:

«E dovunque si è, esserci “al cento per cento”. Il mio “fare consisterà nell’essere”!» [7].

Alessandro Tonon

NOTE:
[1] E. HILLESUM, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi, 2013, p. 98.
[2] Ivi, p.125.
[3] Ivi, p. 125.
[4] Ivi, p. 99.
[5] HADOT, La felicità degli antichi, Milano, Raffaello Cortina, 2011, p.84.
[6] R. MADERA e L. V. TARCA, La filosofia come stile di vita, Milano, Mondadori, 2003, p. 200.
[7] E. HILLESUM, Diario, op. cit., p. 779.

“Una giornata particolare”

Una bellissima regia di un grande maestro del cinema italiano, Ettore Scola, da poco scomparso; una trama profonda e vera, spoglia di retoriche e ipocrisie. Una Giornata Particolare si svolge nell’arco di poche ore, è il 6 maggio 1938, giorno della visita di Adolf Hitler a Roma. La città è in fermento e riempie le strade per l’arrivo del dittatore tedesco. In un comprensorio di case popolari Antonietta (Sophia Loren), madre di sei figli, rimane sola in casa dopo aver salutato la famiglia pronta per la parata. Nel palazzo quasi deserto incontra Gabriele (Marcello Mastroianni), suo vicino di casa. L’incontro tra i due, seppur della durata di una giornata, sarà profondo, smuoverà le coscienze afflitte e sole di entrambi.

In questo film ci si trova immersi in un universo molto piccolo, muovendosi tra le scale, gli appartamenti e la terrazza di uno dei più classici e comuni condomini italiani; eppure Scola riesce a svelare e a trasmettere la complessità del momento storico, portandola allo spettatore tramite lo sguardo triste e rassegnato dei protagonisti. La fotografia color seppia avvolge la scena in modo ovattato, caricandola di attesa e portandola in un contesto che sembra fuori dal tempo, come se l’incontro tra Antonietta e Gabriele rappresentasse una timida parentesi. Ai dialoghi tra i due, che si fanno di volta in volta sempre più teneri e intimi, si oppone la vera radiocronaca dell’incontro tra Hitler e Mussolini, che irrompe nella storia, sottolineando ancor di più un senso di oppressione.

Mastroianni e la Loren sono magistrali; ancora una volta recitano in coppia ma la loro bravura lascia sempre sorpresi, come se mostrassero qualcosa di nuovo in ogni singolo lavoro. Sono perfetti nell’incarnare la solitudine e l’inadeguatezza dei due protagonisti. Vivono una discriminazione diversa ma che li avvicina. Il loro sguardo, inizialmente inconciliabile, arriva per fondersi in uno solo. Sono le personificazioni delle voci che il regime soffoca, quella della donna discriminata, relegata a guardiano del focolare, vittima incosciente. E la seconda voce, quella dell’intellettuale impotente seppur consapevole, timido, visto come diverso e pericoloso.
Questi percorsi, così differenti tra loro, si intrecciano, arrivando alla fine della giornata a coincidere; c’è un solo punto di vista, un’equivalenza di solitudine che lega i due in un abbraccio di coscienze sofferenti.

Una Giornata Particolare si dimostra un film straordinariamente acuto nel denunciare gli aspetti più subdoli e ipocriti del fascismo; qui è visto non solo come aberrante ideologia politica, ma come progetto di asservimento socio-culturale. Una macchina bieca che annulla le diversità e appiattisce gli spiriti. Antonietta e Gabriele sono lo specchio e l’esempio delle tante discriminazioni del regime, persone comuni, normali, costrette ad abbandonare le proprie idee e il proprio io.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Curzio Malaparte, “La pelle”

Al centro delle opere di Curzio Malaparte (nome d’arte di Kurt Erich Suckert, 1898-1957), troviamo sempre l’ingombrante, forte, contraddittorio personaggio che l’autore vuole volta per volta rappresentare. Il giovanissimo volontario della Grande Guerra che in La rivolta dei santi maledetti (1921) si scaglia contro i comandi militari e vi contrappone il popolo che aveva tentato, con la disfatta di Caporetto, una ribellione contro l’esercito; il fascista della prima ora, spinto da ideali rivoluzionari, che quando il movimento diventa regime diventa critico e subisce il confino (Tecnica del colpo di stato, 1931); il corrispondente di guerra che segue le truppe tedesche sui vari fronti europei (Kaputt, 1944): a ognuna di queste opere sembra corrispondere un autore diverso, tutti di indiscusso talento e pronti alle più diverse avventure ideologiche.

Malaparte, La pelle - La Chiave di Sophia

Dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia (10 luglio 1943), Malaparte diventa ufficiale di collegamento fra l’esercito di Badoglio e le truppe angloamericane che si preparano a risalire la penisola. È questo il contesto del suo libro più celebre, La pelle, che nel 1949 ebbe un clamoroso successo di scandalo.

Siamo a Napoli, tra un popolo che ha appena avuto «l’invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltare di gioia fra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori ai vincitori». C’è una forte ambiguità in tutto questo: i soldati americani sono dipinti come ingenui, semplici, pieni di buone intenzioni e convinti di aver portato la libertà; ma per lo stesso fatto di essere una truppa d’occupazione contagiano la collettività di una vera peste.

La rovina portata all’Europa dalla guerra è infatti il vero tema centrale dell’opera. Una rovina soprattutto morale: per sopravvivere, salvarsi la pelle, non c’è orrore, non c’è vergogna da cui si possa arretrare. Tutto è in vendita. Davanti al lettore si spalanca il baratro di una corruzione nera, senza rimedio: la ragazza che espone a pagamento la sua verginità ai soldati; le parrucche bionde che le prostitute si pongono sul sesso per attirare meglio i clienti; la grottesca cerimonia folcloristica “della figliata” celebrata da un gruppo di femminielli; l’incontro con il cane Argo, sparito e ritrovato in un laboratorio di vivisezione. Al culmine di questa sfilata di orrori, l’eruzione del Vesuvio (realmente avvenuta il 18 marzo 1944) segna la partecipazione della stessa natura a questo senso di sfacelo.

Vero simbolo di questo disastro è l’episodio dell’uomo che muore orrendamente schiacciato da un carro armato: «Era un tappeto di pelle umana (…) pareva un vestito inamidato, una pelle di uomo inamidata (…). Quella bandiera è la bandiera della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle».

Tutta l’opera si nutre di un contrasto di fondo: un realismo brutale che attraverso il linguaggio, acceso, sempre sopra le righe, diventa visionario, onirico.

E Malaparte gioca con questi elementi fino alla fine, provoca consapevolmente il lettore, lo sfida a rifiutare tutto questo, a mettere in dubbio la stessa sincerità dell’autore. In uno straordinario passaggio il narratore è a pranzo con un gruppo di ufficiali, e nella conversazione si sostiene che Malaparte sia abituato a inventare molti degli episodi che racconta nei suoi libri. Allora lui dice che no, queste cose gli succedono veramente. Proprio poco fa ha trovato nel suo cuscus la mano di un soldato marocchino saltato su una mina, e l’ha educatamente mangiata per non turbare l’atmosfera; anzi, a prova di questo, mostra le ossa delle falangi ben riordinate nel piatto. Sono solo ossicini di montone, poco dopo il lettore viene a saperlo; ma tutto questo è indicativo dell’atteggiamento teatrale con cui Malaparte rielabora la realtà.

La pelle è un’opera che affascina per lo straordinario talento con cui il mondo è trasformato in parola; e insieme respinge per i suoi eccessi e per quella pesante dose di artificio da cui è segnata; ma sicuramente è un’opera che non lascia indifferenti. E forse era proprio questo che all’autore premeva.

Giuliano Galletti

[Immagini tratte da Google Immagini]

“NOI VIVI” – Attraverso la Galleria Borbonica…attraverso la vita!

Solo i morti hanno visto la fine della guerra. Platone

Un parcheggio multipiano. Moderno, nuovo, in una delle zone più belle di Napoli.

Risali in superficie ed entri nella Storia, quella vissuta, quella fatta e sudata da uomini, donne e bambini; la storia della paura, delle corse affannate in cerca di riparo, dell’angoscia di esserci tutti.

Entri nella Galleria Borbonica e, senza nemmeno chiudere gli occhi, ti ritrovi immerso negli anni della seconda guerra mondiale, periodo in cui Napoli fu la città più bombardata, con 200 raid aerei dal 1940 al 1944, di cui 181 soltanto nel 1943.

Napoli sepolta nella guerra non aveva avuto un suo poeta né un suo reporter, perché per tutti era stato troppo difficile e sorprendente il sopravvivere all’arida tragedia di quegli anni per poterla subito fissare e prolungare in una memoria, in un diario.  Nello Ajello

Se ti concentri vedi le persone che entrano, corrono, con la paura sui loro volti; i bambini ritrovano i giochi lasciati il giorno prima, le mamme si assicurano di aver preso nei 15 minuti a disposizione tutto l’occorrente per stare…quanto? E chi poteva saperlo là sotto. Il tempo diventava una variabile superflua, ciò che contava era vedere che i tuoi cari erano lì accanto a te metri sotto terra.

Percorri la galleria e ti imbatti in resti di brandine, giocattoli, boccette di profumi…già i profumi! E non per farsi belli, ma per poter respirare!

Ciò che cattura più l’attenzione sono però le scritte sui muri: nomi, date e poi la più semplice ma più commovente: “NOI VIVI”. Provo ad immaginare cosa potessero significare quelle due parole per chi le ha scritte…sopravvissuti certo, ma intendeva tutta la famiglia, come a dire “ce l’abbiamo fatta”?, oppure indicava “ehi noi esistiamo! noi siamo sotto terra, ma siamo vivi! Vogliamo vivere e non moriremo per colpa vostra!”, come una specie di sfida a chi lassù, tanto meccanicamente, sganciava bombe sui civili.

Ecco, quella scritta a me ha trasmesso un’appassionata volontà di vita, uno stringere i denti una volta ancora, senza accettare di uscire da quel rifugio come topi che escono dalla tana incerti di non rivedere il nemico.

NOI VIVI.

Una complessità ben celata è nascosta dietro a queste parole, perché vi sono tante, troppe implicazioni emotive, culturali, storiche.

Oggi chi di noi pronuncerebbe questa frase? Potremmo essere scambiati per matti o per scopritori di acqua calda, eppure non possiamo nemmeno immaginare quanto per niente scontata potesse essere dentro quel rifugio.

Proviamo solo ad immaginare il suono della sirena che indica il coprifuoco e in 15 minuti prendere le cose indispensabili per stare “x” tempo sottoterra, magari non solo per te ma anche per i tuoi figli o i tuoi nonni; e alla fine, uscire dal rifugio con quali sensazioni, quali pensieri?

La persona che ha scritto Noi vivi cosa avrà trovato quel giorno, una volta ‘riemersa’? La stessa città? E la sua casa era ancora in piedi?

Tutte queste domande te le poni mentre visiti la Galleria Borbonica, perché hai voglia di capire, di riflettere sul fatto che in quell’epoca, la maggior parte del tempo era trascorsa sottoterra.

Libertà negata, quella di essere Persone libere di camminare per la strada, di andare a lavorare, di andare a scuola! La libertà di agire senza costrizioni e di autodeterminarsi era abolita, perché costretta dentro 4 mura, circondata da centinaia di persone e dominata dalla paura, quella stessa paura che ti faceva però riscoprire il valore della solidarietà e della condivisione, che ti faceva sorridere quando incontravi le persone della volta prima, felice che anche loro fossero ancora vive.

Ecco allora forse una qualche libertà era concessa anche sottoterra: quella della volontà di vivere, di crederci, di sperarci tutti insieme e di attendere la fine di un incubo, urlando “noi siamo vivi qua e saremo vivi lassù”.

Quando la guerra finì, possiamo pensare che quei rifugi vennero abbandonati e le persone che vi trovavano riparo tornarono a casa…invece la fine della guerra portò con sé gli strascichi di una tragedia senza fine, lasciando sfollate migliaia di persone.

La negazione di una casa propria, la dignità di uomini e donne calpestata dalle macerie rimaste al suolo, questo c’era nella confusione del fragore della “liberazione”. Liberazione da cosa? Dal sottosuolo? Dal nemico? Ora non importava più il prima, si pensava solo al futuro, a cosa sarebbe successo da quel momento in poi, la preoccupazione era di sopravvivere anche al senso di impotenza e di perdita materiale e morale.

In quel tunnel, anche se la guerra era finita, continuarono a vivere almeno 500 persone.

La prigionia non era, dunque, finita.

Se vi capiterà di percorrere la galleria, assimilate ogni sensazione, pensate che centinaia di persone vi passarono giornate intere, non solo un’ora come noi visitatori; fatevi avvolgere dall’estrema umidità, ascoltate ogni rimbombo dei vostri passi, guardate con empatia i nomi incisi nella pietra e pensate che tutto questo era ‘banale’ quotidianità.

Potete avere notizie della Galleria seguendo la pagina FB: Galleria Borbonica o visitando il loro sito: Galleria Borbonica

Valeria Genova

[Immagine tratta da Google Immagini]

Two beautiful minds

C’è un’occasione che ha sancito definitivamente il mio passaggio all’età adulta, che mi ha fatto guardare disinvolto e senza ingenuità alle favole che da piccolo mi tenevano compagnia.

All’inizio del mio percorso di studi, il professore di logica era incalzante, riempiva la lavagna di formule e aneddoti, così pieno di trasporto e passione da catturare l’attenzione di centinaia di studenti, seduti anche per terra, stipati. Si arrivò ad Alan Turing, matematico, padre della programmazione moderna, del computer e dell’intelligenza artificiale. D’un tratto, gli occhi del professore si riempirono di lacrime, il cuore gli finì in gola e il silenzio per tutta la stanza. Il nostro non era imbarazzo, quanto invece un rispetto reverenziale: nessuno aveva il coraggio di far traballare quella tensione emotiva così delicata.
Ci spiegò che Turing, dopo aver decrittato i codici nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, venne accusato di omosessualità dalla stessa nazione che aveva salvato, dalla nazione al cui servizio prestava tutto il suo intelletto. Il patteggiamento fu una condanna: una cura ormonale dalla quale Turing uscì distrutto, stravolto a livello fisico e psicologico, senza più riuscire a vivere con quel corpo mutato, evirato.
Le favole che ci raccontano da bambini hanno sempre un bel finale, non ci preparano al mondo che in realtà ci aspetta: Turing si suicidò con una mela avvelenata, senza alcun principe azzurro ad impedirne il tragico epilogo.

Qualche anno dopo l’Inghilterra diede i natali a un’altra mente geniale, macchiata anch’essa di quel peccato imperdonabile dell’omosessualità: Oliver Sacks, uno dei neurologi più famosi al mondo. La mela era ancora lì, priva di quell’unico morso letale. A lui la scelta, ma l’esperienza fu maestra e Sacks fuggì oltreoceano a realizzare il suo sogno americano. Brillante, preparato, ironicamente britannico di spirito, la sua fama crebbe in tutti gli Stati Uniti. Scienziato pazzo, per alcuni, pazzo al punto di sperimentare sostanze stupefacenti e provare ciò che i suoi stessi clienti sentivano, per poi scriverne libri di successo internazionale. Senza di lui le neuroscienze sarebbero rimaste relegate soltanto agli ambienti più accademici, rimanendo un’oscura e affascinante disciplina.

L’eredità che ci hanno lasciato Turing e Sacks è legata al progresso della tecnologia, con cui l’indagine filosofica sulla mente umana ha potuto fare passi in avanti, consentendoci di studiare empiricamente l’attività cerebrale dell’uomo. Ci siamo affidati all’informatica, alla minuziosa precisione degli studi sul cervello e delle attivazioni sinaptiche che intervengono nei processi cognitivi di base.
Sacks ha raccolto il frutto di Turing, ma non quello avvelenato; le neuroscienze hanno raccolto l’affinamento del progresso tecnologico e si sono unite alla filosofia per discutere su cosa sia la mente umana, come funzioni e quali siano gli aspetti fisiologici e patologici della cognizione.
Spesso, purtroppo, è solo con lo studio di una disfunzione che si può teorizzare una struttura fisiologica e così, ad esempio, Sacks ha spiegato nei suoi scritti quanto il cervello di un paziente non sia propriamente malato e manchevole di funzionalità, ma sopperisca ad attività neuronali compromesse, mettendo in atto un nuovo modo di percepire la realtà, un nuovo modo di riorganizzarla a livello cognitivo, comprenderla, rielaborarla.

Deliri, allucinazioni, anomalie dalla percezione non sono cose da pazzi, anzi, sono la più sana risposta del nostro cervello ad un cambiamento o ad un malfunzionamento; sono una modalità differente di affrontare la realtà, considerata sempre più spesso una rielaborazione soggettiva della propria percezione. Il cervello si riorganizza, si riassetta su una nuova struttura che dà vita ad una percezione differente della realtà e ad un’interazione con essa rinnovata. Grazie a Oliver Sacks il corpo dei malati ha assunto un’importanza diversa, un valore più umano e degno di rispetto. Dalla fenomenologia si è arrivati alle neuroscienze, percorrendo una strada di valorizzazione del corpo e del cervello, sede delle attivazioni dei nostri processi cognitivi, che ha conferito dignità ad un corpo malato, ad un corpo che in realtà combatte in maniera sana e si adatta con una nuova struttura.

Quella mela però era rimasta sospesa, quasi nascosta. Ci pensò poi Steve Jobs a riportarla alla luce, mettendola sotto gli occhi di tutti, marchiata su ogni apparecchio Apple di cui è popolata la terra. Che la lezione sia servita, dunque, e che Oliver, a pochi giorni dalla sua scomparsa, possa ora riposare in pace.

«E ora, debole, col fiato corto e i muscoli una volta sodi sciolti dal cancro, trovo che i miei pensieri, non sulle cose soprannaturale o spirituali, ma su cosa si intende per vivere una vita buona e utile – hanno provocato un senso di pace dentro di me. Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno di riposo, il settimo giorno della settimana, e forse il settimo giorno della nostra vita, quando possiamo sentire di aver fatto il nostro lavoro, e di potere, in buona coscienza, riposare.» (Oliver Sacks)

Giacomo Dall’Ava

[immagine di proprietà di La Chiave di Sophia]

Edith Piaf – Il niente per il tutto

“Et des que je l’apercois

Alors je seans en moi

Mon Coeur qui bat”.

La vie en rose – Edith Piaf

 

Esistono Donne che del proprio talento non sono mai abbastanza consapevoli nell’arco di un’intera vita. Non sono persone comuni, tantomeno individui qualunque. Non si confonderebbero in mezzo ad una folla, non li confonderesti con nessun altro, perché urlerebbero la loro personalità pur senza emettere una sillaba.

C’è chi sa fare delle proprie parole idee. C’è chi sa riordinarle con abile maestria. E poi c’è chi, per talento nato nel momento stesso dell’emanazione del primo vagito, sa metterle in musica. Senza collocarle con un ordine esatto, senza che siano parole ricercate. Sono solo musica pura, sono solo una melodia che riempie chi le ascolta, arricchendo la vita quotidiana di stati d’animo ricercati.

Edith Piaf inizia a cantare per le strade all’età di sette anni, esibendosi insieme al padre contorsionista. E’ già arte la sua voce, è già sentire l’ugola insanguinata di un passerotto: purezza e tragicità, in una sola minuta bambina. Una piccola donna a cui l’esperienza ha già insegnato a camminare sulle proprie gambe, a contare – cantando – soltanto sulla sua voce.

Toni aspri ed aggressivi contrapposti a dolcezza e femminilità: essere meno forti di quanto sia il nostro agire, questo forse è il più grande segreto dei grandi. Nessuna questione di genere, soltanto un’essenza di capacità, in un concentrato di tensione che si evolve costantemente.

Straordinario è chi, rimanendo infelice per tutta la propria vita, riesca ad infondere gioia attraverso la propria arte. Non è per la sofferenza che ha dentro, ma è per il modo di comunicarla. Lasciano senza fiato le canzoni di questa artista, proporzionalmente a quanto fiato impiegava lei.

Vivere soltanto quarantotto anni, in un’epoca dove la ferocia della Seconda Guerra Mondiale ha privato le persone di qualsiasi speranza, significa osservare la morte prendersi le parti migliori e peggiori del nostro tempo. Le espressioni degli uomini andati in guerra, quelle delle mogli che hanno lasciato, la morte che brucia dentro e fuori dalle case, dai volti, da ogni azione. Canta “La vien en rose” per sovrapporsi a tutto ciò, per creare un inno alla vita. Ad una vita felice, quella che lei non aveva mai conosciuto e non avrebbe mai avuto.

Sfruttata dal padre, abbandonata dalla madre, cresciuta nel bordello gestito dalla nonna, luogo in cui impara cosa sia l’amore. Spiegato dalle prostitute che lavoravano lì dentro; è sempre così, chi sembra più distante da un sentimento è chi lo coltiva e comprende meglio degli altri. Incostante nelle sue relazioni, amichevoli ed intime. Costante soltanto nella sua musica, quella che sarà sempre una luce nella sua vita di ombre.

Nel 1955, durante la sua esibizione alla Carnegie Hall di New York, viene investita da sette minuti interi di standing ovation. Una lode meritata. Per la sua voce enorme. Per il suo corpo esile. Per la figlia persa a soli vent’anni. Per le sue mani che tiene sempre dietro la schiena perché se ne vergogna. Quelle mani che, nel suo passato, tenevano un cappello per chiedere le elemosina. Quelle mani, nel suo presente, dense di dolore e rigonfie per i troppi farmaci.

Incurante dei soldi guadagnati; cosa potevano valere in cambio di un po’ Amore? Anche i sentimenti più superficiali possono sembrare meglio del niente, se a quello si è abituati.

Il niente che aveva diventa un importarsene di niente. Il dolore che cresce in lei ogni giorno rende per ogni passo un po’ più grande la sua arte. La sua vita sfortunata che lascia alla musica un’immensa fortuna.

Ossimori comunicanti; a questo corrispondono azioni e le conseguenze in cui si evolvono.

Cantava “Niente”, per darci tutto: semplicemente Edith Piaf.

“Non, rien de rien

Non, je ne regrette rien

C’est payé, balayé, oublié

Je me fous du passé!

Avec me souvenirs

J’ai allumé le feu

Mes chagrins, mes plaisirs

Je n’ai plus besoin d’eux”.

Non, jene regrette rien – Edith Piaf

 

 Cecilia Coletta

[immagine tratta da Google Immagini]