Selezionati per voi Junior – Natale 2015

Inizio Dicembre..un pomeriggio in casa al calduccio..una matita in mano e un foglio bianco steso di fronte. Per molti bambini, questo, è un momento davvero magico! Finalmente possono esprimere il loro desiderio per il Natale che ormai pian piano si avvicina! Chi non ha ancora l’età per scrivere si fa aiutare da mamma e papà. Chi a scrivere ha appena imparato si fa correggere gli errori da qualche fratello o sorella più grande. Chi invece a Babbo Natale non ci crede più, la letterina probabilmente non la scrive, ma spera comunque di poter scoprire qualcosa per lui sotto l’albero!

Cari genitori, amici, parenti, ecco qualche proposta per voi: impacchettate un libricino insieme ai tanti regali che comprerete! Leggere è viaggiare con la fantasia, è scoprire nuovi mondi con il pensiero! Inoltre, per noi della Chiave di Sophia, leggere è soprattutto riflettere! Per cominciare a farlo non c’è un’età minima, anzi! I bambini sanno dimostrare spontaneamente ogni giorno la loro curiosità verso il mondo che li circonda. Leggere assieme a loro un album illustrato durante le vacanze natalizie sarà un’occasione in più non soltanto per trascorrere un momento piacevole in famiglia, ma anche per alimentare le loro domande e riflessioni riguardo a..

La grande domanda

VITA: Wolf Erlbruch, La grande domanda, Edizioni e/o 2004, 13€, a partire dai 3 anni

Un testo che, facendo esplorare differenti punti di vista, permette di apprezzare la particolarità e la singolarità di ciascuno di essi. Le risposte dei vari personaggi alla cosiddetta “grande domanda” non si propongono come alternative escludentesi l’un l’altra, ma offrono spunti per iniziare a definire la propria posizione, la quale può addirittura essere annotata alla fine del libro! Contribuire con i propri disegni alle illustrazioni già presenti nel testo? Niente di più soddisfacente per un bambino!

 

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AMICIZIA: Linda Sarah e Benji Davies, Sulla collina, Giralangolo 2014, 13.50€, dai 4 anni

Una breve storia d’amicizia che inizia a due, con Uto e Leo, sembra incrinarsi con l’arrivo di Samu, ma che poi termina felicemente con l’immagine dei tre bambini che giocano tutti assieme. L’amicizia per i bambini è un’esperienza tanto speciale quanto delicata! Capita spesso che si verifichino delusioni per piccolezze: quest’album può insegnare ad affrontare le paure e le preoccupazioni al fine di vivere con spensieratezza i momenti in compagnia!

LEZ PESCA

AMBIENTE e non solo: Heinrich Böll e Emile Bravo, Lezione di pesca, Bao Publishing 2013, 11€, dai 5 anni

Un racconto che vede come protagonisti un turista esageratamente propositivo e un tranquillo pescatore della costa occidentale. Il primo rispecchia la tendenza attuale alla produzione a all’accumulo di beni e capitali; il secondo invece dimostra di essere ancora capace di godere dei piaceri semplici della vita. Riusciranno a mettersi d’accordo? Scopritelo assaporando le simpatiche e colorate immagini che fanno da sfondo!

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STORIA: Sebastiano Ruiz Mignone e David Pintor, La piccola grande guerra, Lapis 2015, 14.50€, dai 6 anni

Un grande album illustrato che con immagini sapientemente realizzate e ricche di particolari, si propone come mezzo ideale per affrontare l’argomento non solo della Grande Guerra, ma anche di tutti i conflitti bellici in generale. La guerra non deve essere un tabù, i bambini sanno che è esistita e che in alcune parti del mondo esiste ancora. È importante soffermarsi a parlarne con loro se lo richiedono, senza affogare dubbi e domande, al fine di poter fornire loro fin da piccoli gli strumenti per imparare a capire questo strano, condannabile, ma pur sempre naturale, fenomeno.

 

Federica Bonisiol

[immagini di proprietà de La Chiave di Sophia ]

Facile o difficile? «Difficile!» (Parte 1)

«Se non vi sono nuove verità da scoprire, ve ne sono di vecchie da riscoprire»
F. Strawson

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Se accettiamo che si possa fare filosofia all’infanzia (dai tre, quattro anni), la domanda che segue spontanea è:

«Come?»

«Facile!», dirà qualcuno. «La filosofia dev’essere a portata di bambino», «deve andare incontro al piccolo “filosofo”!», «deve aiutarlo a interrogarsi e capire concetti tanto densi quanto complessi, quali: l’amore, la felicità, la giustizia, l’odio…». «La filosofia deve semplificarsi affinché i bambini abbiano sempre chiaro quello che si andrà a fare, quello che succederà in classe», «…».

Ma cosa vuol dire che “la filosofia dev’essere a portata di bambino”?

Se pensiamo alla filosofia come a una disciplina complicata, che in pochi capiscono e per la quale molti han perso la testa, saremo anche tentati di credere che essa abbia poco a che fare con piccole menti in via di formazione, come quelle dei bambini. Il loro pensiero, malgrado il nostro sincero interesse, lo descriviamo ancora come semplice. Ecco perché chi, nonostante tutto, si lanciasse nell’impresa di portare la filosofia ai bambini si vedrebbe costretto a semplificare qualcosa che per sua natura semplice non è.

Ma che significa “semplificare la filosofia”?

Facciamo degli esempi: prendiamo in considerazione la matematica.

filsofiacoibambini2_lachiavedisophiaEbbene: l’algebra superiore che viene insegnata all’Università è diversa dall’algebra insegnata nei Licei, che a sua volta è diversa da quella insegnata alle Scuole Medie per diversificarsi ancora di più alla Scuola Primaria.

Perché? Perché un’espressione algebrica, come quella affrontata da uno studente di venticinque anni, non può essere portata di fronte a un bambino di dieci anni con lo scopo di “semplificarla”, cosicché la capisca?

Lo stesso vale per le altre discipline, per esempio la storia. Credete che quella insegnata ai bambini alla Scuola Primaria sia una versione semplificata di quella che insegnano quotidianamente all’Università?

No. Perché queste materie non vengono semplificate, bensì adattate all’età e alla preparazione dei soggetti che se ne avvicinano. È per questo che la matematica insegnata ai bambini, prima di portarli ad incontrare i problemi o le espressioni, passa attraverso i concetti di “dentro” e “fuori”, somma, sottrazione, numero… Ecco perché la storia che si insegna ai piccoli non è una versione semplificata di quella studiata dai grandi, ma inizia facendoli abituare al “prima” e al “dopo”.

Adattare è diverso da semplificare. L’etimologia lo chiarifica. Dal latino adaptare, adfine, scopo” e aptareaccomodare, aggiustare”; adattare sta per coordinare, adeguare, rendere atto, connettere mediante proporzione.

Perché questo discorso non sembra valere per la filosofia? Perché essa viene semplificata (male, spesso) e non, invece, adattata?

La filosofia ha poche giustificazioni, dato che per lungo tempo non ha considerato (e tutt’ora non considera) il bambino come un interlocutore degno di essere ascoltato, ovvero come un suo potenziale soggetto di studio. Detto ciò, è anche vero che parte della responsabilità sta in quei coraggiosi che pur essendosi cimentati nella disciplina non sempre l’hanno fatto nella maniera migliore.

A parziale conferma di ciò sta il fatto che tutte le pratiche filosofiche con i bambini, almeno in Italia, non sono riuscite a sedimentarsi nell’ambiente scolastico. Ancora oggi, la maggior parte delle scuole non ha mai avuto contatti con filosofi, né ha mai sperimentato tale pratica. È chiaro che se nel percorso educativo di un bambino ci fosse la filosofia, sarebbe difficile toglierla alle superiori, dove viene fatta sempre meno e dove comunque si declina nella storia della filosofia, che incuriosisce molti, piace a pochi e annoia gli altri.

Tornando a noi, capita di sentirsi dire: «Eh, ma non è facile portare la filosofia all’infanzia!». Ecco, una frase del genere è segno che chi l’ha detta non ha afferrato il punto.

Leggiamo di storie e storielle, di miti della caverna e racconti filosofici rivisitati, il tutto naturalmente semplificato e a portata di bambino. Ma il problema, abbiamo visto, si annida alla base: la filosofia, se si semplifica, rischia di essere banalizzata.

E poi, se vogliamo dirla tutta: «facilitare cosa? E a chi? E per che cosa?».

Ripetiamolo ancora: la filosofia non va semplificata, ma adattata!

Ecco perché filosofiacoibambini agisce con l’ottica della descrizione (qual è la struttura del pensiero dei bambini sul mondo?) e non della correzione o prescrizione (come si può produrre un struttura migliore?). Questo è un punto fondamentale e se ne può leggere chiaramente qua: link.filosofiacoibambini3_lachiavedisophia

Per tali motivi non dovrebbero essere usate né letture dense ontologicamente e nemmeno tematiche tanto affascinanti (amore, amicizia, bello) quanto pericolose (giustizia, bene, male) se trattate nella maniera sbagliata.

Ogni giorno, in classe, Filosofiacoibambini lavora senza bisogno di semplificare, costruendo ad hoc scenari immaginari. Trovando i giusti incastri ed equilibri, Filosofiacoibambini ha capito che la logica (cosa segue da cosa) e l’immaginazione (cosa faresti se…) sono le parole chiave per il futuro dei bambini e per la stessa filosofia.

 

 

Giorgia Aldrighetti
(FcB Team Ricerca, Università di Trento)

Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Serjoza si fece pensieroso, fissando il viso del portinaio già studiato fino nei minimi particolari, e in ispecial modo il mento […] che nessuno aveva visto, eccettuato Serjoza, che non lo guardava mai altrimenti che dal basso.

(L. Tolstoj, Anna Karenina)

Questo non è un autentico punto di vista dal basso, non è il punto di vista di un bambino di nove anni; è il punto di vista di un uomo oltre i quarantacinque che vuole fare il bambino di nove anni. Non siamo in basso, ci siamo abbassati.

Per Tolstoj sono passati trent’anni dall’ultima volta che ha reclinato il collo all’indietro per poter guardare un adulto in faccia. Dopo trent’anni piega le ginocchia, tocca terra e si riposiziona ad altezza bambino, si immedesima.

Facciamo che io ero un bambino di nove anni…

Il punto non risiede nella riuscita o meno dell’illusione. Poco ci interessa. Quel che importa è che a qualsiasi livello l’autore sia stato in grado di immedesimarsi nel suo bambino o nella sua bambina, resisterà sempre una distanza:      

“Il padre gli parlava sempre […] come se lui fosse rivolto a un certo ragazzino immaginato da lui, uno di quelli come ce n’è nei libri, ma niente affatto somigliante a Serjoza. E Serjoza […] cercava sempre di fingersi proprio questo ragazzo libresco.”

L’adulto osserva il bambino dall’alto, con uno scarto di centimetri che non gli è dato colmare e lo renderà per sempre miope. L’adulto guarda il bambino attraverso un filtro, un filtro che ha qualcosa della narrazione: non a caso il padre di Serjoza gli parla come ad un bambino libresco, immaginato.

Ma Serjoza è un bambino libresco e il suo vero padre, l’autore, non può fare altro che investirsi lui stesso nella parte, così come Serjoza cerca disperatamente di fare pur di compiacere le aspettative del padre-maestro.

Il capitolo ci parla dell’educazione di Serjoza. Doppiamente interessante per noi: non solo bambini, ma bambini in classe.

Il bambino di Tolstoj “sprofonda in meditazioni”: cioè, secondo gli adulti che lo circondano, si distrae. Non è un bravo studente, si perde osservando i bottoni sul panciotto del padre e dimentica i nomi dei patriarchi perché Enoch è il suo preferito e “all’assunzione di Enoch vivo in cielo si collegava tutt’un lungo ragionamento” a cui Serjoza si abbandona.

Eppure la sua anima si proclama “colma della sete di conoscenza”.

Secondo gli adulti, il problema è uno: Serjoza è svogliato.

Secondo Serjoza, i problemi sono due: quel che gli viene insegnato e il modo in cui gli viene insegnato. La materia è “inutile”; ma l’attributo “inutile” segue un aggettivo gravissimo: “noioso”. Ciò che gli viene insegnato è inutile poiché noioso.

Ed è noioso perché “il maestro non pensava quel che diceva”: Serjoza lo capisce dal tono con cui pronuncia le parole. “Ma perché si sono messi tutti d’accordo per dire queste cose sempre a un modo?”, si chiede “con tristezza”. Recidere la connessione tra apprendimento e godibilità è un delitto, ci dice Serjoza, ci dice Tolstoj. Riesce ad impedire all’insegnamento di funzionare.

Perciò al di là dello studio della materia, della filosofia coi bambini, indaghiamo a lungo la figura stessa del Filosofo coi Bambini. Il “personaggio”: che si muove, modula la voce, il tono, l’accento, gesticola, controlla ogni muscolo del viso e del corpo – in una parola, recita. Insegnare è un atto di recitazione. Non solo serve a catturare e poi mantenere viva l’attenzione per l’intera durata del laboratorio; nutre la curiosità, la partecipazione, l’entusiasmo, la voglia. Questo presuppone un’enorme quantità (e una particolare qualità) di energia.

Maestri meravigliosi lo fanno continuamente, ovunque. Per poter evitare di scrivere sulle pagelle “è bravo ma non si applica”, si applicano in prima persona. Allo stesso modo, venti Filosofi mettono in discussione il loro lavoro con un allenamento intenso, fatto di sessioni da sei ore e venticinque bambini.

E quando uno dei venticinque si perde, in realtà sono io che lo perdo. Penso a Serjoza e a quanto non possa permettermi di stancarlo, fingendo di non sentire quanto stanca posso essere io stessa di riacchiapparlo, per ogni volta che serve riaccenderlo.

Perché Serjoza è svogliato. Ma lo è soprattutto perché i suoi adulti sono svogliati.

Eugenia Bartoccini

www.filosofiacoibambini.net

Mancinismo, la malattia dimenticata

«Su 1029 operai e soldati ho rilevato una proporzione di mancini del 4% tra gli uomini e dall’8 al 5% tra le donne. Tra i pazzi le proporzioni non sono molto diverse. D’altro canto, studiando un certo numero di criminali, la quota di mancinismo riscontrata risulta più che triplicata tra gli uomini (13%), e quasi quintuplicata tra le donne (22%). Tuttavia, alcuni tipi di criminali, come, per esempio, i truffatori, fanno registrare percentuali molto superiori (33%), mentre assassini e stupratori fanno registrare percentuali del 9-10%»

Cesare Lombroso, articolo per la rivista North American Review, 1903.

Questa volta esordiamo così, con uno stralcio di articolo scritto dal celebre padre dell’antropologia criminale, su un tema ormai dimenticato ma che tuttavia si nasconde tra gli anfratti più oscuri della nostra società: il mancinismo, ovvero l’abitudine di adoperare la mano sinistra per compiere gesti quotidiani come scrivere, pettinarsi o afferrare oggetti.

Mi sono chiesto se fosse giusto gettare una secchiata d’acqua gelata sopra le coscienze decadute del nostro tempo e sopra l’abitudine che rende “normale” ciò che per molti secoli − va detto: in modo altalenante − è stato ritenuto malato, distorto, contrario, deviato.

Fortunatamente esiste una moralità superiore che mi spinge a denunciare l’indifferenza che ci circonda attraverso le opinioni di un solo uomo di scienza, che tuttavia possono anche essere messe in discussione, e dato che la scienza spesso non giunge a toccare i sentimenti degli uomini, ricorrerò alla religione cristiana per avvalorare la mia tesi, per dare cioè voce ad un fondamento assolutamente imprescindibile dalla nostra italianità.

«La mente del sapiente si dirige a destra e quella dello stolto a sinistra» (Ecclesiaste X,2)
«Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio» ( Marco: 16,19)

In mezzo a questi due passi, uno biblico l’altro evangelico, è bene ricordare che la mano sinistra fu considerata a lungo il prolungamento di quella del diavolo.
Eva colse il frutto proibito con la mano sinistra e sempre con la mano sinistra Adamo la afferrò per compiere il peccato originale. Gestas, il ladrone che fu crocifisso alla sinistra di Gesù, rifiutò il perdono deridendo il Figlio di Dio, mentre Disma, quello posto a destra, divenne il ‘Buon Ladrone’ addirittura Santo per la Chiesa cattolica e per quella ortodossa.
In altre religioni, la mano sinistra è impura, proibita e inevitabilmente secondaria o inferiore rispetto alla prima.

Non bastassero le ammonizioni cristiane sull’uso nefasto dell’arto sinistro, entrano in gioco fattori di origine popolare e folklorica.
Alcuni anni fa conobbi un ragazzo pugliese e mi spiegò che versare il vino con la mano sinistra era sinonimo di tradimento.

Tradimento confermato dalla tradizione dei convenevoli: forse, quando stringiamo la mano di un’altra persona in segno di saluto, non sappiamo che dietro si cela un linguaggio guerriero piuttosto antico secondo il quale esprimiamo fiducia e allo stesso tempo ci dimostriamo amichevoli, sinceri; al contrario la mano sinistra avrebbe un secondo fine, è la serpe che trae d’inganno il malcapitato ingenuo e permette al malvagio di afferrare la spada − normalmente alla destra − per ferire o uccidere.

Ma diamo un’occhiata anche all’etimologia legata al termine mancino: “azione sleale o insidiosa, compiuta con astuzia e in modo imprevedibile”.
“Persona infida, disonesta”.
Deriva dal latino mancus: “mutilato, storpio”.
Sinistro invece è sinonimo di incidente, sventura, sciagura.

Dopo aver raccolto prove di carattere scientifico-antropologico, religioso, tradizionale ed etimologico, riporto un esempio pratico di come il mancinismo fosse scoraggiato.

Per farlo bisogna entrare in una scuola primaria di circa ottant’anni fa, quando gli insegnanti usavano metodi sbrigativi per insegnare ai pargoli a far di conto e a scrivere. Il più delle volte ci si fermava alla terza elementare, ma in quei tre anni chi era mancino diventava destrimano grazie al delicato e discreto metodo del braccio sinistro legato alla sedia.

Le usanze secolari scemarono via via nel tempo, specialmente con l’avanzare di nuove frontiere nella ricerca psicologica e comportamentale; in pochi anni furono scardinate le certezze che reggevano la volta razionale e spirituale della società equilibrata.
Ci hanno convinti dell’assoluta parità tra un mancino e un destrimano, hanno parlato di scelta, altri di naturalità; insomma, hanno negato la devianza mentale e soprattutto la tesi religiosa legata ad essa, dicendo persino che i testi sacri andavano interpretati e non presi alla lettera.

La gente si è quindi assuefatta all’interno della visione bucolica e negazionista di chi brama spiegare logicamente le cose? Ha smesso di credere a regole considerate immobili dalla notte dei tempi? Se i mancini sono sostanzialmente deviati, perché hanno i nostri stessi diritti? Se alla base della nostra amatissima Italia ci sono radici cristiane, perché permettiamo al diavolo di aggirarsi tra noi?

Attendendo la risposta a queste domande che probabilmente non arriverà mai, qualcuno di voi si sarà già adeguatamente indignato − magari proprio perché mancino − leggendo la progressiva degenerazione delle mie argomentazioni antiquate e attualmente ridicole.
Ma il mio intento era proprio quello di trascinarvi in un breve tratto d’oblio non così distante da una realtà quotidiana nota per riesumare, esattamente allo stesso modo con cui l’ho fatto io, tematiche per la difesa di antichi retaggi… cercando di oscurare i diritti che le persone dovrebbero poter godere indipendentemente dalle scelte di vita.

Scelte che assecondano solamente la propria natura, sia essa incline a preferire la mano sinistra alla destra, la solitudine alla compagnia, il modo di provare piacere guardando una donna o un uomo adulto e consenziente.

Quando sentirete dire che una cosa è malata e innaturale solo perché non conforme alle scelte compiute da molti, ricordatevi dei mancini, e cercate di capire se vale davvero la pena ritornare a passeggiare nell’oblio.

Alessandro Basso

[immagine tratta da Google Immagini]

«Chi sa, fa. Chi non sa, insegna»

“I migliori maestri sono quelli che ti indicano dove guardare, ma non ti dicono cosa vedere”

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«Chi sa, fa. Chi non sa, insegna».

Questo famoso detto lascia l’amaro in bocca non solo a chi l’insegnamento lo pratica da anni, ma anche a chi si accinge a diventare, col tempo, un buon maestro. Questo detto lascia l’amaro in bocca anche per l’incoerenza presente al suo interno: «chi non sa fare, insegna», come se, insegnare non fosse anch’esso un “fare”, un operare concreto, un agire e, nel migliore dei casi, un creare qualcosa di nuovo.

Dove si insegna? Ovunque. A scuola, in palestra, in un campo sportivo, in aula, per terra… A chi si insegna? A tutti. A se stessi, ai bambini, agli alunni e perfino ai maestri stessi. Chi insegna? O meglio, cosa deve essere colui che insegna?

In ambito scolastico si discute molto su quale sia il profilo del bravo maestro e si investe gran parte del tempo a stilare una lista di buone regole. La pratica dell’insegnamento tuttavia non è una somma di tecniche da riprodurre meccanicamente. Ogni bambino è diverso, ha la propria peculiarità e il proprio tratto distintivo rispetto agli altri, quindi la produzione del suo libero pensiero non è qualcosa di standardizzato.

La figura dell’insegnante è spesso data per scontata. Si può scegliere la classe, la scuola, il tempo pieno o parziale ma il maestro, fin dalla più tenera età, ce lo ritroviamo davanti. Non sarebbe forse più importante sapere più cose possibili sulla persona che starà con i nostri figli per più di cinque ore al giorno, per nove mesi l’anno protratti nel tempo?

C’è da dire che ci sono maestri e maestri. Nonostante l’essenziale versatilità posseduta, un maestro eccellente per una certa fascia d’età non può esserlo, alla stessa identica maniera, per un’altra. Questo perché, ribadiamo, le competenze da far apprendere non sono tutto.

Problemi, addizioni, lettere maiuscole, minuscole e corsivi non sono gli unici frutti che raccogliamo dall’albero dell’istruzione, otteniamo molto di più. La qualità e quantità del raccolto dipenderà, in buona misura, dalla fortuna di aver avuto un buon maestro. Durante i fertili anni scolastici avviene infatti la naturale crescita del  rrbambino. Modi di fare, modi di vivere le emozioni, cambiamenti fisici, sperimentazione delle possibilità, necessità di praticare il dubbio e la coltivazione di interessi personali sono solo alcune delle esperienze che il maestro dovrà valorizzare.

Partendo da questo presupposto, come dovrà muoversi l’insegnante?

Innanzi tutto il saper fare del maestro è l’effetto del suo saper essere. Una sorta di socratico “conosci te stesso”. Il saper fare dell’insegnante è il frutto di anni di esperienza ed affinamento della pratica, affinché possa divenire sempre più efficace. È un saper destreggiarsi nella classe in maniera perfetta. È un camminare per i banchi quando c’è da camminare e uno stare fermo quando c’è da star fermi.

Il saper fare del maestro è studiare il fare dei bambini e guadagnare credibilità ai loro occhi. È possibile osservare molto solo guardandoli! Perché un bambino non parla se a farlo non è prima un suo amico? Perché alcuni tentennano sempre nel dire qualcosa, mentre altri agitano perennemente il braccio alzato pur non sapendo la risposta? Perché molti, quasi vivendo in un’ampolla di vetro, non riescono a gestire i loro sentimenti?

Il saper fare del maestro è accorgersi di tutti questi aspetti. È attendere anche mezzora prima di fare una domanda a un preciso bambino, o di contro, è non lasciare tempi di attesa.

Il saper fare del maestro è coordinare la classe così come farebbe un maestro d’orchestra; far capire con lo sguardo, usare i gesti per richiamare l’attenzione e dare la parola. Il tutto senza mettere in imbarazzo chi sbaglia.

Il sapere fare del maestro è passare ininterrottamente dal semplice al complesso. La classe è la somma dei suoi alunni, ma i singoli bambini (diversi gli uni dagli altri) sono gli elementi che compongono l’unicità di quel gruppo classe.

Il saper fare del maestro è sincronizzarsi sui ritmi dell’ambiente scolastico. La sua voce non dovrà essere piatta e ripetitiva, ma risonante e ritmica. Le parole, immagini e pensieri dei bambini sono simboli che non vanno interrotti urlando o sbattendo la mano contro la cattedra, ma dovranno essere accompagnati finché il loro ragionamento non avrà preso forma.

Il saper fare del maestro….

 

Giorgia Aldrighetti

(FcB Team Ricerca, Università di Trento)

I primi giorni di scuola (Part. I)

Per un bambino, i primi giorni di scuola sono fondamentali. A sei anni, infatti, non possiede ancora un’identità matura e questo lo espone a dei rischi. È importante aver cura del bambino, senza esagerare nelle preoccupazioni, ma senza neppure commettere troppe leggerezze. Anzitutto, occorre aver ben presente che il bambino passerà a scuola una quantità di tempo più che considerevole, (parliamo di circa 200 giorni l’anno per cinque anni) in uno dei momenti fondamentali del suo sviluppo e della sua vita. Farsi prendere dal panico non serve. Tuttavia, conoscere bene la scuola, la classe e l’insegnante che passerà tutto quel tempo col bambino è necessario. Il rischio di dare importanza a cose che non ne hanno, sottovalutandone altre è sempre dietro l’angolo. Consapevoli di non padroneggiare appieno lo sviluppo e di non poter avere controllo su tutto possiamo, però, allenare il nostro sguardo alle profondità di cui l’ambiente scolastico è costellato.

Cominciamo ad analizzare un antro ancora poco esplorato prendendo avvio dalle parole del grande sociologo Erving Goffman che nel suo testo fondamentale del 1959, La vita quotidiana come rappresentazione (Il Mulino, 1969), introduce e definisce il termine “équipe di rappresentazione” e chiediamoci poi come questo concetto possa aiutarci a comprendere meglio ciò che accade nella classe di nostro figlio o figlia. Anzitutto, Goffman ci dice che col termine équipe intende «un qualsiasi complesso di individui che collaborano nell’inscenare una singola routine» (ed. it., p. 97) e a noi viene subito in mente la classe: un complesso di individui che collaborano nell’inscenare una routine educativa, la routine dell’apprendimento, estremamente precisa e complessa. Una consuetudine fatta di banchi, seggiole, compagni di banco, matite da temperare, grembiuli, verifiche, maestre, ricreazioni, prese in giro, campanelle, quaderni e così via, talmente stereotipata da essere pressoché diffusa ovunque, da Nord a Sud, da Est a Ovest, nell’immaginario artistico e perfino nel sogno. Pensare alla classe, insomma, significa pensare a quello e non a qualcos’altro. Rispetto alla classe la nostra immaginazione risulta a dir poco bloccata, come se non potessimo pensarla altrimenti. In parte perché non l’abbiamo guardata a sufficienza, in parte perché forse non abbiamo mai veramente provato a cambiarla. Fatto sta che la routine è lì davanti ai nostri occhi, giorno dopo giorno, in attesa che ce ne preoccupiamo.

Basta poco per accorgersi che la classe è un’équipe estremamente sofisticata. Un’équipe che contempla la sua stessa distruzione, nonché i meccanismi di sopravvivenza che la possano contrastare, in una sorta di meta-rappresentazione o di finzione nella finzione. Se è vero, come ci ricorda Goffman, che «durante lo svolgimento di una rappresentazione di équipe, ogni membro ha la possibilità di far fallire lo spettacolo o di disturbarlo con un comportamento inappropriato» (ed. it., p. 100), ebbene, ciò non sembra valere per la classe, la quale riesce persino nell’intento di regimentare quest’eventualità. Il bambino che disturba, il monello, fa parte dello spettacolo. La routine contempla e addirittura richiede la presenza dell’elemento che la disturbi, che cerchi di opporvisi con tutte le sue forze. La maestra, i bambini, i genitori dei bambini, tutti si aspettano che la rappresentazione inciampi o venga ostacolata da qualcuno: come ho già detto, fa parte dello spettacolo dell’educazione! Nessuno ne rimane veramente colpito e la rappresentazione in questo modo si tutela da ogni reale fallimento assumendo le componenti negative che le garantiscono la necessaria protezione e il suo sereno perpetrarsi.

Ecco allora che i ruoli, all’interno di una classe, andranno distribuiti con accortezza, senza lasciare nulla al caso. Scrive Goffman a questo proposito che «il compagno d’equipe è una persona sulla quale si conta per una collaborazione sul piano drammaturgico». È certo allora che i ruoli più difficili, quello del monello da una parte e quello del primo della classe, non potranno mancare e dovranno essere obbligatoriamente ricoperti da qualcuno. Già, ma da chi? Beh, i primi giorni di scuola, importanti per tante ragioni, hanno in scaletta proprio la tacita assegnazione dei ruoli.

Per il momento basti sapere che se, da un lato, appare difficile sfuggire del tutto alla rappresentazione e a ciò che le garantisce la sopravvivenza, ovvero i caratteri principali dell’azione, dall’altro è possibile tenerla sotto controllo, a patto di vedere attraverso i personaggi, attraverso la routine. Come? Mantenendola in movimento, parlandone e facendola parlare, offrendole nuove soluzioni e portandola su terreni di cui anche lei ignora la geografia (come quello filosofico).

Continua…

Carlo Maria Cirino

Sito Filosofiacoibambini: qui

«Maestro, arrabbiarsi tanto fa male alla salute» (Il violoncellista Gōshu, Miyazawa Kenji)

<p>Filosofiacoibambini</p>

A scuola si fantastica. Elémire Zolla precisa: «si è condannati a fantasticare» (Storia del fantasticare, 1964). Nelle classi piene di cartelloni, mattonelle, polvere di gesso; lungo i corridoi semideserti o invasi da improvvise quanto attese ricreazioni; nei giardini dove si corre, ci si afferra, si scava e più raramente si trova qualcosa; davanti alle macchinette del caffè o nell’ufficio del Dirigente Scolastico.

Ma nessuno fantastica impunemente, né a scuola, né da nessun’altra parte. È così, punto e basta. È così anche se nessuno ce l’ha mai detto. Come la gravità: funziona anche se non siamo d’accordo. Anche se nessuno ci ha mai fatto assaporare la differenza che corre tra fantasia e immaginazione. Anche se ci hanno riempito le orecchie di parole quali “creatività”, “ingegno” e via di seguito, come se sapessero di cosa si tratta. Si parla di “fantasia”, si chiacchiera di Arte, si finge di sapere cosa sia Poesia, dimostrando abilità, educando alla profondità (ma che sia straordinaria, nientemeno). Ma la vita è la verità. E la vita è Campanella che alza la mano. E «subito altri quattro o cinque scolari lo imitano. Anche Giovanni sta per farlo, ma la sua mano si ferma a mezz’aria» (Una notte sul treno della Via Lattea, Miyazawa Kenji). La verità delle cose piccole. La verità dei piccoli. La loro e basta.

Banalizzare la filosofia, idealizzare il bambino, mercanteggiare sul prezzo di un’attività che non ha prezzo. Si tratta di una pratica indispensabile, punto. Un momento tranquillo, durante il quale sedersi a inanellare pensieri colorati su fili resistenti ai rovesci della vita. Sono bambini è vero. Ma sono anche le persone più intuitive, suggestionabili, immaginative, divertenti e allegre del pianeta. Se non loro per primi, chi altro dovrebbe mettersi a riflettere su ciò che ci circonda? E sugli abissi e le vette che ci attraversano?

La filosofia coi bambini non si impara. Alla filosofia coi bambini si può venire semplicemente introdotti. La porta che affaccia sul giardino è socchiusa. Nessuno è lì ad aspettare. Varcando la soglia, da soli, si nota come ogni foglia, ogni rametto, ogni granello di polvere si trovi sistemato con cura. I bambini sono già filosofi. Ce lo ricorda Epicuro, di cui si narra che, piccolo, stanco dei maestri, si avvicinò all’arte marziale del pensiero.

Alla filosofia coi bambini si arriva percorrendo sentieri tortuosi di bosco. Ma anche lastricati semplici, autostrade. Quando poi la si osserva, è come vedersi spalancare davanti agli occhi la porta della camera dei tesori. Il filosofo è concentrato, presente. Le lusinghe lessicali, le belle frasi, le facili conclusioni non lo abbacinano mai, neppure di striscio. A lui interessa che l’arte venga praticata e che l’allenamento prosegua senza sosta. Anche perché di risultati in filosofia non v’è traccia e la più grande soddisfazione resta racchiusa, da sempre, nel dimostrare d’essersi irrimediabilmente sbagliati. Beato colui che dopo aver costruito con cura il castello di carte della sua conoscenza alla fine saprà ribaltarlo con un soffio di mano!

Filosofare, filosofeggiare. Che brutte parole. Star seduti a raccontarsi i propri pensieri, dentro bar o sale da tè. Primedonne che a poco a poco prendono la parola argomentando, anzi, filosofando sui perché, sulle cause (finali, semmai efficienti, di sicuro mai materiali). E il discorso che vira inesorabilmente sul vago. E vagheggia la giustizia, l’amore, l’amicizia, la lontananza, il sacro, il profano. Chiaroveggenti in fila per venire illuminati dalla grazia di un riflettore. Per non parlare di quanti, con la scusa di saper leggere una storia, s’improvvisano a far domande ai bambini. Nervosi personaggi, madonnari disabbigliati, apprendisti lanciatori di coltelli dalla punta arrotondata.

«Maestro, arrabbiarsi tanto fa male alla salute». È vero. Ma l’universo, pur obbedendo all’amore di quanti (e sono tanti) si spendono per un’estetica dell’insegnamento, andrebbe comunque sarchiato, innaffiato e liberato dalle foglie vizze. Il castello di carte cadrà, comunque, allo scoccare della prima risata sincera. Su questa certezza fondiamo il futuro e ci alleniamo a essere filosofi e maestri, attenti all’altrimenti e non paghi del quieto vivere.

Carlo Maria Cirino 

Filosofiacoibambini

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Felicità…#100!

Si legge da un frammento di T. S. Eliot da quattro quartetti:

“I momenti di felicità…

ne abbiamo avuto esperienza, ma ci è sfuggito il significato”.

Che cosa voglia dire essere felici è una questione che vanta secoli di riflessioni filosofiche; vari modelli di eu̯dai̯monía si sono susseguiti per capire quale fosse la vera vita felice. La felicità viene collocata da molti filosofi come il fine ultimo di ogni uomo, ma la querelle su cosa voglia dire essere davvero felici sembra senza fine.

Cos’è che ci rende felici? E cosa ci svela la semantica della parola “felicità”? Essa è un accadere o un attendere? È qualcosa che va perseguito o ci imbattiamo in essa per puro caso? È qualcosa che esiste per sé, o non è altro che il piacere provato dalla cessazione del dolore?

Stando al modello tragico, il capriccio divino sembra essere l’unico responsabile (e garante) della felicità umana e quest’ultima, così come ci mostra Sofocle nella tragedia dell’Edipo re, non è altro che immagine fragile di “un’ombra che subito precipita”. Tale angoscia sull’instabilità cessa quando iniziamo a concepire la felicità non solo come “fortuna”, indipendente dal libero arbitrio, ma come qualcosa che l’uomo deve coltivare da sé. Scopriamo che l’anima, per il filosofo, può divenire dimora della felicità, quale benessere, cura di sé e assenza da turbamenti. Ma felicità è ancora tanto altro: è l’equilibrio del giusto mezzo, o all’opposto, è edonismo espansivo senza limiti. L’infelicità, perciò, non è altro che il prezzo da pagare da parte della stupidità umana, la quale, cieca difronte ai bisogni veri dell’anima, si imbatte in cose inutili o peggio ancora dannose.

Anche filosofiacoibambini s’interroga su questo e cerca di farlo cambiando prospettiva; ci sediamo in cerchio accanto ai bambini e ne parliamo con loro: la domanda che ci interessa non è “che cos’è la felicità?”, ma piuttosto “quali sono le cose che rendono felici?”. Una lunga freccia verticale viene così tracciata su un foglio: più si sale e più la felicità aumenta, più si scende più diminuisce trasformandosi nel suo opposto, la tristezza.

Cose che rendono felici: i piccoli, ad alzata di mano, elencano una svariata quantità di cose che li rendono tali. I bambini non si chiedono se quelle “cose” fanno felici tutte le persone in generale o solo loro individualmente, ma questo poco importa, rendono felici e basta.

La sensazione che si percepisce immediatamente è la semplicità con cui i bambini vivono il presente. Senza pensarci troppo, per loro felicità è qualcosa che, anche avendola provata una sola volta, li ha fatti stare bene. Le parole dette sono varie, ma tutte riflettono il loro punto di vista in una determinata situazione.

Se fuori è iniziata la primavera, felicità sono “i fiori rosa che si vedono sugli alberi”, felicità è “la sorpresa che trovo dentro l’uovo di Pasqua”, oppure “le vacanze di Pasqua” che la primavera porta con sé.

Felicità, per i bambini, è un giusto equilibrio fra il dare e prendere qualcosa di bello: “ricevere un regalo”, “dare un bacio a un amico”, “regalare dei mazzi di fiori o una collana a qualcuno”, oppure “prestare un giocattolo a un bambino”. Felicità sono i luoghi con le persone che li fanno stare bene: “la mia casa”, “la scuola con i miei amici”, “quando vado a casa della nonna” o il “parco giochi quando festeggio il compleanno”. Felicità è il bello estetico che la natura gli offre, “un’ape su un fiore”, “i colori di una farfalla”; oppure, sono le singole cose che arrivano alle loro menti in maniera intuitiva ed immediata: “le campane che suonano”, “un gelato”, “un biliardino”, “una torta con le candeline”, o “un fiume che vedi scorrere”. Felicità sono le emozioni e le relazioni che instaurano con persone ed animali. Ricorre spesso l’immagine dei cuori che simbolicamente rimanda a diversi riferimenti: “amore per la mamma e il papà”, “un cucciolo da tenere in braccio”, due amici che insieme fanno “tutto, tutto, ma proprio tutto!”. Ci sono poi cose che, dette con entusiasmo massimo, sono così rare e stravaganti da conquistarsi le posizioni più alte nella scala della felicità. “Vedere cosa c’è sulla luna”, “andare nello spazio”, “trovare una perla vera dentro la conchiglia in fondo al mare” sarebbero per i bambini felicità… cento!

Come piccoli filosofi -con sofisticati ragionamenti e dettagliate parole- i bambini sono in grado di capire la diversa importanza delle cose che rendono felici. Per esempio, “l’anello al dito di due persone che si sposano” rende più felice di “avere tanti regali per il compleanno”. “Non avere nessuno con cui giocare” è di certo molto più triste del “dover mangiare il minestrone con le verdure” o ancora, che “la noia” è più triste di un “gioco rotto”, ma molto meno triste del “dover andare all’ospedale”.

Le cose tristi, si sa, rendono tristi; ma perché fissarsi su di esse quando una cosa felice può risolvere tranquillamente una che non lo è?

Sono stupita nel vedere la creatività e la dinamicità di pensiero con cui, trovando molte alternative e soluzioni, riescono a reinterpretare cose spiacevoli in chiave piacevole. Ecco che un cucciolo può aiutare a risolvere la tristezza dell’ospedale: “se tu lo tieni in braccio, questo ti fa passare la voglia di essere disperata!”. E come può la primavera risolvere la tristezza del gioco rotto? È facile: “in primavera c’è Pasqua e quindi le uova potranno avere dentro un gioco uguale a quello rotto!”. E un disegno, come può risolvermi il fastidio dato dal quel qualcuno che ti spegne la tv sul più bello? “Beh, faccio una televisione di carta, mi metto dentro e gli altri mi devono guardare!”.

Così pensando e ragionando, ogni apparente problema ha svariate possibilità di soluzione. Finito il laboratorio esco e penso.

Penso che molte persone, soprattutto noi adulti, ritengano che la felicità sia qualcosa di estremamente complesso, che occorra guadagnarsela con molta fatica, che sia un investimento di tempo o la ricompensa a una giusta causa. Molti, ragionando così, seguono la massima del “Se sei felice, non gridare troppo: la tristezza ha il sonno leggero”.

Le cose però non stanno proprio così. Dopo aver parlato e ascoltato le idee e i pensieri dei bambini in classe, mi sento più leggera. Dopotutto capisco che mi piace (molto) di più pensare alla felicità come tanti piccoli cambiamenti che ognuno di noi, con serenità, dovrebbe mettere in atto per vivere bene gli eventi che puntualmente accadono. Per questo le parole di Seneca mi sembrano più che mai vere e pertinenti: “La felicità è un bene vicinissimo, alla portata di tutti: basta fermarsi e raccoglierla.”

Giorgia Aldrighetti -filosofiacoibambini-

www.filosofiacoibambini.net/it/

 

Un insegnante ha le ali se…

 

Abbiamo bisogno di almeno mille persone in Italia innamorate della scuola che ci affianchino con il loro entusiasmo e il loro amore per la scuola per portare fino in fondo questa riforma.

Questa è un’affermazione fatta dal Premier Matteo Renzi a Dicembre dello scorso anno.

Non voglio soffermarmi sul contesto che circondava tale frase ma sul senso delle parole.

Vorrei parlare dell’insegnante, di colui che ogni giorno si siede alla cattedra e cerca di trasmettere conoscenze ma soprattutto passione.

Vorrei parlare dell’insegnate, di colui che non lavora solo a scuola ma continua a casa, senza fermarsi per essere pronto per la lezione del giorno dopo.

Vorrei parlare dell’insegnante, di colui che ogni anno insegna sempre le stesse cose ma non si stanca di ripeterle.

Vorrei parlare dell’insegnante, di colui innamorato della scuola, nonostante tutto.

In Italia il lavoro dell’insegnante è spesso bistrattato, sottovalutato e reso difficile da un sistema burocratico infernale, da una società che non riconosce la giusta importanza della scuola e dalle famiglie che troppe volte difendono i figli a spada tratta ripetendo senza fine “Perché ce l’ha con mio figlio?”

Il lavoro dell’insegnante è da considerarsi una missione da svolgere con passione, dedizione e sacrificio; l’insegnante deve riuscire a trasmettere informazioni e conoscenze contornate da parole quali rispetto, educazione, sogno, fiducia, talento, perseveranza.

L”insegnante non deve solo sedersi alla cattedra e parlare, deve, prima di tutto, osservare e ascoltare chi ha di fronte, comprendere ed incoraggiare, rispettare e dare fiducia ai suoi allievi.

L’instaurarsi di un rapporto di fiducia solido può avvenire solo attraverso il “riconoscimento” dell’Altro come Altro ma soprattutto come Persona.

Cosa significa?
Significa che l’insegnante deve considerare la classe come composta da elementi diversi ed eterogenei, riconoscendo le diverse indoli e la continua influenza della società che porta spesso al conformismo, senza puntare all’omologazione: solo in questo modo l’allievo riuscirà a non smarrirsi, liberandosi dalle imposizioni della società esprimendo al meglio il suo talento.
Valeria Genova
[Immagini tratte da Google Immagini]

 

 

 

La scuola per il futuro

La scuola educa ed istruisce.

Educazione ed istruzione due parole spigolose da pronunciare sebbene dense di significato e che risultano, oramai, logorate dall’abuso che se ne fa.

Che significato ha, oggi, dire che la scuola deve educare ed istruire i giovani?

Ha ancora senso domandarselo?

Se la risposta è no, c’è da rimanere basiti.

Occorre porsi quella domanda per capire cosa sia la scuola oggi o, meglio, cosa dovrebbe essere.

Scontato dire che deve istruire, fornendo conoscenze, strumenti di pensiero e di logica; altrettanto palese vedere la scuola come sede di educazione extrafamiliare -ricordiamoci che la famiglia deve essere il primo punto di riferimento per questo-; manca qualcosa, però, a questa definizione, quel quid che renda la scuola ‘umana’, relazionale, confortevole.

Spesso ci si dimentica che la scuola è fondamentale nella vita di una persona e può determinarne successi ed insuccessi futuri, sia a livello personale che professionale.

Dimenticandosi di ciò si incorre nel rischio di trasformare la scuola in una struttura arida, eretta dalla mera burocrazia che serve a dividere gli “intelligenti” dagli “scemi”, abbandonando questi ultimi a loro stessi e segnandoli a vita.

La scuola deve, invece, essere un luogo di aggregazione, condivisione, relazione e fiducia.

AGGREGAZIONE: la scuola deve unire, non dividere. Il bambino ha la sua prima conoscenza di “società” nella scuola e proprio per questo deve conoscere l’importanza di sentirsi parte di un gruppo.

CONDIVISIONE: la scuola deve insegnare a “cum-dividere”, a spartire con l’Altro, dimostrando che anche la sconfitta, se condivisa, può essere meglio sopportata.

RELAZIONE: la scuola deve creare relazioni, tra gli insegnanti e gli allievi, tra gli insegnanti e le famiglie. Solo attraverso la relazione si può riconoscere l’Altro come Altro da sé e ci può essere uno scambio di messaggi diretto e sincero.

FIDUCIA: alla base della relazione che si instaura deve esserci la fiducia che permetta all’Altro di essere se stesso.

E Storia, Inglese, Geografia, Matematica ecc, chiederete, dove sono?

Ci sono, così come i compiti, le interrogazioni ed i voti.

Ma prima di questo ci devono essere le Persone, con i loro difetti, le loro capacità, il loro talento magari nascosto, le loro paure, le loro storie.

Il giudizio sulla Persona non deve derivare dal voto in Inglese, perché quest’ultimo può essere dettato da innumerevoli fattori a noi sconosciuti, ma da domande quali Chi ho di fronte? Perché ha preso 4? Cosa lo turba?

Per ogni domanda la scuola deve trovare una risposta prima di assegnare etichette che poi saranno difficili da togliere.

La scuola è come un allenatore, deve preparare il giovane per raggiungere un obiettivo posto a breve-media-lunga distanza; come tale lo deve osservare, comprendere le sue capacità e le sue lacune, escogitare un allenamento ad hoc che vada a rafforzare i punti deboli; l’allenatore-scuola deve capire il talento del giovane e coltivarlo. Tutto questo per la partita più importante della sua vita: quella con il Futuro.

Valeria Genova

[Immagini tratte da Google Immagini]