Tra Aristotele e “Sliding Doors”: la teoria del caos

<p>ID:56423921</p>

Da sempre ci interroghiamo sul nostro rapporto con il tempo, ci chiediamo se siamo davvero liberi, quale sia il rapporto tra le nostre scelte e quanto ci accade. Alla fin fine possiamo spremerci le meningi quanto vogliamo, ma le possibili risposte al nostro rapporto con il tempo e l’eziologia (questa parola si riferisce a tutti i fenomeni che hanno un rapporto di causalità causa-effetto) sono sostanzialmente tre:

  • tutto è dominato dal caso;
  • tutto è predestinato, vi è cioè un Destino per ognuno di noi predeterminato che però sfugge alla nostra capacità previsionale (o forse no?), l’astrologia e le arti divinatorie tentano di sondare questo confine insondabile con uno statuto epistemologico però insufficiente, almeno per come intendiamo la scienza contemporanea;
  • ci sono cose che dipendono da noi e cose che non dipendono da noi, ma le nostre scelte aprono a futuri condizionali (esempio: decido di scavare in un dato punto perché penso che ci sia un tesoro sotterrato che effettivamente c’è, azione: scavo=trovo il tesoro, il mio scavare o non scavare implica due futuri condizionali diversi. La catena di azioni è determinata, la mia scelta no).

A seconda di come decidete di interpretare le vostre esistenze, magari senza saperlo, sappiate che appartenete a una diversa scuola di pensiero greca. Non lo sapevate? Adesso sì.
Rispettivamente:

  • Scuola atomista: Epicuro ci dice che tutto è dominato dal caso;
  • Scuola stoica: Crisippo sostiene che tutto è predeterminato e “tutto è pieno di segni” che ci preannunciano ciò che deve venire, sta a noi la capacità di interpretarlo;
  • Scuola aristotelica: Aristotele prima e Marco Aurelio poi ci spiegano che ci sono delle nostre scelte che aprono o meno futuri condizionali o se vogliamo scenari/futuri paralleli diversi.

Sliding Doors è un film del 1998 che racconta le vicende di Helen, una giovane donna che lavora nelle pubbliche relazioni fidanzata con Gerry. Dopo essere stata licenziata si dirige affranta verso la metropolitana. Il momento topico da cui si origineranno due dimensioni parallele parte dall’ascensore, quando andando via dal posto di lavoro le cade un orecchino e incontra James (che diventerà un potenziale amante e un coprotagonista della storia).

Le nostre scelte anche più piccole contribuiscono a forgiare il nostro futuro, ma alcune sono più importanti di altre. Se forse scegliere tra una pasta al pomodoro, un petto di pollo o un’insalata impatta relativamente poco sul nostro futuro, scegliere di andare all’Università o meno e quale Università frequentare implicherà una nostra frequentazione di un certo ambiente per molti anni e ci esporrà ad alcuni tipi di scelte escludendone altre.

La nostra intera esistenza è sempre esposta alla dimensione del “se”, la dimensione condizionale del “se quella volta avessi scelto” o del “se non fossi andato lì allora”; l’immaginazione è uno strumento importante perché ci permette in maniera proiettiva di farci un’idea dei futuri possibili ed è così che l’umanità è sempre esposta alla dimensione utopica e ucronica dell’esistenza, utopica senza un luogo, ma realizzabile nel tempo, ucronica senza un tempo, ma in un luogo, un paradosso che si genera nella dimensione in cui possiamo immaginare cosa sarebbe successo se gli Alleati non avessero mai sconfitto i Nazisti o se ad esempio Giulio Cesare non fosse stato eliminato a seguito della congiura ordita da Gaio Cassio e Decimo Bruto.

Aristotele aveva ragione? Possiamo notare come la teoria formulata da Aristotele si possa ricondurre alla teoria del caos cioè «lo studio attraverso modelli di fisica matematica dei sistemi fisici che esibiscono una sensibilità esponenziale rispetto alle condizioni iniziali». In pratica prendiamo un sistema, in esso ci sono delle leggi deterministiche che non mutano (la gravità muta, ma non il modo in cui funziona la gravità), nonostante tali costanti deterministiche in tale sistema ci sono anche delle variabili dinamiche, che cambiano, che determinano una casualità empirica nell’evoluzione del sistema stesso. I fisici ci dicono che il comportamento casuale è in realtà solo apparente, dato che si manifesta nel momento in cui si confronta l’andamento temporale asintotico di due sistemi con configurazioni iniziali arbitrariamente simili tra loro, ma la parte che davvero ci interessa è che a condizioni iniziali simili i risultati possono essere estremamente diversi, come potrebbe darsi nel caso di due gemelli allevati in condizioni completamente differenti.

Un treno o una metropolitana sono esempi calzanti per quello che Aristotele considera un futuro condizionale: saliti su quel treno il nostro andare in una direzione o in un’altra non sarà più in nostro potere, almeno tra una stazione e l’altra. Una scelta determina cioè una catena di eventi, per Aristotele la nostra esistenza è composta da catene.

A questo punto tiriamo in ballo l’effetto farfalla, una semplificazione della nozione tecnica di “dipendenza sensibile alle condizioni iniziali” presente nella teoria del caos. L’idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema, per esempio se un viaggiatore proveniente da una macchina del tempo tornasse indietro di milioni di anni e nel suo “safari” calpestasse accidentalmente una farfalla ciò potrebbe comportare un futuro completamente diverso dove magari l’umanità non si è mai evoluta o forse nemmeno esistita.

«Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza» Alan Turing, Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950.

Scrivevo prima che se magari possiamo sottovalutare l’importanza tra lo scegliere una pasta al pomodoro, un petto di pollo o una insalata (anche se l’effetto farfalla ci direbbe di stare attenti anche a questo tipo di scelte) forse ci converrebbe riflettere di più su quelle scelte importanti che aprono a futuri condizionali diversi perché alla fin fine la nostra vita non è che la somma di tutte le nostre scelte. Se quando la nostra vita inizia il tasso di indeterminazione è molto alto e fino a quando siamo giovani il nostro spettro possibilistico è molto ampio, mano a mano che invecchiamo siamo sempre più soggetti all’effetto imbuto, cioè la riduzione del nostro spettro di possibilità: anche a 90 anni possiamo viaggiare, ma magari non sarà come farlo a 20 o almeno la quantità di futuro opzionale e opzionabile sarà probabilmente più ridotto.

 

Matteo Montagner

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

copabb2019_ott

Delle scuse che ci diciamo per non cercarci mai

Eccomi, volevi vedermi?

Sì: ho un problema.

Che problema? Mi sembri in forma; cioè non hai l’aria di un fiore appena sbocciato ma mi stupirebbe il contrario. A guardar bene, hai preso qualche chilo ma non t’abbattere: un po’ di palestra e va via tutto.

Non ti ci mettere, non ho voglia di scherzare. Se t’ho detto che ho un problema, ho un problema.

Lapalissiano. Che hai?

Mi vedi veramente ingrassato? Non la dovevo comprare ‘sta camicia: ha un taglio troppo particolare e cade male, sembra che io abbia la pancia. O forse sono ingrassato veramente? Perché fai quella faccia?

Scherzavo: non sei ingrassato, idiota. Questo problema tanto urgente, allora? Me lo dici cos’hai o aspetto la notifica?

Ah sì: è che ho questo problema che mi assilla. Non riesco più a comporre.

Ah sì?

Sì non so cosa fare, le ho provate tutte: ho provato a comporre di notte, di giorno; a digiuno, a stomaco pieno; l’altra settimana son stato via, sono andato in un posto bellissimo, lontano da tutto e da tutti per allontanarmi dai rumori: a proposito, t’ho postato le foto dell’albergo sul diario ma non hai commentato.

Lontano da tutti proprio, eh?

Come dici?

Niente, fa’ nulla. Allora: hai pensato alla causa di questo blocco?

Ma sì, ti dico che ho provato di tutto: è l’ispirazione che mi manca.

Ti ricordi?

Cosa?

Non ti ricordi: questo è il punto.

Ma di cosa non mi ricordo?

Eh no, non ti ricordi, se hai bisogno di chiedere; un tempo ti sarebbe venuto in mente senza chiedere.

È che sono incasinato ultimamente, son sempre di fretta, in una mano l’agenda e nell’altra il telefono. E poi le prove, le lezioni, i concerti. Praticamente penso nei ritagli di tempo, mi sorprendo a pensare mentre sono sul treno, mentre sono in fila per comprare il pane. A proposito: devo comprare il pane.

Stronzate.

Che dici?

Che sono stronzate, sono tutte scuse: la verità è che sei distratto. Tu e la maggior parte delle persone che ti scivolano attorno e ti fanno la cortesia di non travolgerti mentre “ti soprendi a pensare”. Non vai fino in fondo.

La fai facile tu: ho mille cose da fare. E poi non capisci: tu hai sempre il naso in quella cavolo di biblioteca, con un libro ti svegli e con un altro ti addormenti. A che ti serve, poi, un giorno me lo dovrai spiegare. Io devo lavorare, non posso perder tempo a lambiccarmi il cervello come voi.

E infatti stai lavorando bene, eh? E guarda che quei libri qualcosa da dire ce l’hanno, altrimenti nessuno li leggerebbe più.

Ah sì: infatti è pieno così di lettori di Agostino!

Infatti è pieno così di gente serena, che sa almeno di dover cercare, verso dove andare, in che direzione affannarsi per procedere.

Senti non ho bisogno della paternale da filosofo proprio adesso. Non so se l’hai dimenticato, ma ho un problema, io.

No, non l’ho dimenticato. Infatti t’ho portato una cosa.

Cos’è? Un pezzo di carta?

Sì, tutto Agostino in un biglietto non ci stava.

«Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi».1

E che significa?

Scoprilo tu, se non ti sei già dimenticato anche di te.

Emanuele Lepore

NOTE
Agostino, Confessioni, X, 8.15

Il Narciso di caravaggio

La meravigliosa grandezza di quest’opera – che deriva direttamente dalla meravigliosa grandezza del suo autore- risiede soprattutto nell’opportunità che ciascuno di noi ha di riconsocersi in quel volto di giovane che, a metà strada tra l’unione e il distacco da sé, ancora forse non sa che potrà riabbracciare se stesso solo nell’abisso di quelle acque oscure; che per poter ritrovarsi, occorre dapprima perdersi.

Read more

Coincidenze lontane (Nota su “Walden” di H.D. Thoreau)

Caro Lettore,

le parole che desidero indirizzarti questa volta sono totalmente inusuali. Inusuale è la forma che stanno acquistando sin da questo loro inizio; tale è il luogo in cui stanno prendendo corpo: le sto scrivendo lontano da tutti, seduto su di un blocco di pietra che dev’essere rotolato giù dalla sommità della collina ( forse un vecchio architrave: su cosa si apriva la porta che custodiva?). Qui non c’è l’odore confortante dei libri, le parole sicure stampate su carta, l’aspetto dell’incontrovertibile presenza. È tutto un sovrapporsi di aromi: la resina che punge colando lentamente sul tronco, il fiore timido, il muschio all’ombra delle fronde. Qui non ci sono voci che chiamano, rumori dispettosi che bussano e corrono via senza nulla da dire, non inutili orpelli di buon costume. Nel posto in cui sono, comandano il vento e la luce, l’ombra e la quiete: silenzio. C’è posto per le parole autentiche che mettono a nudo la vita: di questa vita, non di altro, dovremmo occuparci attentamente. Sono venuto a sedermi sul fianco alberato di questa collina per liberarmi dell’illusione che la causa sia sempre lontana, che il significato sia nascosto: ché a pensar così, ci si ritrova con cause imponderabili, significati mai assaporati. Sono venuto a rendermi conto che non è nascosto ciò che cerco: sono chiusi i miei occhi. Ma perché ti ho portato qui con me? Hai forse qualcosa da spartire con l’inutilità di queste righe?

Ti scrivo perché sono giunto a questo punto grazie ad una serie di coincidenze.

La parola “coincidenza” deriva dal latino cum-in-cado e, originariamente testimonia il cadere insieme di più cose, l’insistere di più forze su di un medesimo punto. Sono praticamente certo che sarà capitato anche a te di essere quel punto: c’è qualcosa che non vediamo e ci chiama con più voci. È nella scritta che lampeggia sull’insegna di un negozio che, prima di un certo momento, abbiamo sempre superato non curanti; È nella frase che salta fuori dalla ressa di una conversazione, al bar; è nel titolo di un libro che ci capita per le mani, di cui abbiamo sempre sentito parlare ma non abbiamo mai letto.

“Walden o Vita nei i boschi” è un libro scritto da Henry David Thoreau (1817-1862) durante il suo ritiro in una capanna che si era costruito sulle rive del fiume Walden ( Massachussetts), tra il 1845 ed il 1847.

Tra il 1845 ed il 1847 Henry David Thoreau (Concord, 12 luglio 1817- Concord, 6 maggio 1862) si allontanò dalla piccola cittadina di Concord, nel Massachussetts e si ritirò in un’abitazione che s’era costruito sulle sponde del lago Walden.

Nel 1854 pubblicò “Walden o Vita nei boschi”, un’opera ibrida al limite tra il puntuale diario di un’avventura e la confessione filosofica, in cui la descrizione della Natura, dei suoi luoghi, dei suoi figli (di cui è tradita una conoscenza approfondita, di prima mano), si intreccia ad una serie di puntuale critiche alla società del suo secolo: in senso più ampio, all’idea stessa su cui si fonda la nostra società, cioè l’isolamento.

A Thoreau può – ed è stato fatto- essere rivolta la critica che da sempre è indirizzata a chi decide di assecondare una qualche esigenza ascetica: isolarsi per criticare l’isolamento significa rafforzarlo; piuttosto, sarebbe di gran lunga più vantaggioso prodigarsi per il bene dei propri concittadini, della propria società.

E sarebbe davvero una critica valente se avesse sott’occhio la realtà delle cose; cioè se l’ascesi fosse autenticamente un isolamento dal consorzio umano, dal mondo, dal tempo e non – ciò che invece essa è- un ricongiungimento con l’umanità di cui si assapora il senso più profondo, col mondo di cui si riscopre la totalità, col tempo che – finalmente- è armonia e non fuga, affanno, privazione.

Ciò che fa Thoreau – l’autentico asceta, in generale- è mettere la giusta distanza tra sé e la società di cui desidera correggere le storture: uno sguardo più ravvicinato rischierebbe di essere fuori fuoco, di notare soltanto l’esteriorità del problema, di lenire una ferita senza curare l’infezione che affligge l’interno sistema. Volendo guarire dall’isolamento, si ignora la totalità delle componenti in gioco: si finisce, dunque, per praticare un ulteriore isolamento.

Ciò che fa Thoreau, ancora, è in primis un lavoro sulla propria persona, afflitta dagli stessi mali della società in cui ha lungamente vissuto. È per questa ragione che, leggendo le pagine di “Walden” si assiste allo smascheramento dell’umano che, dimentico dell’originario senso della Natura (ché l’umano stesso è Natura), si trova preda dei paradossi più tremendi: si pratica il male credendo di praticare il bene, si è assassini credendo di essere salvatori, si condanna alla schiavitù credendo di essere liberatori.

Desideroso di liberarmi dal peso annichilente dei paradossi cui siamo quotidianamente condannati, caro Lettore, ho deciso di ritirarmi – seppur per lo spazio d’un mattino- in un posto in cui non si conosce la mancanza, in cui non v’è privazione perché c’è esattamente tutto ciò di cui si ha un primario bisogno; desideroso di riscoprire il suono autentico delle parole che ti indirizzo, sperando che possano anche solo segnare una via possibile, un tratturo già battuto e dimenticato, con la speranza che, indicandolo ai tuoi occhi, possano un giorno trovarlo i miei.

Emanuele Lepore

[immagine di proprietà di Emanuele Lepore]

Sè come un altro

Quella dell’alterità è una questione che attraversa lo spazio storico e teoretico della modernità, da Husserl a Heidegger, da Sartre a Lévinas: chi affronta la questione mette in campo sempre una retorica dell’altro, dell’alterità, che, però, acquista validità di discorso a patto che si mettano in evidenza gli attori che lo animano: l’io, l’altro e il piano in cui ci si muove: sia esso gnoseologico, etico, linguistico, politico o ontologico.
Molteplici sono i contributi volti a comprendere la natura del legame che unisce il soggetto alla figura dell’altro, come molteplici sono le declinazioni che la categoria dell’alterità ha assunto nel corso della storia della filosofia.

La scelta di considerare, tra le diverse voci, la proposta e l’analisi che Paul Ricoeur elabora circa l’alterità, con particolare riferimento all’opera Sè come un altro, rinvia non solamente al fatto che egli occupa una posizione rilevante all’interno del panorama moderno, ma alla posizione di mediazione che ha saputo intraprendere, come alternativa alle due tendenze filosofiche opposte che hanno dominato dopo Cartesio: da una parte la posizione idealistica di un soggetto esaltato, la cui categoria dell’alterità viene sempre ricondotta al proprio; dall’altra parte la posizione nietzschiana di un soggetto umiliato e ridotto a una pura illusione.

La filosofia pratica di Ricoeur delinea un soggetto che agisce, patisce e si interpreta, nell’atto di interpretarsi e interrogarsi si scopre attraversato in modo costitutivo della figura dell’alterità che egli incontra nel cammino della proprio esistenza.

Al fine di capire a quale grado l’alterità sia costituiva dell’ipseità, dobbiamo ripercorrere l’analisi che Ricoeur opera circa la nozione di identità.
In Sè come un altro Ricoer distingue chiaramente due diverse sfacettature dell’identità: Ricoeur stesso dichiara che è nel termine soi-même che si costruisce la struttura ambigua e paradossale della soggettività umana; il termine même infatti, nella lingua francese, possiede una doppia valenza, a seconda che intendiamo l’identico al corrispondente latino di idem o dell’ipse. Ricoeur precisa come soi-même

«non è che una forma rafforzativa di soi, nella quale l’espressione même serve ad indicare che si tratta esattamente dell’essere o della cosa in questione»

Da una parte dunque identità-idem, nel significato di ‘medesimo’, sta a indicare il permanere identico e immutabile nel tempo da parte del soggetto, dall’altro identità-ipse, nel significato di ‘stesso’, indica il processo dinamico cui il soggetto è sottoposto temporalmente nell’operazione di identificazione. Con il concetto di identità-medesimezza Ricoeur intende esprimere il lato statico del processo identificatorio, cioè «il nucleo permanente del sé, sede da un lato dei tratti innati della personalità (carattere), dall’altro dei tratti acquisiti nell’arco dell’esperienza della vita temporale, e assimilati in forma di sedimentazione contratta».
Per carattere l’autore intende proprio l’insieme di quegli elementi distintivi che consentono di reidentificare un individuo come il medesimo anche col passare del tempo, scrive Ricoeur: «esso designa in modo emblematico la medesimezza della persona» attraverso quella che lui definisce l’identità numerica, qualitativa e la permanenza del tempo; prosegue sempre Ricoeur: «proprio in quanto seconda natura, il mio carattere sono io, io stesso, ipse, ma questo ipse si annuncia come idem», così ogni abitudine acquisita diventa una disposizione permanente e va a costituire uno dei tratti distintivi tramite i quali riconosciamo una persona come la medesima anche a differenza di anni. Il carattere per Ricoeur risulta essere proprio il che cosa del chi.

il doppio segreto
Il concetto di identità-ipseità invece fa riferimento al lato dinamico del processo di identificazione, aprendo il soggetto all’esperienza dell’altro da sé. Emblematica è la figura della promessa, utilizzata da Ricoeur come esempio del permanere di sé nel tempo attraverso la capacità di mantenere la parola data nonostante il cambiamento: il soggetto infatti deve mantenersi fedele alla parola data a partire dall’istante della formulazione della promessa al momento della sua attuazione, fedele nel significato quindi di identico a se stesso.
Dalla prospettiva così delineata è chiaro come l’identità per Ricoeur non sia totalmente chiusa e di per sé già formata, ma risulti essere un reale processo sempre in corso, che si costituisce in modo dinamico nel tempo tramite la costante dialettica tra medesimezza e ipseità, la quale rende l’io da un lato una totalità chiusa e compiuta, l’io-idem appunto, dall’altro lato invece, una totalità aperta soggetta a mutamenti ed evoluzione, l’io-ipse
Ricoeur sottolinea come identità-medesimezza e identità-ipseità non vadano pensate l’una distinta dall’altra o di per sé autonome, quanto invece nella loro reciproca relazionalità:

«un ente è identico a se stesso soltanto rispetto a ciò che è altro da esso e nel corso del mutamento temporale».

Tale dialettica rappresenta alla fine un soggetto che oscilla perennemente tra la tendenza all’uscire fuori di sé aprendosi all’altro e il bisogno di una chiusura stabilizzante dall’altra; un soggetto tensionale quindi, in costante conflitto tra due tendenze apparentemente contraddittorie, un soggetto che pur aprendosi all’altro vuole proclamarsi autosufficiente. Questa costante tensione e inquietudine, agli occhi di Ricoeur, non è semplicemente uno stato emotivo quanto invece la struttura ontologica stessa dell’essere umano: il soggetto deve imparare, durante il cammino della proprio vita, a riconoscersi quale soggetto finito e abituarsi alla costante tensione rispetto alle molteplici possibilità di diventare se stesso nel rapporto con l’altro.

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini]

Intervista a David Sossella e Sara Penco: l’arte come scoperta di sè

David Sossella è Laureato con lode in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dal 2000 comincia a lavorare come illustratore e Graphic Designer. Dal 2006 svolge presso il più importante studio di cartoni animati in Italia il ruolo di responsabile dell’ufficio grafico. Affiancando a questa mansione quella di illustratore, collaborando alla realizzazione di diverse serie in animazione; questa collaborazione culmina nel 2009 con la realizzazione del lungometraggio in animazione per il cinema “Cuccioli – Il Codice di Marco Polo” con il ruolo di artdirector e responsabile texturing dei personaggi. Negli anni collabora come illustratore con diverse agenzie negli Stati Uniti (San Francisco, New York) ed Europa (Monaco, Barcellona). Una proficua carriera artistica lo porta a diverse pubblicazioni e mostre (collettive e personali) in Italia e all’estero.

Sara Penco  dal 2004 lavora nel più importante studios di cartoni animati in Italia svolgendo incarichi di Pre-produzione, sia organizzativi che artistici, accumulando così una conoscenza completa dell’intero ciclo di realizzazione del cartone animato (dal character design, allo storyboard, fino al doppiaggio).Dal 2006 collabora con David Sossella, affiancandolo nello studio di character design e nella produzione di illustrazioni, sia vettoriali che bitmap, realizzando lavori per agenzie a livello internazionale.

Puoi presentarti ai nostri lettori?

SARA: Ciao, sono Sara, socia e illustratrice dell’agenzia Manifactory e del progetto Gusto Robusto.

DAVID: Mi chiamo David Sossella, sono nato a Mestre nel ’76. Sono un pittore, illustratore e Graphic Designer. Sono socio dell’agenzia Manifactory e ideatore di Gusto Robusto.

In che modo l’illustrazione è entrata a far parte della tua vita? Come si è sviluppata la tua tecnica nel tempo?

SARA: Il disegno è la modalità con cui mi viene spontaneo esprimere le mie idee e sensazioni. L’illustrazione è un mondo che mi ha attirata e stimolata sin da piccola. Essendo autodidatta, la mia tecnica si è sviluppata inizialmente guardando i lavori dei disegnatori che seguivo cercando di copiare le immagini che mi piacevano. Poi, lavorando in uno studio di cartoni animati, ho cercato il più possibile di carpire suggerimenti e spunti dai miei colleghi disegnatori. Infine, negli ultimi quattro anni, sto lavorando sempre più a fondo sulla tecnica per essere una professionista dell’illustrazione che si distingue per il suo stile… ce la sto mettendo tutta 

DAVID: Ho cominciato a disegnare come tutti, da bambino. Mio padre era un lettore di fumetti, e io guardavo e riguardavo gli albi che giravano per casa. Quando è stato chiaro che per me il disegno stava diventando una passione, un amico di mio padre mi ha regalato la sua collezione di fumetti e albi di illustrazione. In quel momento ho cominciato a studiare pagina per pagina tutto il materiale che avevo, copiando qui e sbirciando là. Poi ho svolto gli studi artistici canonici (Liceo Artistico e Accademia di Belle Arti) questo mi ha permesso di sperimentare tantissimi mezzi di espressione, dalla pittura alla fotografia, dall’incisione alla grafica. In quel periodo mi sono allontanato e riavvicinato all’illustrazione più volte, a periodi alterni. Ogni volta che tornavo a illustrare il mio stile era in qualche modo cambiato. La mia tecnica si è molto stratificata, e tutte le esperienze che ho fatto mi hanno arricchito e mostrato punti di vista diversi, unendosi infine in una sintesi che mi permette di usare e sperimentare stili e tecniche diverse a seconda del progetto. Forse l’eclettismo è il mio tratto distintivo.

inner battleCornice_orizzontale2David Sossella

Come definiresti il tuo stile? Hai avuto qualche maestro di riferimento o qualcuno a cui spirarti?

SARA: Penso che il mio stile si possa definire fumettistico. Da piccola ho letto molti manga e guardato tanti cartoni animati giapponesi. Crescendo ho cercato di lasciare il più possibile lo stile giapponese per occidentalizzare il mio tratto, cercando di inquadrare un mio personale modo di rappresentare i miei personaggi. Comunque tuttora amo Akira Toriyama e Hayao Miyazaki.

DAVID: In parte ho già anticipato questo nella risposta precedente. Non penso di avere un unico stile di disegno, e tanto meno di averne inseguito uno unico durante gli anni. Il passare da uno stile ad un altro, da una tecnica all’altra, forse è la cosa che più mi contraddistingue: dalla pittura informale al fumetto, dalla grafica alla pittura figurativa, alla fotografia. Adesso sto cercando, (con la massima umiltà) di trasformare l’illustrazione in arte con la “A” maiuscola, riposizionandola e cambiandone le regole base, per esempio, trasportandola su tele di grandi dimensioni, oppure lavorando su tirature limitate, o ancora rendendone criptico il messaggio (in contro tendenza con l’illustrazione contemporanea che sembra propensa a “semplificare” linguaggi alti rendendoli accessibili e comprensibili a tutti con il rischio però di banalizzarli). Il risultato finale è tutto da verificare. In passato ho guardato tantissimi artisti, ora lo faccio pochissimo, sopratutto se sono in fase creativa.

Come nasce e si sviluppa un tuo disegno?

SARA: A volte nasce da input esterni come la televisione, un libro, un cartone animato, o anche solo da una risata con gli amici. Dalla vita quotidiana si possono estrarre spunti divertenti per storielle e illustrazioni, basta affinare l’arte di riconoscerli!

DAVID: Il più delle volte nasce in doccia! O comunque nei momenti in cui non sono focalizzato su qualcosa in particolare, la mente è libera e aperta. Poi spesso nel processo di realizzazione tutto cambia, l’opera prende forma un poco per volta. Adoro sovrapporre significati, citazioni, stratificando i livelli di lettura di una singola opera. Il caso ha comunque una grandissima componente nei miei lavori, cosa vedo o ascolto in un certo momento, può cambiare il risultato finale anche di molto.

Cornice_orizzontaleDavid Sossella

Quale definizione attribuiresti all’ARTE? Che cos’è per te arte?

SARA: Per me l’arte è qualcosa che lascia allo spettatore un sentimento di positivo stupore. È un’emozione scaturita da qualcosa di bello o di profondo che colpisce l’occhio e il cuore. Tale bellezza può nascere da un’illustrazione, ma anche da un oggetto o un gesto.

DAVID: Non mi azzarderei a definire l’ARTE, nel periodo in cui viviamo una definizione univoca è impossibile. Per quanto riguarda la mia personale esperienza, l’arte è l’esteriorizzazione del proprio spazio interiore. Il più grande problema nell’arte è la sincerità, profonda e assoluta. Essere pienamente sinceri, da un lato obbliga a scoprirsi, dall’altro a esporsi con gli altri. Un foglio bianco è come uno specchio, ti mostra ciò che sei in quel momento, e non fa nessuno sconto.

Molti teorici dell’arte ritengono che non tutto ciò che è frutto di creatività può considerarsi un’ Opera d’arte. Athur Coleman Danto filosofo analitico e artista afferma che ciò che determina la differenza tra un semplice oggetto e un’opera d’arte è quel mondo dell’arte fatto di istituzioni, teorie e regole. Concordi con questa considerazione nel definire che cos’è un’opera d’arte?

SARA: È cosa comune che un oggetto venga considerato all’unanime opera d’arte quando è qualcuno del mondo della critica dell’arte a definirlo tale. Cosa molto limitativa, talvolta assurda. Mi riferisco ai casi in cui sono le fantasie di un critico o magnate a sovraccaricare di significato un’opera per cavalcare il mercato.

DAVID: Più che una discriminante mi sembra una regola per dar ordine e creare un mercato.  Personalmente lo trovo piuttosto autoreferenziale. E proprio perché penso sia “schizofrenico”, non ho mai sentito la frenesia di proporre i miei schizzi, le miei pazzie, le mie opere.

Maurizio Ferraris afferma che “avere rappresentazioni è la condizione dell’agire e del pensare, che sono le caratteristiche generalmente attribuite ai soggetti. […] così pure il desiderio o il timore, l’amore o l’odio, e insomma tutta la gamma dei sentimenti hanno bisogno di immagini“. Sei d’accordo con questa affermazione? Qual è per te il ruolo dell’immagine oggi?

SARA: Le immagini posso rappresentare i sentimenti meglio di quanto le parole possano esprimere perché non ci sono barriere linguistiche o temporali. Attraverso l’illustrazione l’empatia tra illustratore e spettatore è totale; inoltre possono essere un mezzo per tramandare insegnamenti.

DAVID: Siamo tutti produttori di immagini, ognuno produce le proprie, e le sovrappone alla realtà. Quando da illustratore mostro una mia opera a qualcuno mi accorgo che questi vi sovrappone le proprie immagini, dettate dalle idee, dai condizionamenti, dalla memoria. Questo penso spieghi perché davanti ad un’opera ognuno reagisce in maniera diversa e, addirittura, se la ricorda diversa da com’è. La realtà intanto resta sempre nascosta.

Cornice_verticale2David Sossella

Aristotele diceva che “l’anima non pensa mai senza immagini, e che pensare è come disegnare una figura”, cioè registrare e iscrivere, non si tratta solo del pensare per immagini, bensì di adoperare consapevolmente immagini e schemi per facilitare il pensiero. A tuo parere perché è così efficace la comunicazione visiva? Le immagini/illustrazioni possono essere informazioni visive tanto quanto un testo scritto o un documento?

SARA: Come dicevo le immagini sono ancora meglio di un testo perché riescono a comunicare i messaggi senza usare una lingua comune. In più possono raffigurare l’impossibile (ad esempio Escher), anticipare il futuro, cambiare le scale, le proporzioni. 
Se è impossibile “non pensare a un elefante” credo che potrei “non disegnarlo” pur suggerendolo!

DAVID: La comunicazione visiva, se usata bene, è una tecnica efficace per innestare nello spettatore idee per mezzo di immagini. Questo perché il senso delegato a percepire le immagini è la vista, il più connesso con l’intelletto, mentre udito, tatto e olfatto sono più vicine all’istinto o all’emozione. L’immagine di per se è sempre innocente, la sua manipolazione può esserlo meno: se usata con sincerità può permettere un racconto da cuore a cuore, diversamente diviene un mezzo di strumentalizzazione per generare bisogni.

Cornice_verticaleSara Penco

L’illustrazione veniva definita come “l’immagine che accompagna un testo”. L’illustrazione oggi è qualcosa di molto di più, ha superato il suo significato originale. L’illustratore non è più soltanto un “figurinaio” ovvero un artista che descrive un testo con un’immagine, ma è un autore egli stesso: costruisce immagini. Che cosa puoi dire degli illustratori d’oggi? L’illustrazione ha forse nuove finalità?

SARA: L’illustrazione oggigiorno ha decisamente nuove finalità. Sempre più spesso viene usata senza essere accompagnata dal testo anche in ambiti delicati e con missioni importati: dalla campagna pubblicitaria, alle copertine delle riviste, dei cd musicali, ai siti internet e alle applicazioni per smartphone e tablet. Non ha solo lo scopo di attirare l’attenzione in una frazione di secondo ma anche di raccontare una storia della quale è lei stessa protagonista.

DAVID: L’illustrazione oggi è sicuramente cambiata, come del resto è completamente cambiato il mondo della comunicazione. Personalmente sento che il passo successivo è cercare di trasformare l’illustrazione in Arte. I tempi credo siano maturi e così ho deciso di provarci. Per poter però cambiare la finalità di un medium bisogna per forza cambiare alcune delle sue regole. Quali cambiare e quali no, fa parte della sperimentazione. Se l’esperimento riuscirà non mi è dato saperlo.

A tuo parere l’illustrazione con l’avvento della tecnologia , del computer e delle immagini digitali è cambiata?

SARA: Molti illustratori utilizzano la tecnologia del computer per colorare le proprie illustrazioni ottenendo lavorazioni molto belle e complesse. È solo un altro modo di rappresentare le proprie opere. Certo, in certi casi la tecnologia agevola a livello tecnico, ma ci sono tuttora illustratori che lavorano comunque a mano con tecnica “classica”.

DAVID: Come dicevo tutta la comunicazione è cambiata. Il modo di fruirla è cambiato e sopratutto il modo di produrla. Moltissimi artisti producono esclusivamente illustrazioni digitali, e non conoscono le tecniche classiche. Del resto, i brand stessi richiedono per lo più illustrazioni digitali, in particolare vettoriali, questo per squisiti motivi tecnici, di riproducibilità e utilizzo. Il computer con l’avvento del “ctrl+z” ha comunque completamente cambiato il modo di produrre immagini.Sa

GR_gloriaPERDAVIDSara Penco

Cosa puoi dire della figura dell’illustratore oggi?

SARA: All’estero, già da un po’ di anni, la figura dell’illustratore è tornata ad avere più appeal perché per le campagne pubblicitarie è stata messa da parte la fotografia in favore dell’illustrazione. In Italia si sta seguendo sempre di più questa scia.

DAVID: Qui in Italia capita spesso che quando dici che per lavoro fai l’illustratore le persone ti guardino con sguardo vacuo, a cui segue un “eh?” interrogativo. Oppure capita che se dici che fai il disegnatore ti rispondano ”sì ho capito, ma di lavoro cosa fai?”. Per fortuna qualcosa sta cambiando e pian piano anche il disegnatore sta arrivando ad avere una dignità professionale, anche se a mio avviso insufficiente, rispetto alla preparazione, al talento e alla costante ricerca che ci vuole per fare questo lavoro. All’estero le cose vanno meglio, con le dovute eccezioni, c’è una cultura più formata nell’ambito dell’illustrazione.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

SARA: Lavorare sulla mia tecnica per migliorare sempre di più e contribuire al proseguo del progetto Gusto Robusto.

DAVID: Non faccio grossi progetti a lungo termine, le cose cambiano troppo in fretta. Però ci sono molte cose che bollono in pentola per quanto riguarda il prossimo anno, staremo a vedere.

Ultima domanda dedicata ai nostri lettori, che cosa pensi della Filosofia?

SARA: Ho studiato filosofia al liceo. Mi è piaciuto studiare i filosofi delle varie epoche e come hanno cercato di dare delle spiegazioni al comportamento umano o al senso della vita. La filosofia è affascinante.

DAVID: Mi piace la filosofia, quando mira al proprio significato etimologico. Trovo che la ricerca della conoscenza dovrebbe essere la prima priorità dell’uomo, questo lo libererebbe da qualunque altro problema gli si possa presentare.GR_gloriaPERDAVIDDavid Sossella

L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.
Paul Klee

L’arte può dirsi anche atto di totale sincerità nei confronti di se stessi, come se non esistesse nessun tipo di filtro tra l’opera prodotta e l’artista produttore, non esiste schermo che tenga tra le due parti, l’una è lo specchio dell’altra.

L’arte è espressione di una delle potenzialità che possiede l’essere umano, che possiede ogni persona, quella di elaborare in modo creativo tutto quel magma di sensazioni ed emozioni che altrimenti non riusciamo a far emergere con parole, ragionamenti e concetti.

L’arte, così come ogni altra attività creativa, ci mette a nudo, ci obbliga a scoprire noi stessi e così ad esporci, ci richiede un atto di estrema sincerità e trasparenza, di coraggio e apertura; non c’è maschera che tenga nel momento in cui l’artista dà forma alla materia. Attraverso l’azione creativa l’immagine interna diventa immagine esterna, e dunque visibile e forse anche condivisibile.

Tramite forme, disegni, colori, suoni e movimenti possiamo comunicare ciò che la nostra interiorità nasconde e che timidamente tiene per sè; così l’arte diviene espressione immediata, diretta, spontanea ma anche arcaica e istintiva di noi stessi, senza dover passare necessariamente attraverso l’intelletto.

L’arte è anche questo, il richiamo a guardare, scoprire, osservare anche in modo critico ciò che siamo, è la chiamata a riflettere, interrogare e valutare ciò che più di profondo ci appartiene, sia che siamo artisti sia fruitori.

Elena Casagrande 

www.manifactory.com

www.gustorobusto.com

[Immagini concesse da Sara Penco e David Sossella ]

Ritirati in te stesso!

Esiste, all’interno di ognuno di noi, una parte inviolabile, inaccessibile.

Un cassetto interiore che chiudiamo ed apriamo meticolosamente con la chiave del cuore.

Nessuno può accedervi. Noi soltanto. E se qualcuno ci prova, restiamo con il fiato sospeso e poi iniziamo a balbettare. Un po’ come quando da piccoli ci veniva chiesto quale fosse il nostro sogno nel cassetto e ci sentivamo talmente disorientati che le nostre labbra non proferivano alcun suono, se non qualche “ehm..”, segno di incertezza. Un po’ anche come gli scritti autobiografici in cui il lettore può conoscere proprio tutto, ma dentro quel tutto ci si immerge nel niente..perchè anche qualora ci si mettesse a nudo, ci sarebbe sempre quella cosa lì che scivola via, che non può essere pienamente colta e compresa dall’altro, perché il vissuto individuale va al di là dei limiti dell’immaginabile. Read more

Il conflitto positivo

Il conflitto è un fenomeno che ci accompagna per tutto l’arco dell’esistenza: dall’infanzia all’adolescenza, dall’età adulta alla senilità, come elemento inevitabile dell’esperienza umana.

Esso può scaturire da una molteplicità di fattori: diversità di interessi ed esigenze, diversità di sistemi valoriali, difficoltà di comunicazione o semplicemente da equivoci.

Il conflitto è un fenomeno fisiologico di natura soggettiva, in esso hanno un ruolo essenziale l’interpretazione e a rappresentazione che le diverse parti danno della situazione o dell’evento in atto e , pertanto, verrà percepito in maniera dissimile in base alle personalità coinvolte, al loro orientamento emotivo in gioco, ai loro interessi , alle loro esperienze passate, e alla volontà o meno di mantenere la relazione con l’antagonista. Read more

L’empatia come comprensione dell’altro e di sè

Empatia, come il suo equivalente tedesco, Einfühlung, è una parola complessa, da usare con cautela perché molto spesso viene usata a sproposito, equivocando e inducendo in equivoco. Simpatia, compassione, comprensione, partecipazione, sono espressioni che si avvicinano molto ma possiedono un senso decisamente più debole.

Empatia sembra indicare un qualcosa in più, un qualcosa di più profondo, un “entrare dentro” negli stati d’animo degli altri, più che un semplice partecipare.

Con Husserl l’empatia “viene a costituire la via per mezzo della quale il soggetto sperimenta l’esistenza di soggetti altri” definendo la parola un penoso enigma. Read more