La giusta distanza nelle relazioni: Schopenhauer e il dilemma del porcospino

Vi è mai capitato di conoscere qualcuno con il quale inizialmente pensavate di instaurare un bellissimo rapporto e poi invece un vostro o un suo comportamento vi ha deluso?
Oppure di vivere delle relazioni in maniera simbiotica in cui l’interesse per l’altra persona rischiava di annullare completamente i vostri bisogni e la vostra individualità?

Se sì non scoraggiatevi, tutto questo avviene semplicemente perché nella vita di tutti i giorni ci troviamo costantemente ad oscillare tra due bisogni fondamentali: avere dei legami con gli altri e mantenere allo stesso tempo la propria singolarità. 
«Voglio stare insieme a te senza annullarmi», potremmo riassumere così la situazione ideale in cui si crea un legame affettivo tra due individui che mantengono le peculiari personalità che li caratterizzano.
Spesso, infatti, la paura di essere completamente risucchiati nella sfera dell’Altro ci porta a fare un passo indietro, ad evitare di esporci e ad utilizzare tutta la cautela e le accortezze del caso per evitare di soffrire o semplicemente che ansie e paure prendano il sopravvento impedendoci di vivere a pieno e in modo sano la nostra relazione.
E allora che fare? Come gestire queste due esigenze apparentemente così contrastanti? E soprattutto, come comportarsi di fronte a questo movimento oscillatorio tra desiderio d’amore, sopraffazione e dolore nelle relazioni?

Nel 1851 il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer pubblica in due volumi i Parerga e Paralipomena, una raccolta di scritti comprendente parabole, metafore, similitudini e aforismi, che nell’intenzione dell’autore sarebbero dovuti servire come rifinitura al sistema filosofico contenuto all’interno della sua opera più importante: Il mondo come volontà e rappresentazione.
All’interno del secondo volume dei Parerga e Paralipomena, al capitolo XXXI, sez. 396, Schopenhauer utilizza una metafora – meglio nota come il dilemma del porcospino – per descrivere e riflettere su due importanti questioni: qual è la giusta distanza da osservare affinché sia possibile vivere all’interno di una società senza ferirsi, e quale sia il grado di intimità ideale da osservare nel rapporto con gli altri.

«Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. – Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l’uno lontano dall’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere.
[…] – Con essa il bisogno di calore reciproco viene soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. – Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli» (A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, 1998).

Il filosofo tedesco utilizzò questa metafora per spiegare la complessità dei rapporti umani. Egli notò che, spesso, spinti dalla necessità, attratti dalla curiosità e dall’interesse, ci avviciniamo troppo alle altre persone senza misurare bene le distanze, finendo per imbatterci nelle loro spine e viceversa. Improvvisamente tutto sembra pericoloso e per non ferirci tendiamo ad allontanarci. Solo allora capiamo che l’importanza del calore altrui è ciò di cui abbiamo bisogno per sfuggire dal freddo della solitudine e che solo con l’esperienza saremo in grado di raggiungere un giusto equilibrio, un compromesso, che possa mettere in accordo i nostri bisogni individuali e quelli degli altri. 
Con il passare del tempo dunque, anche noi, proprio come i porcospini di Schopenhauer, abbiamo bisogno di trovare la «migliore posizione» nella costruzione delle relazioni e dei rapporti affettivi e sociali stando però attenti alle necessità e ai desideri propri ed altrui.
Una ricerca continua, dunque, un “patto” che costantemente tutti noi siamo chiamati a rinnovare se vogliamo continuare a vivere le nostre relazioni in maniera sana ed equilibrata, a meno di non essere «Colui, che possiede molto calore interno».

 

Edoardo Ciarpaglini

 

[Photo credit Connor Williams via Unsplash]

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Intrudere ed estrudere: l’inaccettabile opposizione di Jean-Luc Nancy

Nel 1992 il filosofo francese contemporaneo Jean-Luc Nancy ha subito un trapianto di cuore.

Ha raccontato questa estenuante esperienza nel libro L’intruso, edito da Cronopio e uscito nel 2000. Nancy basa la sua riflessione, breve ma densa, sulla coppia di sostantivi intrusione/estrusione, due termini che si oppongono ma che al contempo si richiamano cercandosi, abbinandosi, dandosi reciprocamente un senso. Non potrebbe esserci estrusione senza intrusione: quando, infatti, scegliamo di estrudere qualcosa – ossia di eliminarla, allontanarla – è perché essa viene percepita da noi come un intruso da scacciare, come un estraneo che ci crea problemi, ci invade o richiede troppo da noi; magari un impossibile che non possiamo o non vogliamo dare.

Il cuore di Nancy, quello con il quale è venuto al mondo, diventa l’organo da estrudere: appare come un intruso all’interno del suo stesso sistema corporeo, un intruso che non è più in grado di svolgere il suo compito e che mette a rischio la salute del filosofo. Si rende quindi necessario un trapianto: un altro cuore, un cuore che si attende come un libro fuori catalogo ordinato in libreria. Il cuore di un altro, capace di salvare la vita di Nancy, ma solo dopo un’intrusione violenta, fantascientifica, quasi impossibile da immaginare.

Scrive Nancy: «Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi» (J.L. Nancy, L’intruso, 2000). Il suo cuore, che gli «saliva alla gola come un cibo indigerito», lo stava abbandonando. Per sopravvivere, avrebbe dovuto ospitare in sé qualcosa di estraneo.

Ma come si fa ad accogliere un intruso, che per sua stessa definizione giunge imperioso e si introduce in un ambiente familiare con aggressività e potenza, con scaltrezza e imprevedibilità? L’intruso arriva «senza permesso e senza essere invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità» (ivi). Bisogna accettare un’inaccettabile.

I medici devono estrudere per poi includere.

Di fronte a questa scomoda e temibile realtà, Nancy si sdoppia, così come doppio si fa il senso della sua stessa esistenza. La sua vita sarà la morte di un altro essere umano. Ciò che sente è «di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte» (ivi). Egli è in due luoghi contemporaneamente: in balia della morte che incombe, della quale il suo cuore malandato si fa messaggero; in balìa della vita che ancora lo trattiene a sé con la promessa di una speranza, di una soluzione. Nancy è al di qua e al di là, così come sarà e resterà se stesso con in petto l’organo di un altro.

Il filosofo capisce anche che se si vuole sopravvivere bisogna prima diventare estranei a se stessi. Prima dell’arrivo dell’intruso il suo sistema immunitario viene preventivamente preparato a essere neutro, ossia inutile, per facilitare la sua venuta. Esso viene quasi cancellato, per minimizzare il rischio di un rigetto. «L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso» (ivi), spiega Nancy. L’estraneità si moltiplica e i farmaci anti-rigetto gli causano un abbassamento delle difese immunitarie che sfocia in cancro. Questa nuova malattia lo costringe a ulteriori sofferenze che paiono infinite e che sbalzano ancora e ancora la bussola della sua identità.

Ma egli sopravvive. E lo fa perché l’uomo ha imparato a superare se stesso divenendo «colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione» (ivi).

Per sopravvivere dobbiamo continuamente estrudere qualcosa e includere qualcos’altro di nuovo. Lo facciamo con il nostro organismo – le unghie troppo lunghe o i capelli, che vanno tagliati ma che poi ricrescono. Lo facciamo con persone e situazioni che, come il vecchio cuore di Nancy, ci divengono indigeste. Il ciclo della vita esclude per accogliere, e accoglie sapendo a priori che quella venuta resterà, come dice Nancy, scomoda e dal sapore straniero fino a che seguiterà a venire, fino a che non sarà divenuta qualcosa di familiare – ma quella familiarità durerà sempre e soltanto per un tempo determinato, sfociando poi in una nuova estrusione che sa di auto-defezione.

«L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette di alterarsi […] intruso nel mondo come in se stesso» (ivi).

Un paradosso che va accettato, compreso, abbracciato.

 

Francesca Plesnizer 

[Photo credit Ali Hajiluyi via Unsplash]

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Ascoltare Sé e ascoltare l’Altro

Quando si parla di relazioni nelle discipline sociali e umanistiche, oppure quando si affronta l’argomento con profondità nella vita quotidiana, si loda spesso l’ascolto dell’Altro, riferendosi sia al semplice tendere l’orecchio a chi sta conversando con noi sia al più complesso Ascolto Attivo, ossia un approccio – ben descritto dalla sociologa Marianella Sclavi in Arte di ascoltare e mondi possibili (2003) – che prevede, tra i diversi spunti, l’attenzione alle emozioni altrui con il fine di relazionarsi positivamente con gli interlocutori.
Considerare solo questa dinamica dell’ascolto, però, significa credere che le relazioni sociali siano una banale forma di apertura all’Altro, mentre esse ci coinvolgono quali coprotagonisti e ci chiedono di ascoltare anche le nostre, di emozioni. Se questa richiesta non trova risposta, lediamo sia noi stessi perché non sappiamo se stiamo traendo beneficio dalle relazioni, sia l’Altro perché non lo ascoltiamo attivamente.
Nelle prossime righe vedremo il tema dell’ascolto di Sé nell’ottica delle interazioni sociali. Non affronteremo le modalità con cui si può ascoltare sé stessi, altrimenti saremmo prolissi. Azzarderemo, invece, un legame con un argomento più attuale, cioè i contatti tra culture.

Il sociologo Salvatore La Mendola tratta il tema di cui sopra in Centrato e aperto (2009), libro che propone un approccio dialogico alle interviste sociologiche, ma che offre soprattutto un punto di vista stimolante sulle interazioni tra esseri umani, accennando ad azioni che possono essere praticate in situazioni in cui si voglia ascoltare sé stessi. Queste azioni riguardano la consapevolezza del proprio corpo – stare con i piedi piantati per terra, concentrarsi sul respiro, seguire il battito del cuore ecc. –, perciò suggeriscono che, come l’ascolto dell’Altro, anche l’ascolto di Sé non sia un banale esercizio dell’udito, ma un processo che coinvolge ogni parte di noi.
In Centrato e aperto l’intervistatore che fa un’intervista dialogica è rappresentato con La passeggiata del pittore Marc Chagall. Più precisamente il suo ruolo di guida è identificato con la figura in piedi e l’attenzione all’intervistato è identificata con la figura in aria. Il dipinto, però, può essere interpretato anche nell’ottica dell’ascolto, immaginando che la prima figura simboleggi la parte di noi che ascolta le nostre emozioni e la seconda figura simboleggi la parte di noi che ascolta l’Altro.

Questo duplice processo di ascolto rende la consapevolezza di Sé una condizione difficilmente raggiungibile in un’interazione. Ancor più difficile, però, è dare continuità a tale condizione: ciò che ci ha permesso di trovare stabilità in quell’interazione, infatti, può essere inutile in un’altra, poiché ci relazioniamo con persone diverse oppure la stessa persona può, parafrasando il titolo di un libro del sociologo Erving Goffman, presentare self differenti, cioè modalità diverse di mostrarsi nelle interazioni.
Nell’impossibilità di stabilire un solo modus operandi, come costruire l’Io, ossia uno dei due fondamenti delle relazioni sociali secondo il filosofo Martin Buber? (L’altro, ça va sans dire, è il Tu). All’inizio abbiamo detto che una risposta in questa sede sarebbe eccessivamente complessa. Un accenno, però, l’abbiamo fatto: si tratta della consapevolezza del corpo suggerita da La Mendola. Molti percorsi di crescita personale, infatti, prevedono la scoperta della propria interiorità attraverso la respirazione consapevole e la concentrazione su ciò che si percepisce con i cinque sensi.
Sicuramente possiamo affermare che un Io che vada bene in ogni interazione non è realizzabile. Al contrario dobbiamo costruirne uno che, come l’acqua, si adatti a diversi contenitori relazionali, alcune volte accetti di stagnare e altre volte abbia l’energia per rompere gli argini.

Il rapporto tra l’ascolto dell’Altro e l’ascolto di Sé può essere intravisto anche nei contatti tra culture – un tema delicato in Italia, soprattutto negli ultimi mesi. Tale questione, infatti, divide quelli che vorrebbero ascoltare e accogliere l’Altro – che in questo caso può essere generalmente identificato con i migranti – da quelli che ascoltano esclusivamente sé stessi e gli italiani che ragionano come loro.
In questo scontro è bene ricordare l’incipit di Terra degli uominidi Antoine de Saint-Exupéry: «Misurandosi con l’ostacolo l’uomo scopre se stesso». Oggi molti partiti politici rappresentano quell’ostacolo con chi appartiene a culture diverse dalla nostra, ma le parole dell’autore francese evocano l’idea che abbiamo bisogno di un ostacolo se vogliamo fare l’unica cosa che dà senso alla vita: il filosofico conoscere sé stessi.

A questo punto possiamo suggerire una domanda: quali modalità specifiche possiamo attuare per conoscere noi stessi nell’esperienza tumultuosa della vita e nello scenario variegato del mondo? La questione resta aperta.

 

Stafano Cazzaro

 

BIBLIOGRAFIA
1. Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini, Milano, Ugo Mursia Editore, 2014.

[Credit davide ragusa]

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Gilles Deleuze e il problema della differenza

Nel mondo che ci circonda, la diversità sembra attraversare il nostro sguardo da ogni lato; la differenza sembra la cifra della nostra nuova identità, aperta e multiculturale; e l’altro, anziché starci a guardare da lontano, sembra essersi insediato dentro di noi. Ecco allora che il problema del diverso e della diversità è oggigiorno un problema imprescindibile che ci tocca sempre più da vicino, mostrando e dimostrando la nostra difficoltà ad accettare ciò che eccede le nostre certezze identitarie. Tale problema ha degli innegabili risvolti politici e sociali, che sono facilmente osservabili nella quotidianità delle nostre azioni. Tuttavia una riflessione filosofica seria non può soffermarsi solo su queste manifestazioni esteriori; essa deve cercare di dare una fondazione logica e una spiegazione razionale della natura dell’altro e della differenza. Ed è proprio di questa fondazione che vi vorrei parlare.  

Il problema della differenza non è un problema privato, al contrario rappresenta un problema umano e filosofico, poiché della differenza anche i maggiori filosofi hanno avuto paura, poiché anche loro hanno sentito la necessità di proteggersi di fronte al mistero caotico che genera la scoperta del diverso. Lo hanno fatto sicuramente nel modo a loro più accessibile, ovvero controllando l’altro attraverso la logica. Per essere più precisi, essi si sono oltremodo sforzati di ridurre il concetto di differenza a un semplice derivato del concetto di identità, in modo tale che la differenza per poter essere compresa dovrebbe legarsi a questo concetto (d’identità), il solo che avrebbe potuto giustificarla nelle sue diverse sfumature. Platone e Aristotele, Cartesio e Spinoza, Leibniz e Hegel sono tutti ugualmente esempi della signoria dell’identità sul nostro mondo dispersivo; tutti loro ritengono che l’identità di una cosa con se stessa sia la condizione necessaria perché si diano oggetti diversi tra loro. E se mancasse questa fondamentale identità con sé, allora non potrebbe neanche più esserci la differenza con tutte le altre cose. Perciò l’alterità diventa un misero surrogato, la banale conseguenza della percezione errata che ho di me stesso.

Eppure il filosofo dovrebbe distinguersi per avere il coraggio di guardare in faccia il “mostro”, che in questo caso è la differenza dell’altro. Ma chi tra tutti questi sedicenti eruditi è realmente riuscito a lasciar vivere l’altro in sé? Sembra che la risposta a questa domanda sia nessuno. Sembra, però, soltanto nessuno, perché la filosofia ha il grande pregio di capire i suoi errori e di imparare da loro, e, infatti, la contemporaneità ha saputo smuovere un po’ le acque e attraverso il genio di Gilles Deleuze ha saputo ascoltare profondamente la melodia caotica della differenza, facendola esplodere in accordi stridenti. Egli è riuscito a scrivere la vera storia della differenza, perché ha compreso che i termini della questione (identità e differenza) andavano invertiti: è in realtà l’identità che deriva dalla differenza e non il contrario. Come ciò sia possibile è sicuramente il problema da porsi, poiché solo questo “come” permette alla filosofia di trascendere la sua attrazione per l’identità. Tuttavia, realizzarlo non è assolutamente semplice e, infatti, Deleuze deve allontanarsi dalla logica e avvicinarsi alla matematica per raggiungere il suo scopo, poiché quest’ultima è la sola che può condurci lungo il cammino della scoperta dell’altro. Anche se è piuttosto tedioso esporre la teoria matematica a capo del nuovo concetto della differenza, resta però necessario esporre il significato di questa rivoluzione di prospettiva introdotta da Deleuze e le conseguenze che essa comporta per la percezione di noi stessi. Deleuze quindi prende la matematica, perché la matematica ci insegna che la relazione viene prima di tutto, ovvero c’è prima relazione e rapporto e poi identità o diversità. Le persone che entrano in un rapporto non hanno un’identità prestabilita, che devono confermare durante questo rapporto. Al contrario la loro identità è assolutamente indeterminata prima di esso; solo la relazione può dargli consistenza, cosicché soltanto la relazione permane al di là dei suoi elementi, continuando a sussistere anche quando essi cambiano. L’identità di sé allora non è l’originario; essa deve essere ribaltata nel suo significato autentico, così da mostrarsi com’è in verità, come una semplice conseguenza di rimando. E questo perché la relazione opera prima della nostra capacità di pensarla ed esprimerla. L’identità allora non si dà come già fatta e non può esistere come identità pienamente attuata, perché essa è da sempre un divenire che è un divenire altro.

La nostra identità noi la costruiamo giorno dopo giorno nella relazione con gli altri, tutti gli altri ma soprattutto i veramente altri da noi, per opinione, cultura e tradizione. Non nasciamo mai con un marchio impresso che ci dice chi siamo e a chi apparteniamo. Al contrario, in ogni singolo momento la nostra cosiddetta identità si fa e si rifà, si forma e si deforma in un moto continuo che, se osservato attentamente, incanta come lo scorrere di fiume in piena.

 

Gaia Ferrari

 

[Credits rawpixel su unsplash.com]

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Quando il volto non riesce a raccontarsi: identità e corpo nell’esperienza del trapianto facciale

Alle ore cinque del mattino di sabato 22 settembre si è concluso il primo trapianto di faccia in Italia. Un intervento iniziato circa alle otto del mattino di venerdì e durato ventiquattr’ore, secondo quanto affermato dai medici dell’ospedale Sant’Andrea di Roma.

Il ricevente è una donna di quarantanove anni affetta da una grave forma di neurofibromatosi di tipo I, una malattia genetica che andrebbe a colpire la cute e il sistema nervoso, manifestandosi attraverso la comparsa di macchie color caffelatte su tutta la superficie corporea ed escrescenze anche sull’iride dell’occhio. L’intervento è stato reso possibile da una giovane donatrice, una ventunenne morta a causa di un incidente stradale.

Certo, l’intervento è “tecnicamente riuscito”. La paziente è stata indotta ad un coma farmacologico ed è stata sottoposta, come di prassi, alla terapia antirigetto. Quello della paziente è stato un intervento che ha previsto quattro anni di preparazione, incontri e terapia psicologica, esami e accertamenti; fino a quando, il giusto donatore compatibile è arrivato. E con il donatore, la prima chance di rinascita.

Quello al volto è definito come un trapianto “multitessuto”, comprendente pelle, fasce muscolari e cartilagine. Sebbene non si tratti di un trapianto di un organo salvavita, come cuore o fegato, sottoporsi a un tale intervento significa affrontare le difficoltà di una preparazione non solo fisica, quanto più psicologica, che avrebbe condotto la donna a decidere per il trapianto. Secondo ciò che è stato riportato dai medici dell’Azienda universitaria-ospedaliera Sant’Andrea di Roma, la donna avrebbe sempre dimostrato un atteggiamento positivo nei confronti della vita, a tal punto che, poco prima di essere sedata, avrebbe comunicato ai medici di non avere paura rispetto a ciò cui stava andando incontro.

D’altronde, chi potrebbe permettersi di mettere in discussione la scelta di chi si è sentito abitato da un corpo non proprio, alieno, un corpo deformato dall’aggravarsi della malattia? Come potersi mettersi nei panni di chi ha combattuto fin dall’adolescenza con la paura del giudizio e dello sguardo altrui?

Quando parliamo del nostro corpo e delle difficoltà che si possono incontrare nel vivere con esso, non si può non rivolgersi al contempo a quell’identità che si scrive attraverso il corpo. Un’identità che, come nel caso di questa donna, era in pezzi. Nessuno potrà mai comprendere il disagio e la sofferenza che si portava dentro, questo bisogno di cambiare vita, di cambiare volto, di rinascere.

Ma rinascere da cosa? Rinascere da una lotta contro se stessi, forse?

Rinascere da un sé in frantumi? E verso quale direzione?

La scelta di questa donna è stata dettata dal bisogno di ritrovare il senso della propria vita, che poi non significa altro che ritrovare il senso della propria storia e della propria identità, attraverso le ferite di un corpo da troppo tempo lacerato da un dolore insopportabile. Un corpo strappato dalla propria ricerca di senso. Un corpo piegato dal dolore di un’inadeguatezza profonda, un’inadeguatezza che ha fatto i conti con l’opportunità di una svolta, resa possibile dal trapianto facciale.

Il prezzo di tale rinascita, tuttavia, è stato quello di accogliere parte del corpo di un altro. E, a differenza del trapianto di altri organi, quello al volto implica un cambiamento visibile, evidente e percepibile dall’esterno. Non si tratta unicamente di accogliere dentro di sé parte del corpo di un altro – pensiamo ad esempio alle implicazioni esistenziali successive al trapianto di cuore e riportate nelle bellissime pagine di Jean Luc Nancy, il quale descrive la complessità di accettare anche solo il battito del cuore di un altro – ma di mostrare all’esterno, agli altri, una parte di sé che apparteneva a quel donatore, ad un’altra vita, un’altra storia, ad un altro senso. Non contando inoltre i rischi cui il paziente si sottopone, una volta accettato il trapianto. La terapia immunosoppressiva e le possibili e conseguenti infezioni. Il successivo potenziale rigetto.

Non si tratta di un mero intervento “tecnico ben riuscito”, quindi.

Dopo poche ore, i medici del Sant’Andrea hanno dichiarato che la donna, malgrado non rischi la vita, è andata incontro a un rigetto che avrebbe comportato la ricostruzione temporanea dei tessuti autologhi. Come nel caso di qualsiasi organo trapiantato, andare incontro a un rigetto costituisce l’improvviso rifiuto del proprio organismo nell’accettare l’organo ricevuto. Ciò in attesa di un secondo donatore compatibile. Di un altro strappo. Di un altro cambiamento per la vita. Un cambiamento che, però, non può non lasciare una traccia in quel corpo che ci definisce e ci muove, che è a sua volta definito da un sentiero, che è il nostro, e che non è altro se non il racconto di ciò che siamo stati, che siamo e saremo.

 

Sara Roggi

 

[Credits Noah Buscher su Unsplash.com]

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Elogio della (vera) solitudine

«Forse sarei più sola/senza la mia solitudine»1 recita una poesia di Emily Dickinson. I versi di questo splendido componimento, ci immergono prontamente nei fondamenti esistenziali della solitudine. La condizione ipermondana e iperteconologica dell’uomo del tempo presente, lungi dall’aver aumentato la solitudine nei singoli, ne ha aumentato l’isolamento e l’atomizzazione. L’isolamento, cifra caratteristica soprattutto delle giovani generazioni, è l’espressione di un disagio culturale, sociale, psicologico e relazionale che conduce al deserto emozionale, alla totale chiusura di se stessi, fino al disinteresse per il mondo vitale dell’altro-da-sé e, nei casi più estremi e faticosi, alla totale noncuranza di se stessi e della propria esistenza.

Diversamente dall’isolamento, la solitudine è costitutiva dell’essere umano, è una sua peculiarità positiva. Solo l’uomo infatti può, attraverso la solitudine interiore, penetrare in se stesso, conoscersi e crescere psicologicamente, intellettualmente e spiritualmente. La solitudine è la possibilità, in un mondo saturo di informazione e parole vuote, di ritrovare il silenzio dentro la propria anima. Ed è in questo silenzio che è verosimile scorgere più chiaramente la nostra condizione esistenziale che oscilla fra la finitudine e l’infinito desiderio d’infinito. Solamente nel raccoglimento e nella contemplazione possiamo cogliere che la nostra intima precarietà, è la via che apre alla conoscenza del visibile e dell’invisibile, immergendoci in una tensione dialettica, senza il cui nutrimento cadremo in un nichilismo senza possibilità e speranza. La vera solitudine ci apre al mistero indecifrabile della vita, alla possibilità di commuoverci dinanzi alla nostra essenza, di comprendere più a fondo noi stessi e l’altro-da-noi. In questo senso la contemplazione interiore, non ci chiude al mondo e agli altri, ma ci aiuta a tornare, con corpo e spirito rinnovati, verso l’esterno.

A delineare la fondamentale esperienza della solitudine per ogni esistenza che voglia definirsi creativa e generativa di profondi significati umani e spirituali, è stato Rainer Maria Rilke. Scrivendo ad un giovane poeta in merito alla solitudine egli si esprimeva così: «Perciò, caro signore, amate la vostra solitudine e sopportate il dolore che essa vi procaccia con lamento armonioso […] la vostra solitudine vi sarà sostegno e patria anche in mezzo a circostanze molto estranee, e dal suo seno troverete voi tutti i vostri cammini»2. Il poeta di origine boema sottolinea l’importanza della solitudine come approdo per l’esistenza, come possibilità sempre presente per ritrovare il contatto con se stessi, con la propria anima. Non dobbiamo lasciarci impaurire dalla solitudine crescente, essa è la preparazione del terreno dell’anima per una nuova fioritura. Sono ancora le parole di Rilke a testimoniarlo con indicibile lucidità: «Ma sono forse quelle ore in cui la solitudine cresce; che la sua crescita è dolorosa come la crescita dei fanciulli e triste come l’inizio delle primavere. Ma questo non vi deve sviare. Questo solo è che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine»3.

La solitudine è un’opportunità dell’anima dell’uomo, ma non tutti la conoscono o la vogliono conoscere. Essa è la vera alternativa all’isolamento, a cui molte persone ormeggiano in reazione al delirio mondano delle nostre città, all’iperconnessione celata dietro il falso mito delle ipocrite relazioni virtuali. Differentemente dall’isolamento, la solitudine è nello spettro della consapevolezza, della scelta autonoma del singolo che decide di intraprendere un viaggio silenzioso dentro se stesso, riflettendo sulla propria esistenza, ricercando incessantemente la verità e contemplando con occhi sempre nuovi il vivente.

Mentre l’isolamento arresta come una diga il corso dell’esistenza, ne ostruisce le sorgenti, la solitudine è la via verso la sorgente interiore alla quale sempre si può attingere. Essa è generatrice di significati profondi e di bellezza. Pensiamo alla solitudine interiore di Leopardi e del citato Rilke, fucina di versi di inenarrabile profondità e bellezza. Ricordiamo il necessario raccoglimento interiore di molti artisti, prima d’iniziare le loro entusiasmanti creazioni. Rievochiamo la solitudine che alimenta come fuoco vivo le incandescenti e luminose esperienze interiori di Etty Hillesum, che all’interno del campo di concentramento di Westerbork, in attesa di essere inviata alla morte certa di Auschwitz, riconosce la solitudine come riparo e speranza, contro ogni speranza, di poter continuare il dialogo con se stessa e con Dio, in una relazione che non è di isolamento, ma nuovamente di apertura dialettica con l’altro-da-sé. Da questa consapevolezza sono sgorgate parole che destano ammirazione e possono restituire speranza anche alle esistenze più lacerate dalle notti del corpo e dell’anima. Scrive la giovane ebrea olandese: «Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco più ‘raccolta’, concentrata e forte»4. La cella della solitudine offre confini e protezione nell’inferno dell’esistenza, in un dialogo inesauribile e nutriente con se stessi e l’invisibile.

L’elogio della vera solitudine è dunque l’espressione della possibilità di camminare per i meandri inesplorati della propria anima. Quest’ultima intesa come luogo privilegiato nel quale sempre potersi ritirare, rinnovare e dal quale poter ripartire fortificati verso gli altri e il mondo. La solitudine, che si nutre di silenzio, raccoglimento e contemplazione è dunque il respiro dell’uomo che cammina autenticamente, libero dai soffocamenti che la società contemporanea impone, per le alte vette della propria interiorità. In questo senso, come non concludere con le parole intense, indelebili e significative, che il teologo e pedagogista Rubem Alves ha scritto:

«Nella solitudine si contempla la nascita di nuovi mondi. Le montagne, le foreste, i mari: scenari dell’anima. C’è in essi una grande solitudine. E la solitudine è dolorosa. Ma c’è anche una grande bellezza, perché è solo nella solitudine che esiste la possibilità di comunione. Così non avere paura: ‘fuggi dentro la tua solitudine. Sii come un albero che ama con i suoi lunghi rami: silenziosamente ascoltando; essa rimane appesa sopra il mare’»5.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. E. Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano 2013, p. 443.
2. R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, tr. it. di L. Traverso, Adelphi, Milano, 201321, pp. 34-35.
3. Ivi, p. 41.
4. E. Hillesum, Diario 1941-1943, tr. it. di C. Passanti, Adelphi, Milano, 201217, p. 111.
5. R. Alves, La bellezza del crepuscolo, tr. it di M. Dal Corso, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2018, p. 54.

[Photo credits: Benjamin Davies via Unsplash]

 

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Rupi Kaur, le sue poesie e il femminismo della riconciliazione

«Questo è il viaggio della
 sopravvivenza attraverso la poesia […]»1.

Si tratta dei versi di apertura della raccolta Milk and honey di Rupi Kaur, e questo è un articolo sulle ragioni, per cui chiunque dovrebbe sfogliarlo almeno una volta.

Quando si pensa alla poesia, la mente richiama innumerevoli cose: fogli ingialliti, lirismi, metafore, poeti melanconici. Poesia è arte, filosofia, espressione, ma, a volte, rischia anche di allontanarsi dall’uomo, di non avere niente a che fare col suo essere di terra e fango, così concentrata com’è a raggiungere l’etereo, il metafisico.

Tuttavia, quando Rupi Kaur presenta la poesia come strumento di sopravvivenza, si ha un unico compito nei suoi confronti: bisogna compiere un atto di dimenticanza, e ripulire la mente da ogni cosa si conosca sulla poesia.

Vi si troveranno il corpo, la pelle, i peli, il sangue, gli odori, mai esaltati o rifiutati come volgari e banali, ma messi a nudo sulla carta.

Vi sono versi composti da una sola parola, senza punteggiatura, perché se ne pesi il valore, e si scelga il ritmo con cui leggerla. Quella di Rupi Kaur è una poesia della carne, fatta di sapori, erotismo; è il motivo per cui chi legge si sente compreso e accolto, poiché nulla di più autentico e immediato unisce un essere umano all’altro come la carne e i suoi nervi. È la poesia del viaggio, e bisogna ancora dimenticare le regioni geografiche, laddove l’unico luogo esplorabile è il proprio vissuto.

Rupi Kaur traccia un percorso preciso, le cui tappe sono i capitoli stessi del suo libro e definiscono un’unica via, ovvero il potere più inaspettato dell’amare. Non si tratta solo dell’abbandono, dello stupro, dell’inganno, ma della frantumazione dell’essere che ama.

Tale viaggio inizia da il ferire, e il punto di vista assunto è quello della bambina, della figlia il cui unico uomo è il padre a cui rendere conto, che soggioga la madre, che diviene il modello. Il corpo è oggetto per gli altri e per se stessa, veicolo di fantasie, misteri e, a volte, abusi. Il primordiale atto d’amore, quello dei genitori verso i figli, è la prima ferita, poiché la separazione è inevitabile, e sancisce i confini fra il bene e il male, giusto o sbagliato.

Gli occhi della bambina si fanno più grandi, diventano quelli della giovane, che distolgono lo sguardo dal padre e si gettano verso l’amore come mistero. Non vi è solo l’abbandono al romanticismo o la scoperta dell’eros, ma l’affiorare della fiducia. È fiducia nella maternità, nel futuro, nel proprio corpo. Si amano figli non ancora nati, amanti non ancora incontrati; è la fiducia verso l’incomprensibile, aspettando che si schiuda. Ed esso si aprirà alla giovane, ma in modo inatteso. Inizia la parte più lunga e difficile del viaggio della sopravvivenza, il momento in cui si deve attraversare lo spezzare. Non è solo l’amore finito, è il rifiuto, la dipendenza, ed è soprattutto, il momento in cui ci si frantuma. Si perdono pezzi di sé, perché l’amato viene vissuto come parte interiore, e ci si smarrisce. È la strada del rimpianto, delle lacrime, della rabbia, ed è la parte più oscura.

La poetessa diviene sempre più saggia, pagina dopo pagina, e giunge finalmente all’ultima tappa: il guarire. Si tratta dell’amare trasformato, e non vi è padre o amante in esso, bensì l’interezza ritrovata. Rupi Kaur scrive per ricongiungere tutti i pezzi fra loro, che descrive a volte come ciglia cadute dagli occhi, o come frammenti di pelle, e rovescia lo sguardo dall’altro al sé. La risposta all’energia disgregatrice dell’amare è essa stessa amore, come dono all’altro.

Vi è un ultimo momento, su cui è necessario applicare la dimenticanza. Il mondo che descrive Rupi Kaur è prettamente femminile, con tutti i suoi punti di vista, per questo la poetessa è divenuta un riferimento per il femminismo moderno. Tuttavia, non si tratta del femminismo rabbioso, che risponde al sopruso con la rivendicazione. Il femminismo di Rupi Kaur è tale per cui l’uomo non è incluso solo come prepotente o violentatore. La vittima e il carnefice, l’uomo e la donna mescolano continuamente i loro ruoli. Il ferire, l’amare, lo spezzare, il guarire non sono soltanto luoghi di un viaggio, ma azioni, movimenti dell’animo, di cui la donna non è solo succube, ma anche soggetto.

Questo femminismo non è “roba per donne”, ma una prospettiva nuova, in cui amare è un dono a uno sconosciuto, in questo caso il lettore, come meta di un lungo cammino.

Si tratta di un femminismo della riconciliazione, e in quanto tale, perché sia efficace, non può escludere nessuno, ma deve dimenticare, per ritrovarsi; è un invito a far pace.

 

Fabiana Castellino

NOTE 
1. Rupi Kaur, Milk and honey, tre60, TEA Milano

 

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Le metafore del corpo e dello spirito

<p>Il Vincolo di Cupido - Metafore del corpo e dello spirito</p>

Ogni uomo è utopia per sé stesso e per l’Altro; ogni uomo è sintesi di prese di coscienza del mondo e degli altri uomini che lo circondano. Uomini come cumuli di bisogni e desideri di trascendenza, come cumuli di dispiacere e di nuove volontà e desideri e bisogni sempre nuovi e sempre più sfuggenti. Un bel giorno, l’uomo sembrò così sia l’animale infelice che quello esaltato; un essere incorniciato tra l’irrimediabilità della morte e la consapevolezza di una vita in continua metamorfosi, all’inseguimento di un qualcosa che non si fa prendere. In continua fuga dal proprio essere, vincolato e legato alle sue affezioni nonostante queste sono per natura sfumate nella tonalità dei suoi pensieri e delle sue pratiche. Un uomo principalmente corpo del caos dell’universo e della natura, entro limiti e funzionalità; un caos impegnato a disporsi chiaramente a sé stesso e al mondo e agli altri seppure in continua fuga ed in continua evanescenza. L’uomo è un po’ come te caro mare e come il vento che ti orienta e muove la tua superficie con tutte le apparenze e le cose che ti ornano; muove a sua volta le cose che stanno nel tuo profondo e quello di noi uomini che ti stiamo a guardare attraverso lo specchio della conoscenza. Ma questo tuo muovere le cose, non è solo atomi, concetti e scienza; di più ancora muove le profondità degli uomini ed essi sono i significati altri che ti pervadono lo spirito. Quelli che non ci sono dati ma di cui siamo ugualmente padri. Più ancora, quindi, muove gli uomini e li porta a te mio mare! Sopra tutto è quell’esser nostro su per questi venti, nel piacere turbolento del non sapere e del perdersi; più ancora è il riflesso dell’intelletto, ossia il pensiero, la sua ombra, che si anela su se stessa e pensa al piacere anche per mezzo di attese e di scientifico dispiacere; come uccelli contro tempesta, senza parti e senza scienza ma con tanta volontà. Io stesso, scrivendo, anelo adesso il corpo a ciò che indichiamo come spirito; così il mio corpo come il mare, come il foglio sul quale Ti scrivo; è il corpo, il mio homme de lettres, e lo spirito, il vento, mi sussurra la solita annosa domanda: “Tu sei come me e sei persino me. Sei una Voce della natura, corpo dell’Universo e anche tu con una moltitudine di possibilità, ma chi tra noi due è anche metafora dell’altro?”

Salvatore Musumarra